MICHELE BARUCH BEHOR: da Cutigliano ad Auschwitz

L’alba del 21 gennaio 1944 fu tragica per la famiglia Baruch, composta da ebrei livornesi sfollati presso la pensione Catilina di Cutigliano, paese posto sulla montagna pistoiese lungo la strada verso l’Abetone. Per quella mattina erano stati convocati nella locale caserma dei carabinieri che li avrebbero inviati a un cupo destino, quello dei campi di concentramento nazi-fascisti.

La famiglia, emigrata a Smirne in Turchia nel 1920 alla ricerca di lavoro, aveva fatto ritorno a Livorno nel 1933 ed era composta da Isacco e Cadina, marito e moglie, rispettivamente di 54 e 44 anni  e dai loro figli, Michele (24 anni), Clara (17 anni) , Susanna (19 anni) e Marco (14 anni).

Erano ebrei sefarditi, discendenti cioè degli ebrei che alla fine del XV secolo i re cattolici di Spagna e Portogallo avevano deciso di espellere dai loro regni, facendo fortuna poi nell’impero ottomano nel quale avevano trovato rifugio. I sefarditi si erano poi diffusi lungo le rive del Mediterraneo e quindi anche in Italia dove si stabilirono soprattutto a Ferrara e Venezia prima e in Toscana poi. I granduchi medicei favorirono con le “Costituzioni leonine” lo stanziamento degli ebrei, in particolar modo a Livorno. Intorno agli anni Trenta del XX secolo la comunità ebraica della città labronica contava su circa 2.300 persone ed era una delle più consistenti della penisola.

Michele, che sarà il solo superstite della famiglia, nel 1933 lavorava alla Società Italiana del Litopone, produttrice di una miscela di solfato di bario e solfuro di zinco che dava il nome all’azienda. Con l’avvento delle leggi razziali, nel 1938, perse il suo impiego e la sua famiglia riuscì a sopravvivere solo grazie all’appoggio della locale comunità ebraica. In una sua testimonianza afferma di aver lavorato anche sotto falso nome per la Todt, un’impresa di costruzioni operante in Germania e poi negli altri paesi occupati che in Italia provvide alla costruzione di parte della linea Gotica, aggiungendo che “dopo una decina giorni i repubblichini, scoperto che ero ebreo, mi consigliarono con tono quasi bonario di abbandonare quel lavoro“.

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Foto gentilmente concessa da Simone Breschi e Gianna Tordazzi

Le famiglie di origine ebrea vivevano nella zona del porto, occupandosi di cantieristica e nel centro storico intorno alla Sinagoga, cioè nelle zone più soggette ai bombardamenti alleati della primavera/estate 1943. Diversi gruppi familiari, fra cui i Baruch, decisero pertanto in quei mesi di spostarsi in zone ritenute più sicure. Molti si rifugiarono nell’entroterra fra Livorno e Grosseto e sulle colline pisane, altri andarono più lontano, nelle zone di Firenze, Lucca, Arezzo. Alcune famiglie si recarono in Garfagnana sfruttando la rete di conoscenze acquisite con le donne di servizio che tradizionalmente scendevano a Livorno da quelle zone. Altre decisero di spostarsi nei paesi della Toscana settentrionale, secondo alcuni direttamente su indicazione della Delasem, la Delegazione per l’Assistenza agli ebrei Emigranti, creata nel 1939 dall’Unione delle Comunità israelitiche per favorire la fuga agli ebrei che erano rimasti bloccati in Italia.

Fu in seguito a questo insieme di situazioni che i Baruch giunsero sulla montagna pistoiese e precisamente a Cutigliano. Quel che accadde loro nel piccolo paese dell’Appennino pistoiese lo sappiamo dallo stesso Michele che, a quarant’anni circa da questi fatti decise di far conoscere il calvario della propria famiglia attraverso un breve dattiloscritto, attualmente conservato presso la biblioteca della comunità ebraica di Livorno.

Una volta catturati, i membri della famiglia Baruch furono condotti prima nel carcere di Pistoia e da qui, dopo dieci giorni, alle Murate a Firenze. Nel carcere fiorentino i Baruch rimasero quindici giorni fra atroci sofferenze prima di partire per Fossoli, presso Carpi (MO), dove vissero circa un mese. Da qui, caricati su un carro bestiame assieme ad altre settanta persone circa, furono indirizzati verso una destinazione a loro originariamente ignota, che si rivelerà essere il campo di concentramento di Auschwitz. Per il viaggio di dieci giorni dice Michele nelle sue memorie “ci era stato dato un fiasco d’acqua e dei barattoli di marmellata e di pane“.

All’arrivo i superstiti furono posti in file di cinque davanti alle Kapò e al temuto dottor Mengele. Lavati, depilati con “rozzi rasoi” e cosparsi di creolina, furono condotti all’aperto in attesa del vestiario, cioè la nota divisa a righe e un paio di zoccoli di legno e, come si legge nelle memorie, delle “mutande pidocchiose appartenute a qualche altro deportato deceduto“. Michele ricorda quindi con dolore la marchiatura  sulla pelle del numero di matricola che ha portato sino alla morte, il 174474 e quella, con lo stesso numero, del vestito.

L’autore rammenta chiaramente a distanza di anni le lotte con i prigionieri già presenti nel campo per conquistare un posto nei letti a castello e gli appelli, fatti spesso alle tre del mattino, con accanto ai sopravvissuti le cataste costituite dai  corpi dei compagni deceduti durante la notte, perchè “all’atto della conta, doveva tornare il numero preciso” dei prigionieri.

Il loro lavoro consisteva nel “portare pietroni sulle spalle o con un carrettone o portare via i cadaveri dalle baracche per condurli ai forni crematori“, accompagnati dalle note di  Rosamunda, una polka della cui versione tedesca nel 1938 erano state vendute più di un milione di copie. Colpisce il fatto che questo stesso dettaglio è citato nell’opera “Se questo è un uomo” di Primo Levi.

Il pranzo era costituito da una brodaglia di rape, la cena che arrivava dopo un altro estenuante appello, da un po’ di margarina.

Michele afferma che solo dopo un po’ di tempo scoprì la funzione della ciminiera “le cui fiamme uscivano dipinte di mille colori“. In quel momento sentì mancargli il terreno sotto i piedi perchè fu solo allora che comprese che i suoi cari, non appena divisi dal dottor Mengele, erano stati destinati alle camere a gas e non alle docce come promesso. Il pezzo di sapone e l’asciugamano che avevano ricevuto erano stati insomma un vile inganno.

Nel suo breve dattiloscritto l’autore cita le baracche destinate all'”ospedale” (in realtà i locali dove venivano effettuati gli esperimenti dei medici nazisti) e fa riferimento alle esecuzioni capitali tramite “fucilazioni e tortura“.

Michele afferma di essere stato scelto, poi tramite il consueto appello, per andare a lavorare in un altro campo, quello di Monovitz, in polacco Oswiecim, a 7 km. da Auschiwitz, dove fu impiegato come manovale per scavare fosse e scaricare sacchi di cemento.

La mattina del 26 febbraio 1945 fu fatta una selezione per individuare gli inabili al lavoro che, si diceva, sarebbero stati destinati a un “lager di riposo“. La reale destinazione dei prescelti erano i forni crematori. Terminato l’appello Michele e altri giovani furono condotti in una fabbrica di armi e pezzi di ricambio per carri armati e autoblinde, la Buna Weke. Per i lavoratori di questa fabbrica i maggiori rischi erano dati dai bombardamenti alleati, quattro complessivamente, che colpirono la struttura e dal fatto che durante questi i tedeschi si recavano nei rifugi chiudendo i prigionieri nei locali con il rischio di rimanere sepolti vivi sotto le eventuali macerie.

L’ultima destinazione di Michele fu Buchenwald, da lui definito un campo di “eliminazione”, dove giunse dopo otto giorni di viaggio sotto i bombardamenti.  Michele, ormai pieno di sporcizia e di “bolle per mancanza di vitamine“, venne adibito a lavorare a un tunnel e riuscì a sopravvivere a diverse epidemie di tifo.

La mattina del 26 febbraio i russi fecero finalmente irruzione nel campo liberando i superstiti. Michele era ridotto a pesare solo 31 chilogrammi. Dopo quattro mesi di cure e una dieta “a base di brodo di carne senza ulteriori aggiunte” per evitare sforzi eccessivi a un corpo estrememamente delibitato, Michele potè tornare nell’amata Livorno dove però non aveva più nessuno che lo aspettasse e soprattutto pochissimi a credere ai suoi racconti. Ritornerà con la moglie nei campi di concentramento molti anni dopo.

Il breve dattiloscritto si conclude con un toccante appello di Michele “Noi scampati lotteremo con tutte le nostre forze perchè tutti si sentano fratelli ed amici, per il progresso che vada sempre avanti nella libertà e nella democrazia, affinchè nessuno abbia più a vivere la triste storia dei campi di sterminio“. Il semplice racconto di Michele si pone quindi nella scia delle testimonianze di molti altri reduci dai campi di sterminio, come ad esempio Primo Levi. Non è solo un resoconto breve, anche se circostanziato dei fatti, ma anche un invito, rivolto a tutte le persone, a fare in modo, attraverso il ricordo e l’impegno quotidiano, che questi tragici eventi non debbano ripetersi più, a far si che certe ideologie, sconfitte dalla storia, non debbano riapparire.

Andrea Lottini (Montecatini Terme, 1975) si è laureato in Scienze Politiche nel 2001 con una tesi sulla formazione professionale e in Scienze Religiose nel 2015 con una tesi su Egeria, pellegrina del IV secolo. Attualmente è insegnante di religione presso gli istituti comprensivi di San Marcello Pistoiese e di Agliana.

Articolo pubblicato nel gennaio del 2018.




