Israele “Lele” Bemporad

I Bemporad erano una famiglia di ebrei toscani assai numerosa. Il ramo guidato da Riccardo si trasferì da Firenze a Pistoia a cavallo tra l’800 e il ‘900. Riccardo era il quarto di un gruppo di 6 tra fratelli e sorelle, e il nome di sua sorella minore, Italia, nata nel 1888, testimonia di per sé l’afflato patriottico e il grado di integrazione che la famiglia aveva raggiunto nel Paese. Benestanti, dediti al commercio dei tessuti e proprietari di una residenza di campagna con un attiguo appezzamento di terra dato a mezzadria nei pressi di Serravalle Pistoiese, fu per iniziativa del capofamiglia che venne eretta in quell’epoca, ancorché in stile medievale come suggerivano certi gusti del tempo, la Torre Bemporad, un edificio ben noto ai pistoiesi e che ancora oggi fa mostra di sé in pieno centro storico, all’ingresso di via del Can Bianco.

famiglia bemporad inizi 900_israele e il quinto da destra in altoRiccardo Bemporad e sua moglie Ines Franco ebbero a loro volta 7 figli e figlie, di cui Israele era il sesto. Il motivo della scelta del nome resta a tutt’oggi ignoto, mancando anche nella memoria familiare informazioni che ci possano far comprendere se tale scelta fu dovuta a motivi prettamente religiosi o in omaggio al movimento sionista, anche se questa eventualità appare più remota dato che nessun discendente della famiglia è mai diventato un attivo sionista e nessuno ha scelto di compiere l’Aliyah, ovvero di trasferirsi a vivere in Israele. Tuttavia la scelta dei nomi di Riccardo e Ines rivela il permanere di un’identificazione patriottica – la terza figlia fu chiamata Margherita, come la regina – nonché l’apprezzamento per i nomi antichi o legati al medioriente, dato che le due primogenite furono chiamate rispettivamente Cesarina ed Egizia.

Nato il 27 giugno 1914, Israele condusse una tranquilla infanzia in città e fu poi avviato agli studi classici, dapprima presso il Liceo Forteguerri di Pistoia, per poi conseguire il diploma nel 1936 presso il Liceo Galilei di Pisa, dove si era trasferito presso Aldo Dello Strologo, che aveva sposato sua sorella Egizia. Nello stesso anno si iscrisse alla Facoltà di Giurisprudenza di Pisa, dove comunicò, come era obbligatorio fare, la propria presenza ai Gruppi Universitari Fascisti (GUF) ed alla coorte autonoma universitaria della Milizia Volontaria per la Sicurezza Nazionale (MVSN). A Pisa Israele sostenne due esami di diritto romano e uno di diritto privato, per poi inoltrare domanda di trasferimento a Firenze nel novembre del 1937.
Ricominciando a frequentare Pistoia, nella primavera-estate del 1938 conobbe quella che sarebbe diventata la sua compagna per la vita, Dina Fontana, una ragazza di umilissime origini, figlia di emigrati provenienti dall’Emilia e di religione cattolica. Il fidanzamento tra i due giovani fu osteggiato dai genitori di Israele. Giocavano tanto la differenza religiosa che la marcata diversità di estrazione sociale.

Ma problemi ben più gravi erano in agguato.
Nello stesso periodo, infatti, il Fascismo si lanciava nella campagna antisemita, con la pubblicazione il 14 luglio del ’38 del Manifesto della razza, a cui seguirono nel settembre le Leggi razziali. La famiglia Bemporad veniva regolarmente censita con le altre 62 famiglie di ebrei della provincia di Pistoia. Nonostante le leggi proibissero le unioni “miste” tra gli italiani e gli “appartenenti alla razza ebraica”, ed introducessero gravi restrizioni nel campo dell’istruzione, fino all’espulsione, Israele perseverò tanto nel suo legame con Dina quanto nel suo impegno universitario. Il 3 novembre del 1938 fece formale domanda per essere iscritto al terzo anno della Facoltà di legge, costretto a dichiarare, in calce alla richiesta, che «Il sottoscritto è di razza ebraica e professa la religione ebraica, lui e la famiglia». Da quel momento sui verbali degli esami sostenuti, per i quali doveva fare richiesta di ammissione al Rettore, iniziò ad apparire la dizione di «studente di razza ebraica». Frattanto le maglie intorno agli ebrei si stringevano.
israele bemporad e dina fontanaNel febbraio del 1939 fu cancellato dalle liste di leva e sul certificato anagrafico appariva, di nuovo, il timbro con la dizione «di razza ebraica», mentre la famiglia iniziava a sfaldarsi, con suo fratello minore Roberto che riusciva a emigrare a New York, approdando ad Ellis Island. La carriera universitaria di Israele diventava sempre più precaria, fino al suo epilogo, sulle cui motivazioni la scheda nominativa della facoltà di Giurisprudenza non lascia dubbi, «Troncati gli studi perché di razza ebraica». Il legame con Dina invece reggeva, e diventava sempre più saldo. Un grande coraggio animava anche questa donna, che giovanissima – era nata nel 1919, aveva appena venti anni – continuò caparbiamente a coltivare il suo amore per Israele, nonostante il Fascismo, le discriminazioni, le persecuzioni, le differenze religiose e sociali, l’ostilità familiare.

Costretti a vivere in sordina, silenziosamente, gli ebrei pistoiesi condussero una vita appartata e impaurita, di cui sappiamo ben poco, fino all’8 settembre del 1943. Con l’occupazione nazista e la nascita della Repubblica Sociale Italiana i membri della famiglia si frammentarono ulteriormente per la Toscana, e si nascosero. I Bemporad pistoiesi trovarono riparo in montagna, nell’area di Cireglio, anche con l’aiuto dell’avvocato pistoiese Bianchi. I rapporti tra Israele e Dina entrarono in clandestinità, mentre la caccia agli ebrei era aperta. Nel pistoiese ne vennero arrestati 88, quasi tutti sfollati da altre zone o di passaggio, mentre il fratello di Riccardo, e zio di Israele, Amedeo, veniva inghiottito dalla Shoah. Arrestato e deportato da Firenze, non fece mai ritorno.

