Livia Gereschi (1910-1944)

Livia Gereschi

Nasce a Pisa nel gennaio del 1910 dall’insegnante Giuseppina Gucci e dal commercialista Giuseppe Gereschi. Dopo la laurea intraprende la carriera di insegnante di lingue straniere nei corsi di avviamento professionale, seguendo così le orme materne. Si dedica inoltre al volontariato come infermiera della Croce rossa italiana, prestando servizio presso l’ospedale Santa Chiara di Pisa e l’ambulatorio di pronto soccorso.

Nel 1944, a seguito dei bombardamenti su Pisa, è costretta a sfollare insieme alla madre a Pugnano, una frazione del Comune di San Giuliano Terme situata nella valle del Serchio, trovando ricovero in una stalla abbandonata adibita a rifugio, insieme a molti altri civili provenienti principalmente da Pisa e Livorno. La conoscenza del tedesco rende Livia un prezioso tramite tra le forze di occupazione naziste e le autorità locali: presta infatti servizio come interprete.

L’area dei Monti Pisani, dove sfollano le Gereschi, è zona di azione della formazione partigiana “Nevilio Casarosa”, attiva su quel territorio tra la fine di luglio e i primi di agosto 1944. Dall’altra parte i tedeschi stanno attuando anche in questo settore della Toscana una “ritirata aggressiva” che include l’uso estensivo della violenza contro i civili, non solo come forma di ritorsione indiscriminata nei confronti dei partigiani, ma anche per vendetta contro popolazioni considerate ostili e per procurarsi manodopera forzata.

Durante la notte tra il 6 e il 7 agosto le truppe della 16ª SS-Panzergrenadier-Division “Reichsführer-SS” e della 65ª Infanterie-Division della Wehrmacht effettuano un rastrellamento nella località La Romagna, presso Molina di Quosa, catturando circa 300 civili. L’intento è quello di ottenere informazioni sull’organizzazione partigiana, minacciando la popolazione di gravi rappresaglie.

In questo contesto, Livia diviene l’unico tramite tra i prigionieri e i nazisti e, dopo lunghe trattative, riesce a ottenere il rilascio di donne e bambini. Ciononostante, l’insegnante viene trattenuta con il gruppo degli uomini considerati inabili al lavoro e trasferita nella scuola media di Nozzano, in provincia di Lucca, dove la 16ª Divisione ha la propria base operativa. Qui rimane prigioniera in condizioni durissime per diversi giorni, subendo violenze e maltrattamenti. L’11 agosto 1944, insieme ad altri prigionieri, viene condotta in località La Sassaia, presso Massarosa, in provincia di Lucca, e fucilata.

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Deposizione della madre Giuseppina Gucci, 1947, in: Michele Battini, Paolo Pezzino, “Guerra ai civili. Occupazione tedesca e politica del massacro. Toscana 1944“, Venezia, Marsilio, 1997, p. 508. La deposizione fu resa durante il processo contro il generale della Wehrmacht Max Simon, che si tenne a Padova nel 1947.

Livia Gereschi

Nell’agosto 1944 ero sfollata con mia figlia Livia Gereschi al paese di Romagna, sulle montagne di Molina di Quosa. All’alba del 7 agosto 1944 un’unità di ss tedesche fece irruzione in paese con il pretesto di dare la caccia ai partigiani. Le case e le baracche furono circondate dai tedeschi e uomini e donne senza distinzione furono costretti ad uscire e radunati in un grande prato.
Gli uomini furono separati dalle donne, gli ufficiali delle ss si rivolsero alle donne, minacciandole di morte se non avessero rivelato i nomi e il domicilio dei partigiani. Siccome le donne non dissero nulla i tedeschi decisero di ricorrere alla deportazione di tutte le persone rastrellate.
Gli uomini furono divisi in due gruppi; il primo gruppo era formato da uomini che accettarono di lavorare, il secondo gruppo era costituito da coloro che, avendo una qualche infermità, avevano chiesto di essere portati da un dottore per la visita medica.
Tra le donne c’era mia figlia, un’infermiera volontaria della Croce rossa che, parlando il tedesco correntemente, funse da interprete, ottenendo dopo molte ore il rilascio di tutte le donne, ma lei, senza un motivo, venne trattenuta e dovette raggiungere il gruppo dei disabili (circa 70 uomini), insieme ai quali camminò fino a Nozzano, dove poi furono rinchiusi nei locali della scuola. In questa scuola mia figlia funse ancora da interprete, ciononostante venne trattata sempre con modi brutali.
L’11 agosto i tedeschi iniziarono a portar via a piccoli gruppi gli sventurati, che credevano di essere portati a Lucca per la visita medica come gli era stato assicurato. Invece furono portati in aperta campagna ed uccisi a colpi di mitra.
Verso le 17.00 dello stesso giorno, le 29 persone che erano rimaste, tra le quali si trovava anche mia figlia, furono fatte salire su di un camion e condotte a “La Sassaia” una piccola borgata nel Comune di Corsanovo. Là furono radunati in un luogo solitario e al cenno di un ufficiale furono uccisi a colpi di mitraglia. L’ufficiale li finì sparando loro con la pistola. I tedeschi delle ss non vollero seppellire i corpi quella stessa sera. Il giorno dopo giunsero altri giovani rastrellati dalle ss e furono costretti a scavare una fossa comune. I tedeschi non permisero che mia figlia – l’unica donna – fosse sepolta in una tomba separata.