Don Milani: ieri, oggi, domani

Sono passati cinquanta anni dalla scomparsa di don Lorenzo Milani, perciò è naturale che siano molte le iniziative, celebrative, pubblicistiche e di ricerca, che, nel corso del 2017, si sono proposte di ricordarne la figura e l’opera e di tracciare un bilancio della sua presenza nella storia recente della Chiesa e della società italiana in un’ottica, finalmente, meno condizionata da quei contrasti ideologici che hanno a lungo caratterizzato l’interpretazione della sua personalità e della sua azione pastorale ed educativa. Grazie ad un  approccio più “storico” alla sua vicenda spirituale, umana e culturale oggi possiamo quindi rileggere con più serenità ed oggettività il ruolo che egli ha svolto nell’arco di quei due decenni del ‘900 (gli anni sessanta e settanta) particolarmente densi di trasformazioni sociali e culturali e complessi dal punto di vista del consolidamento della nostra giovane democrazia.

Il mio ricordo di don Milani, tuttavia, seguirà necessariamente una logica diversa, non storica ma molto soggettiva,  in ragione del legame, emotivo e personale, che sento ancora vivo con la figura di questo prete e con la sua esperienza, perchè esse hanno pesato molto nella mia vita, nelle mie scelte professionali, religiose e politiche.

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Don ALfredo Nesi con i ragazzi della scuola di Corea (Archivio Fondazione Nesi)

Ho conosciuto don Milani nel 1965. In quell’anno era tornato sulle pagine dei giornali a causa del processo per l’obiezione di coscienza e della famosa “Lettera ai giudici”. Io  insegnavo nella scuola elementare e facevo volontariato nel doposcuola del quartiere Corea di Livorno, dove operava un prete fiorentino, don Alfredo Nesi, amico di don Milani e suo ex–compagno di studi in seminario. Anche lui col pallino della scuola come “strumento di emancipazione sociale per le classi deboli”. Frequentavo anche Pedagogia a Firenze nell’allora Magistero e molto sentivo parlare e discutere  in questi ambienti di Barbiana, di questa scuola diversa da tutte le altre. Perciò, spinta dalla curiosità, chiesi a don Nesi di portarmi con lui in una di quelle  visite periodiche che faceva a Barbiana, insieme a gli studenti della sua “casa” e a qualche collaboratore.

Eravamo all’inizio dell’estate, ma la scuola di don Milani non andava mai in vacanza; trovammo lui ed otto ragazzi fuori, sotto il pergolato, intorno al tavolone. Come sempre accadeva per i nuovi arrivati non c’erano particolari cerimonie: la misura dell’accoglienza corrispondeva alla disponibilità a stare dentro il “programma” che la scuola di Barbiana prevedeva per quel giorno. Ricordo di quella calda giornata di luglio un dom Milani, già malato ed affaticato, intellettualmente spigoloso ed affatto compiacente, imprevedibile nelle argomentazioni, duro e rigoroso nel metodo con cui affrontava ogni problema, ogni spiegazione, ma anche orgoglioso come una chioccia dei suoi ragazzi e di  come lavoravano.

Ricordo quei ragazzi così diversi da quelli “di città” che io conoscevo : diversi nelle domande che facevano, nel modo di lavorare con il libri, di discutere di grammatica e di sintassi, di storia o di astronomia. Così a loro agio in quella “scuola” spartana, lontana dai “programmi” e lontana dal mondo, ma non fuori dal mondo.

Ricordo la scritta “I care”, di cui i ragazzi stessi mi spiegarono la storia ed il significato.

Ricordo di aver cominciato a capire quel giorno che per me “fare scuola” non poteva essere  un mestiere come un altro; era piuttosto una sfida ed un dovere e che sul “come fare scuola” avevo ancora tantissimo da imparare perché le cose che avevo  visto ed ascoltato quel giorno avevano messo in crisi molte delle certezze pedagogiche e didattiche che pensavo di possedere.

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Don Alfredo Nesi a Barbiana (Archivio Fondazione Nesi)

Altre cose le ho capite leggendo, due anni dopo, “Lettere ad una professoressa”; altre ancora le ho capite insegnando per più di trent’anni nel Villaggio scolastico di Corea, le cui scuole hanno sempre cercato di mantenere un legame ideale con Barbiana e l’esperienza milaniana, pur con scelte di contesto diverse (scuola pubblica, insegnanti e programmi “normali”, ecc.).

Sono tornata a Barbiana nel ’70, tre anni dopo la morte del priore, e a maggio 2002 con tanti amici provenienti da ogni parte d’Italia in quella iniziativa, che da allora si ripete ogni anno, che non solo vuole ricordare la figura straordinaria di questo “educatore atipico”, ma vuole soprattutto dire, con la forza che viene dai simboli, che la scuola italiana di oggi e di domani, la scuola di un paese democratico ha lì una delle sue radici più vitali, da lì deve ancora trarre molto della propria identità.

Infatti ancora oggi la domanda è: cosa  resta di quella esperienza? cosa di quella idea di “scuola” è bene tenere vivo per l’oggi e per il domani? (visto che alcuni di questo prete dissero: “don Milani è più per domani che per oggi” e che lui stesso diceva di sé di essere “appassionatamente attento al presente ed ancor più al futuro” ).

Certo non il modello organizzativo; quella di Barbiana era una scuola non riproducibile ed anche un po’ assurda: 12 ore al giorno per 365 giorni; tutto in comune letture, pensieri, incontri… con un rapporto tra insegnante ed allievo del tutto particolare e nessuna distrazione rispetto a quello che era l’obiettivo fondamentale e totalizzante: imparare per essere liberi, passando attraverso una disciplina severa, uno studio ininterrotto. E tutto questo non evitava le bocciature perché quando andavano a fare gli esami nelle scuole “normali” spesso i ragazzi di Barbiana facevano fiasco. Hanno saputo scrivere collettivamente “Lettera ad una professoressa” ma di fronte al titolo “Davanti ad un’edicola” non riuscivano a scrivere uno straccio di “tema”…

Sicuramente, invece, vanno tenute vive le sfide culturali, piuttosto che pedagogiche su cui  quella scuola aveva scelto di cimentarsi. Prima fra tutte, ed anche  la più chiara e provocatoria, quella di essere strumento per liberare le coscienze. Siamo abituati a intrattenerci con molte definizioni di educazione, di formazione, di scuola che aggiorniamo via via, in cui però i termini “libertà” e “coscienza” sono elusi o minimizzati. “La buona scuola è quella che rende tutti uguali…”- diceva don Milani – ma dove sta  la misura dell’uguaglianza se non nella liberazione per ciascuno dai condizionamenti  sociali, economici,culturali, religiosi, consumistici, ecc. in modo che la coscienza personale possa esprimere fino in fondo il suo primato e ciascuno sia e si senta cittadino a pieno titolo di questo paese?”

Sta scritto anche nella nostra Costituzione che questa è la funzione della scuola, ma a distanza di 70 anni dalla sua proclamazione e a 50 dalla morte del priore, vedo ancora tanto bisogno di affermarlo e, quasi, di gridarlo.

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Don Milani a Barbiana

Un’altra sfida che il priore ci consegna è quella delle periferie. Il suo modo di essere uomo e  credente lo hanno portato inesorabilmente verso le “periferie” della società del suo tempo: periferie fisiche (S. Donato, Barbiana), e soprattutto periferie sociali e culturali (i lavoratori, contadini, gli analfabeti, i senza parola). La scoperta della scuola, della potenza della scuola avviene per lui in questi contesti così come lì matura la convinzione che il “sapere” è l’unico viatico con cui trarsi fuori dalla condizione di marginalità, di subalternità: uscirne insieme, perché questo è la politica.

Quali sono oggi le nostre periferie in cui  stanno i senza parola? Alcune sono facili da vedere (una per tutte: gli stranieri) altre sono più difficili da individuare, in un tempo in cui sembrano prevalere apparenti omologazioni, tutti sembrano uguali eppure mai come oggi sono forti le diversità, sono nuove e terribili le ingiustizie.

Una terza sfida è quella della parola. L’attenzione alla parola, ai linguaggi, alla comunicazione è stata centrale in tutta la pedagogia milaniana. Era quasi maniacale l’insistenza con cui sezionava quasi ogni parola, nella sua etimologia, nelle trasformazioni, nei significati, nelle sfumature, trasmettendo ai suoi ragazzi la consapevolezza che la parola è tutto ed esserne padroni è la chiave che apre ogni porta. Questo aspetto dimostra la grande modernità culturale di don Milani, che già negli anni ’60 aveva compreso il ruolo e l’importanza della comunicazione nella nostra società e come essa sarebbe potuta diventare, anche  in modo subdolo, la nuova padrona delle coscienze individuali.

Che ne è oggi della parola, nella nostra scuola e nella nostra società dove il numero degli “analfabeti di ritorno” si conta a milioni, nonostante che ormai quasi tutti abbiano frequentato la cosiddetta “scuola dell’obbligo” ed anche oltre ?

Fosse solo per questi tre elementi, la lezione di don Milani  conserva una grande attualità e non può che essere motivo di seria riflessione sia per chi fa scuola che per chi fa politica.

Articolo pubblicato nel dicembre del 2017.




Leggere i manifesti di Oriano Niccolai

La Federazione del Partito comunista di Livorno aveva un grande grafico. Anzi un grandissimo grafico, Oriano Niccolai. L’Istoreco di Livorno gli ha dedicato, nel 2013 e poi di nuovo nel 2014, una bellissima Mostra con un altrettanto significativo Catalogo, dal titolo Rosso creativo.[1]  Le intenzioni dell’autrice di questo brano sono di cominciare, con questo intervento in rete, una sequenza di approfondimenti per raccontare come una visione politica si possa rappresentare graficamente e come si possa proporre una lettura della storia politica dell’Italia a partire dai colori, come suggerisce Maurizio Ridolfi [2], dalle scelte grafiche, dal testo che le accompagna. Perché i manifesti politici utilizzano una modalità polisemica per veicolare il loro messaggio. Parlano attraverso il colore, l’impaginazione, la grafica, le parole, la loro stessa dimensione e la tecnica di realizzazione.

