L’operaio che guidò la Regione Toscana

Gianfranco Bartolini, classe 1927, nasce a Fiesole il 17 gennaio e proprio questa terra, dove abiterà fino alla sua scomparsa nell’ottobre del 1992 segna in modo indelebile la sua attività, politica e istituzionale. Autodidatta (ha la quinta elementare), figlio della sua generazione, dove il mestiere si imparava “a bottega”, all’età di otto anni inizia a lavorare come fabbro presso il negozio del padre Domenico in via Matteotti a Fiesole.

A quattordici era già operaio allo stabilimento delle Officine Galileo dove l’impegno politico e antifascista, certamente attinto in ambito familiare – il padre era stato consigliere comunale socialista prima dell’avvento al potere del fascismo – comincia a farsi largo nell’indole di un ragazzo che, già dalla giovanissima età, mostrava convinzioni culturali e impegno civile. Più volte ricordato come uomo ‘del fare’, Bartolini sussume pienamente quel clima di militanza collettiva, di impegno civile e municipale che caratterizza gli anni successivi al dopoguerra, avendo già partecipato come partigiano alla lotta di liberazione nel 1944. Proprio la Resistenza rappresenta un capitolo molto importante per la sua vita e per la sua città natale, Fiesole. Durante la terribile esperienza del passaggio del fronte nell’estate del 1944, anche quest’ultima fu infatti gravata – in particolare nel mese di agosto – dal peso e dalla violenza dell’occupazione nazista, culminante nel noto eccidio dei tre carabinieri. In questa fase i Bartolini svolsero un ruolo molto importante. Mentre il padre di Gianfranco si impegnò a lungo per aiutare la popolazione locale a sopravvivere nella situazione di emergenza, il figlio – al tempo diciassettenne – fu protagonista di alcune azioni di guerra con la “Banda partigiana di Fiesole” (poi diventata SAP di Fiesole) dipendente dal CLN cittadino fino alla liberazione avvenuta il 1° settembre.[1]

Le Officine Galileo segnano un altro momento fondamentale della sua vita. Dopo aver rivestito il ruolo di Segretario nella Commissione interna della grande fabbrica fiorentina, venne infatti chiamato alla segreteria della Camera Confederale del Lavoro di Firenze negli anni ’60 del XX secolo, diventandone segretario nel 1965. Dirà di lui Giorgio Napolitano che proprio il suo impegno come dirigente sindacale, la sua militanza politica, l’esperienza del lavoro in fabbrica sono state le prove superate con serietà, impegno e sobrietà che gli hanno permesso di diventare un autentico uomo di governo.

Solo 6 anni più tardi, nel 1971, ebbe l’incarico di segretario regionale della Confederazione generale italiana del lavoro (CGIL), entrando nel Direttivo nazionale della CGIL e della Federazione nazionale CGIL-CISL-UIL.

Ma il legame con le radici rimase sempre inalterato e l’impegno politico lo vide entrare nell’amministrazione comunale di Fiesole giovanissimo. Già nel 1951, all’età di 24 anni, capolista del Partito comunista, riportò 215 voti di preferenza a fronte dei 644 voti ottenuti da Luigi Casini, rappresentante del Partito socialista e figura emblematica dell’antifascismo fiesolano. Alle elezioni amministrative successive (nel 1954, quando lo stesso Casini conseguirà 341 voti e Gianfranco 510) viene rieletto e riconfermato Assessore ruolo che manterrà fino al 1964.

Il suo sguardo attento di Assessore al bilancio non mancava di osservare i limiti oggettivi della cittadina collinare e il difficile rapporto con il capoluogo di Regione; è nel commentare il bilancio del 1964 che ebbe a dire:

Fiesole è oggi sempre più pressata dai bisogni che sono bisogni propri di una città moderna, una città che adesso è un po’ la periferia di Firenze […] È un problema che investe un po’ tutti i Comuni limitrofi, ma specialmente Fiesole ne risente in misura maggiore per cui il suo bilancio va sempre più in deficit. [Noi] non siamo certo in grado, oggi, di poter assicurare a Fiesole questi servizi che dovrebbero essere, io penso, in dotazione ad una città moderna, e forse non lo saremo mai […]. Fiesole ha un po’ il carattere di “Città – dormitorio”, infatti il Capoluogo ha avuto un certo sviluppo edilizio costituito da una serie di villette per il ceto medio, mentre nelle frazioni si è visto uno sviluppo per l’edilizia popolare per operai, ecc. …[2]

D’altro canto l’economia era la sua “fissazione”, non solo per retaggio sindacale, ma anche per la convinzione che il modello toscano dei distretti fosse un successo e che quindi intrecciare impresa, infrastrutture, attrezzature del territorio, mondo dell’università e della ricerca fosse il perno sul quale progettare il futuro. Bartolini aveva la percezione, e ciò emerge spesso nei suoi discorsi, che i meccanismi di globalizzazione in atto stiano portando l’industri italiana, il sistema produttivo, l’economia in generale verso il declino.

