«L’esperienza del Pci non è stata ripetibile, si è fermata lì…»

Avvertenza: Nel trascrivere l’intervista si è cercato, ove possibile, di conservare inalterati gli aspetti peculiari del parlato, limitando al minimo indispensabile  gli interventi correttivi sul testo. L’intervista è stata raccolta il 19 dicembre 2021

 

D- Daniela Lastri, lei nel 1989 era una attivista e dirigente del PCI fiorentino ed ha vissuto perciò le vicende politiche che portarono alla svolta della Bolognina e alla decisione di Occhetto di cambiare il nome al partito. Può dirci qualcosa della sua esperienza politica e istituzionale di allora?

Carta delle donne, proposta nel 1986, la quale, dopo lo sbandamento dovuto alla morte di Berlinguer due anni prima, era nata per rilanciare la presenza e il ruolo delle donne all’interno del partito, aprendo e dando spazio in particolare alle componenti provenienti dalla realtà del movimento femminista. La Carta delle donne nacque con questo intento: fare in modo che il PCI si rinnovasse parlando ai soggetti che erano «promotori di cambiamento», di novità, a partire appunto dalle donne. Fu una decisione importante per un partito che allora si stava ancora interrogando sulla strada da percorrere dopo la morte di Berlinguer. È stato, quello, un periodo di grande attenzione ai mutamenti e ai cambiamenti.

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Daniela Lastri (fonte: Consiglio Regionale della Toscana)

Contemporaneamente, mentre facevo quest’attività di responsabile del PCI in quella zona cittadina, portavo avanti anche l’attività di consigliera di quartiere. Con le elezioni amministrative del 1985 ero entrata infatti a far parte delle istituzioni cittadine, tanto che poco dopo, tra il 1988-89, diventai vicepresidente del quartiere 11, che allora accorpava la zona di Piazza della Libertà e le Cure. Si trattava peraltro di un quartiere completamente diverso sul piano politico-sociale da quello dell’Isolotto-Mantignano che curavo come responsabile di zona per il PCI. Ma entrambe queste realtà di partito, come pure i miei primi incarichi istituzionali cittadini, si sono poi rivelati particolarmente importanti per la mia formazione e per il proseguimento della mia attività politica successiva. Ricordo perciò questo periodo come un periodo di grande impegno ed esperienza, segnato da queste significative attività e da questa particolare sensibilità e attenzione vissuta all’interno del partito nei riguardi dei «soggetti del cambiamento».

Io mi trovai a far parte della segreteria cittadina del PCI alla vigilia di un cambiamento epocale nel quale una serie di eventi e vicende politiche internazionali misero a dura prova la forza e la presenza delle politiche del PCI. In quel frangente, la questione che caratterizzò la mia militanza, fu naturalmente quella del cambiamento del nome del partito che Occhetto predispose alla Bolognina e che poi si sarebbe concretizzata qualche tempo dopo. Io mi sono trovata a gestire questa fase molto delicata del PCI in una zona cittadina a caratterizzazione storica operaia dove, come ho detto, il partito aveva allora profonde radici nelle quali peraltro io stessa mi riconoscevo personalmente. Anche le mie radici familiari, infatti, erano legate a quel mondo operaio da cui provenivano i miei genitori, anch’essi militanti del PCI, attivi politicamente come segretari di cellula del partito e nel sindacato, in particolare mio padre. Venendo da quest’ambiente io non ho fatto mai fatica a riconoscermi in quella storia, quella del PCI, in cui affondavano le mie radici.

D- Dunque, lei ha vissuto gli effetti di quella svolta “in prima linea”, per così dire. Quali furono le sue reazioni di fronte a quell’annuncio? La colse di sorpresa o era qualcosa che si poteva immaginare?

D- Perciò si trattò di una decisione necessaria? In ogni caso come fu gestita secondo lei quella svolta?

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Nel 1986 fu promossa, diffusa e discussa su iniziativa di Livia Turco membro della segreteria del PCI la “Carta itinerante delle donne”, un documento che si proponeva di aprire la vita politica del partito alle istanze del femminismo e fare in generale della partecipazione attiva delle donne la chiave di volta di una nuova politica di partito. (in foto : “L’Unità”, 18 ottobre 1986)

Credo peraltro che il PCI, il quale già negli anni Settanta e a inizio anni Ottanta aveva più volte pensato all’opportunità della modifica del nome, infondo poteva essere maturo già allora per un passo simile, perché come ho detto noi comunisti italiani costituivamo un’esperienza ben diversa rispetto alle altre realtà della sinistra socialista, non solo rispetto all’esperienza sovietica, ma anche rispetto ai compagni spagnoli, francesi e portoghesi. D’altro canto, anche se già all’epoca era forse maturo per un passo simile, va detto però che il PCI era abituato a fare le scelte con grande gradualismo, proprio perché, essendo un grande partito di massa ed avendo al proprio interno tante esperienze politiche significative, aveva bisogno di gradualità. Per cui, considerato questo contesto precedente, il modo repentino con cui nel 1989 fu annunciata alla Bolognina la decisione del cambio di nome ebbe per altri versi un effetto dirompente, divenendo un elemento di grande disagio che in seguito ha costituito per molti attivisti un ostacolo nel tentativo di comprendere le ragioni per le quali al tempo fu deciso di procedere in quel modo, con quelle modalità. Io naturalmente accettai quest’idea di cambiamento, probabilmente anche perché per formazione provenivo dal movimento giovanile e dalla FGCI, una realtà in cui la necessità che il partito si adeguasse rapidamente ai cambiamenti sociali in corso costituiva una prerogativa. I grandi mutamenti politici e internazionali vissuti in quegli anni ci conferivano probabilmente una maggiore predisposizione al cambiamento. Era un orientamento, cioè, che in quanto nuove generazioni avevamo ben presente.

D- Insomma, a mancare nel 1989 è stata un’adeguata discussione interna al PCI? Ma, visti i tempi, ve ne sarebbero state le condizioni?

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Durante il Congresso nazionale della FGCI tenutosi al Palalido di Milano nel maggio 1982, il segretario del PCI Enrico Berlinguer invitò i giovani a organizzare un congresso di “futurologia” che affrontasse varie discipline: dalle scienze fisiche, chimiche e biologiche, alla demografia, all’antropologia, all’informatica. Ciò per stimolare una riflessione politica a partire dalla conoscenza degli studi più recenti su alcuni problemi di pressante attualità, quali il rapporto tra risorse e popolazioni, tra sviluppo e ambiente.

D- Dunque, da quel che dice, l’eredità del PCI sui partiti della sinistra italiana sembra oramai perduta. Pensa che rimanga di quell’esperienza un’eredità politica immateriale al di fuori dei partiti e nella società?




De Carpis e Del Moro: comunisti internazionalisti livornesi

Sesta parte della rassegna di profili biografici di militanti comunisti internazionalisti di Livorno e provincia, i quali contribuirono alla fondazione del Partito Comunista d’Italia, sezione della IIIª Internazionale, avvenuta a Livorno nel gennaio 1921.

DE CARPIS Archisio (Grigo, Moro, Gogolo)

(Livorno 14.9.1898- Livorno 10.2.1969)

 Nato a Livorno nel 1898 da Diomede ed Ida Ciabattari, ha frequentato le scuole elementari; di professione è facchino della Compagnia Lavoratori Portuali. Partecipa alla Prima Guerra Mondiale arruolato nel 6° bersaglieri. Militante del Partito Socialista, seguace di Amadeo Bordiga e della Frazione Astensionista del medesimo partito, nel 1919 rimane ferito dai dei colpi di rivoltella durante un comizio repubblicano tenuto da ex interventisti nel quartiere di San Marco. Nel 1921 è tra i fondatori della sezione livornese del Partito Comunista d’Italia, per il quale svolge opera di attiva propaganda tra i lavoratori del Porto; partecipa a tutte le manifestazioni del Partito e in occasione di elezioni firma anche programmi e manifesti e contribuisce a tenere in vita la Camera del Lavoro, divenendo collaboratore di Athos Lisa, dirigente socialista e poi comunista della stessa. Nel febbraio del 1924 viene fermato perché sospetto di aver organizzato un comizio svoltosi brevemente nel quartiere La Venezia tenuto da un comunista fiorentino. Nel giugno dello stesso anno viene fermato a Roma all’uscita della Casa del Popolo ove si era recato per organizzare un convegno comunista che era stato indetto in quella sede dall’Esecutivo Sindacale dei portuali e dei marittimi. Nel maggio 1925 invia 30 lire al compagno di partito Alfredo Bonsignori, detenuto presso il carcere dell’isola di Nisida (Napoli) per motivi politici, come soccorso economico; tuttavia tale somma non è stata fatta recapitare al destinatario dalle autorità. Nel febbraio del 1926 viene nuovamente arrestato e nel corso di una perquisizione alla sua abitazione sono ritrovati  e sequestrati dei documenti, quali lettere della CGL, della FIOM e della FILIA, riguardanti il tentativo di riorganizzazione della Camera del Lavoro a Livorno; tuttavia viene liberato poco dopo ma continua a essere costantemente vigilato. Nel novembre 1926, al momento dello scioglimento coatto del Pcd’I deciso dal regime fascista,  viene arrestato e condannato a due anni di confino di polizia prima alla colonia penale delle isole Tremiti (Foggia) poi a quella  dell’isola di Ustica (Palermo) ed infine a quella dell’isola di Ponza (Latina). Rilasciato nell’ottobre del 1928, ritorna a Livorno; viene iscritto nella rubrica di frontiera per impedirne l’espatrio. Nel luglio del 1930, nel corso della perquisizione dell’abitazione gli viene sequestrato un libro di Michail Zoscenko dal titolo “Il vino nuovo-racconti sovietici”, che presenta sulla copertina la falce e il martello. Nuovamente arrestato nel maggio 1932 perché entrato in contatto con un dirigente dal partito venuto da fuori, è sospettato di far parte dell’organizzazione clandestina del partito stesso; per tali motivi viene deferito al Tribunale Speciale, tuttavia beneficia dell’amnistia e scarcerato. Dopo l’armistizio dell’8 settembre 1943 si rende irreperibile, dandosi alla macchia insieme ad Armando Gigli, nella zona tra Vicopisano e Staffoli, partecipando al movimento di resistenza sino alla Liberazione di Livorno il 19 luglio 1944. Nel secondo dopoguerra diventa segretario provinciale e poi nazionale della CGIL/FILP (Federazione Italiana Lavoratori dei Porti) continuando la militanza nel Pci. Muore a Livorno nel 1969.

FONTI: Archivio di Stato di Livorno, fondo Questura, serie A8, busta n. 1391;  Archivio Centrale dello Stato (Roma), Ministero dell’Interno, Direzione Generale di Pubblica Sicurezza, Divisione Affari Generali e Riservati, Casellario Politico Centrale, ad nomen; Comune di Livorno, Archivio di Stato Civile; L’Antifascista, mensile dell’ANPPIA, marzo 1969; N. Badaloni, F. Pieroni Bortolotti, Movimento operaio e lotta politica a Livorno 1900-1026, Roma 1977; F. Pieroni Bortolotti, Il Partito Comunista d’Italia  a Livorno: 1921-1923, estratto  dalla Rivista Storica del Socialismo, n. 31, maggio- agosto 1967; F. Pieroni Bortolotti, Note sul primo antifascismo livornese, Firenze 1971; F. Pieroni Bortolotti, Il 19 a Livorno, estratto da Ricerche Storiche, anno XXVII, N. 1, gennaio – aprile 1987; F. Pieroni Bortolotti, La lotta del Fronte Operaio a Livorno contro il Fascismo (1925-1926), studi e documenti, www. italia-resistenza.it.; I. Tognarini (a cura di), Livorno nel XX secolo. Gli anni cruciali di una città tra fascismo, resistenza e ricostruzione, Edizioni Polistampa, Firenze, 2006; M. Tredici, Gli altri e Ilio Barontini. Comunisti Livornesi in Unione Sovietica, Edizioni ETS, Pisa, 2017; Testimonianza orale g.c. all’autore dalla figlia Vladimira De Carpis nell’aprile 2017.