Lele_primo da sinistra_in via abbi pazienza a Pistoia il girono della LiberazioneÉ in questo clima che Israele matura la scelta resistenziale, a cui partecipa anche suo nipote, Giancarlo Piperno, che diventerà un medico di fama mondiale. Stanco di nascondersi, e determinato a costruirsi la propria via d’uscita, il 17 giugno del 1944 entra a far parte delle brigate Garibaldi nella formazione Ubaldo Fantacci. Dina aiuta come può, portando viveri con la propria bicicletta. L’attività partigiana di “Lele”, il nomignolo con cui tutti l’avevano sempre chiamato e che adesso diventa il suo nome di battaglia da partigiano, si racchiude nell’arco dell’estate del 1944, ma è intensa. Matura un orientamento socialista e a quanto sembra cura dei contatti con Radio Londra. Alla fine parteciperà attivamente alla Liberazione di Pistoia l’8 settembre del 1944, immortalato anche nelle storiche foto della Liberazione in alcune vie a due passi da quella che diventerà poi la sua casa, insieme alle sorelle Cecchi, e si guadagna in questi mesi la qualifica di partigiano combattente.

Dopo la Liberazione “Lele” riprese le fila spezzate della sua vita, che nel frattempo si erano arricchite. Nel 1945 nasceva la sua prima figlia, Miriam, fuori dal matrimonio perché le leggi razziali ancora in vigore lo impedivano – lui e Dina riusciranno a sposarsi solo nel 1947 –, una circostanza malvista nell’Italia del tempo. Nello stesso anno chiese di essere riammesso a Giurisprudenza, ma dovrà presto abbandonare gli studi per i sopraggiunti nuovi impegni familiari. Nel 1948 nasceva Sara, seguita poi da Laura. Sempre in questo periodo si impegnava nel partito socialista, per un periodo, e poi nell’ANPI, a cui rimarrà sempre iscritto, e nel sostegno ai lavoratori della cooperativa di trasporti SACA. “Lele” resterà sempre a vivere a Pistoia con la propria famiglia, dapprima fa il negoziante, poi apre il “bar dello studente”, punto di ritrovo per generazioni di giovani pistoiesi, senza clamori, ma con la grande dignità di chi si è ripreso tanto la città che la cittadinanza.

Stefano Bartolini è ricercatore presso l’Istituto storico della Resistenza e dell’età contemporanea di Pistoia e coordina le attività di ricerca storica, archivistiche e bibliotecarie della Fondazione Valore Lavoro. Ha partecipato al recupero dell’archivio Andrea Devoto ed attualmente si occupa di storia sociale, del lavoro e del sindacato. Tra le sue pubblicazioni: Fascismo antislavo. Il tentativo di bonifica etnica al confine nord orientale; Una passione violenta. Storia dello squadrismo fascista a Pistoia 1919-1923; Vivere nel call center, in La lotta perfetta. 102 giorni all’Answers.

Articolo pubblicato nell’aprile del 2016.




Un Partigiano di nome Annibale

Nato a Pistoia (Santomato) il 19 gennaio 1922, figlio di Leonardo e Capponi Maria Ida, Annibale Trinci ottiene la licenza elementare, contadino poi elettricista e operaio alla fabbrica pistoiese San Giorgio dall’ottobre del 1939, iscritto alla CGIL dove si compie la sua educazione di classe, in quella che negli anni ‘40 era una fucina di militanti operai comunisti. Nel 1941 Trinci è chiamato alle armi all’Elba a Portoferraio nel genio foto elettricisti; partecipa dal 18 novembre 1942 al 21 gennaio 1943 alle operazioni di guerra svoltesi nel Mediterraneo con la 105a Compagnia mista genio mobilitato e poi dal 7 febbraio 1943 al luglio 1943 e dal 9 agosto 1943 all’8 settembre 1944 nelle operazioni nel Mediterraneo per la difesa della patria a copertura costiera con la 105a Compagnia Mista Genio Mobilitato.

Dal 22 marzo 1944 per ordine della dirigenza della San Giorgio è trasferito nella sede di Cambiano, vicino Torino, da lì inizia la sua esperienza da partigiano con il nome di battaglia “Marco Polo”. È a Cambiano che Annibale incontra Giordano Bruschi e Olga Arcargioli. Giordano, di origine pistoiese, si era diplomato in ragioneria a Genova ed era stato assunto a 19 anni alla San Giorgio di Cambiano, introdotto dallo zio, il primo settembre 1944 come impiegato contabile per i settori della mensa e del magazzino; nonostante la giovane età diverrà ben presto, con il nome di battaglia “Giotto” commissario politico della 30a Brigata delle SAP “Capriolo”. Olga, in fabbrica dal primo luglio 1943 come impiegata stenodattilografa, anche lei diciannovenne, si ritrova nel tumulto della guerra e diventa una fida staffetta.
A Cambiano s’incontrano due classi operaie: una proveniente da Pistoia, l’altra da Sestri Ponente. I pistoiesi erano diretti da Trinci e Niccolai, impiegato originario di San Marcello. Il gruppo genovese era un nucleo storico nato in seno all’esperienza di “Soccorso Rosso” nel 1936 che aveva dato vita alla solidarietà ai compagni impegnati nella guerra civile in Spagna. La fabbrica genovese aveva una peculiarità: non aveva dirigenti fascisti, ma due ebrei, che non avevano mai fatto discriminazioni nell’assunzione di antifascisti. A Cambiano, fabbrica di armi di precisione, i BGS, arrivano quindi operai già politicizzati.

annibale e amiciDal 1o settembre 1944 Annibale Trinci s’iscrive al Fronte della Gioventù per l’indipendenza nazionale e la libertà nel comitato regionale Piemontese, nella sezione di Torino, VI zona, la zona delle Langhe. In seguito è garibaldino della XIV divisione del Piemonte della brigata d’assalto Garibaldi “Luigi Capriolo”, guidata dal Comandante Kin. In pieno accordo con i compagni del P.C.I. fu deciso di inviare Trinci presso una formazione “Giustizia e Libertà”, a Pino d’Asti, vicino Cambiano, precisamente nella IX G.L. al Comando del Maggiore Alberti, con il preciso compito di formare entro queste bande delle cellule del Partito Comunista, e intanto stabilire solidi collegamenti fra il Partito e i partigiani.
Nel novembre del 1944 si assiste a un rastrellamento nazifascista d’ingenti dimensioni, le divisioni se pur a conoscenza dell’imminente attacco subiranno perdite e feriti. Il 20 novembre 1944 Annibale Trinci combatte ed è ferito nella battaglia di Aramengo, vicino ad Asti sulle colline del Monferrato. Riconosciuto combattente partigiano dalla commissione regione Piemonte, Annibale Trinci ha partecipato dal 3 settembre 1944 al 8 maggio 1945 in territorio metropolitano astigiano con la qualifica di Sergente Maggiore Capo con la formazione partigiana IX divisione “Giustizia e Libertà” comandata dal capitano Oreste Gastone Alberti, dal 6 settembre 1944 (già combattente nel Veneto nelle formazioni “Giustizia e Libertà” e della 1a divisione alpina) Divisione Pedro Ferreira, nella III “Brigata Montano”, nello specifico nella colonna “Biz”(Luigi), e sulla brigata “Domenico Tamietti”. Tra il febbraio e il marzo 1945, fa parte anche di gruppo gappista che si occupava di far saltare i binari della ferrovia, nella zona di Villa Stellone, una stazione a circa tre chilometri da Trofarello. Il 18 aprile 1945, durante lo sciopero, Trinci occupa militarmente Trofarello e Cambiano e arrestando i fascisti armati. Il 21 maggio 1945, riconosciutagli l’attestazione di buona condotta dal prefetto, è ammesso come volontario nella Polizia del Popolo. Trinci era stato anche nominato capo della polizia interna alla fabbrica per garantire l’integrità della fabbrica, a causa di furti nello stabilimento, e successivamente di preparare il materiale sui vagoni merci diretti a Genova e Pistoia.