Sez.2_18_0345Per favorire la comprensione di questa affermazione utilizzerò alcune esemplificazioni concrete, collocabili in un tempo ed uno spazio preciso, a partire dal manifesto del 1961 in occasione della vittoria di Castro a Cuba. Il manifesto è firmato lateralmente con un rinvio al committente, che è il Pci ma in particolare la Federazione giovanile comunista di Livorno. E noi sappiamo che per i manifesti della Fgci Oriano, come tutti gli altri grafici comunisti, aveva più libertà d’azione rispetto invece alle direttive che si ricevevano dalla direzione del Partito per quelli, in qualche modo, più ufficiali. Il colore che domina è il bianco dello sfondo. Secondo la lettura più ortodossa in cima al manifesto trionfa una scritta dove si ricorda che ha vinto non il leader, ma il “popolo” di Cuba che si è liberato del dittatore Fulgencio Battista. Poi il manifesto prosegue richiamando Castro e subito dopo ancora la rivoluzione cubana, ma aggiungendo a chiusura un richiamo alla pace. Qual è l’aspetto più significativo di questa comunicazione, della sua realizzazione grafica? Sicuramente festeggiare l’avvenuta presa del potere da parte di Castro. Quale l’intenzione che ci sta dietro? Allacciarsi al tema dell’internazionalismo in una cornice nella quale questo tema appassionava ancora milioni di uomini e di donne. Aver utilizzato l’immagine della bandiera cubana spezzata a cosa rinvia? Spezzata perché i cubani si sono liberati di un dittatore? Può darsi. Ma a mio parere ancora di più perché la bandiera cubana, ironia della sorte, è costruita con strisce blu su sfondo bianco e con una stella su sfondo rosso. Ricorda quasi in modo automatico la bandiera statunitense. Ed allora averla impaginata in questo modo, con le strisce “esplose” è un rinvio alla sconfitta degli Usa che in questa partita giocarono un ruolo decisivo ma pur sempre perdente. Non aver caricato il manifesto di “rosso” evita alla comunicazione di presentarsi come conforme ad una ortodossia comunista ancora molto forte agli inizi del decennio Sessanta, permette alla comunicazione di rimanere su un registro più “leggero”.

punto esclamativoPassiamo adesso ad un altro manifesto di quello stesso periodo, periodo contrassegnato anche dall’impegno militante di tutta la sinistra italiana a favore del popolo vietnamita in lotta contro gli Stati Uniti.  Nel manifesto di nuovo domina il bianco. Sembra impaginato con una disciplina grafica che risponde ad una direttiva artistica del “togliere” e non a quella dell’aggiungere. Il manifesto si può definire minimalista, quasi astratto. Un grosso punto esclamativo che produce un effetto “non centrato” rispetto al foglio, e che a causa di questa sua asimmetricità ha un impatto sul lettore ancora più efficace, produce un richiamo all’attenzione ma nello stesso tempo, e anzi ancora di più, rinvia alla traiettoria di una bomba che cade. La scrittura del testo che accompagna l’immagine, nelle realizzazioni di Niccolai sempre sintetica e mai aggiuntiva o sostitutiva, è collocata a sinistra e a destra della “bomba-punto esclamativo”.  Il messaggio invita ad un’azione di impegno contro la guerra, all’organizzazione di una Marcia della Pace dentro un quartiere periferico, a sud della città, una mobilitazione di quella che oggi potremmo chiamare la “società civile”. Un luogo decentrato nella città, nella sua periferia sud. Noi sappiamo che quel manifesto è uscito dalla Federazione del Partito comunista di Livorno e quindi ha una sua specifica e ben riconoscibile paternità politica, ma sappiamo anche l’originalità di questa composizione che rinvia senza mezzi termini alle avanguardie pittoriche più interessanti e alla migliore grafica italiana. Sappiamo che per Oriano fare il grafico era “l’arte del togliere”, e sappiamo che non l’aveva imparato da Calvino e dalla sua esigenza di leggerezza, ma dal suo maestro, Albe Steiner[3], il più grande e innovativo disegnatore/comunicatore del secondo dopoguerra italiano. E sappiamo[4] anche che quando sceglieva le parole per ogni manifesto, in testa gli giravano sia i racconti di Marcovaldo che le poesie del suo caro amico Gianni Rodari. Quel Rodari che si era ispirato a lui nella filastrocca “Giovannino perdigiorno”, che in primis doveva essere “Orianino perdigiorno[5]”. Perché? Perché Oriano aveva un aspetto minuto, quasi fanciullesco, con un’aria perennemente assorta e riflessiva, sembrava uno un po’ svagato che correva dietro alle nuvole immaginarie che si agitavano nella sua testa.  Chi lo ha frequentato lo ricorda così: concentrato sopra una pagina di giornale, taciturno, quasi assente, eppure Oriano era sempre assai presente, uno capace di ascoltare le richieste, farle proprie per poi trasformarle in un messaggio grafico e linguistico impeccabile, mai superfluo, mai retorico. Con le sue proposte, che difendeva con caparbietà e consapevolezza, riusciva ad interpretare i bisogni della Federazione, del Partito nel suo insieme, o delle singole parti di quella che era una macchina mastodontica, pesante, lenta. Ma nel farlo ogni volta si prendeva lo spazio di affermare la sua scelta grafica, libera e “leggera”, mai monumentale, mai ingombrante. Perché Niccolai metteva la sua capacità a disposizione del Partito non in modo mercenario o opportunista ma da appassionato militante quale si sentiva e voleva essere.

mollettaMolti anni dopo, ancora per un’altra occasione di mobilitazione per la ricerca di pace. Oriano Niccolai disegna un altro manifesto. Siamo nei primi anni Novanta. La guerra stavolta è quella del Golfo. I tempi sono cupi e Niccolai sceglie lo sfondo nero su cui troneggia la data dell’appuntamento politico e sotto, attaccata ad un filo, è sospesa una bomba tenuta ferma soltanto da una molletta per i panni, su un filo pesantemente curvato. La scritta successiva indica il cosa fare e come, rinvia all’appuntamento di una fiaccolata. La manifestazione quindi si fa in notturna e questo può anche aver ispirato Niccolai a fare lo sfondo nero. Ma lo sfondo è nero anche perché siamo entrati in un orizzonte più cupo, il mondo per un vecchio militante comunista non è più così chiaro, c’è già stata la caduta del muro di Berlino e il tentativo di golpe contro Gorbaciov, tutto si è fatto più incerto. Per chi osservava quel manifesto, quel nero e bianco della bomba erano molto più significativi delle tante immagini di orrore che già campeggiavano nella nostra percezione nonostante la volontà di anestetizzare quella guerra da parte dei suoi contendenti. La “bomba” di Oriano non è proprio la bomba “intelligente” della propaganda militarista. È una bomba sospesa che sta per cadere. Che sicuramente cadrà, così come è, appesa ad un filo. L’innocua molletta, oggetto umile, persino casalingo che la trattiene, non la può certo bloccare per molto ancora. Quindi il messaggio implicito ma non troppo è: partecipate numerosi, la pace è in pericolo e forse siamo già in ritardo. Pochi anni fa due giovani artisti livornesi, Valerio Michelucci e Stefano Pilato ispirandosi forse a questa bomba realizzarono una installazione in occasione del 70° bombardamento di Livorno, quello del 28 maggio del 1943, e ne fecero una finta, dipinta di color fucsia magenta, e la attaccarono sospesa ad un palazzo vicino al mercato di Piazza Cavallotti, luogo popolare, deputato a rappresentare la tradizione democratica e pacifista della città. Perché le proposte intelligenti e creative permettono anche questo, di essere riprese e aggiornate e, risultare, nonostante le loro radici nel passato, originali e intelligenti.[6]

[1] Rosso creativo. Oriano Niccolai 50 anni di manifesti (a cura di Margherita Paoletti), Debatte Editore, Livorno, 2013. I manifesti che risultano nel Catalogo corrispondono a quelli della Mostra che fu realizzata a Livorno dall’8 al 22 novembre 2013 presso Villa Henderson e replicata a Pisa l’anno successivo presso il Centro San Michele degli Scalzi. Sono oggi custoditi presso l’archivio dell’Istoreco di Livorno e formano tutti insieme un fondo di circa duemila pezzi.

[2] Maurizio Ridolfi, L’Italia a colori Storia delle passioni politiche dalla caduta del fascismo ad oggi, Le Monnier, Bologna, 2015.

[3] Rosso creativo, cit., p. 15.

[4] L’espressione “noi sappiamo” non è legata a nessuna astuzia retorico-linguistica ma è giustificata dalle decine di ore di interviste e colloqui che prima di fare la Mostra e il Catalogo abbiamo avuto il piacere di realizzare all’interno dell’Istituto. In particolare Margherita Paoletti, che curò tutta l’operazione, costruì con Oriano Niccolai una specie di carta d’identità di ogni manifesto utilizzato.

[5] Rosso creativo, cit., p. 15.

[6] Purtroppo la bomba finta non c’è più. Fu realizzata nel 2013 e mai presa in carico dal Comune di Livorno. Distrutto uno dei fermi che la sostenevano, è stata tolta e mai più reinstallata.

Articolo pubblicato nel maggio del 2017.




«Dio creò l’uomo, non l’uomo ariano». La Resistenza di don Roberto Angeli

Livorno, aprile ’44. Nelle quattro stanze al pianterreno di una palazzina di via Micali 9, sono stipati circa 90 ebrei. Tra loro anche una ventina di profughi francesi di origine italiana, scampati non si sa come ai rastrellamenti nazisti di Parigi del ’40: un’odissea di mille chilometri per finire di nuovo nella bocca del leone. Tutti insieme (malati, vecchi, bambini e profughi) sono nascosti lì da cinque mesi. Da quando cioè l’ospedalino israelitico di via degli Asili è finito nella zona della città requisita dai tedeschi e quell’angelo in tonaca nera si è fatto in quattro per organizzare il nuovo rifugio. Quattro tocchi leggeri alla finestra, è il segnale. Raffaello Niss, interrompe il gioco coi bambini, circospetto si avvicina alla porta e gira il chiavistello. Con sollievo, pensa: «È ancora lui». Sul volto affilato di don Angeli si scalda un sorriso. Tra le mani tiene stretto il consueto fagotto: viveri, medicinali, indumenti, mille lire e la novità di un piccolo cartoccio: «Ecco la farina per il vostro Seder pasquale».