DEL_MORO_PIETRO_1903_002DEL MORO  Pietro

(Livorno 1.6.1903- Livorno 12.8.1963)

Nato a Livorno nel 1903 da Carlo e Regina Meini, ha frequentato fino alla seconda elementare; di professione è marmista. Nel 1918 ha perso entrambi i genitori a causa probabilmente dell’epidemia di spagnola, ragion per cui è costretto a vivere nel Ricovero di Mendicità sino all’aprile del 1921. In questo periodo si iscrive al neonato Pcd’I e ne diventa un propagandista attivo oltre che un ottimo diffusore della stampa di partito, ma anche di opuscoli, manifesti e volantini. Nel luglio 1926 viene fermato perché diffonde clandestinamente opuscoli e volantini, ma successivamente viene rilasciato. Nell’agosto dell’anno successivo viene nuovamente  arrestato e condannato per aver scritto una lettera di minacce, insieme ad altri comunisti livornesi, nei confronti del Console degli Stati Uniti d’America, in occasione della condanna a morte ed esecuzione degli anarchici Nicola Sacco e Bartolomeo Vanzetti, accusati ingiustamente di omicidio; per tale motivo viene condannato a 4 mesi  e 20 giorni di carcere. Ancora nel dicembre del 1927, per la sua pericolosità politica, è condannato dalla Commissione provinciale a due anni di confino di polizia a Lipari (Messina); viene liberato dopo un anno e ritorna a Livorno. Trova lavoro come marmista presso la ditta Catani, tuttavia nel giugno 1931 viene arrestato all’isola di Gorgona, insieme ad altri undici livornesi, per tentativo di espatrio clandestino determinato da motivi politici e viene condannato a sei mesi di carcere, che sconta. Viene continuamente arrestato per motivi politici e sempre rilasciato a partire dal 1932 e negli anni seguenti. Nell’agosto 1934, nuovamente arrestato per aver favorito la fuga di compagni livornesi in Corsica e per aver diffuso, tramite scritti anonimi imbucati nelle cassette della posta, materiale propagandistico comunista, viene proposto per il confino; tuttavia a causa delle sua condizioni di salute, poiché è affetto da sordomutismo progressivo causato dalla sifilide, è scarcerato e diffidato. Per i medesimi motivi viene arrestato nel giugno 1936 e condannato a 4 mesi di carcere. Con l’entrata in guerra dell’Italia nel giugno del 1940, le sue condizioni di salute e socio-economiche peggiorano ulteriormente, tuttavia si rende ancora responsabile di diffusione di suoi manifestini antifascisti e antiborghesi, dove si qualifica a volte come anarchico. A causa della diffusione di scritti contro la guerra e contro la Germania e la politica dell’Asse, vista la sua irriducibilità a desistere in tale atteggiamento, le autorità fasciste, nel dicembre 1942, decidono di ricoverarlo coattivamente presso il manicomio di Volterra, utilizzando come pretesto le sue precarie condizioni di salute. Viene rilasciato alla caduta del Fascismo. Muore a Livorno nel 1963.

FONTI: Archivio Centrale dello Stato (Roma), Ministero dell’Interno, Direzione Generale di Pubblica Sicurezza, Divisione Affari Generali e Riservati, Casellario Politico Centrale, ad nomen; Comune di Livorno, Archivio di Stato Civile; Antifascisti  nel Casellario Politico Centrale, 18 voll., Roma 1988-1995, ad nomen; N. Badaloni, F. Pieroni Bortolotti, Movimento operaio e lotta politica a Livorno 1900-1026, Roma 1977; I. Tognarini (a cura di), Livorno nel XX secolo. Gli anni cruciali di una città tra fascismo, resistenza e ricostruzione, Edizioni Polistampa, Firenze, 2006.




Macchi e Gasparri: comunisti internazionalisti livornesi

Quinta parte della rassegna di profili biografici di militanti comunisti internazionalisti di Livorno e provincia, i quali contribuirono alla fondazione del Partito Comunista d’Italia, sezione della IIIª Internazionale, avvenuta a Livorno nel gennaio 1921.

GASPARRI  Menotti (Mela, Scipione, Astarotte)

(Livorno 18.12.1907- Madrid 21.11.1936)

 Nato a Livorno nel 1907 da Flaminio e Francesca Franceschi, orfano di padre, frequenta sino alle seconda elementare; di professione è vetraio. Iscritto giovanissimo alla Federazione giovanile del Partito Socialista, nel 1923 diviene militante attivo del Pcd’I. Nell’aprile del 1924 viene segnalato insieme ad altri giovani comunisti, come diffusore di manifesti e volantini per il 1 maggio, evita di essere malmenato dai fascisti poiché uno dei suoi compagni, Carlo Di Prato, li convince che essi erano andati a prendere lezioni di mandolino dal maestro Pìattoli. Nel 1926 viene fermato per strada perché cantava canzoni sovversive insieme ad altri compagni; per tali ragioni viene eseguita una perquisizione presso la sua abitazione dove vengono scoperte diverse copie del giornale comunista “L’Unità” che gli vengono sequestrate. In quel periodo e sino a tutto il 1927 risulta essere in corrispondenza con Astarotte Cantini, comunista livornese già anarchico, emigrato dapprima in Francia e in seguito in Unione Sovietica, il quale gli invia copia del giornale “Fronte Antifascista”, stampato a Parigi dagli esuli italiani; tale corrispondenza riprenderà nel 1929 e ancora negli anni seguenti. Nel novembre 1927 viene tratto in arresto a Livorno per ordine della Questura di Pisa per propaganda comunista; aveva infatti diffuso nella“ Cristalleria Torretta” fabbrica dov’è impiegato come vetraio, il giornale della gioventù comunista “Avanguardia”, ed in particolare aveva consegnato una copia del suddetto giornale al suo compagno di lavoro, Ugo Moretti il quale, a sua volta, aveva diffuso tale giornale a Putignano, paese in provincia di Pisa, del quale lo stesso Moretti è originario. Per questa attività di diffusione clandestina, viene deferito al Tribunale Speciale per la Difesa dello Stato e condannato ad un anno di reclusione che sconta interamente a Roma. Successivamente entra in corrispondenza epistolare con il livornese Osvaldo Bonsignori, soldato del 77° reggimento fanteria di stanza a Bergamo, anch’egli comunista, il quale lo aggiorna sul morale della truppe e sulle condizioni di vita dei soldati, ma la corrispondenza viene intercettata dalla polizia nel luglio 1930. In quegli anni diventa capo della cellula comunista della vetreria Rinaldi, dove lavora e al cui interno è tra coloro che organizzano la diffusione di giornali ed altri stampati comunisti per tutta la città di Livorno e per tali motivi viene denunciato insieme al comunista Carlo Di Prato, per associazione e propaganda sovversiva. Nel giugno del 1931 viene fermato insieme ad altri compagni nei pressi dell’isola della Gorgona (Livorno) e denunziato per tentativo di emigrazione clandestina e condannato nel luglio successivo a 10 mesi di reclusione, ridotti a 6 in appello. Uscito dal carcere nel dicembre 1931, pur venendo costantemente sorvegliato dalle autorità fasciste, riesce a rendersi irreperibile e nel marzo 1932, emigra clandestinamente in Francia con un passaporto falso spagnolo, stabilendosi dapprima a Marsiglia e successivamente in Belgio. In Francia assume, tra gli altri, gli pseudonimi di Alfredo Scipioni, Astarotte Puntoni, Mariur Frasuan e Alfredo Fiori; più tardi assumerà il nome di battaglia di Scipione. A Marsiglia lavora come scaricatore di porto presso la “Società Generale dei Trasporti Marittimi” ed è fiduciario del Pci, per il quale svolge attività politica pressoi marittimi con la diffusione di giornali ed altri stampati. Grazie a questa attività riesce, tramite i naviganti ad inviare stampa clandestina ed altro materiale di propaganda comunista in Italia; inoltre svolge il compito di emissario per il Pci in varie località, tra cui Bastia, Arles, Tolosa, Marsiglia e Parigi. Nel 1934 si trasferisce ad Arles, nel Sud della Francia, dove lavora nella miniera di Rochebelle e partecipa all’organizzazione della cellula comunista. Espulso dalla Francia si reca in Belgio per qualche mese, per poi tornare in Francia a Parigi, dove assume i consueti pseudonimi. Ai primi del 1936 è segnalato in Unione Sovietica, dove viene ricoverato, su sua esplicita richiesta,  in un sanatorio nel Caucaso per poter curare problemi di salute che lo affliggevano da tempo, causati da un’operazione subita in Francia per ulcera allo stomaco. Rientrato in Francia dopo pochi mesi, allo scoppio della guerra civile spagnola, accorre in Spagna nell’ottobre del 1936, inquadrandosi nel battaglione “Garibaldi”, successivamente divenuto XII Brigata Internazionale. Muore in combattimento il 21 novembre 1936 nella difesa di Madrid, nel settore della Città Universitaria, località Casa del Campo.

FONTI: Archivio Centrale dello Stato (Roma), Ministero dell’Interno, Direzione Generale di Pubblica Sicurezza, Divisione Affari Generali e Riservati, Casellario Politico Centrale, ad nomen; Comune di Livorno, Archivio di Stato Civile; F. Bucci, S. Carolini, C. Gragori, G. Piermaria, Il Rosso, Il Lupo e Lillo. Gli antifascisti livornesi nella Guerra civile spagnola, La ginestra, Follonica, 2009; G. Pajetta, I Livornesi oltre i Pirenei, i volontari livornesi nella guerra antifascista di Spagna 1936-1939,www.aicvas.org/livornesi/pirenei, 2012; Antifascisti  nel Casellario Politico Centrale, 18 voll., Roma 1988-1995, ad nomen; I. Cansella, F. Cecchetti (a cura di), I volontari antifascisti toscani nella guerra civile spagnola, le biografie, Isgrec, Arcidosso, 2011; I. Tognarini (a cura di), Livorno nel XX secolo. Gli anni cruciali di una città tra fascismo, resistenza e ricostruzione, Edizioni Polistampa, Firenze, 2006; M. Tredici, Gli altri e Ilio Barontini. Comunisti Livornesi in Unione Sovietica, ETS, Pisa, 2017, ad nomen; Livornesi alla guerra di Spagna 1936-1939, pubblicazione a cura dell’Archivio di Stato di Livorno e del Centro Filippo Buonarroti Toscana, Livorno, 2020, ad nomen.