Nell’ottobre del 1945 riprende servizio alla fabbrica San Giorgio di Pistoia. Nel 1950 Annibale si sposa con Roberta Giannini, dalla quale avrà le figlie Manuela e Tamara. Il 29 novembre 1951 a causa di un infortunio sul lavoro durante un cantiere in Abruzzo perde una gamba; inizia questa volta una lotta con l’ingiustizia burocratica per il riconoscimento dell’infortunio, tanto che si occuperà del caso anche il sindacalista comunista Giuseppe Di Vittorio. Nel 1955 è licenziato dalla fabbrica essendo considerato “non adatto ai lavori di stabilimento”. Per la sua passione e attività nel dopoguerra ricopre varie cariche, è dirigente dell’ANPI di Pistoia, dirigente dell’Associazione invalidi di Pistoia, dirigente PCI della sezione di Porta Lucchese. Muore il 1 agosto 1981.

Alice Vannucchi è ricercatrice presso l’Istituto storico della Resistenza e della società Contemporanea di Pistoia, è membro della redazione della rivista “Quaderni di Farestoria”, è docente nella scuola primaria dal 2007. Fra le sue pubblicazioni: Il rientro in città: il problema degli alloggi, in Pistoia fra guerra e pace a cura di M.Francini, I.S. R.Pt. Editore, 2005. Teorie di democrazia in Italia e Francia nel dopoguerra in “Quaderni di Farestoria”,anno VIII-n2 maggio –agosto 2006,pag.61-69. Le scuole di partito nel PCI di Togliatti.Il caso toscano (1945-1953) in “Quaderni di Farestoria”,anno XII-n 2- maggio –agosto 2010,pagg.33-45. Ha curato la mostra e il numero monografico Cupe Vampe: la guerra aerea a Pistoia e la memoria dei bombardamenti, ISRPt. Attualmente si occupa di storia sociale e storia dell’editoria.

Articolo pubblicato nel dicembre del 2015.




Oreste Ristori: una storia antifascista tra Toscana e Sudamerica

Oreste Ristori nasce il 12 agosto 1874 sulle colline del Pino, nei pressi di San Miniato. Suo padre fa il pastore, ma a causa della crisi agricola del 1878 la famiglia si deve trasferire a Empoli. Oreste cresce in un ambiente di grande povertà senza poter frequentare la scuola. La madre esegue lavori con la paglia e alleva animali che vengono poi venduti nei mercati di Empoli e San Miniato. Oreste accompagna spesso i genitori e ha occasione di conoscere vari giovani che “blasfemano contro la chiesa” e discutono di politica e anarchia. Inizia a frequentare il gruppo anarchico di Empoli, dove conosce Antonio Scardigli ed Enrico Petri. Con questo viene arrestato per la prima volta durante una manifestazione a San Miniato il 21 marzo del 1892. Nel maggio dello stesso anno muore il padre. Giudicato dalle autorità “anarchico esaltato, di pessimo carattere, contrario al lavoro capace di qualsiasi azione criminale”, negli anni successivi viene arrestato altre volte, e inviato in carcere o al domicilio coatto. Prima a Porto Ercole, da dove fugge assieme ad altri 6 compagni, ripreso finisce alle Tremiti. Qui le condizioni di vita provocano una rivolta, capeggiata dal gruppo degli anarchici, che viene repressa nel sangue e nella quale muore Argante Salucci, anarchico fiorentino del gruppo di Santa Croce sull’Arno. Ristori è processato per incitamento alla violenza e finisce a Pantelleria. Nel settembre ottiene la libertà e ritorna a Empoli, dove è sospettato di voler formare un gruppo per compiere attentati contro persone e cose. Entra in clandestinità ma viene rintracciato e mandato di nuovo al domicilio coatto, questa volta a Ventotene. Di nuovo liberato, ritorna a Empoli, dove fonda un gruppo e inizia a fare propaganda lungo la costa toscana tra Piombino e La Spezia. Siamo nel 1898 e, a seguito dei fatti di maggio a Milano, si succedono varie rivolte un po’ ovunque. Oreste passa clandestinamente a Marsiglia, dove si stabilisce nella folta colonia italiana con il nome di Gustavo Fulvi; identificato, a settembre è rimpatriato e poi inviato al domicilio coatto, a Favignana. Comincia a scrivere articoli per diversi giornali, nell’ottobre del 1899 viene trasferito a Ponza dove conosce Luigi Fabbri. Partecipa alla pubblicazione del numero unico «I Morti» e viene confinato nella fortezza di Gavi. Nel marzo del 1900 organizza una manifestazione in ricordo delle vittime della Comune di Parigi, ma è scoperto e trasferito a Ustica. Intanto, da giovane anarchico irrequieto e ribelle diventa, come segnala la polizia, un capace oratore, guadagnandosi il soprannome di Beccuto, propagandista e stimato giornalista: “Dal 1901 era già un noto corrispondente dei giornali anarchici «L’Agitazione» di Ancona, «Il Risveglio», di Ginevra, «Le Libertaire», di Parigi e «L’Avvenire», di Buenos Aires”. All’inizio del 1901, messo in libertà e rimandato a Empoli, comincia a maturare l’idea di emigrare in Argentina dove ci sono molti anarchici italiani coi quali è in corrispondenza. Dopo un primo vano tentativo riesce a salire come clandestino su una nave e raggiungere, nell’agosto del 1902, Buenos Aires.