L’istantanea fotografa uno degli episodi più noti dell’opera di soccorso agli ebrei organizzata da don Roberto Angeli, figura di spicco della Resistenza toscana. Appena un mese dopo quel gesto di rara sensibilità il sacerdote livornese venne arrestato dalla Gestapo e internato per un anno in un’odissea che toccò i campi di Fossoli, Mauthausen, Gusen e Dachau. Oggi che l’interesse sul sacerdote, scomparso nel 1978, si va accrescendo (nel 2007 la diocesi livornese ha rieditato il suo Vangelo nei lager, studi e iniziative si moltiplicano) si comprende quanto complessa e estesa sia stata la trama della rete di assistenza organizzata in quei mesi.

Emilio Angeli (Archivio Centro Studi R. AngelI)

Emilio Angeli (Archivio Centro Studi R. AngelI)

I LEGAMI CON LA SANTA SEDE. Dagli archivi emerge che l’opera del gruppo di don Angeli (sacerdoti e giovani laici provenienti dagli ambienti della Fuci) era legata a doppio filo non solo al movimento di resistenza militare della capitale ma anche alla rete clandestina vaticana di soccorso agli ebrei e ai prigionieri alleati. Don Angeli, fondatore del gruppo dei cristiano-sociali livornesi, comandava uno dei servizi informazione della divisione Giustizia e Libertà della Toscana e, grazie anche al supporto di suo padre Emilio (conosciuto nella Resistenza come il “nonnino”) aveva stabilito contatti personali con la marchesa Giuliana Benzoni, con la «primula rossa» monsignor Hugh O’Flaerty dell’ambasciata irlandese, col futuro cardinale Pietro Palazzini, oggi annoverato nel giardino dei Giusti di Gerusalemme. Attraverso questi canali dalla Santa Sede e dalle varie ambasciate arrivarono aiuti in denaro, indumenti, viveri, medicinali, documenti falsi per decine di ebrei e centinaia di prigionieri alleati nascosti in vari paesi della Toscana e dell’Emilia.

IN SOCCORSO DI 1600 PRIGIONIERI ALLEATI. Dopo l’8 settembre 1943 giunse ai cristiano-sociali la segnalazione di un gruppo di prigionieri alleati nella zona di Vinchiana (Lucca). Fu allora che don Angeli, che da tempo era addentro agli ambienti romani per i suoi studi alla Gregoriana, cercò e stabilì contatti con la marchesa Giuliana Benzoni, «ricevendone una prima somma di 20 mila lire – scrive Emilio Angeli in un relazione al Servizio Informazione Militare, l’intelligence italiana – per i bisogni più urgenti dei prigionieri lucchesi. Da allora le segnalazioni ed informazioni sui gruppi di prigionieri bisognosi di aiuto si moltiplicarono». Dal 10 novembre 1943 al 25 agosto 1944 il gruppo che faceva capo a don Angeli riuscì a correre in soccorso a un numero notevolissimo di persone. «1500-1600 militari alleati – scrive ancora il “nonnino” – senza dimora stabile, sprovvisti di tutto, dal vestiario ai viveri». Più difficile stabilire, allo stato attuale delle documentazioni, quanto furono gli ebrei nascosti e soccorsi in quei mesi.

LA MARCHESA BENZONI, L’EMINENZA GRIGIA IN GONNELLA. Giuliana Benzoni fu un personaggio di assoluto rilievo nella Roma occupata: dalla «generosa suola delle scarpe» della marchesa, scrive Fulvia Ripa di Meana, «escono permessi militari, congedi e false carte d’ identità». Per Maria José di Savoia, fu una sorta di “eminenza grigia in gonnella”, capace di introdurre la “regina di maggio” negli ambienti antifascisti romani e in diretto contatto col sostituto della segreteria di Stato vaticana, monsignor Giovanni Battista Montini. «Fra Badoglio, Bonomi, Croce, Sforza, De Nicola, Togliatti, Nenni, De Gasperi, Gonella, Saragat, La Malfa, Giorgio Amendola, generali ed eminenze vaticane, “gappisti” ed emissari alleati – scrive Nello Ajello – la Benzoni esaltò i suoi talenti. Era ora vivandiera dei partigiani e falsificatrice di carte annonarie, ora esperta in radio rice-trasmittenti e “crocerossina dell’ informazione”, ora addetta a nascondere prigionieri, ebrei, militari sbandati».

FIUMI DI DENARO BUONO DA ROMA. Pressappoco le stesse operazioni che riuscì a mettere in piedi il gruppo di don Angeli, in mezza Toscana: i bracci del soccorso livornese furono capaci di arrivare, oltre che nella provincia di Livorno, anche in quelle di Firenze, Pistoia, Grosseto, sulle Apuane e perfino nelle zone di Modena. Per il soccorso ai prigionieri alleati la sola Benzoni, scrive Emilio Angeli, «mi affidò complessivamente una somma di lire trecentocinquantamila». Ma non fu tutto: «Data l’insufficienza delle somme messe a disposizione dalla Benzoni – scrive il “nonnino” – col sopraggiungere delle esigenze invernali, mio figlio don Roberto si recò nuovamente a Roma, riuscendo a conferire direttamente con l’ambasciata Irlandese in Vaticano e l’ambasciata Jugoslava. Fu così che la situazione dei prigionieri alleati in Toscana fu fatta presente anche all’ambasciata inglese in Vaticano». Ai militari jugoslavi, nascosti nei pressi di Ponte a Moriano, venivano portati gli aiuti che provenivano da monsignor Nicola Moscatello, dell’ambasciata jugoslava.

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Hugh O’Flaerty, la “primula rossa” del Vaticano

AL LAVORO CON LA «PRIMULA ROSSA». Ma è con l’ambasciata irlandese e quella inglese che don Angeli riuscì a creare i contatti più preziosi: «L’ambasciata irlandese – scrive Emilio Angeli – fu in grado di assicurare che tutti i prestiti e le spese sostenute da chiunque per aiutare i prigionieri sarebbero stati restituiti dagli Alleati non appena il territorio fosse stato liberato. Questo data l’impossibilità da parte dell’ambasciata inglese di fornire al momento direttamente le somme occorrenti. All’ambasciata irlandese furono così portati nomi e messaggi dei prigionieri alleati da trasmettersi a Londra». Motore strategico dell’ambasciata irlandese era l’ecclesiastico del Sant’Uffizio, monsignor O’Flaherty. «L’azione dell’irlandese – scrive Andrea Riccardi – a cavallo tra immunità vaticane e coraggio personale, rappresenta una vicenda emblematica del clima di Roma in quei mesi». Il monsignore stazionava spesso nelle vicinanze della basilica di San Pietro, sulla piazza, e prendeva contatto con eventuali soldati alleati arrivati fin lì tra la gente. Vari ecclesiastici, preti antinazisti e diplomatici alleati erano collegati alla sua rete clandestina. Un contatto importantissimo che dette via libera all’attività di assistenza del gruppo livornese. «Dopo queste intese – scrive al Sim il “nonnino” – ci sentimmo autorizzati ad assicurare alle famiglie e a tutti coloro che sostenevano le spese per i prigionieri che le spese da loro sostenute, le somme versate e i danni materiali eventualmente subiti sarebbero stati loro rifusi a guerra finita. Su queste premesse si estese tutta la nostra attività di assistenza».

«DIO CREO L’UOMO, NON L’UOMO ARIANO». Quella di don Angeli, non fu soltanto una «resistenza operativa», ma anche, sottolineava, una «resistenza ideologica organizzata». A partire dal 1940 nel suo cenacolo di studi sociali presso l’Arciconfraternita di S. Giulia a Livorno tenne pubbliche conferenze in cui mostrava quanto la dottrina cristiana fosse antitetica alle tesi razziste: «Dio creò l’uomo, non l’uomo ariano», esordì una volta. «Vi leggerò oggi -– proseguì -– alcune pagine scritte da Hitler e dal più notevole teorico del nazismo, Rosenberg. Da queste chiarissime citazioni, voi potrete capire perché il mondo oggi soffra la più terribile e sanguinosa tragedia della sua storia. Sono brani che non hanno bisogno di commento».

Monsignor Giovanni Piccioni e don Angeli (Archivio Centro Studi R. Angeli)

Monsignor Giovanni Piccioni e don Angeli (Archivio Centro Studi R. Angeli)

BATTESIMI E DOCUMENTI FALSI. Grazie anche a queste basi culturali, a Livorno l’opera dei cattolici in aiuto agli ebrei fu particolarmente intensa. Già immediatamente dopo la promulgazione delle leggi razziali del ’38 il vescovo di Livorno Giovanni Piccioni, buon amico del rabbino Alfredo Toaff (padre dell’ex rabbino capo di Roma, Elio), aveva dato precise disposizioni a clero e laici: i fratelli ebrei non dovevano essere lasciati soli. La comunità ebraica cittadina contava allora 2000 componenti (la quinta italiana in termini numerici dopo Roma, Milano, Trieste e Torino), di questi 116 furono catturati dalla Gestapo e solo 16 riuscirono a tornare. Presso la curia, sotto il diretto controllo del cancelliere don Amedeo Tintori, venne creato un ufficio per la concessione dei certificati di battesimo agli ebrei. «Io stessa – – raccontava Erminia Cremoni – – feci da madrina di battesimo e di cresima ad alcune giovani ebree». Presso le suore di S. Teresa ad Antignano fu costituto una sorta di «ufficio falsificazioni documenti»: i giovani dipendenti comunali Vincenzo Villoresi e Dino Lugetti si distinsero nella creazione di carte d’identità false.

L’OPERA DI DON ANGELI. Don Angeli si occupò personalmente del trasferimento di 24 ebrei dall’ospedalino israelitico prima in una palazzina di via Nardini, poi in via Micali. Il sacerdote, come testimoniò poi l’avvocato ebreo Giuseppe Funaro, «liberatosi dalla veste talare e rimboccatosi le mani, cominciò a fare opera di facchino. Quattro giorni durò il trasporto dei letti, dei bagagli e delle masserizie». Nei cinque mesi successivi e fino all’arresto il sacerdote, coadiuvato da padre Giuseppe Spaggiari, Erminia Cremoni, Paolo Brilli e altri giovani fece in modo che nulla mancasse ai circa 90 ebrei nascosti in via Micali. Insieme al giovane profugo Raffaello Niss, che a Parigi era a capo dell’Opera di protezione dei bambini ebrei, organizzò diversi viaggi clandestini per trovare nascondigli e protezione più sicuri man mano che i rastrellamenti nazisti si facevano più sistematici.