MACCHI_MACCHIAVELLO_1892_004MACCHI Macchiavello Giuseppe Amaddio

(Collesalvetti (Livorno) 20.8.1892 – Collesalvetti (Livorno) 3.6.1960)

Nato a Colognole, frazione del Comune di Collesalvetti (Livorno) il 20 agosto 1892 da Adolfo (contadino piccolo possidente) e Merope Stagi o Stazzi (casalinga), possiede la licenza elementare e di professione è fabbro. Nel 1908 a soli diciassette anni aderisce alla federazione giovanile socialista e negli anni seguenti al Partito socialista. Nel corso delle Prima Guerra Mondiale, in quanto militante socialista ed internazionalista, svolge attiva propaganda antimilitarista, tanto che viene diffidato dall’Arma dei Carabinieri di Collesalvetti. Nel dicembre 1918 a guerra conclusa viene condannato a sei mesi di reclusione per diserzione, pena che sconta interamente in varie carceri d’Italia. Tornato a Collesalvetti, diviene segretario della sezione socialista di Colognole e nel 1920 viene eletto consigliere comunale sempre per il Psi al Comune di Collesalvetti. Nel 1921 diventa militante comunista ed è tra i fondatori a Colognole, insieme al fratello Mario, della sezione Spartacus del Partito Comunista d’Italia, della quale diviene immediatamente segretario. In questa sezione Macchi svolge opera di penetrazione politica tra i lavoratori agricoli del Comune di Collesalvetti, per cui in quegli anni la sezione da lui diretta arriva a contare oltre quaranta iscritti. Sempre nel 1921 viene nominato assessore nell’amministrazione comunale di Collesalvetti, il cui sindaco è il comunista Alessandro Panicucci e dietro sua proposta viene approvata all’unanimità dalla Giunta comunale la rimozione dei busti di Vittorio Emanuele III e di Umberto I. Nel corso del 1922 sciolta la Giunta comunale di Collesalvetti ad opera del governo fascista, si trasferisce con la famiglia a Roma, dove trova lavoro presso l’officina meccanica Piperno. Nel maggio 1928 a Roma viene arrestato e deferito al Tribunale Speciale per la Difesa dello Stato in quanto membro dell’organizzazione comunista clandestina romana, diretta da Giuseppe Amoretti e per tale attività viene condannato a quattro anni di reclusione. Infatti Macchi è responsabile della diffusione della stampa di partito non soltanto nel Lazio ma anche in Toscana, e per tali motivi, grazie alla sua particolare abilità, riservatezza e dedizione al lavoro clandestino svolto, è tenuto in grande considerazione dal Centro del partito, che ripone in lui massima fiducia. Nel corso del 1928 e del 1929 la moglie Gina Gambaccini, madre delle sue tre figlie piccole, inoltra più volte domanda di grazia per il marito, a cause delle precarie condizioni di vita in cui erano ridotta la famiglia dovute al suo arresto, inoltra anche la domanda per ottenere un sussidio sociale. Tuttavia la moglie ottiene dal governo soltanto una sussidio mensile di ottanta lire per soli quattro mesi e la domanda di grazie viene inoltre respinta poiché in sede giudiziale viene dimostrato che la famiglia Macchi ottiene costantemente dei sussidi dal Partito comunista in clandestinità. Macchi una volta liberato nel maggio 1932 per aver scontato l’intera pena detentiva, viene sottoposto per alcuni mesi a libertà vigilata, dalla quale viene poi esentato per intervenuta amnistia, ma viene tuttavia costantemente vigilato dalla polizia politica. Nell’aprile 1933, rimasto vedovo e con tre figlie a carico, si trasferisce a Livorno, dove svolge il mestiere di fabbro ferraio in proprio e per il suo passato politico viene inserito nell’elenco delle persone da arrestare in determinate circostanze perché ritenuto capace di compiere atti sovversivi. Nel 1938 si risposa con Giuseppina Gragnani dalla quale avrà il figlio Marxino (Marzino), nato nel 1940. Nel maggio 1938 viene sottoposto ad ammonizione poiché la sera del 24 maggio al Teatro Lazzeri di Livorno, unico tra gli astanti, non si era alzato quando l’orchestra aveva suonato gli inni nazionali, la Marcia Reale e Giovinezza. Nel giugno 1943 viene arrestato nuovamente in quanto, dopo una perquisizione domiciliare vengono rinvenuti ritagli di giornale, manoscritti vari e corrispondenza a sfondo sovversivo, corrispondenza che egli teneva in particolare con Athos Aringhieri, un contadino di Castell’Anselmo, frazione di Collesalvetti, in passato appartenente alle organizzazioni sindacali rosse. Trasferito per sfollamento nel carcere di Perugia, viene proposto all’ammonizione dalla quale viene tuttavia sospeso nell’agosto del 1943 a causa della caduta del Fascismo. Dopo l’armistizio del settembre del 1943 diventa comandante partigiano. Nel 1944, al momento della Liberazione è nominato dal CLN sindaco del Comune di Collesalvetti per il PCI carica che mantiene sino al 1951. In occasione della Rivoluzione Ungherese dell’ottobre/novembre 1956 è tra coloro che deplorano e condannano l’intervento sovietico a Budapest, venendo per questo motivo emarginato dalla dirigenza togliattiano del PCI. Muore a Collesalvetti il 3 giugno 1960.

FONTI: Archivio Centrale dello Stato (Roma), Ministero dell’Interno, Direzione Generale di Pubblica Sicurezza, Divisione Affari Generali e Riservati, Casellario Politico Centrale, ad nomen. Antifascisti nel Casellario Politico Centrale, 18 voll., Roma 1988-1995, ad nomen; F. Bertini, Con il cuore alla Democrazia, Debatte editore, Livorno, 2007; I. Tognarini (a cura di), Livorno nel XX secolo. Gli anni cruciali di una città tra fascismo, resistenza e ricostruzione, Edizioni Polistampa, Firenze 2006.




“Altri muri sono sorti…”

Virginio Monti (Lucca, 1947) negli anni ’60 milita nel movimento studentesco lucchese e nelle file della sinistra extraparlamentare marxista-leninista; dopo la militanza in Democrazia proletaria si iscrive a Rifondazione comunista, dalla quale esce per aderire al Movimento per la confederazione dei comunisti. Studioso della storia della Resistenza e del movimento operaio, argomenti ai quali ha dedicato numerose pubblicazioni per la casa editrice lucchese Tra Le Righe; il suo ultimo libro è “La questione ebraica in provincia di Lucca e il campo di concentramento di Bagni di Lucca” (2021).

Quali sono state le tue prime esperienze di militanza politica?

Quando ti sei avvicinato a Democrazia proletaria? E perché proprio DP e non il PCI?

Cosa significava la scelta comunista in un territorio tradizionalmente conservatore come la Lucchesia?

con la politica del PCI e della CGIL, scivolata verso strade concertative con il sistema capitalistico e i suoi tradizionali referenti politici.

della sinistra extraparlamentare e anarchica). Ambienti dove il cuore almeno si rifocillava.

perché la precarizzazione è aumentata e alla scadenza del contratto la storia lavorativa si conclude quasi sempre e senza bisogno di giustificazioni particolari.

DP si è sempre dichiarata contraria al modello di socialismo proposto dall’Unione Sovietica. Il 9 novembre 1989 cade il muro di Berlino, e due anni dopo l’URSS si scioglie: il tuo pensiero su questi eventi?

Negli stessi anni il Partito comunista italiano avvia quel processo di trasformazione che nel 1991 porterà alla fondazione del PDS (Partito democratico della sinistra). Come studioso e militante di una formazione marxista ma critica nei confronti del PCI, qual è il tuo pensiero sulla svolta della Bolognina?

[1] A titolo di approfondimento si rimanda al volume AA. VV., E la vita cambiò. Il ’68 a Lucca (Carmignani, Pisa 2018), che raccoglie numerosi scritti di militanti del ’68 lucchese; la testimonianza di Virginio Monti, allora giovane studente dell’ITIS, si trova alle pagine 139-148, ed è tratta dal libro scritto da Monti stesso Il futuro passato. Gli anni ’60 e l’imperdibile ’68 (Tra Le Righe, Lucca 2018).




“L’energicissima lezione” del 1937: la ripresa dello squadrismo contro gli antifascisti grossetani

Incitata o tenuta a bada a seconda delle convenienze, la violenza è sempre stata un fondamento dell’ideologia fascista. Già all’epoca dello squadrismo e prima della presa del potere, i fascisti propagandarono la propria fede con la pratica della violenza «mitizzata e sublimizzata come manifestazione di virilità e di coraggio, strumento necessario per liberare la nazione dai suoi dissacratori. L’offensiva armata dello squadrismo contro il proletariato, per i fascisti, era una santa crociata dei veri credenti per annientare i profanatori della patria, redimere il proletariato dalla idolatria dei falsi dèi dell’internazionalismo, riconsacrare i simboli e i luoghi santi della nazione, riportando la patria sugli altari della devozione civile[1]». Il tutto si tradusse in minacce, intimidazioni, saccheggi, devastazioni, incendi e uccisioni di avversari politici, negli anni più bui dello squadrismo. Neppure la presa del potere da parte del fascismo valse a porre fine alla violenza. Una lettura più recente di questo fenomeno ha sottolineato come anche negli anni centrali della dittatura mussoliniana squadrismo e violenza non vennero mai meno, tanto che il primo non può esser considerato un residuo anacronistico o un effetto collaterale del percorso ventennale del regime, quanto un elemento imprescindibile nella definizione del fascismo. Stando a questa interessante interpretazione, nonostante la necessità di normalizzazione il regime non rinunciò mai alla violenza, poiché normalizzazione governativa e illegalismo squadrista erano due piani di un’unica strategia politica che perseguiva lo stesso obiettivo di conquista integrale della società e di creazione di una nuova Italia e di un nuovo italiano da conseguire innanzitutto attraverso l’eliminazione di ogni forma di opposizione[2].

L’analisi dei contesti locali durante il Ventennio conferma il perdurare di una situazione di tensioni e violenze, che riguardarono perfino il campo fascista dove si combattevano le lotte di fazione per la conquista del potere locale. D’altronde, sin dalle origini e al di là delle differenti realtà politiche ed economiche, il fascismo fu una precaria alleanza tra interesse e ideologia, tanto che «agli occhi di molti fascisti il movimento era stato uno strumento di avanzamento sociale ed economico[3]».  Dallo studio della documentazione delle Federazioni provinciali del Pnf è emerso come, nel corso degli anni, la componente dell’interesse prese il sopravvento su quella dell’ideologia. La priorità data dai gerarchi di provincia al perseguimento dei propri interessi privati e materiali sconfinò in frequenti casi di affarismo, corruzione e malcostume che ebbero conseguenze sull’opinione popolare, provocando atteggiamenti di distacco, apatia, disaffezione nei confronti del partito e del regime. Fu soprattutto nella seconda metà degli anni Trenta che si moltiplicarono i rapporti dalle province volti a illustrare tale situazione: nel grossetano, oggetto di questa indagine, vi furono riscontri non solo nel capoluogo di provincia ma anche in altri paesi quali Massa Marittima, Civitella e Pitigliano[4]. Soffermandoci proprio sul contesto maremmano nella seconda metà degli anni Trenta, parallelamente al malcontento verso i gerarchi notiamo una netta ripresa degli atti di intimidazione e violenza verso gli antifascisti, in particolar modo nel 1937, in concomitanza ad eventi internazionali di notevole importanza in quegli anni (la guerra civile spagnola e la nascita dell’Impero nell’Africa orientale italiana) e al massimo sforzo profuso dal regime nel tentativo di fascistizzare la società e ampliare il consenso, grazie anche al ruolo svolto dal Partito nazionale fascista, il custode della fede e “grande pedagogo”. Il protagonista assoluto di questa nuova ondata di squadrismo fu proprio il segretario federale del Pnf, Angelo Maestrini, un geometra nato a Gavorrano nel 1902, squadrista e iscritto antemarcia, già consigliere comunale e poi podestà e segretario del fascio dello stesso Comune fino alla sua nomina alla guida del partito in provincia, che tenne dal maggio 1934 al febbraio 1938. Perfetto esempio dell’incrocio già descritto di “fede e fortune” e di quei ceti medi delle professioni in ascesa, formatisi nelle file del partito e destinati a rappresentare la nuova classe dirigente del fascismo, Maestrini ebbe un ruolo di primo piano durante il Ventennio in Maremma e si contraddistinse per il fenomeno del cumulo di cariche, i casi di affarismo e il facile interscambio tra gli incarichi politici e quelli statali, poiché dopo l’esperienza di federale fu nominato podestà di Grosseto.