Foto segnaletica di Oreste Ristori, anni Venti del '900

Foto segnaletica di Oreste Ristori, 1911

La sua vita in America Latina è degna di un romanzo. Costretto a spostarsi più volte tra Argentina, Uruguay e Brasile a causa delle persecuzioni poliziesche, nei primi trent’anni del nuovo secolo Ristori è un protagonista delle battaglie del movimento operaio. Per ben tre volte riesce a sfuggire, in modi sempre più rocamboleschi, ai rimpatrii forzati applicatigli dalle Autorità, durante l’ultima si frattura entrambe le gambe e ciò lo renderà zoppo per il resto della vita. Fonda due giornali di grande diffusione: «La Battaglia» a São Paulo e «El Burro» (L’Asino), a Buenos Aires. In Brasile, casa sua è frequentata da intellettuali come Oswald de Andrade, uno dei maggiori poeti brasiliani, e vi passa anche il giovane Jorge Amado, come racconta nel suo Anarchici grazie a dio Zelia Gattai, sua futura compagna e che all’epoca era una ragazzina la cui famiglia era amica di Ristori. Dagli anni Venti in poi è particolarmente importante il suo impegno unitario antifascista.

Nel giugno del 1936, a causa della sua attiva partecipazione alle agitazioni popolari che nei primi anni Trenta attraversano la città di São Paulo contro le formazioni paramilitari brasiliane che si ispirano al fascismo, le Autorità riescono infine rimpatriarlo. Pur essendo sorvegliato, poco più di un mese dopo essere arrivato in Italia, riesce a raggiungere la Spagna, ove collabora – vista l’età, probabilmente solo in veste di propagandista – con le forze antifasciste e tenta inutilmente di organizzare l’arrivo di Mecedes, l’amata compagna rimasta in Brasile; verso la fine della guerra raggiunge la Francia, sempre con l’obiettivo di riuscire a riunirsi con Mercedes. Con lo scoppio della Seconda guerra mondiale, il governo francese lo confina e, nel marzo del 1940, lo rimpatria. Le Autorità lo obbligano a risiedere a Empoli, ma Oreste è indomito, cerca gli antichi compagni e in novembre si fa due settimane di carcere per avere diffuso notizie “allarmistiche” sulle sorti della guerra e del regime. Intanto anche lo scambio di corrispondenza con Mercedes termina perché la guerra determina l’interruzione dei contatti tra Italia e Brasile. Nel 1943, è uno dei primi a scendere in strada per festeggiare la deposizione di Mussolini. Nuovamente arrestato, è rinchiuso alle Murate a Firenze. Nella notte del primo dicembre i partigiani uccidono il capo del Comando militare Gino Gobbi. Al mattino seguente Ristori, l’anarchico Gino Manetti e i tre militanti comunisti, Armando Gualtieri, Luigi Pugi e Orlando Storai, vengono prelevati dalla milizia fascista, condotti al campo di tiro delle Cascine e fucilati per rappresaglia. Si dice che Ristori sia morto fumando la sua pipa e cantando l’Internazionale.

Articolo pubblicato nel dicembre del 2015.




Vittorio Meoni, la ricerca continua della libertà

Vittorio Meoni oggi

Vittorio Meoni in una foto recente

L’incendio di Brolio

Roma liberata e la collaborazione con il Governo Militare alleato nel racconto di Bettino Ricasoli.

Nella tarda primavera del ‘44 Roma è ancora occupata dai nazisti mentre il fronte è bloccato a Cassino.
Dopo l’Armistizio Bettino Ricasoli, non volendo aderire all’esercito di Salò, si è arruolato nella Guardia palatina del Vaticano. In questo modo è al sicuro dai rastrellamenti. Da molto tempo ha perso i contatti con i familiari, non sa più nulla di loro né riesce a far avere sue notizie. Ma una notte accade qualcosa…

“Finalmente cominciò la ritirata tedesca da Roma. Io mi trovai proprio sugli spalti di un terrapieno, che fa parte della Casa Generalizia dei Gesuiti, la notte fra il 3 e il 4 giugno del ‘44. Si vedevano i Tedeschi che venivano via con tutti i mezzi possibili e immaginabili su carretti, in bicicletta, in motocicletta, sulle automobili sequestrate, sui carri armati. Passavano lungo il Tevere e andavano verso nord. Per tutta la notte c’è stata una colonna disordinata di fuggitivi e poi, a un certo momento, è finito tutto. Dopo un’ora sono arrivati gli Alleati con le camionette. Faceva impressione vedere tutti questi mezzi, i carri armati. Ma il passaggio è stato completamente pacifico. Non credo che i tedeschi abbiano opposto, anche in altre parti di Roma, nessuna resistenza. Anzi, dopo tutto il rumore delle truppe in ritirata, prima dell’arrivo degli Americani c’è stato un periodo di assoluto silenzio. Capimmo che era la fine dell’esercito tedesco e che fra poco sarebbero arrivati gli Alleati. Infatti dopo un’ora cominciarono ad arrivare le prime truppe. Era mattina, il passaggio dei tedeschi era durato tutta la notte”.

Roma è finalmente libera. Ricasoli vorrebbe tornare subito a casa, è in ansia per la sorte dei familiari ma, con il fronte in rapido movimento, è impossibile trovare mezzi di trasporto. Per fortuna parla un ottimo inglese. Fa conoscenza con un certo colonnello Kennedy, destinato a essere il responsabile dell’agricoltura nel futuro Governo Militare alleato della Toscana. La persona giusta al momento giusto.

“Gli avevo detto che mi interessavo di agricoltura nell’azienda della mia famiglia e che ero studente di Agraria all’università di Firenze. Allora il colonnello mi chiese: “Se vieni con me, mi puoi aiutare e darmi dei consigli, perché io di agraria non me ne intendo”. Io accettai volentieri, e allora si combinò che lui mi portava con sé sulla sua jeep, e con questa, via via che il fronte avanzava, ci spostavamo in su lungo la costa. Stemmo a Santa Marinella per qualche tempo, poi andammo fino a Civitavecchia e poi su fino a Grosseto. Era la prima provincia della Toscana, il colonnello già si sentiva un po’ investito, anche se nelle province toscane il responsabile dell’agricoltura, che era lui per tutta la regione Toscana, non aveva un proprio corrispondente, un proprio ufficio per l’agricoltura, per cui doveva affidarsi agli uffici dell’alimentazione. Mi disse “Qui non ho nessuno a cui io possa dare delle istruzioni. Senti, se vuoi rimanere in una delle province toscane rimani, anzi, se hai qualche altro amico disposto a fare come te, io lo manderei in altre province. Io starò a Firenze e terrò i contatti attraverso voi”. Io accettai e scelsi Siena. Pensavo che i miei fossero ancora a Brolio, ma eravamo rimasti interrotti dalla guerra, non sapevo cos’era successo”.