L’UNITÀ, DALLA COMUNE SOFFERENZA. «Noi crediamo -– commentava nel 1973 il sacerdote in un incontro organizzato dalla comunità ebraica livornese –- che Dio muova misteriosamente le forze profonde della storia per cui dal male può talvolta fiorire anche il bene». Nell’esperienza della clandestinità e del lager don Angeli, vide prepotenti i semi per superare secoli di inimicizia. «La lotta comune, la comune atroce sofferenza ci hanno avvicinato come non mai». E concludeva: «Non possiamo dunque che formulare un augurio, che questo avvicinamento progredisca in una sempre più profonda amicizia e rappresenti un reale contributo alla reciproca comprensione tra persone e gruppi di diversa religione o ideologia, tra popoli e comunità».

Gianluca della Maggiore è dottorando in Storia contemporanea presso l’Università di Roma Tor Vergata. E’ membro del coordinamento di redazione di ToscanaNovecento e collabora con l’Istoreco di Livorno. Autore di studi sul mondo cattolico, si occupa anche di cinema, Resistenza e movimenti politici. Ha pubblicato il volume Dio ci ha creati liberi. Don Roberto Angeli (2008).

Articolo pubblicato nell’aprile del 2017.




Gronchi e il “caso” Livorno

Luglio 1955, a due mesi dalla sua elezione alla Presidenza della Repubblica, Giovanni Gronchi scelse Livorno come una delle prime città italiane da omaggiare con una visita ufficiale. In quell’occasione il consiglio comunale gli conferì la cittadinanza onoraria. «Di fronte a questo gesto di grata amicizia che l’Amministrazione Comunale livornese a nome dell’intera cittadinanza mi ha rivolto, – affermò Gronchi nella sala consiliare del Municipio – forse qualcuno si è domandato perché io ho avuto in questi anni per Livorno un affetto che talvolta ha superato quello dei suoi stessi cittadini. Gli è che Livorno rappresenta per me una somma di ricordi a cui ritorno ogni volta con una specie di compiacente ed intima commozione. Livorno mi ha visto ragazzo, piuttosto povero, in malo arnese, non per cattiva volontà della mia famiglia, ma per assoluta insufficienza di mezzi determinata e dalla salute di mio padre e da molte sfortunate coincidenze. Ebbene, Livorno mi accoglieva per la benevolenza dei parenti come un’oasi di tranquillità».

1955

Il “Tirreno” nel giorno della visita di Gronchi a Livorno nel luglio 1955

LIVORNO, CITTA’ D’ADOZIONE… Basterebbero solo queste parole a descrivere la peculiarità del rapporto che Gronchi, originario di Pontedera, instaurò con Livorno lungo l’arco del suo percorso biografico e politico. Per il Capo dello Stato la città aveva rappresentato in effetti il luogo degli affetti: qui risiedevano gli zii materni, i Giacomelli, che da ragazzo lo avevano accolto nella loro casa in piazza Magenta. «Ed allora – continuava significativamente Gronchi nel discorso del luglio 1955 – Livorno si è mescolata fin da quell’epoca alle vicende della mia adolescenza e della mia giovinezza ed è diventata una specie di città di adozione».

…E LABORATORIO POLITICO. Eppure nella storia politica di Gronchi, Livorno rappresentò anche una sorta di laboratorio in cui testare – anche in contrapposizione all’altro deputato Dc pontederese Giuseppe Togni con cui si contendeva la piazza – il suo metodo e le sue idee politiche in un contesto che nel dopoguerra presentò caratteri di eccezionalità. Nella sua visita ufficiale da Presidente della Repubblica, egli enucleò in poche pennellate il significato politico del suo rapporto con la città. «Finita la lunga parentesi fascista, – affermò Gronchi – […] io vidi Livorno così mutilata nei suoi organismi vitali, nelle sue fabbriche e nelle sue strade, e fu come se mi si presentasse un nuovo campo di esperienza umana e politica insieme legato alle sorti di questa città e fui condotto a darle collaborazione e assistenza […] e sentirla come una città intimamente vicina al mio spirito. Da questa è nata quella collaborazione che ebbe un nome in quel momento e in quel periodo che io amo ricordare, quello del sindaco Diaz che portò, con un concorde sforzo, a far non tutto, ma molto per la resurrezione di questa nostra città. Mi parve allora che si realizzasse quella provvidenziale collaborazione tra Stato ed enti locali, che, quando, si manifesta così piena e senza riserve, non va a vantaggio dell’una o dell’altra parte politica, ma del più vero ed effettivo bene comune».

GUERRA E PACE (FREDDA). Nel primo decennio postbellico a Livorno grazie soprattutto alle «reciproche aperture intellettuali» (come le definì il suo biografo Gianfranco Merli) tra Gronchi e il sindaco comunista moderato Furio Diaz (1944-1954), trovarono così terreno di coltura quelle “parallele convergenze” tra democristiani e comunisti che significarono anche un’anomala alleanza di governo Pci-Dc in consiglio comunale protrattasi fino al 1951, ben oltre la rottura a livello nazionale (per un’analisi di dettaglio si veda il contributo già pubblicato su ToscanaNovecento). Ma sotto la liscia superficie della «provvidenziale collaborazione tra Stato ed enti locali» il quadro si delineava ben più complesso: la sintonia tra mondi politici distanti appariva anche come il frutto di precisi tatticismi politici e reciproche strumentalizzazioni e, soprattutto, veniva completamente a sfaldarsi in ambiti meno appariscenti nei quali, nel confronto tra le due mobilitazioni di massa, cattolici e comunisti si contendevano l’egemonia sulla società proponendo modelli radicalmente alternativi. Nei primi anni della guerra fredda la Livorno elettoralmente dominata dai comunisti e città simbolo del potere “rosso”, divenne così per Gronchi una partita da giocare su più tavoli, alternando diverse strategie d’azione.

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Giuseppe Togni, Giovanni Gronchi, Emilio Guano e don Roberto Angeli (Archivio Centro Studi R. Angeli)

SENZA RISERVE PER LIVORNO. Non ci sono dubbi sul fatto che Gronchi agì senza riserve per aiutare Livorno a risollevarsi dai disastri bellici. Negli anni in cui fu Ministro dell’Industria (1944-1946) e poi Presidente della Camera come deputato eletto nella circoscrizione in cui ricadeva Livorno (1948-1955), si possono elencare tutta una serie di suoi interventi risolutivi per lo sblocco di leggi e finanziamenti specifici per la città. Dalla sua azione in favore degli accordi tra il Comune di Livorno e l’Inail per la concessione di mutui per la costruzione di case popolari, alla pressione attuata sul governo per lo sblocco della legge per la ricostruzione del centro storico, fino alla soluzione del difficile finanziamento dell’opera pubblica più ambiziosa e onerosa affrontata negli anni Cinquanta dall’amministrazione livornese, l’acquedotto del Mortaiolo (circa 900 milioni ai valori del 1953).

INVASIONI DI CAMPO (A SINISTRA). Ma questi interventi lo videro agire spesso su Livorno in “amichevole concorrenza” con  Giuseppe Togni, dal quale si distingueva, com’è noto, per idee politiche affatto coincidenti. Al radicale anticomunismo di Togni, Gronchi contrapponeva una strategia mirante a erodere terreno ai comunisti sul loro stesso campo. Nel decennio postbellico il futuro Capo dello Stato probabilmente aveva visto proprio in Livorno anche un terreno ideale per sperimentare nel piccolo la sua proposta politica: la sua critica ponderata al centrismo degasperiano si fondava sul mito della democrazia sociale e mirava a battere gli avversari politici “a sinistra”, puntando sulle riforme strutturali capaci di eliminare alla base i motivi dell’opposizione social comunista. In questa strategia Gronchi ebbe su Livorno molti alleati, tra cui il più importante fu, senza dubbio, il sacerdote don Roberto Angeli (per un profilo si veda questo contributo) che dalle colonne del suo settimanale «Fides», fedele al suo passato cristiano-sociale, appoggiò con evidenza l’azione del politico democristiano. Non a caso era stato lo stesso sacerdote, insieme al presidente diocesano di Ac, Dino Lugetti, a scrivere un accorato appello a Vittorino Veronese, presidente della giunta nazionale, quando alla vigilia delle cruciali elezioni del 18 aprile 1948 sembrava che Gronchi non venisse inserito nella Circoscrizione elettorale livornese. «Pensiamo che l’assenza di Gronchi nella lista della nostra circoscrizione diminuisca il credito del partito e metta in pericolo molti simpatizzanti», avevano esternato con chiarezza don Angeli e Lugetti. «Occorre ricordare – aggiungevano – che la nostra zona è, per antica tradizione, repubblicana e progressista: un nome come Gronchi attira molte simpatie e consensi anche fuori dalle nostre file. Gli avversari, ne siamo certi, si avvantaggerebbero assai della cosa e griderebbero ai quattro venti che la “D.C. ha messo in pensione i suoi uomini più progressisti e si è sbandata a destra”».

pontificia commissione assistenza

Il pulmann del Cla (archivio Centro Studi R. Angeli)