Antifascisti grossetani nel 1928. Da sx in piedi: Attilio Vitali, Gino Franchi, Paolino Ancarani, Luigi Franchi, [...], Artino Meconcelli, Ferdinando Nardini, Adamo Tonini, Augusto Boschi,. Da sx seduti: Dino Berti, Pietro Ginanneschi (pHOTO CREDITS: a.- bANCHI, sI VA PEL MONDO)

Antifascisti grossetani nel 1928. Da sx in piedi: Attilio Vitali, Gino Franchi, Paolino Ancarani, Luigi Franchi, […], Artino Meconcelli, Ferdinando Nardini, Adamo Tonini, Augusto Boschi,. Da sx seduti: Dino Berti, Pietro Ginanneschi (photo credits. A. Banchi, Si va pel mondo)

Nella seconda metà degli anni Trenta la federazione provinciale fascista dispose un aumento delle attività di vigilanza sugli antifascisti e incitò alle spedizioni punitive nei confronti degli elementi sospetti. Le bastonature riguardarono il capoluogo maremmano (dove si contarono circa 20 azioni violente) ed anche altri centri della Provincia, quali Orbetello, Follonica, Scarlino e Porto Santo Stefano. Il 5 aprile 1937 il federale Maestrini aveva comunicato al segretario nazionale del Pnf Starace di aver notato già da tempo una certa riorganizzazione da parte degli antifascisti locali[5]. Dal servizio di vigilanza da lui disposto era emerso che individui ritenuti sovversivi tendevano a ritrovarsi in gruppo per le vie cittadine, commentando la situazione grossetana e i fatti politici in generale. La ripresa delle azioni punitive su invito dello stesso federale aveva però trovato una netta contrarietà da parte della Prefettura, della Questura e dei carabinieri, che invitarono ripetutamente Maestrini a sospenderle, non risultando loro alcun indizio di attività sovversiva. «Da tali esortazioni non sono estranee preoccupazioni per la propria personale responsabilità», aggiunse polemicamente il federale. Nonostante tali inviti, la federazione provinciale fascista proseguì le attività di vigilanza e continuò ad incitare le azioni violente. Questa nuova ondata squadrista, promossa dal partito locale ma osteggiata dalle autorità statali in provincia, mal si conciliava però con quei compiti di “mediazione” a tutti i livelli a cui ormai il Pnf doveva adempiere. Significativo il fatto che lo stesso Starace girò la lettera di Maestrini al sottosegretario agli Interni Buffarini Guidi per gli avvertimenti del caso. Il radicalismo del federale che minava la stabilità in provincia non poteva più esser tollerato e fu, come vedremo, uno dei motivi principali dell’allontanamento di Maestrini dalla guida del partito e del suo insediamento alla guida comunale. Qui fu chiamato a sostituire il podestà Ezio Saletti, fratello del “martire” fascista Ivo, caduto nel corso della spedizione punitiva su Roccastrada del 24 luglio 1921, che pur essendo stato chiamato a svecchiare e spersonalizzare la carica podestarile dopo la lunga gestione Scaramucci, aveva deluso tutte le aspettative, mancando in quegli attributi giudicati fondamentali dal regime per la figura del podestà, quali la “fattiva operosità”, l’efficienza, la moralità e la capacità di accattivarsi la stima della popolazione[6]. Ennesima dimostrazione delle difficoltà del regime di garantire stabilità in provincia e di promuovere una nuova classe dirigente giovane, dichiaratamente fascista ed espressione dei ceti medi, che fosse preparata ed efficiente, nonché del malaffare dei gerarchi, che comprometteva il consenso della popolazione al regime.

Tornando al tema dell’ordine pubblico e delle violenze sui presunti sovversivi nel 1937, le forze dell’ordine grossetane nel corso dell’anno non avevano rilevato attività ostili al regime, in relazione anche agli avvenimenti spagnoli, tali da giustificare le spedizioni punitive promosse dal partito. Ne è un esempio questa relazione stilata dai carabinieri di Grosseto il 13 aprile 1937, avente ad oggetto la repressione della propaganda sovversiva.  « […] Si comunica che, l’11 detto, alcuni fascisti in Roselle, frazione di Grosseto,  percossero senza conseguenze tali Sandri Ippolito, Tenti Giuseppe, Capitoni Angelo, Doveri Cesiro, Scheggi Priamo, i quali pur non avendo militato nei partiti sovversivi, ad eccezione dello Scheggi di idee comuniste, mantengono un contegno non favorevole al Regime. Ieri, 12 corrente, verso le ore 19,30, altri fascisti percossero in Grosseto tali Bellucci Albo e Fanteria Giuseppe perché nutrono idee contrarie al fascismo. Solo il Bellucci riportò contusioni guaribili in giorni sei. Pur trattandosi di elementi infidi in linea politica, sui quali gli organi di polizia esercitano il dovuto controllo, il ripetersi di azioni punitive da parte dei fascisti, sta dando luogo a commenti poco favorevoli, specie perché in questa provincia non si sono verificati fatti tali da giustificare reazioni fasciste[7]». Già nel 1936 era stata segnalata una ripresa dell’attività sovversiva fra gli operai disoccupati, che aveva portato però semplicemente a un aumento delle attività di vigilanza senza particolari rilievi di sorta[8]. L’anno successivo vi furono varie segnalazioni di scritte sovversive sui muri (ad esempio “Abbasso Franco = Abbasso il fascismo = Impero di fame” con la sigla della falce e del martello nei bagni comunali di Roccastrada, “Abbasso il Duce, Viva il pane” sul muro esterno del palazzo del sindacato dei lavoratori dell’industria a Grosseto, “Viva la Russia, abbasso l’Italia” sul lavatoio pubblico di Orbetello ecc.), oltre che di invio di stampa sovversiva (il negoziante Giuseppe Barni di Roccastrada, caposquadra della milizia ed ex vice-segretario politico del fascio di Roccastrada, si vide recapitare da Pas de Calais due manifestini contenenti frasi contro l’intervento fascista in Spagna, mentre a Sassofortino giunsero cartoline del soccorso rosso per i bambini spagnoli firmate con la falce e il martello). I carabinieri di Grosseto segnalarono che in vari esercizi pubblici di Orbetello, nei quali erano installati apparecchi radio, venivano captate le comunicazioni della stazione comunista di Barcellona, oggetto di ascolto da parte degli operai dei vari stabilimenti industriali locali[9]. Nel complesso si trattava di una situazione con qualche tensione nelle aree minerarie o a vocazione più industriale, che poteva però esser tenuta sotto controllo con azioni di vigilanza.

L’allarme principale della federazione provinciale fascista era legato principalmente proprio ai fatti della guerra civile spagnola, che avevano riacceso le speranze degli antifascisti locali. Furono ben 25 i volontari della provincia, su un totale di 395 dell’intera regione Toscana, che si trasferirono nel paese iberico per difendere la Repubblica e combattere Franco[10]. Prevalentemente comunisti e appartenenti alle classi popolari, in gran parte erano già espatriati all’estero quali esuli politici, mentre cinque di loro (Vittorio Alunno, Angelo Rossi detto Trueba, Luigi Amadei, Pietro Aureli e Italo Giagnoni) riuscirono a raggiungere la Spagna dalla Maremma con un’impresa temeraria che rappresentò un vero e proprio smacco per le autorità fasciste. Acquistata una piccola imbarcazione a remi grazie alle sottoscrizioni degli antifascisti maremmani, il 21 agosto 1937 elusero i controlli e dalla spiaggia delle Marze, nei pressi di Castiglione della Pescaia, approdarono in Corsica, prima tappa della loro travagliata e avventurosa esperienza in Spagna. Questi episodi e la propaganda sovversiva interna accentuarono il radicalismo all’interno della federazione provinciale fascista, insofferente a qualsiasi forma di dissidenza nel periodo di ricerca massima del consenso e dell’inquadramento totalitario dei giovani. A tal fine il 29 ottobre 1937 nacque la Gioventù italiana del littorio, sorta dalla fusione dell’Opera nazionale balilla e dei fasci giovanili di combattimento e posta alle dirette dipendenze del segretario del Pnf, per la formazione politica e alla preparazione sportiva e militare dei giovani d’ambo i sessi dai 6 ai 21 anni. Di fronte a tali sfide, il partito grossetano non esitò a giocare la carta della violenza per reprimere qualsiasi opposizione. Dopo la fuga dei cinque in Spagna, il comunista e poi partigiano Aristeo Banchi (Ganna) scrisse nelle sue memorie che «le camicie nere grossetane  (Ragno, Catone e tanti altri delinquenti), infuriate per lo smacco subito, erano da evitare come la peste, ogni pretesto era buono per pestaggi malvagi e per “lezioni” che potevano costare la salute a chi le subiva, le provocazioni erano all’ordine del giorno, l’aria per noi oppositori era gravida di minacce[11]».  Lo stesso Banchi ricorda nel 1937 tafferugli e aggressioni a carico di antifascisti (tra di loro Aladino Fumi), che solevano andare in giro per la città ostentando provocatoriamente le cravatte rosse che acquistavano dai cinesi venditori per strada di oggetti e merci varie.

Elvino Boschi

Elvino Boschi

Il caso più eclatante della ripresa della violenza contro gli antifascisti nel 1937 riguardò l’aggressione compiuta nella notte tra il 31 ottobre e il primo novembre dallo stesso federale Maestrini ai danni di Elvino Boschi (classe 1906), un impiegato socialista all’epoca dei fatti disoccupato, noto alle forze dell’ordine e già sottoposto a periodi di vigilanza per la sua attività di ascoltatore delle radiodiffusioni comuniste sulla guerra civile spagnola. Originario di Livorno ma residente da tempo a Grosseto, nel suo fascicolo personale nel Casellario politico centrale era descritto come individuo irascibile e prepotente ma di discreta intelligenza e cultura, assiduo lavoratore di fede socialista, che frequentava elementi sospetti in linea politica, figlio di un impiegato ferroviere collocato in pensione nel 1931, già attivo propagandista delle idee socialiste prima dell’avvento del fascismo. Padre di due figli e coniugato con Licena Rosi, Boschi era il cognato di un altro volontario grossetano nella guerra civile spagnola, Siro Rosi, un militare di leva che nel 1937 si arruolò con i fascisti destinazione Cadice, con l’obiettivo di passare nelle file repubblicane, cosa che fece il 18 aprile 1937, quando passò le linee per dirigersi a Campillo[12]. Poco dopo la diserzione di Rosi, Boschi fu oggetto di prima una violenta aggressione. Come si evince dalla testimonianza della moglie Licena, il 22 maggio 1937 Elvino si trovava a passeggio per le Mura medicee quando, all’altezza del Parco della Rimembranza, l’archivista della federazione fascista Ferruccio Malandrini e altri tre fascisti (Giuseppe Tamburini, Carlo Faenzi e Mario Caciai) lo picchiarono selvaggiamente, provocandogli un’escoriazione all’occhio e una menomazione permanente alla gamba sinistra, che lo costrinse a un periodo di degenza a letto di due mesi e mezzo[13]. Questo triste episodio, che gli valse una diffida da parte della Questura, fu solo il prologo di quello che sarebbe successo pochi mesi più tardi. La notte del 31 ottobre 1937, Boschi stava girando per le vie del centro in compagnia di Guglielmo Marconi, un manovale schedato come anarchico. Dopo essersi ritrovati con alcuni amici (Bruno Bruni, Celso Checcacci, Adamo Innocenti, Gaspare Minucci Aristide Burroni), all’altezza di via Corsica il primo fu riconosciuto e chiamato dal segretario federale Maestrini, insospettito dal girovagare notturno di questo presunto gruppo di sovversivi. Il capo del partito grossetano passò immediatamente alle vie di fatto: Boschi fu preso per i capelli e schiaffeggiato e, dopo aver reagito, pesantemente bastonato e colpito a calci anche dagli altri gerarchi lì presenti[14]. Nella violenta lotta corpo a corpo, così come fu descritta dai carabinieri, Boschi fu spalleggiato da Marconi e Checcacci e alla fine perse i sensi e riportò lesioni alla testa guaribili in quattro giorni. Dopo questo incidente le autorità fasciste locali procedettero a una lunga serie di arresti e perquisizioni. Non mancarono altri atti di violenza da parte dei fascisti decisi alla resa dei conti coi sovversivi: solo per citarne uno, il 2 novembre fu violentemente percosso anche il calzolaio socialista Aldo Ginanneschi. Intanto, Maestrini trovò modo di rinfocolare la polemica con le forze di pubblica sicurezza, accusandole di eccessiva indulgenza verso gli antifascisti e riportando tutto a Starace:

«[…] Il Boschi era sorvegliato dai fascisti e nel mese di aprile ebbe una severa lezione (S. R.); fu poi arrestato ma quasi subito rilasciato perché secondo la Questura non vi erano colpe sicure da addebitargli. Noi sapevamo invece che poteva essere pericoloso perché avvicinava sempre operai fra i quali, sembra facesse propaganda antifascista. Si rende necessario che almeno questa volta le autorità di P.S. agiscano energicamente e senza pietà e non si trincerino nel dire che noi fascisti esageriamo nel considerare le cose. I fascisti fanno sempre il loro dovere e come l’animo squadrista ha loro insegnato».