Sarà il 1975 a segnare la sua piena maturità politica, quando già Consigliere provinciale a Firenze, venne eletto con la seconda legislatura al Consiglio della Regione Toscana: nella lista del Pci e nella circoscrizione di Firenze, riportò 9.488 preferenza e divenne Vicepresidente della Giunta Regionale (Vicepresidente di Lelio Lagorio e, dal settembre 1978, di Mario Leone) con la responsabilità diretta della programmazione economica e del bilancio.

Alle consultazioni successive, giugno 1980, conquistò 15.489 preferenze e per questo è confermato nei suoi incarichi Vicepresidente e Assessore (sempre a programmazione e bilancio, con Presidente Leone) divenendo – dal 31 maggio 1983 – presidente della Giunta, carica che assume, pur modesto e schivo di carattere, con il fermo impegno di tentare la ricerca di soluzioni di governo e la collaborazione con realtà internazionali facevano perno sull’idea e sulla pratica della programmazione.[3]

Le vicende politiche regionali lo portano, infatti, alla guida di un governo “quasi” monocolore, retto da una scarsa maggioranza che godeva di un’altrettanto scarsa fiducia, soprattutto da parte dei vecchi alleati del Psi, che lo consideravano debole, soprattutto a causa del suo insediamento sociale “limitato alla classe operaia”.[4]

Eppure ci si dovette ricredere e accettare che il temuto monocolore rappresentasse, in realtà, una risorsa volta verso un impegno comune per l’innovazione del sistema produttivo, un confronto diretto con le forze sociali, con l’imprenditoria, con la Chiesa e con le Forze armate. Dall’’85 al ’90, con la fine naturale della terza legislatura, l’alleanza di governo sarà più ampia: una compagine determinata dal rientro dei socialisti e l’avvento dei socialdemocratici; ma per le Regioni saranno anche gli anni più difficili: da una parte il Governo le considera meri uffici decentrati dall’altra il Parlamento legifera  in tutti i campi regionali.

Gianfranco Bartolini affronta la sfida da riformista e regionalista convinto. Del resto, già nel 1984, come Presidente di turno della Conferenza dei Presidenti delle Regioni, aveva consegnato al Presidente della Commissione bicamerale per le riforme istituzionali, Aldo Bozzi, la proposta della Camera delle Regioni. Un Governo Regionale in fieri e in via di stabilizzazione, uno sviluppo delle autonomie locali, un’idea – insomma – regionalista e autonomista della quale Bartolini si fa portavoce e promotore in grado di accettare e gestire le sfide della modernità, facendo perno sull’idea e sulla pratica della programmazione:

Bartolini si cimenta in particolare modo con un’idea di programmazione “concordata e contratta”, e lo fa con modernità e apertura; batte e ribatte su esigenze cruciali di innovazione; non si chiude in vecchie visioni statalistiche ma sostiene “nuovi rapporti tra pubblico e privato”, difende “una sorta di gemellaggi tra la Regione e le imprese”, suggerisce “intese che si propongano di suscitare investimenti e occupazione, di dare risposta ai problemi dello sviluppo tecnologico, di affrontare quelli dell’ambiente e delle infrastrutture”.[5]

Rimarrà in carica per l’intera durata della quarta legislatura del governo toscano, fino al 1990, mantenendo ininterrottamente la delega per le politiche della programmazione e i rapporti con il Parlamento, il Governo e Comunità Europea. Come era nella sua natura, o forse come gli aveva insegnato l’esperienza, negli anni in cui si pone a guida della Regione Toscana non perse occasione per intrecciare rapporti di varia natura: il dialogo e il confronto si sviluppava verso ogni espressione della società toscana partendo dalla cittadinanza, passando per il mondo dell’industria e dell’imprenditoria, rivolgendosi all’associazionismo e alle cariche vescovili, fino alle più alte sfere istituzionali. Questa fitta rete di relazioni rispecchiava la sua naturale tendenza alla concretezza nell’agire locale, legandosi, d’altra parte, a un’interpretazione dei fatti globale e internazionale. Non a caso poi, all’inizio del 1989, di fronte alla Commissione parlamentare per le questioni regionali, traccia un importante bilancio del regionalismo italiano esordendo proprio con la dimensione europea di questo movimento[6].