STRATEGIE ALTERNATIVE. Eppure l’azione politica di Gronchi per Livorno ebbe, come anticipato, anche altre facce molto meno evidenti e conosciute. Proprio grazie al «rapporto di fiducia e stima» che lo legava a don Angeli (per usare ancora parole di Gianfranco Merli), Gronchi elaborò una strategia che gli permise di appoggiare massicciamente le opere assistenziali cattoliche senza prestare troppo il fianco a polemiche ideologiche, riuscendo così ad erodere consenso sociale ai comunisti in un settore cruciale della battaglia politica. Nel settembre 1948 nacque infatti il Comitato Livornese Assistenza (Cla), un’associazione a carattere provinciale, presieduta da don Angeli e appoggiata da Gronchi – fin da subito – nel ruolo di «Alto Patrono». Crescendo a ritmo esponenziale, tra il 1948 e il 1955 il Cla  portò assistenza a più di 61mila persone in tutta la provincia costruendo asili, doposcuola, colonie estive e invernali, refettori per indigenti. Alla base della nascita del Cla, oltre all’urgenza evangelica di operare a favore dei più sofferenti, c’era anche l’idea di togliere ai comunisti il primato sulle opere d’assistenza alla popolazione e sull’educazione all’infanzia. L’accorgimento ideato da Gronchi e don Angeli fu quello di federare in un organismo unitario la Pontificia Commissione Assistenza, il Centro italiano femminile, l’Ac e le Acli, in modo – si legge in una relazione del 1961 – da consentire «una coordinazione perfetta nel lavoro» ed «eliminare doppioni e concorrenze» che altrove «avevano procurato un grave danno comune». Configurandosi come ente civile il Cla nasceva poi svincolato da «rapporti “giuridici” di dipendenza dalle Autorità ecclesiastiche», fattore che eliminava burocrazie di qualsiasi tipo e permetteva «di ricevere larghi aiuti finanziari, morali, ecc. dagli organi governativi». Come scriveva don Angeli nella citata relazione del 1961 il nuovo ente livornese ebbe così subito «l’appoggio delle Autorità governative» che videro in esso «il mezzo per togliere ai comunisti il primato che essi avevano nel campo assistenziale». Soprattutto, come veniva rilevato, era la «situazione locale che consigliava di non presentarsi al pubblico con una etichetta troppo prettamente ecclesiastica», per cui si mirò a dare al Cla un «aspetto ufficiale laico» per «penetrare in ambienti altrimenti refrattari».

LA BATTAGLIA DELLA CARITA’. I documenti conservati presso l’Archivio dell’Istituto Luigi Sturzo, svelano il sistematico flusso di aiuti che Gronchi riuscì a far arrivare al Cla dal 1948 alla fine degli anni Cinquanta. Uno schema relativo al 1950 attesta, ad esempio, che in quell’anno l’allora presidente della Camera si adoperò perché al Cla giungesse dal Ministero dell’Interno un contributo straordinario di 27 milioni oltre ad una serie di aiuti in medicinali e razioni alimentari. Ecco perché don Angeli, in un appunto del 1955, poté scrivere che la formula federativa e i buoni uffici di Gronchi, come presidente della Camera prima e della Repubblica in seguito, consentirono in una delle province più “rosse” d’Italia, «di eliminare praticamente i comunisti dal campo assistenziale» e di convogliare verso le opere del Cla «quasi la totalità dei contributi statali per l’assistenza pubblica». In un ambito così strategico della mobilitazione politica per conquistare le masse, anche per il «progressista» Gronchi la ricercata «provvidenziale collaborazione» tra forze politiche contrapposte, veniva a rompersi in nome delle superiori esigenze della guerra fredda.

*Gianluca della Maggiore è dottore di ricerca in Storia. Collabora con l’Università degli studi di Milano nell’ambito del PRIN “I cattolici e il cinema in Italia tra gli anni ’40 e gli anni ’70”. E’ membro del coordinamento di redazione di ToscanaNovecento e collabora con l’Istoreco di Livorno. Autore di studi sul mondo cattolico, si occupa di cinema, Resistenza e movimenti politici. Tra i suoi ultimi saggi Una diocesi sfollata. La Chiesa di Livorno tra innovazioni pastorali e reti di assistenza (1943-1944), in Spaesamenti. Antifascismo, deportazione e clero in provincia di Livorno, a cura dell’Istoreco Livorno, Ets, Pisa 2015.

Articolo pubblicato nel dicembre del 2015.




Il diario di prigionia inedito di un ufficiale dei granatieri durante la Grande Guerra

i11 marzo [1918]. Dopo una lunga interruzione riprendo le mie memorie. Io non so spiegarmi questa mia apatia in qualunque cosa. Salvo le due ore che io studio tedesco con un mio amico, passo la giornata in un ozio tale che mi fa sempre pensare ai giorni felici e mi rende più impossibile la vita che passo in prigionia. Del resto tutti passano il tempo in ozio, seguendo il consiglio degli ufficiali medici che dicono che è nocivo alla salute studiare e non mangiare. Ed è vero: io provo una tale depressione e debolezza dopo qualche ora d’applicazione. Il nostro mangiare diventa peggiore di giorno in giorno e non si sa come si andrà a finire con tale trattamento. Dei giorni ci danno acqua calda assoluta, altre volte qualche granello d’orzo: gli altri almeno ricevono numerosi pacchi dalla famiglia: io invece debbo contentarmi della poca brodaglia che questi infami tedeschi ci danno. E tutto ciò perché i miei genitori non mi mandano le cibarie richieste. In questi giorni, cioè dal 22 febbraio all’11 marzo sono morti altri 4 aspiranti e cinque soldati: tutti di polmonite, dicono i medici tedeschi, e perché non in seguito alla denutrizione? Intanto il locale ospedale si va popolando, e la tubercolosi va facendo strage.

Questa pagina di diario proviene dal taccuino di un ufficiale dell’esercito italiano detenuto nel campo tedesco di prigionia di Celle, nei pressi di Hannover, durante la prima guerra mondiale. Si tratta di un diario anonimo conservato presso l’archivio dell’Istituto Storico della Resistenza e della Società Contemporanea di Livorno, scritto da un ufficiale che cadde prigioniero delle truppe tedesche durante la disfatta di Caporetto. Fu deportato prima al campo di Rastatt e poi a Celle-lager. Il 24 gennaio 1918, dopo circa tre mesi di prigionia decise di iniziare a scrivere “quotidianamente e coscientemente” le sue memorie. Le sue pagine di diario, sebbene scarne di informazioni anagrafiche, permettono di tratteggiare alcuni dei caratteri della sua personalità e della sua indole. Era un ufficiale del primo reggimento dei granatieri, un corpo scelto per il quale erano richiesti particolari requisiti di prestanza fisica.

CelklePrima di cadere prigioniero aveva combattuto la guerra di trincea a capo di ventisette uomini e aveva comandato una sezione di “pistole mitragliatrici”. Dei suoi soldati scrive: avevo 27 uomini, tutti veterani della guerra, e ai quali la patria deve serbare eterna gratitudine per il contegno eroico da essi sempre dimostrato. Dai suoi scritti trapelano patriottismo, convinzione e una radicata adesione alla causa bellica. Era un uomo istruito, colto che durante la detenzione in Germania si dedicò allo studio del tedesco probabilmente per comprendere meglio la realtà che lo circondava; quotidianamente leggeva i giornali che arrivavano nel campo, commentando nel suo taccuino gli avvenimenti bellici.

Frequentava assiduamente le attività culturali che venivano organizzate nel campo. Infatti, per reagire a quella che è stata definita la “malattia del reticolato”, ovvero la forte apatia e l’abbattimento provocati dalla reclusione e dalla malnutrizione, gli ufficiali prigionieri unirono competenze e conoscenze e organizzarono corsi, conferenze, dibattiti e, ancora, realizzarono rappresentazioni teatrali, concerti e tornei. Attività con le quali cercavano di resistere alla monotonia dei giorni e all’abbrutimento della reclusione ritrovando la propria identità. Un episodio in particolare permette di rivolgere lo sguardo anche nella sfera intima, negli affetti della vita da civile dell’autore del diario. Nei primi giorni di aprile del 1918, racconta di aver fatto cadere nella fogna il portafoglio nel quale conservava preziosi ricordi: un’immagine di una madonnina miracolosa, la foto di una ragazza amata, il tesserino universitario e una sua foto di quando aveva sedici anni. Piccoli frammenti che raccontano una vita tra studio e amori giovanili.

il-campo-di-celle-fotoIl tema ricorrente in ogni pagina del diario è il problema della scarsa alimentazione; l’ufficiale dei granatieri si nutrì per circa un anno essenzialmente con pane e zuppe di carote e patate. Quotidianamente riporta annotazioni sulla carenza di cibo e ancor più sulla mancanza di aiuti dall’esterno. Il fondamentale studio di Giovanna Procacci sui prigionieri italiani della prima guerra mondiale ha dimostrato come l’esperienza della prigionia in Germania per i militari italiani sia stata particolarmente dura. Secondo gli accordi internazionali ratificati con la convenzione dell’Aja, il governo dello stato che catturava i prigionieri doveva garantire a costoro vitto, alloggio, vestiario in quantità e qualità non inferiore a quanto veniva consegnato alle truppe. In realtà gli stati belligeranti si trovarono del tutto impreparati a rispettare il regolamento che rimase generalmente disatteso; in particolare la Germania dichiarò di non poter rispettare le convenzioni in seguito al blocco economico imposto dagli stati dell’Intesa. Di fronte a questa situazione, Francia, Gran Bretagna, e in seguito gli Stati Uniti iniziarono a spedire aiuti collettivi, come viveri, vestiario e medicinali, a spese dello Stato ai propri militari prigionieri. Al contrario il governo italiano decise di non mettere in atto alcun provvedimento di pubblico soccorso: non inviò alcun aiuto statale e semplicemente non proibì alle singole famiglie l’invio di pacchi privati.

In un secondo momento, per le pressioni internazionali il governo decise di inviare aiuti collettivi organizzati dalla Croce Rossa ma solo agli ufficiali e dietro il pagamento di denaro da parte dei familiari. Un passaggio del diario parla chiaramente di questo problema: Oggi è venuta la Commissione governativa: il nostro generale [Pisani], comandante del campo, ha parlato con il generale tedesco. Si sono intrattenuti sul trattamento di noi ufficiali prigionieri e dietro le lagnanze del nostro comando ha risposto: – Rivolgetevi al vostro governo e fate sì che egli faccia quello che fa il governo Inglese e Francese: noi non possiamo far di più.- In altre parole voleva dire: se morite di fame non è colpa del nostro governo ma del governo italiano. Per l’ufficiale anonimo la prigionia fu particolarmente difficile perché, per un motivo ignoto, non ricevette mai pacchi di generi alimentari dalla famiglia. Il suo diario-documento è quindi emblematico delle vessazioni subite dai prigionieri italiani, probabilmente anche per una retorica che li vedeva come i perdenti di Caporetto.