Nella seconda lettera inviata a Starace in giornata (1° novembre 1937), Maestrini faceva presente che l’identificazione, il fermo e la relativa energicissima lezione degli individui che avevano ammesso di aver partecipato al fatto (tutti consegnati alla Questura e associati alle locali carceri giudiziarie)[15], era stato possibile per il solo intervento della milizia e dei fascisti. «Credo opportuno far presente all’E. V. che S. E. il Prefetto si è limitato a dichiararmi il suo dispiacimento per l’incidente accadutomi, invitandomi alla calma per il timore di altre complicazioni. Ho avuto poi la netta impressione che la Questura voglia considerare la cosa come un fatto di ordinaria amministrazione, felice che i colpevoli siano tutti assicurati alla giustizia e di aver potuto ringraziare chi ad essa si è sostituito con intuito e con prontezza fascista a rintracciare questi delinquenti. Non si sono fatte le indagini, almeno per ora, che la gravità del fatto richiedeva, tanto che fino alle ore 19 non era stato neppure ordinata la perquisizione domiciliare degli arrestati né si era allargato il campo delle indagini verso individui sospetti di sovversivismo, limitandosi, se mai, ad intralciare l’opera di giusto risentimento che i Fascisti della Città stanno esplicando», le sue polemiche parole[16]. Le violenze seguenti al fatto sono ancora ben descritte da Banchi:

«La mattina dopo i “neri” organizzarono, in grande stile, una battuta di caccia al “sovversivo”, durante la quale molti oppositori vennero bastonati per strada e persino nelle loro case, alla presenza dei familiari. Con delle tavolette chiodate fu percosso a sangue il compagno Memmo [Guglielmo, ndr.] Marconi […]. Negli stessi giorni i “salvatori dell’Italia” aggredirono Ettore Tognetti, soprannominato il Bèco, mentre stava giocando in un caffè. Tognetti, che aveva rinunciato a partire per la Corsica con Alunno perché la barca non dava, a suo giudizio, nessun affidamento, fu trascinato fuori dal locale e percosso con spranghe di ferro, finché non perse i sensi. […] Da quella bastonatura – la più grave fra le molte da lui subite – Tognetti non si riprese più: dopo esser passato da un sanatorio all’altro, morì qualche anno dopo per le conseguenze di quella terribile giornata. Le aggressioni dei fascisti proseguirono anche nei giorni seguenti: al bar della Posta, nel corso, Albo Bellucci venne ridotto a uno straccio a furia di manganellate, e in via Amiata lo stesso trattamento fu riservato a Lio Lenzi, un corniciaio comunista, venuto da Livorno, che i “neri” detestavano perché nel suo laboratorio si incontravano gli antifascisti grossetani. Anche a Lenzi, che sarebbe divenuto dopo la Liberazione il primo sindaco della nostra città, i medici negarono qualsiasi certificato sugli effetti dell’aggressione[17]».

Livornese classe 1898, Lenzi era stato uno dei fondatori del Pci e aveva militato negli Arditi del Popolo. Perseguitato dai fascisti e schedato, fu costretto a lasciare il suo lavoro per divenire agente di commercio e nel 1929 si trasferì a Grosseto. Nel capoluogo maremmano stabilì subito dei contatti proprio con Elvino Boschi – originario livornese come lui nonché cugino del noto comunista labronico Ilio Barontini, volontario in Spagna e poi partigiano in Etiopia, Francia e Italia – che lo introdusse nell’ambiente antifascista locale[18].

Il 19 novembre 1937, la commissione provinciale per i provvedimenti di polizia assegnò Boschi e Marconi al confino, rispettivamente per la durata di quattro e tre anni, mentre gli altri furono ammoniti. Tutto ciò nonostante lo stesso Boschi fosse considerato incapace di tenere conferenze, dirigere riunioni e svolgere lavori organizzativi e non avesse mai collaborato a giornali o riviste sovversive. Il 16 dicembre 1938 il segretario federale Elia Giorgetti espresse parere sfavorevole ad un atto di clemenza nei suoi confronti «in considerazione della responsabilità diretta da lui avuta nell’episodio e dei precedenti di irriducibile antifascista». Boschi scontò la pena ad Acerenza, Locri e Pisticci e fu prosciolto dai vincoli del confino per fine periodo il 19 agosto 1941. Successivamente fu trattenuto in arresto per altri tre mesi per contravvenzione agli obblighi del confino. Una volta liberato fu assunto dalla Società Anonima “Il Lavoro”, che aveva in appalto il servizio di facchinaggio nella stazione di Grosseto. Marconi scontò la pena alle Tremiti e a Toro e rimpatriò a Grosseto il 25 dicembre 1938, in seguito al proscioglimento condizionale disposto dal duce. [19] Per uno strano e beffardo destino, i due amici che avevano condiviso la fede antifascista e subito violenze e anni di confino, rimasero uccisi per “fuoco amico” nel corso del primo bombardamento alleato su Grosseto del 26 aprile 1943. Era il giorno di Pasquetta, quando 48 fortezze volanti americane scaricarono quasi 400 bombe da 300 libbre e circa 2000 bombe a frammentazione sulla città. L’obiettivo era la messa fuori uso dell’aeroporto militare e la distruzione della scuola di addestramento per piloti di velivoli aerosiluranti, ma la pioggia di fuoco colpì in particolar modo la zona fuori Porta Vecchia nel centro cittadino, dove erano state allestite le giostre per il giorno di festa[20]. 134 furono le vittime, tra cui molti bambini e i due sovversivi, che magari stavano trascorrendo insieme la giornata discutendo sulla crisi di quel regime da loro così odiato e che sarebbe caduto esattamente tre mesi dopo.

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Angelo Maestrini, federale del PNF grossetano, poi podestà di Grosseto (photo credits: V. Guidoni, Cronache grossetane)

Il caso Boschi e le violenze sugli antifascisti furono uno dei motivi che portarono poi all’allontanamento di Maestrini dalla guida del partito e al suo insediamento come podestà (21 marzo 1938), in un ruolo statale comunque prestigioso ma più defilato politicamente, dove si pensava avrebbe potuto metter da parte il suo radicalismo. Come si ricava da un promemoria e da altra documentazione, la sostituzione dal comando della federazione provinciale del partito fu dovuta anche alla sua forte rivalità con il primo vero capo del fascismo maremmano, Ferdinando Pierazzi, ed al fatto che non lo si riteneva adatto a tal compito, ora che il partito doveva provvedere all’inquadramento totalitario dei giovani con la nascita della Gil [21]. Pensiamo inoltre che a suo carico continuasse a pesasse la grave crisi del partito verificatasi alla fine del 1935, quando varie ispezioni e la stessa corrispondenza del segretario amministrativo del Pnf dell’epoca, Giovanni Marinelli, avevano rivelato il suo malfunzionamento, l’impreparazione del personale addetto, gravi irregolarità amministrative e spese non giustificate, come ad esempio quelle relative all’utilizzo dell’auto del federale[22]. Anche nel ruolo di podestà, Maestrini continuò a distinguersi per i conflitti d’interessi, il cumulo delle cariche (fu nominato presidente e direttore tecnico del Consorzio maremmano delle cooperative di produzione e  lavoro e successivamente segretario provinciale dell’Ente nazionale fascista della cooperazione), nonché per l’affarismo, essendo tra l’altro uno dei perni locali di quel sistema di potere vischioso e votato all’illegalità retto esternamente da Biagio Vecchioni, ex federale di Grosseto divenuto poi deputato e infine presidente dell’Istituto nazionale fascista per l’assicurazione contro gli infortuni sul lavoro (Infail)[23]. Protagonista anche al tempo della Repubblica sociale italiana, Maestrini fu tenente colonnello della 98ª Legione Guardia nazionale repubblicana (Gnr) di Grosseto, partecipò a diversi rastrellamenti e dopo la Liberazione del capoluogo maremmano fuggì al nord, dove trovò la morte per mano partigiana nei pressi di Recoaro Terme (Vi)[24]. Boschi e Marconi, vittime della sua violenza, erano già morti. Non fecero in tempo a vedere l’occupazione tedesca e il ritorno del fascismo nella veste della Repubblica sociale italiana, né a prender parte alla guerra di Liberazione nelle file della Resistenza. Ma il coraggio di chi osò disobbedire al regime negli anni del consolidamento della dittatura merita di esser ricordato come un atto di Resistenza.