Nella città di Siena appena liberata Bettino Ricasoli collabora con il Governo Militare Alleato. Ha il suo ufficio in Prefettura, alloggia con gli ufficiali, pur essendo un civile – il passaggio nelle Guardie Palatine comportava il licenziamento dall’esercito – e viene trattato come uno di loro.
In provincia invece si combatte ancora, i cannoni alleati piazzati sotto le mura sparano verso nord. Un giorno si sparge la voce che il castello di Brolio sta andando a fuoco…

“Sentii la gente che si era radunata nella piazza del Duomo che diceva: “A Brolio c’è stato un combattimento, è andato tutto distrutto”. Impressionato, andai subito sulle mura di Siena, a San Francesco, da dove si vede benissimo Brolio. La giornata era bellissima, chiara, e vidi effettivamente il castello in una nuvola di fumo rosso. Pensai “sta bruciando”. Proprio sotto Siena c’erano delle batterie di cannoni che sparavano in quella direzione. Ero molto preoccupato per la sorte dei miei. Immaginavo che fossero lì, ma avrebbero anche potuto essere andati via, non potevo saperlo. Dopo qualche giorno l’avanzata alleata proseguì abbastanza rapidamente e anche Brolio venne liberato. Alcuni ufficiali inglesi mi dissero: “Adesso si può andare, ti portiamo a vedere cos’è successo”.
Trovai il posto ridotto male, ma tutti i miei, i genitori, le mie quattro sorelle e il mio fratello minore, erano lì e stavano bene. Mi resi conto che quel fumo rosso che si vedeva da Siena era la polvere dei mattoni della facciata. Le cannonate, esplodendo sul mattone, davano una polvere rossa che tingeva le nuvole di fumo. Era quella la causa del rosso, non c’era stato nessun incendio”.

Ironia della sorte. Il castello è stato scelto come rifugio dalla famiglia Ricasoli e, per un certo periodo, anche da una cinquantina di contadini. Si rivela invece il luogo più pericoloso, l’unico edificio della zona ad essere preso di mira dalle cannonate. Per via della sua posizione elevata, i Tedeschi vi hanno stabilito un posto d’osservazione e da lì dirigono il fuoco delle artiglierie contro gli Alleati che, in risposta, cannoneggiano il castello per diverse ore al giorno.

“I tedeschi lì erano pochissimi, una pattuglia, pochi soldati che non avevano altro scopo che di dirigere il fuoco sulle colonne alleate che da lì potevano vedere. Volevano far credere che lì ci fosse una forza militare di una certa importanza. Stavano nelle cantine, e anche i miei familiari vi si erano rifugiati. Anzi, prima che gli alleati si avvicinassero, le mie sorelle avevano fatto amicizia con uno o due di questi ufficiali tedeschi e loro con i binocoli gli facevano vedere i movimenti dei carri armati alleati intorno a Siena. Le mie sorelle si divertivano, “si vede la guerra!” dicevano. A un certo momento sentirono il fischio di un obice che passava sopra le loro teste, allora i tedeschi dissero loro di mettersi al sicuro in cantina perché il gioco si faceva più pericoloso.
Il cannoneggiamento contro il castello durò parecchio, diverse ore tutti i giorni. Quando io arrivai a Siena era in pieno svolgimento. La liberazione del castello avvenne quattro-cinque giorni dopo”.

I primi ad entrare a Gaiole e nel castello come liberatori sono i Sudafricani. Gente civilissima e ottimi soldati, così li ricorda il barone. Dopo il passaggio del fronte, tutto intorno spuntano gli accampamenti. Brolio diventa zona di riposo per le truppe che hanno combattuto in prima linea e che periodicamente si alternano con quelle delle retrovie.
Il castello è danneggiato, ma le mura hanno resistito egregiamente alle cannonate. Qui come altrove ci si mette subito a riparare, a ricostruire.
Bettino Ricasoli continuerà a collaborare con il Governo Militare alleato per alcuni mesi. Il suo ufficio deve organizzare tutto il settore agricolo nella provincia di Siena. Lascia l’incarico a fine ottobre del ‘44 per riprendere gli studi di agraria che aveva dovuto interrompere.
La guerra non è finita, nel nord si combatte ancora. Ma nelle zone liberate si ricomincia a vivere.

(Seconda parte della testimonianza di Bettino Ricasoli, raccolta il 5 marzo 2004)

la prima parte dell’intervista in: L’8 settembre di Bettino Ricasoli

Articolo pubblicato nel maggio del 2015.




L’8 settembre di Bettino Ricasoli

L’Armistizio, la dissoluzione dell’esercito, Roma occupata dai nazisti nel racconto di Bettino Ricasoli.

La tragedia dell’8 settembre 1943 ha segnato un’intera generazione di Italiani.
Dopo l’annuncio dell’Armistizio centinaia di migliaia tra soldati e ufficiali, sparsi sui vari fronti di guerra, si trovarono di colpo privi di ordini, senza saper che fare né dove andare, abbandonati alla mercé dei Tedeschi, non più alleati ma nemici.
Qualcuno riuscì a tornare a casa con mezzi di fortuna. Chi cercò di resistere, come i nostri soldati a Cefalonia e Corfù, venne massacrato senza pietà. Oltre 630.000 militari italiani, rastrellati o catturati con l’inganno, furono deportati in Germania.
Bettino Ricasoli aveva allora 21 anni. Richiamato alle armi nel gennaio del ‘43, alla fine di luglio era a Terracina per un periodo di addestramento prima di essere inviato al fronte. Qui lo colse l’8 settembre, quando non aveva ancora combattuto né sparato un solo colpo.
Il barone ha accettato di raccontare la sua personale avventura. Lucidità e chiarezza della narrazione, insieme all’eccezionalità delle circostanze di cui è stato testimone, rendono preziosa la sua testimonianza.