Giuseppina Pillitteri Garemi, detta Unica (1909-2001)

Giuseppina Pillitteri

Nasce a Genova nel 1909 da una famiglia di tradizioni anarchiche e sovversive. Antifascista della prima ora, insieme al marito emigra per motivi di lavoro e politici in Francia, dove risiede fino al 1943. Rimasta vedova, prosegue la sua attività politica in clandestinità frequentando gli ambienti degli esuli antifascisti nell’Île-de-France e iscrivendosi nel 1941 al PCd’I. Conosce Ideale Guelfi, che diverrà suo marito, anch’egli comunista, combattente volontario in Spagna, partigiano e primo sindaco di Cascina dopo la Liberazione.

Il 25 luglio 1943, rientrata in Italia, rischia di essere fucilata a Genova durante una manifestazione antifascista. Nel settembre dello stesso anno arriva a Pisa, dove partecipa attivamente alle attività cospirative e alla nascita della Resistenza. Con il nome di battaglia “Unica”, lavora soprattutto come staffetta, tenendo i contatti con la direzione del PCI di Firenze. Trasporta e trasmette materiali di propaganda, stampa e direttive in quasi tutta la Toscana, rischiando più volte la vita nel corso di questa attività.

Nei primi mesi del 1944 segue il gruppo dei primi partigiani che salgono sul Monte Pisano per organizzare azioni di disturbo. Funge da dattilografa, segretaria e anche infermiera del gruppo, continuando la sua attività di staffetta e tenendo i collegamenti con il CLN. È l’unica donna di Pisa stabilmente in formazione con la 23a Brigata Garibaldi, distaccamento “Nevilio Casarosa”.

Ai primi di agosto del 1944, presso l’accampamento del Monte Pruno (sopra Calci), viene sorpresa, insieme a un nutrito gruppo di partigiani della Casarosa, da una compagnia tedesca guidata da una spia fascista; nel combattimento trovano la morte due partigiani ed il resto del gruppo è costretto a fuggire e riparare sul versante lucchese del monte. La mattina del 2 settembre entra a Pisa con i compagni del suo distaccamento andando incontro alle truppe alleate.

Giuseppina Pillitteri

Dopo la Liberazione prosegue la sua attività nei Gruppi di difesa della donna, di cui è stata una delle responsabili in clandestinità. Riconosciuta patriota, è tra le fondatrici dell’UDI pisana e dal 1946 entra nella segreteria provinciale del PCI con l’incarico di responsabile della Commissione femminile della federazione. Muore a Pisa nel 2001.

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Testimonianza raccolta da Annamaria Galoppini in Donne e resistenza. Atti del convegno, Pisa, 19 giugno 1978, Pisa, Tipografia comunale, 1979, pp. 121-4; riedita in Laura Fantone, Ippolita Franciosi (a cura di), (R)esistenze. Il passaggio della staffetta, Napoli, Scriptaweb, 2009, pp. 27-9.