NOTE:
[1] E. Gentile, Il culto del littorio, Laterza, Roma-Bari, 1993, pp. 47-48
[2] M. Millan, Squadrismo e squadristi nella dittatura fascista, Viella, Roma, 2014
[3] P. Corner, L’opinione popolare e il fascismo negli ultimi anni trenta, “Storia e problemi contemporanei”, n. 46, 2007, p. 17.
[4] M. Grilli, Il governo della città e della provincia in V. Galimi (a cura di), Il fascismo a Grosseto. Figure e articolazioni del potere in provincia (1922-1938), Isgrec-Effigi, Arcidosso, 2018.
[5] ACS, fondo Pnf, situazione politica ed economica delle province, b. 2, f. Grosseto. Lettera del federale Maestrini al segretario nazionale del Pnf Starace. Oggetto: situazione politica, 5 aprile 1937.
[6] Sulla sostituzione di Saletti vedi: ASGR, fondo R. Prefettura, bb. 692, 861; ACS , fondo Pnf, situazione politica ed economica delle province, b. 2, f. Grosseto
[7] ASGR, fondo R. Prefettura, b. 677.
[8] ASGR, fondo R. Prefettura, b. 664. Circolare del prefetto Palici di Suni al questore e al Comando dei CC.RR. di Grosseto. Oggetto: risveglio di attività sovversiva, 9 marzo1936.
[9] Tutte queste segnalazioni sono riportate in ASGR, fondo R. Prefettura, b. 677.
[10] Sui volontari toscani nella guerra civile spagnola vedi: I. Cansella, F. Cecchetti (a cura di), Volontari antifascisti toscani nella guerra civile spagnola, Isgrec-Effigi, Arcidosso, 2012, E. Acciai, I. Cansella, Storie di indesiderabili e di confini. I reduci antifascisti di Spagna nei campi francesi (1939-1941), Isgrec-Effigi, Arcidosso, 2017.
[11] A. Banchi, Si va pel mondo: il partito comunista a Grosseto dalle origini al 1944, a cura d F. Bucci e R. Bugiani, ARCI, Grosseto, 1993, p. 75.
[12] Condannato a morte in contumacia, una volta terminata l’istruzione militare Rosi si arruolò nella Brigata Garibaldi e fu ferito in combattimento. Internato in Francia dopo il ritiro dal fronte delle Brigate internazionali, fu partigiano nel paese transalpino e poi in Italia settentrionale dall’inizio del 1944. Un suo profilo è nel portale Isgrec: Volontari antifascisti toscani tra guerra di Spagna, Francia dei campi, Resistenze, all’indirizzo http://gestionale.isgrec.it/sito_spagna/ita/grossetani/rosi_ita.htm.
[13] ASGR, fondo Questura, b. 429, f. Malandrini Ferruccio. La denunzia a danno dei quattro fu prodotta da Licena Rosi ved. Boschi nell’agosto 1945. Mario Caciai e Carlo Faenzi erano deceduti in Albania in seguito a ferite di guerra, Ferruccio Malandrini fu amnistiato con sentenza del pretore di Grosseto del 25 luglio 1946. Quale iscritto al Partito fascista repubblicano (Pfr) aveva preso parte anche a diversi rastrellamenti antipartigiani. Nel dopoguerra risultava titolare dell’ufficio viaggi e turismo “Avet” e del locale ufficio affissioni, nonché fiduciario del CONI per la riscossione delle giocate effettuate in provincia per il totocalcio. Fu radiato dal Casellario politico centrale il 28 marzo 1955.
[14] Gli altri gerarchi erano il vice-segretario federale Emilio Bertocci, il segretario amministrativo della federazione Guido Chelli, il centurione della milizia Eraldo Ugo Lazzeretti e il segretario del fascio di Arcidosso Carlo Beoni. Nell’interrogatorio in carcere dell’8 novembre 1937 Boschi ricordò così l’accaduto: «La sera del 31 ottobre scorso, in compagnia di Marconi Guglielmo mi diressi alla palestra dell’Onb per assistere alla riunione pugilistica. Poiché il denaro che possedevo non era sufficiente per l’acquisto del biglietto d’ingresso, col Marconi mi misi a passeggiare per la città. In Via Bertani, nell’uscire dal Bar Dopolavoro Maremma, il Marconi si fermò a chiacchierare con un gruppo di conoscenti suoi […] in tutto eravamo sei o sette. Solo conosco il Checcacci, mentre gli altri erano da me conosciuti di vista. Non ricordo chi del gruppo propose di consumare un pollo al Giappone. Siccome detto ristorante ne era sprovvisto, dato anche l’ora tarda, circa le 24, si pensò di recarsi al moderno in Via Corsica. Nel transitare detta Via fu da noi notato il Federale con altri suoi amici, in tutto 4 o 5. Avendo trovato il Moderno chiuso, ritornammo verso la città. Giunti presso il gruppo predetto, fui chiamato dal Federale, al quale io mi avvicinai con ogni riguardo. Il Federale, prendendomi per i capelli, essendo io senza cappello, mi disse: “Che fai a quest’ora in giro” ed io gli risposi “non ho fatto nulla di male, e quindi ho diritto di girare”. Al che fui colpito al viso dal Federale con uno schiaffo. Io reagii. Fu allora che le persone che si accompagnavano al Federale intervennero. Ai colpi di bastone alla testa e di pedate, caddi privo di sensi a terra. Successivamente fui accompagnato, appena rimesso in qualche modo, nella Caserma dei CC. RR. Il Maresciallo Comandante la Stazione, visto il mio stato, mi condusse all’ospedale. Appena si verificò l’incidente vidi i compagni del mio gruppo darsi alla fuga. Non ho mai fatto politica ed ignoravo che qualcuno del mio gruppo fosse sovversivo». ASGR, fondo R. Prefettura, b. 659, f. Boschi Elvino, perseguitato politico.
[15] Oltre a Boschi e Marconi (classe 1905) vi erano i maglianesi Bruno Bruni (classe 1905) e Celso Cecchacci, terrazziere nato nel 1910, i grossetani Adamo Innocenti (classe 1909) e Gaspare Minucci (classe 1908), entrambi facchini, e Aristide Burroni, nato a Montemerano nel 1896, anche lui facchino.
[16] La corrispondenza tra Maestrini e Starace è in ACS, fondo Pnf, situazione politica ed economica delle province, b. 2, f. Grosseto.
[17] A. Banchi, Si va pel mondo, cit. pp. 75-76.
[18] L. Rocchi, La Liberazione di Grosseto. Storia di una Resistenza breve e di un lungo antifascismo nel primo capoluogo toscano liberato, www.toscananovecento.it.
[19] Per i procedimenti giudiziari a carico di Boschi e Marconi vedi: ASGR, fondo R. Prefettura, b. 659, f. Boschi Elvino, perseguitato politico; Ibidem, fondo Questura, Cpc, b. 461, f. Marconi Guglielmo.
[20] Sul bombardamento del 26 aprile 1943 vedi: Silvio Ghiara, Guido Scarlini, Grosseto 26 aprile 1943. Operazione “Uovo di Pasqua”, Innocenti Editore, Grosseto 2003, La ricerca di Giacomo Pacini sul bombardamento del Lunedì di Pasqua del 1943, www.grossetocontemporanea.it. I documenti su questo episodio provenienti da fondi archivistici esteri son conservati presso l’archivio dell’Istituto grossetano della Resistenza e dell’Età contemporanea (Isgrec).
[21] ACS, fondo Pnf, situazione politica ed economica delle province, b. 2, f. Grosseto
[22] ACS, fondo Pnf, servizi vari e carteggi con le federazioni, b. 731.
[23] M. Grilli, Affarismo, corruzione e lotte di fazione: le difficoltà della riforma podestarile in Maremma (1926-1940) in M. Celuzza, E. Vellati (a cura di), La grande trasformazione. Maremma tra epoca lorenese e tempo presente, Isgrec-Effigi, Arcidosso – Gr, 2019, pp. 186-190, 198-202.
[24] ASGR, fondo Questura, b. 429 Cpc, f. Maestrini Angelo.



Cesare Lodovici direttore di «Alalà!» settimanale del Fascio carrarese di combattimento

La ricorrenza del centenario dei fatti di Sarzana è stata un’occasione importante per rileggere e fare il punto (si veda il convegno di studi Resistenza ante litteram. 1921-2021. A cent’anni dai “Fatti di Sarzana”, Sarzana, 16-17 luglio 2021) su un episodio significativo, quasi una momentanea battuta d’arresto, nell’ascesa e nell’affermazione del fascismo in Italia e in particolare nella zona di confine tra Liguria e Toscana dove – proprio a Sarzana – il movimento tardò a prendere piede. Episodio che gli squadristi si affrettarono a definire “eccidio” ma che fu piuttosto un’opposizione ferma delle forze dell’ordine intervenute in quell’occasione e di resistenza popolare, poi, di fronte all’ennesimo assedio che i fascisti tentarono sulla città, questa volta per liberare dal carcere Renato Ricci arrestato il 17 di quello stesso mese.
Tra le tante testimonianze che i giornali si affrettarono a pubblicare nei giorni successivi agli scontri, restava tuttavia parzialmente inedita una lunga e dettagliata cronaca dello scrittore Cesare Vico Lodovici (Carrara, 18 dicembre 1885 – Roma, 24 marzo 1968) e allo stesso modo restava quasi del tutto sconosciuta la sua partecipazione allo squadrismo apuano e all’azione del 21 luglio di cui è, appunto, testimone oculare.
Quasi del tutto perché già nel 1992 lo storico tedesco Roger Engelmann nel libro, mai tradotto in italiano, Provinzfaschismus in Italien. Politische Gewalt und Herrschaftsbildung in der Marmorregion Carrara 1921-1924 (R. Oldenbourg Verlag, Munchen, 1992) indica Lodovici tra i membri del Fascio di Combattimento di Carrara e caporedattore di «Alalà!», settimanale ad esso collegato, che lo scrittore dirige per poco più di due mesi tra il 30 luglio e l’8 ottobre 1921.
Ed è proprio sul numero di «Alalà!» del 30 luglio 1921 che esce il suo resoconto su Come si svolsero i fatti di Sarzana, (ripreso subito dopo da «L’intrepido: settimanale del Fascio di combattimento lucchese» del 14 agosto 1921) a quasi dieci giorni di distanza dagli scontri, sul numero 2 anno I del periodico dove il suo nome figura nell’ultima pagina in basso a destra, nel ruolo di direttore insieme con quello di Lodovico Canepa che ne è gerente responsabile, mentre sul numero precedente del 16 luglio 1921, che corrisponde dunque alla prima uscita del settimanale, il titolo di direttore era affidato al solo Canepa; ed è forse questo il motivo per cui nel regesto di Massimo Bertozzi, La stampa periodica in provincia di Massa Carrara, nella scheda sintetica su «Alalà!», Lodovici non è menzionato (Pacini, Pisa, 1979, pp. 170-171).
Eppure, come emerge dai suoi interventi, il ruolo dello scrittore all’interno del Fascio di combattimento di Carrara non deve essere stato affatto secondario, pur non avendo ricoperto particolari posizioni di comando; né può dirsi anonima l’impronta che la sua direzione imprime al giornale in questo brevissimo ma cruciale lasso di tempo.

Lodovici_La_donna_di_nessunoAllo stesso modo non è trascurabile il ruolo di Lodovici negli ambienti letterari e culturali di quel primissimo scorcio degli anni ‘20 soprattutto per l’eccezionalità delle relazioni che seppe intrecciare e la singolarità della sua scrittura teatrale grazie alla quale il suo nome è ancora citato nelle storie del teatro del Novecento. Amico di Pirandello, di Montale e di Gobetti (solo per citarne alcuni) seppe promuovere presso l’editore torinese, insieme con Sergio Solmi, la pubblicazione del volume degli Ossi di seppia, libro d’esordio di Montale, uscito nel 1925. Del resto Gobetti fu anche editore de L’idiota (1923), uno dei testi teatrali più conosciuti di Lodovici insieme con La donna di nessuno (1920). Infine, bisogna ricordare che ancora oggi è sua la traduzione più accreditata di tutto il Teatro di Shakespeare pubblicato da Einaudi (1965).
Forse a causa di una certa settorialità degli studi, dunque, o forse perché lo stesso Lodovici fin dal 1935, anno in cui si trasferisce a Roma per lavorare come consulente artistico presso l’Ispettorato del teatro, visse appartato con un’accettazione silente ma sofferta del regime fino a quando, nel secondo Dopoguerra, assunse l’incarico di critico teatrale per il quotidiano «La Giustizia», organo del Partito socialista democratico italiano.

La sua adesione al Fascio di combattimento di Carrara e al Partito fascista è comunque facilmente inquadrabile e presenta caratteristiche per certi versi comuni a quella di molti altri intellettuali dell’epoca: reduce dalla Prima guerra mondiale, nella quale aveva perso il fratello minore Vico e guadagnato due medaglie al valore dopo essere stato vittima dei gas asfissianti, nel 1917 Lodovici aveva scontato un anno di prigionia nel carcere di Theresienstadt, in Boemia; laureato in legge, ma scrittore e autore teatrale per vocazione, alle idee liberali univa un forte spirito antiborghese; a ciò si aggiunga, a chiudere il quadro, l’appartenenza a una famiglia di industriali del marmo che a Carrara, come molte altre e più potenti famiglie del comprensorio apuano, Lodovici_L'Idiotapartecipavano strategicamente alla vita politica cittadina aderendo all’una e all’altra organizzazione per mantenere inalterata la propria influenza intorno al tema cruciale del possesso degli agri marmiferi. Negli anni di cui ci stiamo occupando, la crisi politico-sociale del dopoguerra aveva infatti accentuato le aspirazioni delle masse popolari e dei cavatori verso la riappropriazione delle cave, anche in seguito alla proposta di legge mineraria presentata alla Camera dall’on. Eugenio Chiesa il 22 marzo del 1920.
A Carrara il sindaco Edgardo Lami Starnuti non seguì la politica del Ministro, anch’esso repubblicano, e la lotta politica per il possesso delle cave passò nelle mani della Camera del Lavoro di cui in quegli anni era segretario Alberto Meschi. Quest’ultimo, in una Lettera aperta a Benito Mussolini individuava negli esponenti delle famiglie proprietarie degli agri marmiferi i sostenitori e gli aderenti allo squadrismo: Ghino Faggioni e Gualtiero Betti fra tutti e poi quelli che ruotano intorno a questo sistema socio-politico: i Corsi, i Giorgi, i Lodovici, gli Ascoli, i Salvini, i Gattini, i Dell’amico, tutti nomi di famiglie già presenti e poi elette nel Direttivo del Partito liberale a partire dal maggio del 1921.