“C’era già stato lo sbarco a Salerno, Terracina e la ferrovia Roma-Napoli venivano spesso bombardate dall’aviazione alleata. Noi dovevamo sorvegliare la costa e agire se ci fossero stati degli sbarchi nel tratto fra il monte Circeo e Terracina. Lì ci prese l’8 settembre. Rimanemmo ai nostri posti, non sapendo esattamente cosa fare, tutte le comunicazioni con i comandi erano interrotte. Con i nostri ufficiali decidemmo di togliere gli otturatori ai cannoni per renderli inservibili, nel caso che i tedeschi si impossessassero di queste zone, e di andare a Sabaudia, dov’era il comando della divisione da cui dipendevamo. Vi arrivammo andando a piedi attraverso i campi durante la notte per non farci vedere. Eravamo convinti che i Tedeschi avrebbero opposto resistenza”.

Li attendono due sorprese. La prima è che a Sabaudia il comando di divisione non c’è più, dissolto come neve al sole. Increduli e confusi, i soldati decidono di tornare indietro e rioccupare le posizioni, per non rischiare di passare da traditori. Precauzione inutile, perché la postazione è deserta e dei comandanti non c’è traccia.
La seconda sorpresa è che i Tedeschi fuggono in maniera disordinata, con tutti i mezzi che riescono a trovare.

“Scappavano lungo la costa con chiatte, barche, barconi, soprattutto di notte. Andavano verso il nord. Vicino a noi c’era una postazione antiaerea tedesca. Una mattina un gruppo di soldati tedeschi che erano al servizio di questa postazione, armati fino ai denti, con collane di proiettili, vennero a dirci: “La guerra è finita, noi ci arrendiamo a voi”, proprio così. Noi non sapevamo cosa fare nemmeno di noi stessi, non avevamo più rifornimenti di cibo, non sapevamo più niente, eravamo abbandonati lì. Gli dicemmo: “Se volete restare con noi rimanete, ma non abbiamo nemmeno da darvi da mangiare”. Allora andarono via”.

Nei primi giorni dopo l’armistizio i Tedeschi che si trovano a sud di Roma attraversano una fase di smarrimento, con l’esercito alleato che incalza. Scappano verso il nord più velocemente che possono senza incontrare, purtroppo, nessuna resistenza. Ben presto si riorganizzano e riprendono il controllo della situazione.

“Per un certo numero di giorni anche i Tedeschi non sapevano cosa fare e si ritiravano. Secondo quello che potevamo giudicare noi dal nostro punto di vista, se a Roma ci fosse stata una volontà di combattere, se ci fosse stato un esercito organizzato e comandato in modo efficace, sarebbe stato possibile bloccarli. Dopo qualche giorno, a una settimana circa dall’armistizio, è arrivato nella nostra zona, fra il monte Circeo e Terracina, un ufficiale tedesco. Hanno emesso un proclama in cui si stabiliva che tutti i giovani in età militare dovevano consegnarsi alle autorità tedesche. A quel punto decidemmo di andar via”.

Rientrato in Toscana Bettino Ricasoli si ricongiunge ai familiari, che da Firenze si sono trasferiti nel loro castello a Brolio, presso Gaiole in Chianti. Dovrebbe essere una sistemazione abbastanza sicura, lontana dalle principali vie di comunicazione. Ma non è affatto sicura per il giovane, che a Gaiole è un personaggio molto in vista. Non avendo nessuna intenzione di arruolarsi nell’esercito di Salò, non gli rimane che nascondersi. Sceglie Roma, dove ha dei parenti che possono aiutarlo ed è più facile far perdere le proprie tracce.
Nella capitale occupata dai nazisti l’atmosfera è cupa. Repubblichini e tedeschi danno la caccia ai renitenti, gli scantinati sono pieni di sfollati, manca il cibo. Il Vaticano ricorre a un espediente per salvare un certo numero di giovani dai rastrellamenti: li arruola nella Guardia Palatina. Tra di loro c’è anche Bettino Ricasoli.

“A un certo momento il Vaticano ha voluto mettere più al sicuro molti di quei giovani che erano a Roma nelle mie condizioni e ottenne dal comando tedesco di aumentare l’arruolamento delle proprie guardie palatine, per proteggere gli immobili extraterritoriali, che appartengono allo stato del Vaticano ma sono nella città di Roma.
In quell’occasione anch’io riuscii a entrare al servizio della Città del Vaticano, con l’obbligo di fare un turno di guardia ogni 10 giorni. Fui assegnato alla Casa Generalizia dell’ordine dei Gesuiti, che è dietro il colonnato di San Pietro e domina la collina che guarda il Tevere. Ci sono ancora le vecchie mura di Roma, il servizio consisteva nel passeggiare avanti e indietro su queste mura. Facevo il turno di guardia e mi occupavo di assistenza. Roma si riempì di sfollati dalle campagne che venivano su, spinti dall’avanzare del fronte. Venivano dal napoletano, da Cassino. Stavano accampati in questi tunnel, erano state organizzate delle mense che ottenevano dal Vaticano piselli secchi che venivano cotti e distribuiti. Me ne alimentavo anch’io. Giravo per Roma con una tessera che avrebbe dovuto proteggermi se fossi incappato in quelle che chiamavano le retate: i repubblichini chiudevano un gruppo di strade e passavano al setaccio tutti quelli che erano dentro; se trovavano qualcuno in età da militare veniva preso e portato via su al nord, si diceva nei campi di concentramento in Germania. Ma con la carta del Vaticano si era quasi sicuri”.

Nonostante la fame e il clima di oppressione Ricasoli è convinto, come tutti, che gli Alleati non tarderanno ad arrivare. Nell’autunno del ‘43 nessuno immagina che il fronte rimarrà bloccato a Cassino per sei lunghi mesi. E l’occupazione nazista della Capitale si trasforma in un incubo che sembra non aver mai fine.

(Prima parte della testimonianza di Bettino Ricasoli raccolta il 4 marzo 2004)

La seconda parte dell’intervista in “L’incendio di Brolio”.

Articolo pubblicato nel maggio del 2015.




Scioperare contro Hitler: una testimonianza

All’inizio del 1944 la direzione del PCI per l’Alta Italia riunì i rappresentanti dei comitati di agitazione che avevano diretto gli scioperi del novembre-dicembre 1943 e decise di organizzare uno sciopero generale nelle regioni del triangolo industriale. L’iniziativa venne poi discussa con gli altri partiti del Comitato di liberazione nazionale dell’Alta Italia ed estesa al Veneto, all’Emilia ed alla Toscana. Alla data stabilita (1° marzo 1944) circa un milione di lavoratori entrò in lotta, dando vita al più grande movimento di massa verificatosi in Europa sotto l’occupazione nazista. Pieno di rabbia, Hitler ordinò personalmente a Rudolph Rahn, suo ambasciatore a Salò, di far deportare il 20% degli scioperanti, ed anche se «il mostruoso provvedimento non fu eseguito nella misura indicata per ‘difficoltà tecniche’ inerenti ai trasporti e per il danno che ne sarebbe derivato alla produzione bellica» (Pietro Secchia-Filippo Frassati, Storia della Resistenza, vol. I, Roma, Editori riuniti, 1965, p. 476), tuttavia settecento operai vennero deportati da Torino e varie centinaia da Milano.