Gianfranco Bartolini esprime un riformismo forte. Ancorato alla fermezza dei valori, alla fine degli anni ’80 già intravedeva un’era di crisi politica, l’assenza di grandi propositi di rinnovamento dovuta, forse in parte, anche alla paralisi delle istituzioni marchiate da un centralismo soffocante che alimentava “le diseguaglianze e il divario fra le aree del paese, aprendo varchi pesanti a larghe fasce di illegalità e a fenomeni che reclamavano la centralità della questione morale”. La libertà, affermava, non può tradursi nelle ingiustizie e nelle inefficienze che vanno mortificando l’intera società e piegando la democrazia agli interessi dei più forti.[7]

Non solo sull’economia tout-court si basava però la sua azione di governo: la difesa del suolo,[8] il regionalismo, l’autonomia statuaria, le “aree vaste” come risposta alla crisi della società toscana. Su quest’ultimo tema, affrontato per la prima volta in maniera organica in occasione del dibattito in Consiglio regionale, avviato dall’approvazione del Programma regionale di sviluppo 1988-1990, Bartolini svilupperà un’approfondita analisi sulle difficoltà che il sistema policentrico toscano stava affrontando sul piano economico. Se le strategie interne non sono più in grado di garantire le condizioni necessarie e i livelli di efficienza adeguati per attestarsi sui mercati sarà necessario “individuare nuovi ambiti, all’interno dei quali sia possibile stabilire le condizioni necessarie per annullare le diseconomie esistenti e per rilanciare il policentrismo, che è un valore nella nostra regione, ma ad una scala diversa e meno angusta, se vogliamo stimolarne il rilancio e fargli ritrovare il dinamismo del passato”. [9]

Gianfranco Bartolini muore a Firenze il 10 ottobre 1992.

Elena Gonnelli, archivista, direttrice della sezione Montecatini Terme-Monsummano dell’Istituto storico lucchese, collaboratrice dell’Istituti storico toscano della Resistenza e dell’età contemporanea per il quale ha curato l’inventario del fondo G. Bartolini  e la mostra “Gianfranco Bartolini: il sindacalista, l’amministratore, il Presidente”.

Note:

[1] I. Tognarini in La Toscana e il Riformismo: una riflessione a 15 anni dalla scomparsa di Gianfranco Bartolini, Associazione Autonomie Locali Legautonomie Toscana, Pisa, 2009, p. 22.

[2] G. Bartolini. Il governo regionale cit., pp. 13-15.

[3] Archivio Comunale di Fiesole, Delibere del Consiglio Comunale, Serie I, n. 44, 25/03/1964

[4] P. Ranfagni, Il coraggio della sfide, in Gianfranco Bartolini. Un uomo del popolo alla guida della Regione, a cura di P. Ranfagni, Direzione generale della Presidenza Giunta Regione Toscana, Firenze, 2014, pp. 20-24.

[5] G. Napolitano, Presentazione in G. Bartolini. Il governo regionale, a cura di M. Badii, F. Gigli, P. Ranfagni, Edizioni della Giunta Regionale, Firenze,1995, p. 14.

[6] Archivio Gianfranco Bartolini, d’ora in avanti AGB, Scritti e discorsi, b. 10, 33.14, 1989.

[7] I. Tognarini in La Toscana e il Riformismo, cit., pp. 19-28.

[8] Bartolini stigmatizzerà più di una volta la mancanza di una normativa nazionale per la difesa del suolo, lamentando in generale l’assenza dello Stato su queste tematiche, facendo particolare riferimento all’alluvione del 1966 di Firenze e la Toscana. Cfr. AGB, Scritti e discorsi, b. 8, 30.33 e 30.36, 1986.

[9] AGB, Scritti e discorsi, b. 9, 32.15, 1988. Sul concetto di “area vasta” (compresa la Firenze-Prato-Pistoia) e su quello, conseguente, della Città-metropolitana Bartolini tornò molte volte, anticipando il varo della legge 142/90.

Articolo pubblicato nel luglio del 2018.




Carlo Ludovico Ragghianti: dal Comitato Toscano di Liberazione Nazionale alla Repubblica

Critico, storico e teorico dell’arte, Carlo Ludovico Ragghianti (1910-1987), forse come pochi altri intellettuali della propria generazione seppe unire un’attività culturale, vasta e profonda, a una passione politica altrettanto intensa.