Ritratto di Lodovici

Ritratto di Lodovici

A gennaio di questo stesso anno, anche Renato Ricci era rientrato in città da Fiume e, iscritto inizialmente al fascio di Pisa, dopo aver fondato l’Associazione dei Reduci fiumani, esordisce nella politica locale all’interno della già menzionata Associazione Democratica Liberale Carrarese che si stava organizzando, appunto, in vista delle elezioni politiche indette per il 15 maggio, dopo lo scioglimento della Camera voluto da Giolitti a fine febbraio. Oltre a Ricci, il «Giornale di Carrara» del 9 aprile 1921, organo di stampa del partito, indica nel nuovo consiglio direttivo liberale anche Tommaso Lodovici, fratello maggiore dello scrittore, poi eletto nel Consiglio comunale presieduto dal sindaco repubblicano Lami Starnuti.
Le elezioni politiche passeranno però in secondo piano dopo che lo stesso Ricci, il 12 maggio di quell’anno, fonda a Carrara la sezione locale dei Fasci di combattimento in cui confluiscono sia gli ex-legionari fiumani sia alcuni membri dell’appena rinnovato Partito liberale.
Nei mesi successivi i giornali locali iniziano il racconto degli scontri e delle violenze che da quel momento in poi furono all’ordine del giorno, così come gli atti provocatori e le vendette che lo squadrismo locale organizzò nel territorio apuano contro socialisti e anarchici e, all’inizio dell’anno successivo, all’interno dello stesso movimento fascista provocando la fine dell’alleanza tra liberali e repubblicani e la conseguente caduta dell’amministrazione Lami Starnuti a gennaio del 1922: a questo punto la spaccatura tra squadristi intransigenti e normalizzatori fu insanabile.
Lodovici appartiene chiaramente alla seconda delle due, all’ala moderata del partito come si deduce dai suoi interventi sulle colonne di «Alalà!»: favorevole ai Patti di pacificazione, egli conferma più volte la sua posizione statalista e pubblica accorati appelli alla disciplina in cui chiede con forza la fine della violenza.
La sua fiducia nel capo, anche dopo le dimissioni di Mussolini, non verrà mai meno – almeno in questo periodo – ed egli tenta più volte di riportare all’unità le divergenze interne al movimento, per cui fu uno dei sostenitori della necessità di trasformare il movimento dei Fasci di combattimento in un vero partito politico, cosa che accadrà a Roma il successivo 8 novembre.
L’azione politica del nuovo partito dovrà basarsi, secondo Lodovici, su un programma di rinnovamento civile e sociale a partire dalla questione che, più di ogni altra a Carrara, aveva scatenato gli scontri tra fascisti, socialisti e anarchici: il controllo degli agri marmiferi e il commercio del marmo che non potevano essere separati dal controllo della Camera del Lavoro. Ai primi di settembre, infatti, i fascisti annunciano la costituzione della Camera Carrarese dei Sindacati Economici invitando gli operai ad associarsi e a ritirare le tessere.
Lo scontro allora fu inevitabile: alcuni industriali iniziarono ad esigere la tessera fascista e a licenziare chi, invece, continuava ad avere quella della Camera del Lavoro. Nel mese di settembre la violenza, mai veramente cessata, diventò di nuovo lo strumento principale della politica fascista e fu diretta ancora più apertamente contro i rappresentanti del sindacato.

Lodovici in auto [1923]

Lodovici in auto [1923]

Ad ottobre Renato Ricci concedeva ad Alberto Meschi due ore di tempo per lasciare la città e sgomberare l’edificio in cui aveva sede la Camera del Lavoro.
A questo punto Lodovici pubblica su «Alalà!» ancora un paio di articoli: il 20 settembre partecipa alla manifestazione per la Solenne Consegna del Gagliardetto al Fascio Carrarese di Combattimento e prende la parola con Ricci, Faggioni e Dino Perrone Compagni per ricordare i termini della lotta tra il Sindacato e la Camera del lavoro.
Sarà uno dei suoi ultimi contributi perché l’8 ottobre del 1921 pubblica il suo Congedo in una lettera in cui saluta Renato Ricci, defilandosi così dall’esperienza squadrista e dalla direzione del giornale.
Sul numero successivo, del 15 ottobre 1921, Lodovici non è più indicato come direttore del settimanale, la grafica del periodico è completamente cambiata e l’unico gerente responsabile è di nuovo Lodovico Canepa. Anzi il 29 ottobre, quando Lodovici interviene con un ultimo articolo, una nota della direzione precisa che quell’articolo non impegna alcun fascista a dover condividere tutte le idee esposte.
Nel 1923 Lodovici tentò ancora una volta, ma senza successo, di riconciliare le due correnti del fascismo carrarese quando Ricci si scontrò con il nuovo sindaco di Carrara, Bernardo Pocherra, costringendo alle dimissioni lui e l’ala liberal-conservatrice del partito.
Probabilmente, già a questa altezza cronologica, la fiducia che Lodovici poteva ancora riporre in una possibile svolta liberale del fascismo doveva essere minima e ciò spiega in qualche modo sia la solidarietà e l’amicizia dimostrata a Piero Gobetti sia il suo impegno nella direzione del «Quindicinale», rivista da lui fondata a Milano nel 1926 con Enrico Somarè, che non fu certamente su posizioni filo-fasciste.
È significativa, in questo senso, una lettera da Viareggio del 9 giugno 1923 in cui Lodovici esprime a Gobetti la sua solidarietà: «Ho sentito le sue disavventure; in parola d’onore io non capisco più il mondo – come quel legnaiolo di Hebbel nella Maria Maddalena. Ma: passerà. Io sono convinto che il liberalismo illuminato sarà l’erede del fascismo
Il 19 luglio del 1930 è ancora di Lodovici la firma in calce alla Vibrante e commossa rievocazione dei fatti di Sarzana pubblicata su «Il popolo apuano», organo della federazione provinciale fascista, per commemorare i morti del 21 luglio; ma già nell’autunno del ‘21, quando si congedava da Ricci, Lodovici doveva aver compreso che il liberalismo illuminato sarebbe arrivato probabilmente solo dopo la fine del fascismo.

Le foto pubblicate in questo articolo sono del prof. Gualtiero Magnani di Carrara, che ringraziamo per la gentile concessione. Ogni altro uso, condivisione con terzi e riproduzione non sono consentite.




“Rifarei tutte quelle scelte”: essere comunisti a Massarosa

Silvano Simonetti (Massarosa, 1951) è stato rappresentante sindacale per la FIOM CGIL e membro del direttivo provinciale del sindacato metalmeccanico. Ha ricoperto per molti anni la carica di consigliere comunale nelle file del Partito comunista italiano, e dal 2006 al 2011 è stato assessore provinciale a Lucca per il Partito dei comunisti italiani(PdCI)1.

Quando ti sei avvicinato al PCI? Cosa significava la scelta della militanza comunista in un territorio come quello di Massarosa, tradizionalmente conservatore?

Mi sono avvicinato al PCI nel 1976, dopo tre anni come responsabile sindacale di una azienda metalmeccanica nelle file della FIOM. Quella scelta convinta in un territorio come Massarosa mi creò non poche inimicizie: molti conoscenti non mi salutarono più, e molti altri mi chiedevano come mai un giovane così intelligente aveva fatto quella scelta. Ovviamente questo rafforzò la mia decisione, mentre mi aprì le porte a nuove conoscenze e condivisioni – molte delle quali non si sarebbero più interrotte.

Perché proprio il PCI e non – ad esempio – il Partito socialista, le cui radici pure affondavano nella tradizione del movimento operaio?

Scelsi il PCI perché era un partito rigoroso e coerente, con solide radici nella gente più debole. Fu anche il desiderio di riscatto personale in ambito collettivo verso tutte quelle ingiustizie che venivano consumate ai danni dei familiari, amici e conoscenti.

Presidio davanti alla fabbrica “Apice” di Bozzano, anni ’70 (archivio PCI – circolo di Massarosa)

Tra il 1989 e il 1991 tanto l’Unione Sovietica quanto il PCI cessano di esistere, con quest’ultimo che intraprende quel percorso che lo porterà a mutare profondamente la propria fisionomia. Quale ruolo ricoprivi allora nel partito? E quale fu il tuo giudizio sulla “svolta della Bolognina”?

A partire dalla metà degli anni ’50 ci furono alcuni episodi che facevano intravedere una difficoltà a tradurre in buone pratiche correnti gli intenti della Rivoluzione d’ottobre. Cominciò a scricchiolare la fede quasi incondizionata nei confronti del blocco sovietico, fino allo strappo praticato da Enrico Berliguer che dichiarò esaurita la spinta propulsiva. Da lì si consolidò sempre più la via italiana al comunismo2.

All’epoca della Bolognina ero membro del comitato politico federale e della segreteria di sezione a Massarosa: fu un passaggio molto doloroso perché in pochi giorni ci fu una divisione tra semplici compagni, dirigenti e popolazione3. Fatto emblematico fu il riposizionamento di molti dei quadri dirigenti i quali, dopo una immediata contrarietà alla scelta, cambiarono subito la propria posizione. Da questa normalizzazione capii che il guasto era probabilmente e potenzialmente già latente. La disgregazione del Partito fu molto rapida e trovò il suo epilogo con il successivo congresso nazionale, articolato su tre mozioni.

Telegramma di E. Berlinguer alla sezione massarosese del PCI, 1979: “Mi congratulo calorosamente con vostra sezione per positivo risultato tesseramento et reclutamento prime giornate campagna 1980 STOP proseguite iniziativa rafforzare partito et estendere suoi legami con masse popolari STOP nuovi successi tesseramento sono migliore risposta at attacchi et campagne contro nostro partito et garanzia sviluppo nostra azione per rinnovamento sociale et politico STOP fraterni saluti e buon lavoro.” (archivio PCI – Circolo di Massarosa)

Cosa guidò le tue successive scelte politiche? Prendesti in considerazione l’idea di aderire al neonato PDS?

Per ciò che mi riguarda aderii fin da subito alla costruzione del Movimento della Rifondazione comunista insieme a tante compagne e compagni, anche in Versilia e a Massarosa. Non ho mai pensato di aderire al PDS perché avevo ben capito che si trattava di una operazione che andava in altra direzione rispetto a quelle aspettative che mi avevano portato ad entrare nel PCI. A distanza di tempo posso dire che oggi rifarei tutte quelle scelte.

1 Formazione costituitasi nel 1998 da una scissione di Rifondazione comunista, in disaccordo con la scelta di quest’ultima di non continuare ad appoggiare il Governo Prodi I: il partito – fondato da Armando Cossutta e Oliviero Diliberto – nel 2016 confluisce nel nuovo Partito comunista italiano, che riprende nome e simbolo del PCI storico.

2 Dagli anni ’50 in avanti la sinistra italiana ripensa progressivamente il proprio rapporto con l’URSS: se nel 1956 il PSI è nettamente schierato contro l’intervento sovietico in Ungheria (“È tradito l’internazionalismo proletario!”, scriverà Pietro Nenni nel suo diario, in P. Mattera, Storia del PSI. 1892-1994, Carocci, Roma 2010, p. 166), nel PCI le voci contrarie sono minoritarie (ad es. Giuseppe Di Vittorio, che in qualità di segretario della CGIL emana un comunicato di condanna non gradito ai dirigenti comunisti; vedi anche A. Vittoria, Storia del PCI. 1921-1991, Carocci, Roma 2006, pp. 83-86); un decennio dopo ben altra analisi fornirà Luigi Longo, succeduto a Togliatti alla guida del partito, nell’approccio all’invasione della Cecoslovacchia: pur ribadendo la superiorità del modello socialista e il ruolo indiscutibilmente di primo piano dell’URSS nella lotta all’imperialismo e per la pace, Longo prende infatti le difese di Dubcek e dei suoi collaboratori, sostenendo che debbano esservi più vie per la costruzione del socialismo (per una lettura più approfondita si consiglia L. Longo, Sui fatti di Cecoslovacchia, Editori Riuniti, 1968).

3 Il documento più eloquente di questa profonda divisione in seno alla galassia del PCI è senz’altro il docu-film “La Cosa” di Nanni Moretti (1990, Sacher Film).




Arduino Lazzaretti e Aurelio Regini

Seconda parte di questa breve rassegna di profili di esponenti del Partito comunista d’Italia dell’area fiorentino-pratese.