In Toscana, a causa di ritardi verificatisi nella preparazione, l’agitazione cominciò il 3 marzo. A Prato lo sciopero, appoggiato da tutti i partiti antifascisti, fu preparato dal PCI nel primo bimestre del 1944. I repubblichini risposero con i rastrellamenti alla buona riuscita dell’agitazione: centotrentasette persone vennero deportate nei campi di sterminio tedeschi (Ebensee, Gusen, Hartheim, Mauthausen … ): i superstiti furono soltanto ventuno.
Tra i principali organizzatori dello sciopero vi fu Renzo Martelli, un coraggioso combattente antifascista che nel 1941 era stato arrestato e deferito al Tribunale speciale, riportando una condanna a sette anni di reclusione con sentenza del 28 aprile dell’anno successivo (su Renzo Martelli, oggi scomparso, cfr. Enciclopedia dell’antifascismo e della Resistenza, vol. III, H-M, Milano, La pietra, 1976, ad vocem). Il 9 settembre 1991 Renzo mi rilasciò un’intervista sui giorni dello sciopero a Prato che venne pubblicata alcuni anni dopo da Azione sindacale. Periodico della CGIL di Prato nel numero del 31 luglio 1997. Ne riproponiamo il testo ai lettori di ToscanaNovecento con lievi modifiche.

Nel libro Un popolo alla macchia (Roma, Editori riuniti, 1975) Luigi Longo scrive che gli scioperi del marzo ’44 furono decisi dalla direzione del PCI per l’Alta Italia unitamente ai comitati di agitazione che avevano diretto gli scioperi del ’43. Questa iniziativa venne poi approvata dai CLN (pp. 134-135). Quale organismo decise lo sciopero a Prato?

A Prato fu il CLN che deliberò lo sciopero su proposta dei comunisti. Parallelamente alla discussione che si svolgeva all’interno del CLN, il PCI organizzò alcune riunioni in località La Catena [Quarrata, N.d.C.], per discutere gli aspetti organizzativi dello sciopero. A tali riunioni prese parte Giuseppe Rossi, segretario provinciale del partito. A Prato i principali organizzatori dello sciopero furono – oltre al sottoscritto – Dino Saccenti, Bruno Rosati, Cesare Rosati, Alimo Gori ed Alberto Innocenti.

Sempre Luigi Longo afferma che lo sciopero generale fu attuato nelle principali città dell’Alta Italia il 1° marzo 1944 (p. 136), e che in Toscana esso cominciò due giorno dopo “per il ritardo nella preparazione” (p. 139). Da che cosa dipese questo ritardo?

Tale ritardo fu dovuto alla difficoltà di raggiungere, a proposito della proclamazione dello sciopero, l’unanimità in seno al CLN (che non deliberava a maggioranza, ma, per l’appunto, all’unanimità). Lo sciopero avrebbe comunque avuto luogo perché il PCI era deciso ad organizzarlo anche senza l’appoggio degli altri partiti ciellenistici. La proposta comunista di indire lo sciopero fu sostenuta soprattutto dai socialisti e dagli azionisti. Gli altri erano più tiepidi. I democristiani si pronunciarono a favore dello sciopero, ma il loro apporto sul piano organizzativo fu poi molto limitato.

Aspetti organizzativi. Come venne preparato lo sciopero a Prato? Come furono avvisati gli operai e che cosa fu fatto perché l’astensione dal lavoro fosse la più ampia possibile?

Nei 3-4 giorni che precedettero lo sciopero il PCI costituì delle squadre che agivano durante il coprifuoco lasciando dei manifestini sui davanzali delle finestre, sotto le porte, in campagna, ecc. La notizia dello sciopero fu inoltre diffusa oralmente. Infine il PCI organizzò, la mattina del giorno in cui lo sciopero doveva cominciare, dei posti di blocco, formati da 3 o 4 uomini armati, sulle principali vie di accesso alla città (io facevo parte del nucleo che si trovava alla Madonna del Berti). Lo scopo era quello di rimandare indietro gli operai che si recavano al lavoro, ma solo facendo opera di persuasione, evitando naturalmente minacce o violenze. Le armi servivano nel caso in cui fossimo stati sorpresi dai nazifascisti. Da rilevare che alcuni operai decisero di andare regolarmente in fabbrica senza darci ascolto.

Quali erano gli obiettivi dello sciopero?

Pace e libertà per il popolo italiano. Non furono allora avanzate rivendicazioni di carattere salariale, ecc. L’obiettivo prioritario era la liberazione del Paese.

Quale fu l’estensione dello sciopero? Grosso modo, quante fabbriche ne furono interessate e quanti furono gli scioperanti?

Lo sciopero riuscì bene. Ci furono delle defezioni, ma nella maggioranza delle fabbriche non si lavorò. Sarebbe tuttavia scorretto parlare di astensione generale dal lavoro.

Quale fu la durata dello sciopero? A questo riguardo le cose non sono del tutto chiare.

Lo sciopero cominciò il 4 marzo e si concluse il 7 col rientro graduale degli operai nelle fabbriche. Il 10 io fui incaricato dal centro fiorentino del partito di riorganizzare una formazione partigiana nei dintorni di Vicchio [la Compagnia Ceccutti, N.d.C.] e partii alla volta del Mugello. Ora, se lo sciopero fosse stato ancora in corso a quella data o nei giorni immediatamente precedenti (8 e 9 marzo) io, che ne ero stato uno degli organizzatori, non avrei evidentemente lasciato Prato. Ciò sarebbe stato alquanto strano.

Quale fu il comportamento degli industriali? Anche a questo riguardo le cose non sono del tutto chiare (cfr. Alessandro Affortunati, Vaiano e la sua Casa del popolo. Il movimento operaio nella Valle del Bisenzio, Prato, Pentalinea, 2000, pp. 75-76).

Gli industriali lavoravano per i tedeschi. Essi guardarono quindi con sfavore allo sciopero, ma non mi risulta che le loro responsabilità siano state particolarmente pesanti. Ci furono comunque degli episodi (per esempio al Lanificio Campolmi) che diedero adito a sospetti.