Nato a Lucca da Francesco, geometra di orientamento socialista, e Maria Cesari, Carlo Ludovico Ragghianti poco più che quattordicenne dovette subire, al pari del padre, i soprusi e le prevaricazioni del fascismo locale, venendo coinvolto nel 1924 e nel 1927 in due episodi di bastonatura che ne provocarono l’allontanamento dalla città. L’irrompere della violenza fascista segnò l’avvio del suo impegno politico nel solco di un antifascismo che, sia negli anni di formazione liceale a Firenze (dove conobbe Eugenio Montale) che in quelli universitari presso la Scuola Normale Superiore di Pisa (dove, sotto la direzione di Giovanni Gentile, avviò i propri studi critici nel solco della tradizione storicistica crociana), non conobbe mai ripensamenti né fu mai condizionato dal dominio culturale e ideologico del fascismo asceso al potere. Dal regime, per via della sua crescente opposizione, vide sbarrarsi l’accesso alla carriera accademica, subendo poi da parte delle autorità di pubblica sicurezza una crescente e continua sorveglianza man mano che andava stringendo, nei suoi frequenti viaggi di studio compiuti in Italia e all’estero, contatti con personalità eminenti della cultura antifascista italiana. Impegnato dalla metà degli anni Trenta in un’intensa attività cospirativa, Ragghianti si preoccupa di mettere in contatto le diverse anime dell’antifascismo liberale, democratico e socialista, in particolare favorendo l’incontro tra il gruppo liberal-socialista di Aldo Capitini e Guido Calogero e il movimento di Giustizia e Libertà (al quale egli stesso si richiama) attorno a un programma concreto e alieno da forzature ideologiche e dogmatismi che egli individua nel nascente Partito d’Azione, alla cui fondazione contribuisce nel dicembre 1941 redigendone assieme ad altri il primo documento programmatico (i Sette punti). Arrestato per la sua attività di opposizione una prima volta a Modena nel marzo del 1942 e tradotto alle Murate di Firenze (dove in soli dieci giorni scrive il Profilo della critica d’arte in Italia), Ragghianti è di nuovo incarcerato nel 1943 a Bologna, per essere definitivamente liberato all’indomani del 25 luglio.

Stabilitosi a Firenze, Ragghianti si rende protagonista dell’azione resistenziale in seno al Partito d’Azione fiorentino e poi entro il Comitato di Liberazione Nazionale (CTLN), di cui diverrà Presidente. Dopo l’8 settembre 1943, assieme a Tristano Codignola, Enzo Enriques Agnoletti e Carlo Furno, Ragghianti cura per il Partito d’Azione la stampa del giornale clandestino La Libertà, entrando inoltre a far parte con Athos Albertoni, Carlo De Cugis e Carlo Campolmi della commissione militare del partito, la quale organizza in città circa 150-200 unità e, con l’obiettivo di costituire gruppi di partito (le future Brigate Rosselli), si occupa di allacciare i primi contatti con le bande che operano sui rilievi del fiorentino e del pistoiese. Sin dai primi di febbraio del 1944, Ragghianti organizza alcuni incontri tra i rappresentanti dei vari partiti antifascisti fiorentini allo scopo di ricostituire il comando militare unico del CTLN, falcidiato a seguito degli arresti compiuti nel novembre precedente dai tedeschi, dovendo però scontare le obiezioni dei rappresentanti comunisti, i quali non acconsentiranno a entrarvi non prima di giugno, quando si uniformeranno cioè alle direttive unitarie stabilite a livello nazionale con la costituzione del Corpo Volontari della Libertà. Sempre Ragghianti, dopo la tragica cattura il 7 giugno a opera dei tedeschi dei componenti il gruppo Co.Ra (il servizio informazioni radio clandestino del partito) si fa carico con altri della riattivazione del servizio di radiocomunicazione che, ripristinato, permetterà di ristabilire contatti logistici con gli Alleati in vista della liberazione. Ancora ai primi di giugno del 1944, Ragghianti redige assieme ad Agnoletti il manifesto, poi reso pubblico alla cittadinanza il 15 del mese, col quale il CTLN annuncia ai fiorentini la mobilitazione generale contro l’occupante nazifascista e rivendica per sé l’assunzione dei poteri di governo provvisorio nel periodo dell’emergenza. Entrato finalmente in funzione, con l’ingresso dei comunisti, il Comando Militare Interpartitico del CTLN (Comando “Marte”), Ragghianti consegna il piano d’attacco per l’insurrezione, alla cui realizzazione aveva collaborato, al nuovo comandante in carica, Nello Niccoli, mantenendo comunque sotto la sua diretta dipendenza, in qualità di commissario di guerra, i servizi radio e di controspionaggio. A consegne avvenute, il 17 giugno, Ragghianti può fare formalmente ingresso nel CTLN in rappresentanza del Partito d’Azione. Ai primi di agosto, dopo che i tedeschi hanno fatto saltare i ponti sull’Arno, Ragghianti assieme a Nello Niccoli ed Enrico Fisher riesce fortunosamente ad attraversare Ponte Vecchio servendosi del corridoio vasariano e a prendere contatto con le avanguardie alleate attestate da alcuni giorni in Oltrarno. Accreditatosi presso di esse in rappresentanza del CTLN, Ragghianti ne assumerà ufficialmente la presidenza la mattina dell’11 agosto, giorno dell’insurrezione, quando il comitato si insedia stabilmente presso Palazzo Medici Riccardi per coordinare sino ai primi di settembre il prosieguo della battaglia per la liberazione di Firenze e indi per dirigere da posizione di forza il lento e accidentato cammino di ricostruzione democratica.