LAZZERETTI Arduino

(Lastra a Signa, 17 aprile 1893 – lager di Severo-Vostočnyj, baia di Nagaev 15 gennaio 1938)

 Figlio di Santi e di Maria Guarnieri, di famiglia contadina, bracciante e macellaio, impegnato alla Camera del Lavoro, pur senza cariche e iscritto al PCd’I fin dalla fondazione, dopo una militanza nel partito socialista. Domiciliato a Porto di Mezzo, frazione del Comune di Lastra a Signa, è  considerato comunista pericoloso. Per sottrarsi alle rappresaglie degli squadristi fiorentini e all’arresto con l’accusa di complicità corrispettiva di omicidio e mancato omicidio commessi contro i fascisti il 30 ottobre 1921, emigra clandestinamente prima in Francia e nel 1923 in Unione Sovietica: è perciò iscritto nella Rubrica dei sovversivi pericolosi e attentatori residenti all’estero, al n°2552 e nel Bollettino delle ricerche: il 22 febbraio 1925 infatti la Corte d’Assise di Firenze lo aveva condannato in contumacia a 30 anni di reclusione e a 9 di vigilanza speciale. Il cenno biografico stilato il 13 maggio dello stesso anno lo presenta di carattere «impulsivo, di mediocre intelligenza … assiduo al lavoro … verso la famiglia si comporta bene … spavaldo e prepotente verso le Autorità». In merito alla sua attività di oppositore del regime fascista «Non è capace di tenere conferenze; però ha preso parte a tutte le riunioni e manifestazioni sovversive in qualsiasi circostanza, dimostrandosi sempre violento e pericoloso per commettere reati politici». Il 20 maggio 1925 la Prefettura di Firenze comunica al Ministero dell’Interno che egli risiede a Parigi, in rue S. Martin Notre Dame de Nazareth, secondo un’informazione estorta ad un suo compaesano: la conseguente domanda di estradizione a suo carico è però respinta dalle autorità francesi. La ricerca ossessiva del «pericoloso comunista» giunge allo stretto controllo della corrispondenza dei suoi familiari: in una lettera della madre una postilla della sorella Vittoria raccomanda ad Arduino di indirizzare la sua posta alla famiglia di Giuseppe Montani, alle cui dipendenze lavora il padre Santi, perché la loro casa è sottoposta a frequenti perquisizioni da parte dei carabinieri. Sappiamo che nel corso del 1931 emigra nell’Unione Sovietica, dove il suo recapito a Mosca e l’attività lavorativa rimangono a lungo sconosciuti alle autorità fasciste, mentre una prefettizia risalente al 6 ottobre 1933 ci fa sapere che Arduino «è stato inserito nell’elenco dei sovversivi classificati attentatori o comunque capaci di atti terroristici, residenti all’estero», finché in data 1° luglio 1937 un telespresso  dell’ambasciata italiana riferisce che la sua residenza a Mosca è in via Bolsaia Grusinskaia, n° 19, app. II, ma che da diversi mesi  si trova in carcere sotto l’accusa di trockismo. L’arresto è sicuramente avvenuto dopo il 30 settembre dell’anno precedente, quando una lettera di Arduino al padre lo informa di stare bene, così come la moglie e i figli, Lisa e Alfredo e di essere stato nominato Tenente anziano della guardia rossa; inoltre ancora in una nota della Prefettura di Firenze del 30 gennaio 1937 egli è segnalato come impegnato a svolgere propaganda comunista in Russia unitamente ad altri comunisti italiani ivi immigrati: ancora a quell’epoca dunque egli risulta libero cittadino sovietico. L’ultima prefettizia che lo riguarda risale all’8 luglio 1942, quando ormai le relazioni diplomatiche fra l’Italia fascista e l’URSS sono interrotte dallo stato di guerra, per registrare che da tempo di lui non si hanno più notizie. Eppure la sua situazione già dall’estate del 1936 si stava deteriorando, in quanto risulta che fin dal 9 agosto 1936 era stato espulso dal PCU(b) per finire arrestato dall’NKVD il 29 aprile 1937 con l’accusa di «aver partecipato, nel 1927, a una riunione illegale alla quale era intervenuto Trockij». E’ interrogato e detenuto nel carcere di Butyrki insieme al compagno Giuseppe Sensi. L’8 agosto 1937 è condannato a cinque anni di lager da scontarsi a Severo-Vostočnyj (baia di Nagaev), dove muore il 15 gennaio 1938. Il percorso politico e professionale di Arduino in Unione Sovietica è costituito dall’iniziale approdo alla casa dell’immigrato politico di Mosca fino a prendere la cittadinanza sovietica nel 1932 e alla successiva militanza nel partito comunista bolscevico e dal successivo impiego come direttore di mensa in un salumificio per poi divenire ispettore della milizia. Caduto in disgrazia, perde il lavoro ed è costretto ad impiegarsi provvisoriamente come operaio al cantiere della metropolitana di Mosca. Tra il 1936 e il 1937 i dirigenti del PCd’I che lavorano alla Sezione quadri del Comintern prendono più volte in esame il suo caso e nel ricostruire la sua biografia e le sue posizioni politiche lo segnalano come bordighista. Il 4 luglio 1956 le autorità sovietiche lo riabilitano. Nel 50° anniversario della Liberazione di Lastra a Signa viene eretto un monumento a ricordo di tutti coloro che hanno combattuto per la libertà: Arduino è fra costoro.

 FONTI: Archivio Centrale dello Stato (Roma), Ministero dell’Interno, Direzione Generale di Pubblica Sicurezza, Direzione affari generali e riservati, Casellario Politico Centrale, ad nomen; Memorial, Archivio di Stato della Federazione Russa, Fondo degli atti istruttori 10035, op.1, P. 26343, cc. 27, 1937-1957; E. Dundovich, F. Gori, E. Guercetti, Reflections on the gulag: with a documentary index on the italians victims of repression in USSR, Milano Fndazione G. Feltrinelli, 2003; G. Lehner con F. Bigazzi, La tragedia dei comunisti italiani, Milano Mondadori, 2001; www. gulag-italia.com, scheda personale di Arduino Lazzeretti.

Regini006REGINI Aurelio (Domenico Carpi)

(Empoli, Firenze 24.12.1903 – U.R.S.S., ?)

Figlio di Serafino e Meucci Maria Assunta, cenciaiolo, comunista. Quando la Prefettura di Firenze stila il cenno biografico che lo riguarda, il 30 novembre 1937, la sua parabola di vita e il suo impegno politico nelle file del partito comunista volgono alla fine. E’ considerato di carattere taciturno ma abbastanza intelligente oltre che discreto lavoratore. Sebbene in famiglia si comporti bene, è giudicato pericoloso per le sue frequentazioni di elementi sovversivi ed il suo contegno sovente sprezzante verso le autorità. Nel 1922 emigra in Francia con regolare passaporto e dopo cinque anni si trasferisce in Belgio. In Francia, fino al 1925 risiede a Longwy (Meurthe et Moselle), dove svolge attività politica come persona di fiducia del Pci in qualità di responsabile dei collegamenti con i comunisti residenti in Lussemburgo. Dopo un breve rientro in Italia per visitare la famiglia che risiede a S. Martino a Pontorme, nell’immediata periferia di Empoli, il 13 settembre 1926 gli viene rilasciato un nuovo passaporto per trasferirsi ancora in Francia. A partire dal 1927 abita e lavora in Belgio, a Ougrée, Liegi, rue Ferdinand Nicolary, n°117, dove svolge la funzione di segretario della sezione cittadina del Soccorso rosso internazionale. Il 24 gennaio 1930 è’ imputato dell’omicidio del fascista Fernando Poloni, sulla base dell’unica testimonianza del fratello della vittima, avvenuto il 25 dicembre dell’anno precedente, proprio nel quartiere dove abita. Nonostante l’immediato arresto di Giovanni Cantini, gerente di un piccolo caffè, anch’egli originario di Empoli, di Salvatore Budroni, minatore di Oschiri (Sassari), anch’egli collettore del Soccorso rosso e di Egidio Rampioni, muratore comunista di Fano (Pesaro), sospettati di complicità, Aurelio riesce a sfuggire alla cattura dirigendosi verso Arlon, con l’intento di varcare la frontiera del Lussemburgo. L’accusa di omicidio contrasta con le notizie del Consolato d’Italia a Liegi, secondo le quali Aurelio «aveva assunto un atteggiamento riservato e tranquillo». La perquisizione effettuata a carico del fratello Emilio su iniziativa della Prefettura di Firenze conduce la polizia a individuare la sua residenza in Belgio, ma una lettera del fratello Luigi, anch’egli emigrato, del 21 marzo 1930, indirizzata proprio ad Emilio, riferisce che Aurelio è riparato in Russia in seguito ai fatti di Liegi, con l’aiuto di un compagno, Fantin Flora, che gli consegna denaro e vestiti. Ma intanto le autorità belghe avevano provveduto ad espellerlo il 24 febbraio e la Corte d’Assise di Liegi a condannarlo in contumacia alla pena capitale nel gennaio del 1931: da quel momento la polizia fascista si sforza di seguire la vita e gli spostamenti di Aurelio in territorio sovietico. Nell’aprile 1932 egli comunica alla sorella Maria di essersi sposato con una ragazza di padre russo e di madre italiana, Tamara, dalla quale ha avuto un figlio, Romolo. In Urss Regini, oltre a lavorare come tornitore presso un’industria moscovita, continua a svolgere attività antifascista organizzando spedizioni in Italia di diversi pacchi di manifestini di ispirazione comunista destinati all’opposizione clandestina, mentre nella dimensione privata continua a intrattenere rapporti epistolari con i fratelli e la sorella Maria, alla quale chiede di informare la famiglia del compagno Cafiero Lucchesi di Prato che il loro congiunto sta bene. La Regia Ambasciata d’Italia a Mosca alla fine del 1936, nel confermare che da almeno un anno Regini lavora a Sebastopoli e in vari porti del mar Nero, avanza l’ipotesi che la sua attività politica sia costituita da propaganda sovversiva rivolta ai marittimi italiani che frequentano quei porti, senza tuttavia escludere che una possibile ragione del trasferimento in questa località sia dovuta alla sua tubercolosi e alla necessità di un clima più mite rispetto a quello moscovita. In occasione dell’inizio della guerra civile spagnola e del successivo intervento di un corpo di spedizione fascista in Spagna, in una lettera alla sorella Regini mostra di essere informato sulle operazioni militari italiane e sulla sconfitta subita dai fascisti ad opera delle forze repubblicane e dei volontari della Brigata “Garibaldi” a Guadalajara, esprimendo compassione per i militari italiani inviati in Spagna per volontà del duce: «Poveri soldati ingannati!». Il 17 giugno 1938il Consolato italiano di Nancy, che sorveglia la vita del fratello Luigi, dà la notizia che Aurelio forse è deceduto: l’informazione contrasta con l’invio della posta di Aurelio alla sorella ancora in date successive alla sua presunta morte, quando, in particolare il 25 ottobre successivo, egli fa riferimento ai preparativi per l’imminente festa per l’anniversario della Rivoluzione, mentre in Italia c’è stato l’anniversario «della miseria e fame mortale e basta». Ma la situazione cambia rapidamente in modo drammatico: un telespresso della R. Ambasciata di Mosca del 10 gennaio 1939 dà notizia che Regini «sarebbe da alcun tempo caduto in disgrazia di fronte al partito per le sue relazioni con dei fuorusciti italiani … attualmente arrestati perché ostili o poco ortodossi nei riguardi del regime staliniano». In data imprecisata Aurelio seguirà la sorte di molti comunisti che saranno incarcerati ed eliminati dal regime di Stalin, fra i quali il suo amico pratese.

FONTI: Archivio Centrale dello Stato, Ministero dell’Interno, Direzione Generale di Pubblica Sicurezza, affari generali e riservati, Casellario Politico Centrale, busta 4269; http://www.memorialitalia.it/archivio/mem/gulagframeset_ita.html.