Articolo pubblicato nel giugno del 2015.




La Resistenza continua…

Angiolo Gracci nacque a Livorno il primo agosto 1920, da una famiglia con radici contadine. Fu condotto presto dalla Toscana alla Sicilia a causa del mestiere del padre, ferroviere che diresse in successione le stazioni di Sciara Aliminusa e Castellammare del Golfo tra il 1926 e il 1929.

La permanenza nei centri palermitani, dove il piccolo venne inquadrato nelle strutture educative fasciste, lo colpì profondamente e lo rese poi sensibile alla questione del divario socioeconomico Nord-Sud e al disagio materiale di larga parte della popolazione meridionale. Nei suoi racconti agli studenti, durante gli ultimi decenni di vita, affiorava spesso il ricordo di esser stato l’unico ad indossare le scarpe in quella stalla riadattata che era l’aula della scuola elementare frequentata in Sicilia.

 Al termine del  liceo classico Galilei di Pisa, il giovane Gracci si spostò a Roma per frequentare l’Accademia e Scuola di applicazione della Regia Guardia di Finanza e ottenere così l’arruolamento nel Corpo il 23 ottobre 1939. Nominato sottotenente il primo settembre 1941, venne inviato in Albania nel gennaio seguente tra le truppe d’occupazione italiane, con le quali partecipò alle operazioni di guerra.

Rientrato in Italia, il 9 settembre 1943 fu assegnato al Comando della Legione di Firenze della Guardia di Finanza. Assistendo così all’invasione nazista dell’Italia, Angiolo fondò con altri studenti della sinistra del Gruppo Universitario Fascista fiorentino il Movimento giovani italiani repubblicani. Conclusa questa breve esperienza, la maggioranza degli aderenti al gruppo si schierò con la Repubblica Sociale Italiana. Gracci, preso contatto col futuro Commissario Politico della Divisione Arno Danilo Dolfi – del suo stesso quartiere – scelse invece la via della montagna.

Gracci – in alto a destra – con altri partigiani della Brigata Sinigaglia a Monte Scalari, estate 1944

Gracci – in alto a destra – con altri partigiani della Brigata Sinigaglia a Monte Scalari, estate 1944

All’inizio del giugno 1944 Angiolo, che diventava così il partigiano “Gracco”, raggiunse la Brigata Sinigaglia presso Poggio alla Croce, con l’incarico di Capo di Stato maggiore conferitogli dal Corpo volontario della libertà. Un mese più tardi, su designazione del Comando di divisone e dietro conferma dei partigiani, assunse il comando della formazione stessa, riorganizzandola dopo le gravissime perdite subite nella battaglia di Pian d’Albero del 20 giugno 1944.

Compromessa l’importanza strategica di Monte Scalari per i nazifascisti, contribuì a sottrarre all’accerchiamento e alla distruzione la Brigata raggiungendo Poggio Firenze e Fonte Santa. Dopo ulteriori combattimenti, passando alla testa delle avanguardie dell’VIIIª Armata britannica, la Sinigaglia riuscì ad entrare a Firenze il 4 agosto 1944. Soltanto grazie ad una tenace opposizione all’iniziale ordine alleato di disarmare, le formazioni partigiane garibaldine ottennero di partecipare alla liberazione cittadina. “Gracco” condusse allora il rastrellamento dei quartieri di Santo Spirito e San Frediano, che furono liberati dai franchi tiratori nazifascisti. Guidando poi una pattuglia di esplorazione sui piazzali ferroviari di San Iacopino, rimase ferito in combattimento il 13 agosto ma riprese poi il comando della Brigata fino alla smobilitazione.

Nell’aprile 1945 venne pubblicato il suo Brigata Sinigaglia, primo libro edito in Italia sulla Resistenza partigiana, a cura del Ministero dell’Italia occupata. Gracci avrebbe poi ricevuto la medaglia d’argento al valor militare nel 1954.

 Intanto, conclusa l’esperienza partigiana, Angiolo riprese servizio attivo nella Guardia di Finanza il 7 settembre 1944, al Comando della Legione di Firenze. Nell’agosto 1948 gli venne conferito per anzianità il grado di Capitano, ma la sua permanenza in Finanza si fece sempre più travagliata. Non tanto per i gravi e recidivi problemi di salute che determinarono una lunga aspettativa, quanto piuttosto per le difficoltà relazionali all’interno del Corpo.

Gracci infatti, che sin dal 1944 aveva aderito al PCI ed era stato tra i membri costituenti del Comitato provinciale dell’ANPI fiorentino, non aveva mancato di manifestare pubblicamente il suo orientamento in varie circostanze. Si procurò così diverse sanzioni e richiami per inosservanza al «criterio assoluto di apoliticità» richiesto ai membri delle forze dell’Ordine, per «scarso senso di disciplina», «tendenza alla polemica», «particolare animosità», «presunzione». È quanto riferiscono le note caratteristiche sul suo conto compilate annualmente dai superiori, che pure gli riconoscevano notevoli capacità e competenze.

Angiolo, sposatosi nel frattempo con Margherita Aiolli, fu seguito dalla famiglia negli spostamenti che gli vennero pertanto disposti tra il 1950 e il 1956, alla volta di Palermo, Bologna ed Udine. Viste le reiterate destinazioni ad incarichi amministrativi e a seguito di un ulteriore ordine di trasferimento a Bari nel dicembre 1956, Gracci scelse di far domanda di pensionamento e congedarsi dal Corpo. Idea coltivata da oltre un anno, per il sempre più problematico permanere nell’Arma e per l’intuibile preclusione riguardo a possibili avanzamenti di carriera.

Cessato il suo servizio nella Guardia di Finanza alla fine del 1957, l’anno successivo ottenne un impiego a Roma come consulente legale alla Lega nazionale delle cooperative, con i cui responsabili aveva già avviato da tempo i contatti. Poté mettere così a frutto la laurea in giurisprudenza conseguita nel 1949, impiegata poi per riorganizzare il servizio di assistenza legale alla Camera del Lavoro di Firenze e per svolgere un’intensa attività professionale di difesa dei lavoratori e dei militanti della sinistra rivoluzionaria nel corso degli anni Sessanta.

Gracci – sulla destra – accanto a Vincenzo Misefari di Reggio Calabria e Salvatore Puglisi di Spezzano Albanese durante una manifestazione a Livorno in occasione della fondazione del Pcd’I (m-l), 16 ottobre 1966.

Gracci – sulla destra – accanto a Vincenzo Misefari di Reggio Calabria e Salvatore Puglisi di Spezzano Albanese durante una manifestazione a Livorno in occasione della fondazione del Pcd’I (m-l), 16 ottobre 1966.

Si tratta di una fase di svolta nella posizione politica di “Gracco”, come continuò ad esser chiamato per tutta la vita. Nel 1966 si dimise infatti dal PCI e fu tra i fondatori del Partito comunista d’Italia (marxista-leninista), che si poneva quale alternativa al primo, reo insieme al PCUS di aver «tradito» la «vera» politica rivoluzionaria di classe. Quella politica che il nuovo organismo, grazie anche alla dedizione assoluta richiesta agli adepti, si proponeva di perseguire per realizzare la dittatura del proletariato, la sola forma di governo in grado di instaurare il socialismo.

Nell’agosto 1968 seguì l’espulsione di Gracci dall’ANPI, con l’accusa di imporre metodi di lotta e di azione politica antidemocratici e non unitari, esclusivamente in linea con il  proprio partito. Decisione che secondo Angiolo era invece motivata dalla propria battaglia «per lo sviluppo di una lotta di massa per cacciare dal paese le basi e i comandi degli imperialisti Usa».

 Lo stesso antimperialismo si rivelò poi una componente essenziale del movimento antimperialista-antifascista La Resistenza continua (RC), che nacque nel 1974 a Milano come associazione partigiana esterna ed alternativa all’ANPI e lo vide nuovamente tra i promotori, accanto ad altri ex partigiani, giovani studenti ed operai. La responsabilità dell’organizzazione fu affidata al Comitato direttivo della rivista, che “Gracco” guidò fino agli ultimi anni di vita, a riprova del suo intenso e prolungato impegno redazionale per varie testate di area marxista-leninista. Si ritrovò così a ricoprire una posizione di primo piano nel movimento, accanto ai veterani, «compagni» marxisti-leninisti ed amici Guido Campanelli e Alberto Sartori.

Resistenza, antimperialismo e meridionalismo rappresentavano per RC componenti inscindibili di un unico programma, che faceva della prima un simbolo guida. La stessa Resistenza che, animata da un avanzato progetto politico, economico e sociale, era stata «bloccata» e «tradita» dalle forze imperialiste anglo-americane, dal «capitalismo monopolistico italiano», dal Vaticano e dall’«ala revisionista-socialriformista» del movimento operaio. Non si poteva pensare all’antifascismo senza l’antimperialismo, essendo il fascismo subordinato all’imperialismo. Antimperialismo – secondo il manifesto-programma del movimento – significava anche lotta contro la soggezione di tipo coloniale e razzista di cui era vittima il Meridione da oltre un secolo. Una subordinazione aggravata dall’imperialismo statunitense ed europeo, instaurato con l’annientamento del movimento spontaneo di Resistenza del popolo meridionale nell’immediato dopoguerra.

Gracci con l’amico Matteo Visconti, altri militanti marxisti-leninisti e alcuni operai durante l’occupazione della fabbrica Berga Sud di Salerno, luglio 1974.

Gracci con l’amico Matteo Visconti, altri militanti marxisti-leninisti e alcuni operai durante l’occupazione della fabbrica Berga Sud di Salerno, luglio 1974.