II 9 settembre 1943 sono venuta a Pisa dove ho cominciato il lavoro di staffetta da una parte all’altra. In questo periodo ho avuto due avventure eccezionali: io avevo il compito di preparare il materiale dattilografato che veniva poi distribuito, nelle chiese e nelle cassette delle lettere. Sono stata l’unica donna di Pisa che è andata stabilmente in formazione (ero con la 23a Brigata Garibaldi, formazione Nevilio Casarosa). In quel momento mi chiesero da Firenze di andare là a portare questa stampa. Avevo contatti con la direzione del PCI a Firenze e trasmettevo la stampa e portavo le direttive a quasi tutta la Toscana. La tipografia si trovava a Empoli, dove passavo le nottate sotto i bombardamenti alla stazione. Da Firenze andavo poi a Empoli presso la tipografia. Per arrivare a questa tipografia dovevo passare davanti alla caserma della Milizia perché non c’era modo di fare altrimenti. Riprendevo poi la stampa e la portavo a Firenze da dove veniva distribuita ad Arezzo, a Pisa e in altre località. Mi trovai alla stazione di Firenze quando i gappisti uccisero Gobbi,[1] un centurione della milizia repubblichina. Quella volta arrivai a Firenze con due valigie piene di materiale, che invece dovevo far credere leggere perché c’era il pericolo che le prendessero per merce a mercato nero. Rimasi bloccata in stazione e si sparse la voce dell’uccisione di Gobbi. Alla porta c’erano i fascisti, i tedeschi, le guardie e i ferrovieri – i quali mi hanno aiutato tanto. Nella sala d’aspetto venivano a guardare cosa portavamo nelle borse, in tutte le maniere si doveva passare alla visita dei bagagli, non si poteva andare al caffè perché non c’era la porta d’uscita e anche lì venivano a guardare le valigie. Mi sono allora recata all’uscita, la gente passava, ho cominciato ad allacciarmi le scarpe, a tirare su le calze, tanto per guadagnar tempo. Ad un certo punto un ferroviere mi ha detto di passare, viste le difficoltà in cui mi trovavo di proposito. Pian piano le guardie si sono dileguate e sono passata, come si suol dire, per il rotto della cuffia. In quei momenti conviene abbandonare tutto e scappare, ma avevamo tanta preoccupazione perché per fare del materiale ci volevano soldi, tempo, elementi adatti, sicché il materiale per noi era prezioso e ci andava giù male buttarlo via. Doveva arrivare a destinazione con assoluta puntualità perché altrimenti si metteva a repentaglio la vita della persona che doveva dare il cambio. Infine, sono riuscita a passare, ma sempre con la paura, strada facendo, che mi fermassero. […] Un’altra volta, sempre alla stazione di Firenze, si aprì completamente il fagotto che avevo messo nel bagagliaio. Nell’andare a riprenderlo mi cascò tutto il materiale, il ferroviere se ne accorse, ma mi richiuse lui il pacco e mi lasciò andare. I ferrovieri mi hanno sempre aiutato, addirittura mi portavano i bagagli. […] Questa vita di postina l’ho fatta fino alla Liberazione di Pisa nel settembre 1944.




Teresa Toniolo (1890-1970)

Teresa Toniolo (a destra) al convegno provinciale del CIF nel 1966.

Teresa Toniolo nasce a Pisa nel 1890, ultima di sette figli, da Giuseppe Toniolo, professore di Economia nel locale ateneo e importante intellettuale cattolico, e Maria Schiratti.

E’ attiva politicamente già nel primo dopoguerra per la campagna di estensione del voto alle donne e come vicesegretaria nazionale della Sezione femminile del Partito popolare; negli stessi anni si fa portavoce della denuncia delle violenze fasciste. Bibliotecaria all’Università, si impegna nell’associazionismo cattolico, in contatto con numerose figure che frequentano la cerchia paterna.

Proprio in quel 31 agosto 1943 in cui i bombardamenti devastano la città, in casa Toniolo è in corso la prima riunione della Democrazia cristiana a Pisa. E sempre in casa sua dopo l’8 settembre 1943 si tengono inizialmente le riunioni del CLN provinciale. Grazie ad un avvertimento di Toniolo riguardo una possibile spia, il CLN dell’Alta Italia (CLNAI), riunito a Genova, riesce a scampare ad un’imboscata alla fine del 1943.

Teresa Toniolo permette di tenere stretti collegamenti fra il CLN e i vari gruppi partigiani; svolge attività di assistenza, tra gli altri, ad ebrei, prigionieri inglesi e renitenti alla leva fascista; finge di operare come crocerossina in una “casa di cura” improvvisata, in cui sostanzialmente nasconde alcuni di essi come “malati”. Inoltre si adopera affinché, dopo l’eccidio nazista avvenuto il 1° agosto 1944 nella casa del presidente della Comunità ebraica cittadina Giuseppe Pardo Roques, i corpi delle 12 persone trucidate vengano seppelliti.

La sua figura è infine legata all’organizzazione nell’aprile 1944 della sezione cittadina del Centro italiano femminile (CIF), tramite la quale fornisce assistenza ai bisognosi nella zona urbana, pesantemente provata dalla fame, dai bombardamenti e dall’occupazione. Teresa, che non farà domanda di riconoscimento dell’attività clandestina, continuerà nel dopoguerra a svolgere il ruolo di dirigente del CIF e sarà consigliera comunale della Democrazia cristiana dal 1950 al 1955.