Carlo Ferri ne La valle rossa (Vaiano, Viridiana, 1975, p. 95) scrive che lo sciopero provocò l’interruzione di ogni collegamento fra la città ed i partigiani. A questo riguardo ci fu dunque una carenza organizzativa che si risolse nella mancanza di coordinazione fra la città e la formazione che si trovava ai Faggi?

Lo sciopero creò indubbiamente degli scompensi, ma una formazione partigiana deve essere autonoma. I partigiani che si trovavano ai Faggi dovevano dunque risolvere da soli il problema dei rifornimenti. Non potevano aspettarsi di ricevere allora particolari aiuti dalla città.

Secondo quali modalità ebbero luogo i rastrellamenti attuati dopo lo sciopero?

Non furono seguite modalità particolari: i tedeschi catturavano tutti quelli che capitavano loro a tiro. Va sottolineato il fatto che i repubblichini ebbero gravissime responsabilità nei rastrellamenti perché erano loro che conoscevano bene i luoghi, le fabbriche e le persone.

A tanti anni di distanza quale bilancio ritieni di poter fare dello sciopero del marzo ’44?

Lo sciopero sollevò il morale della gente nonostante le deportazioni. Dimostrò che agire era possibile, se se ne aveva la volontà, ed è significativo il fatto che, dopo la fine dello sciopero, il numero delle persone che salivano in montagna aumentasse. A Prato, come nel resto del Paese, lo sciopero del ’44 fu una tappa importante della lotta di liberazione.

Articolo pubblicato nel febbraio 2015.




Andrea Devoto

Il lavoro di Andrea Devoto (fiorentino, 1927-1994), psichiatria, psicologo, ma anche storico, attraversa tutta la seconda metˆà del Novecento. Docente in psicologia sociale, fu tra i primi a occuparsi dei lager. Nel 1960 usciva La tirannia psicologica (Sansoni), seguito a un anno di distanza da Il linguaggio dei lager: annotazioni psicologiche (in «Il movimento di Liberazione in Italia», n. 65, 1961), mentre nel 1962 pubblicava Psicologia e psicopatologia del lager nazistan. 9, 1962). Giàˆ nel 1964 dava alle stampe uno strumento di orientamento, la Bibliografia dell’oppressione nazista (Olschki, a cui aggiungevaˆ un secondo volume nel 1983), dove elencava le prime opere di memorialistica, antologie e studi.

In questa prima fase, un’epoca durante la quale gli studi erano ancora pochi, Devoto, lavorava assiduamente alla ricostruzione di quanto avvenuto, ricostruendo i meccanismi di funzionamento dei campi, collezionando immagini, elaborando e confrontando le piante dei lager, delineando le differenze tra KL e VL. Al tempo stesso, iniziava a riflettere, partendo dalla propria disciplina, su quanto avvenuto alle persone, sulla loro esperienza fisica ma anche emotiva-mentale durante il trasporto e poi dentro il lager, discutendo i primi lavori usciti sul tema, come quelli di Betteleheim (giˆà del 1943), Kogon (1946), Frankl (1947) e Cohen (1952). Devoto rifletteva sui processi all’interno dei quali passava la vittima, dallo sradicamento, con la conseguente crisi d’identitàˆ e il portato di stress continuo, fino alla desocializzazione/risocializzazione dell’individuo nel nuovo contesto concentrazionario, che poteva portare a vari esiti, dalla resa completa allo sviluppo di meccanismi di autodifesa fino a forme di resistenza, sia individuali che collettive.

Il suo interesse per le istituzioni totali, seguendo Goffman, lo porta ad analizzare le esperienze della deportazione e del lager alla luce delle categorie analitiche a lui più familiari. L’oppressione nazista può˜ essere scomposta in tre aspetti: persecuzione, deportazione e sterminio, ed il lager, come sistema, un elemento fondante del nazismo, uno strumento di cui nessun regime “assolutista” potràˆ mai più fare a meno nel futuro. Devoto sostiene, anticipando molti, la necessitàˆ di smettere di considerare il nazismo, ed i suoi crimini, come un qualcosa di unico e di irripetibile. Si deve semmai capire come sia possibile giungere, in determinate situazioni, ad estremizzazioni del genere. Ritiene pertanto che si possano mutuare utili strumenti d’indagine facendo collegamenti e paragoni con situazioni, se non normali, almeno accettate, quali i disastri, le istituzioni totali, l’aggressivitàˆ e l’uso della violenza.

Da psicologo, lavorando sui testimoni, sviluppa ricerche prossime ai metodi della storia orale. Non a caso, partendo dai testimoni, arrivaˆ ad interrogarsi e ad analizzare le esperienze dei sopravvissuti dopo la liberazione. Comincia qui la seconda fase del suo lavoro, giunta a piena maturazione negli anni ′80, in collaborazione con l’Aned del Piemonte. Non solo la raccolta delle testimonianze, ma anche le forme e i modi per la loro condivisione paritaria ed empatica, che liberi i sopravvissuti dalla sindrome di diversitàˆ che trattiene ancora il lager dentro di loro.

Per Devoto non solo un’operazione psicologica e didattica, ma una vera e propria proposta di pace da rivolgere al mondo. Su questa scorta lavoraˆ con l’Aned alla raccolta di circa 70 interviste a sopravvissuti toscani tra il 1987 ed il 1989. Sono gli anni in cui, come testimonia il suo archivio recentemente riordinato, Devoto si dedica a un’opera, rimasta incompiuta, per la quale prevedeva vari titoli compresi nella dizione “dall’isolamento alla condivisione del ricordo”, e che solo parzialmente hanno visto la luce in forma stampata nell’ultimo frutto dei suoi lavori, affidato nel 1992 ad Ilda Verri Melo, dal titolo emblematico de La speranza tradita.

Stefano Bartolini è ricercatore presso l’Istituto storico della Resistenza e dell’età contemporanea di Pistoia e coordina le attività di ricerca storica, archivistiche e bibliotecarie della Fondazione Valore Lavoro. Ha partecipato al recupero dell’archivio Andrea Devoto ed attualmente si occupa di storia sociale, del lavoro e del sindacato. Tra le sue pubblicazioni: Fascismo antislavo. Il tentativo di bonifica etnica al confine nord orientaleUna passione violenta. Storia dello squadrismo fascista a Pistoia 1919-1923Vivere nel call center, in La lotta perfetta. 102 giorni all’Answers.

Articolo pubblicato nel marzo 2014.