In virtù di questa rivoluzione «negata», delle ingiustizie e dell’oppressione subite dalle «masse supersfruttate del Meridione», Gracci svolse un’intensa attività di mobilitazione politica e sociale nel Sud, dove erano presenti diverse cellule del Pcd’I (m-l) Linea rossa, il primo degli innumerevoli gruppi in cui si frantumò il Pcd’I (m-l) dal 1968 in avanti e del quale Angiolo rappresentava uno dei principali esponenti. Come testimoniano le stesse immagini della sezione fotografica del fondo archivistico a lui intitolato – recentemente riordinata ed inventariata dallo scrivente – non c’era praticamente anno in cui Angiolo non si spostasse dalla sua casa fiorentina verso località meridionali, di cui abitualmente ritraeva realtà marginali e disagiate. Non mancavano trasferte in Basilicata, Molise, Sardegna, Puglia e Sicilia, ma centri calabresi e campani figuravano tra le sue principali mete. In questi luoghi Gracci sviluppò non solo legami politici, ma anche rapporti amicali e affettivi che avrebbe mantenuto per tutto il corso della sua vita. Emblematiche le relazioni con i militanti marxisti-leninisti Rosario Migale di Cutro e Matteo Visconti di Salerno.

Gracci con Rosario Migale e altri «compagni» a Roma per il I Congresso nazionale di Democrazia proletaria, aprile 1978

Gracci con Rosario Migale e altri «compagni» a Roma per il I Congresso nazionale di Democrazia proletaria, aprile 1978

Oltre che come attivista di La Resistenza continua, Angiolo continuò il suo impegno meridionalista anche in veste di promotore del Movimento leghe lavoratori italiani e quale membro di Democrazia proletaria, in cui la Linea rossa confluì nel 1978. “Gracco” proseguì poi incessantemente la difesa e l’assistenza legale dei militanti, che culminarono con il maxiprocesso alle BR del 1989. Nel 1991 aderì al nuovo Movimento della Rifondazione comunista, che alla fine dello steso anno si costituì in Partito, accogliendo tra gli altri la maggioranza dei dirigenti di Democrazia proletaria.

In questi anni seguitò costante la sua attività antimperialista. Al diretto coinvolgimento in diverse iniziative e manifestazioni pubbliche contro le basi USA e NATO in Italia – come mostrano le stesse foto del suo archivio – e alla collaborazione con varie associazioni, quali la Lega per il disarmo unilaterale e la Lega internazionale per i diritti e la liberazione dei popoli, si aggiunse il sostegno alla causa di Silvia Baraldini. Nella costituzione del Comitato per il rimpatrio di Silvia Baraldini di Firenze del 1991 e del Coordinamento nazionale dei comitati per il rimpatrio di Silvia Baraldini del 1994 Gracci si rivelò ancora una volta tra i principali animatori.

Gli stessi anni Novanta, nel corso dei quali “Gracco” si prodigò anche per la diffusione dei valori della Resistenza e della Costituzione repubblicana tra i giovani, videro poi il suo ritorno nel Comitato provinciale dell’ANPI fiorentino. Il rapporto restò comunque travagliato: è del 25 giugno 2000 un provvedimento disciplinare a suo carico, adottato dai dirigenti provinciali dell’ANPI per l’intervento contro gli USA e la NATO durante la celebrazione del 56° anniversario della battaglia di Pian d’Albero presso Figline Valdarno. Tuttavia Angiolo proseguì fino alla fine la sua militanza nell’organizzazione, rimanendo sempre coerente con le proprie posizioni. Dopo una grave malattia, è venuto a mancare a Firenze il 9 marzo 2004.

Articolo pubblicato nel dicembre del 2014.




Ilio Barontini. Un protagonista dell’antifascismo internazionale

Ilio Barontini nasce a Cecina (Livorno) il 28 settembre 1890 da due genitori di origini contadine ed è il secondo di cinque figli. Il padre in seguito ad una malformazione che ne causò il ricovero a Roma riuscì a frequentare una scuola professionale e grazie alle competenze lì acquisite fu chiamato dalla famiglia Wassmuth (famiglia valdese da lungo residente a Livorno) ad occuparsi delle loro fabbrica di pipe in città. Ilio presto si sposerà e avrà due figlie, Nara nata nel 1915 ed Era nata nel 1923.

Viene richiamato alle armi durante la 1ᵃ Guerra ma dopo un breve periodo viene destinato alla produzione bellica alla Breda di Milano. Alla fine del conflitto entra come operaio nelle officine ferroviarie della stazione di Livorno. Nel 1920 lo troviamo esponente del Consiglio provinciale del Sindacato Ferrovieri e nel Comitato federale del Psi. Sempre nel 1920 diviene consigliere del Comune di Livorno ed è presente nella giunta Mondolfi con la delega alle finanze come assessore supplente.

Aicvas0003Nel 1921 aderisce alla formazione del Partito Comunista d’Italia, sezione della IIIᵃ Internazionale. Assume da subito ruoli di rilievo e si trova a difendere, in contrasto con il centro del Partito, l’adesione dei comunisti agli Arditi del Popolo a fianco degli anarchici, repubblicani e socialisti. Svolgerà un ruolo centrale nel’organizzazione dello sciopero della fine di luglio, organizzato dall’Alleanza del Lavoro. Fu in quell’occasione, in cui la città labronica si trasformò in un vero e proprio scontro armato, che vennero distrutte le sedi della Camera del Lavoro, dello SFI e del PCd’I e avvenne l’assalto all’abitazione dei fratelli Gigli con la morte di Pietro.

Dopo la marcia su Roma viene licenziato insieme a tutti i ferrovieri attivi nella lotta contro lo squadrismo. Tra il 1923 e il 1924 subisce tre arresti, con proscioglimento e assoluzione per insufficienza di prove. Diventa un militante “dormiente” e entra e va a lavorare nella ditta del padre.

Dal 1931 si trova in Francia dove lavora tra gli emigrati e per conto del centro del Partito comunista fino a quando, alla fine del 1932 parte per l’Unione Sovietica dove svolgerà un lavoro politico tra i lavoratori marittimi e poi entrerà come operaio in una fabbrica aereonautica dell’Armata Rossa. Durante il soggiorno sovietico frequenterà il corso per quadri dell’Internazionale. Nel 1935 torna in Francia e da qui poi verrà inviato a combattere in Spagna come ufficiale di Stato maggiore della XII Brigata internazionale. Partecipa alla battaglia in difesa di Madrid, a quella di Albacete e poi al combattimento presso il fiume Jarama. Nel frattempo è divenuto commissario politico del battaglione che si trova sotto il comando militare di Randolfo Pacciardi. Quando Pacciardi sarà ferito in battaglia, il comando, anche militare, passa a Barontini che dirigerà la battaglia di Guadalajara, battaglia che si protrae più di dieci giorni. Dopo questa prova viene nominato commissario politico di Divisione ma alla fine di settembre a causa di un comportamento che verrà sanzionato dal nuovo comandante Klèber come poco ortodosso con l’assenso di Togliatti e contro il parere di Vidali e della Teresa Noce, ritorna in Francia.

In Francia, da parte del Centro estero del Pci, per mezzo di Di Vittorio, gli viene ordinato di recarsi a combattere in Etiopia accanto alla resistenza etiope dove sarà poi raggiunto dallo spezzino Domenico Rolla e da Anton Ukmar. Prenderanno i nomi di battaglia dei tre apostoli: Paulus, Petrus e Johannes, e agiranno in tre zone diverse del paese. Barontini nel territorio di sua competenza riuscirà anche a stampare un giornale bilingue, “La voce degli Abissini”. Sulla loro testa verrà messa una taglia e facendosi il pericolo troppo grave, i tre rientrano passando da Khartoum dove Barontini è accolto dal generale Alexander che più tardi gli conferirà la Bronze Star. Sarà un’esperienza che probabilmente gli tornerà utile per la resistenza armata contro i tedeschi, sia in Francia che in Italia.

Immagine Barontini da diapIn Francia è già in atto l’occupazione tedesca e Barontini rientrato col nome di battaglia “Giobbe” nel sud della Francia, organizza i gruppi dei franc tireurs preparando anche azioni clamorose come quella contro l’Hotel Terminus di Marsiglia, sede del comando delle SS che sarà fatto saltare per aria. Dopo l’8 settembre ritorna clandestinamente in Italia e per ordine del Partito è inviato a costruire i GAP (Gruppi d’azione patriottica).

Con il nome di “Fanti” si sposta tra Emilia Romagna, Piemonte, Toscana, Veneto e Lombardia. Dall’ottobre 1943 è a Bologna dove dirige la lotta armata. Nel maggio del 1944 con il nome di battaglia “Dario” dirigerà per il Pci, l’azione politica delle formazioni partigiane. A giugno prende il governo del Comando Unico Militare dell’Emilia Romagna. Dirigerà con esito positivo la battaglia di Porta Lame a Bologna del novembre 1944 e quella di Monte Formia nel modenese. Alla fine della guerra ritorna a Livorno, entra nel Comitato Centrale del Partito comunista, viene eletto deputato all’Assemblea costituente e segretario della Federazione del Partito comunista a Livorno.

Con le elezioni de 1948 diventa senatore della Repubblica con l’incarico di sottosegretario della Commissione Difesa. Quelli che in quel periodo l’hanno conosciuto ne hanno tramandato un’immagine mitica e, se vogliamo, anche stereotipata. Vestito di un impermeabile sdrucito sembrava aver mantenuto le abitudini della clandestinità, atteggiamento non solo probabile ma comprensibile e, non solo suo, ma di tutti quelli che nel ventennio si erano dovuti guardare non solo le spalle, considerati gli anni cupi in cui si erano trovati a vivere. La morte sopravverrà repentina per un incidente stradale il 22 gennaio 1951. Insieme a lui moriranno altri quadri dirigenti di quel Partito che si vedrà decapitato da cause esterne e imponderabili e per il quale comincerà una lunga fase di transizione verso un nuovo gruppo dirigente.

Oltre alla decorazione della Bronze Star ricevette da Giuseppe Dozza, sindaco di Bologna, il titolo di cittadino onorario della città. Ricevette anche dal’Unione Sovietica il prestigioso Ordine della Stella Rossa.

Articolo pubblicato nell’ottobre 2014.