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🟦Paolo Emilio Taviani, Politica a memoria d’uomo, Bologna, Il Mulino, 2002, p. 46. Il genovese Paolo Emilio Taviani (1912-2001) fu tra i massimi esponenti della Resistenza cattolica e poi importante personalità della Democrazia cristiana. Conosceva Teresa Toniolo e la sua famiglia anche perché aveva studiato negli anni Trenta alla Scuola normale superiore di Pisa. Oltre a Teresa Toniolo, nel testo si fa riferimento a fratel Arturo Paoli di Lucca, riconosciuto nel 1999 Giusto fra le Nazioni, e all’esponente del movimento cattolico livornese Palmiro Foresi.

Martedì, 3 ottobre [1943], Pisa

Camicie nere sul Lungarno di Pisa. Dovremo combattere anche contro italiani. Maledizione.

Tutto bene con zia Teresa, don Paoli a Lucca, Foresi a Livorno. Triangolo perfetto per realizzare il contatto fra Nord e Sud.

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🟥Scheda biografica elaborata sulla base delle memorie di Maria Clotilde Picotti e monsignor Antonio Landi, in Donne e resistenza, pp. 114-5.

31 agosto 1943 – A casa Toniolo, in piazza Ceci (ora piazza Giuseppe Toniolo) alle ore 12, si tenne la prima riunione per costituire la Democrazia cristiana a Pisa; lì i partecipanti furono colti dal terribile bombardamento.

Dopo l’8 settembre, ritornati al potere i fascisti con i tedeschi, Paolo Emilio Taviani, ex normalista e professore allora nel Liceo scientifico U. Dini, partendo per Genova, lasciò a Teresa Toniolo e a don Antonio Landi la parola d’ordine per collegamenti segreti.

Teresa invitò il nipote Giuseppe Toniolo a formare il Comitato di liberazione, come rappresentante democratico cristiano. Le riunioni avvennero in casa Toniolo, nella parrocchia di San Martino, cioè presso don Landi, e poi regolarmente presso l’Istituto di radiologia dell’Ospedale di Santa Chiara, dove il prof. Toniolo era aiuto.

Teresa Toniolo con i genitori

Verso la fine del 1943 (ottobre o novembre) venne da Genova un tale che si diceva inviato da Taviani per “fare studi sulla storia del Risorgimento”: aiutato e ospitato da Teresa, dal prof. Bozzoni e da don Landi, sparì improvvisamente. Con molta probabilità era una spia. Teresa inviò don Landi, con un rischioso viaggio, a Genova, per avvertire Taviani: così fu possibile salvare il Comitato di liberazione Alta Italia (CLNAI). Dopo pochi giorni, infatti, i tedeschi irruppero nel Convento dei Carmelitani a Genova, dove esso si riuniva; ma non trovarono nulla e nessuno; deportarono il priore a Verona.

Teresa continuò a partecipare al Comitato di liberazione, contribuendo a mantenere i contatti tra i gruppi (quello dell’ospedale, di Enzo Meucci, di Leopoldo Testoni, ecc.).

Regolarmente, durante tutta la guerra, Teresa, con l’amica Maria Tizzoni in Dardi, tenne corrispondenza con i soldati della parrocchia, confortandoli con parole di speranza e di pace. Prigionieri inglesi fuggiti furono da lei aiutati con cibo, denaro, vestiti. Ebrei furono da lei salvati e inviati in zone remote della diocesi (colline, Barga, ecc.).

Prestò la sua opera dopo l’eccidio dei Pardo Roques, in via Sant’Andrea, perché fossero seppelliti, temporaneamente, nel Chiostro di San Francesco. Trasferitasi in casa Cella, in via San Giuseppe, nascose in uno stanzino della soffitta cinque giovani, due dei quali, Landolino Giuliano e Renato Giovannozzi, facevano parte del Comitato di liberazione, gli altri tre, Paolo Cella, Antonio Mossa, Marco Picotti, della classe 1925, si erano sottratti alla chiamata alle armi: passibili tutti della pena di morte. Vestita da crocerossina, riuscì a rinviare più volte i tedeschi, che si presentavano alla porta, per perquisire la casa. Una notte, cadde una bomba sulla soffitta, ed ella accorse immediatamente, col lume, per aiutare i rifugiati a uscire dallo stanzino e trovare altri precari nascondigli. Per le commissioni fuori casa mandava Renzino Mossa, quindicenne, ma ancora quasi bambino di aspetto, e perciò meno in pericolo di essere preso dai tedeschi. Purtroppo il caro, coraggioso ragazzo, il giorno stesso della Liberazione fu dilaniato da una mina antiuomo, lasciata dai tedeschi in una casa in rovina, in piazza Carrara