30 agosto 1944 c-compressed

C.L. Ragghianti, “Guerra per la Liberazione Lavoro per la Ricostruzione”, in “La Nazione del Popolo”, 30 agosto 1944

In un suo intervento dal titolo Guerra per la Liberazione, Lavoro per la ricostruzione ospitato sul numero del 30 agosto de La Nazione del Popolo (organo del CTLN) Ragghianti dichiara infatti che il comitato toscano, «come organo rappresentativo del popolo dal quale ha ricevuto il suo mandato», avrebbe continuato a operare sino alla convocazione della Costituente in collaborazione con il governo militare alleato (Amg) e a vantaggio della «convergenza di tutte le forze» interessate alla «ricostruzione morale, politica, civile ed economica della nazione». In tal senso, Ragghianti si poneva in continuità con il disegno politico che sin dalla clandestinità aveva caratterizzato la riflessione e l’attività del CTLN e in particolare del gruppo dirigente azionista che ne esprimeva il vertice politico. Quest’ultimo, infatti, più degli altri partiti antifascisti, aveva sempre attribuito al CTLN la funzione di organo politico rappresentativo della volontà popolare, premendo affinché le autorità alleate ne riconoscessero a liberazione avvenuta tutte le disposizioni prese a favore della riorganizzazione democratica della vita civile (e dunque, in primo luogo, le nomine da esso rese effettive in tutti i principali settori amministrativi locali) e individuassero nel CTLN, piuttosto che nel Prefetto, l’organo abilitato a tenere in periferia i rapporti con l’autorità centrale. A queste prerogative di autogoverno, il gruppo azionista dirigente in seno al CTLN aveva legato altresì l’aspirazione a che il CTLN, dopo la liberazione e fino alla convocazione della Costituente, esercitasse anche funzioni di controllo sul governo dell’Italia libera in tema di assetto politico da dare al paese e a che, in generale, l’esperienza unitaria dei comitati di liberazione potesse costituire l’occasione per un radicale rinnovamento delle strutture tradizionali dello Stato in senso autonomistico e regionalistico.

Ragghianti, dopo la liberazione, si fece appunto interprete di simili istanze, promuovendo in tal senso alcune importanti iniziative. Nell’ottobre del 1944, ad esempio, egli redasse assieme al democristiano Piccioni il testo di un memoriale che una delegazione del CTLN (Ragghianti compreso) avrebbe in seguito portato a Roma per discutere col governo Bonomi e con il Comitato Centrale di Liberazione Nazionale e nel quale erano formulate le seguenti richieste: 1) istituzione di una Consulta Nazionale con funzione di indirizzo politico sul governo formata da una rappresentanza di ciascun partito componente i CLN; 2) trasferimento dei poteri dei Prefetti ai CLN provinciali o in subordine partecipazione di questi ultimi alla nomina dei primi; 3) affidamento ai CLN di funzioni proprie di organi regionali nell’ottica di decentramento. Per quanto ciascuna di queste istanze finì per scontrarsi con le tendenze conservatrici di governo e Alleati, per dissolversi poi col ripristino del tradizionale assetto centralistico dello Stato italiano, il caso toscano e fiorentino, non di meno, nonostante gli iniziali attriti di competenza tra Prefetto e CTLN, sanzionò per la prima volta il riconoscimento politico da parte dell’Amg del ruolo di rappresentanza popolare svolto nel quadro dell’emergenza dalle forze antifasciste del CTLN.

Oltre a questo traguardo, sicuramente ricco di implicazioni positive, l’interesse di Ragghianti (al pari di altri) puntava però a obiettivi più ambiziosi e dal valore di più netta rottura rispetto alla precedente articolazione storico-istituzionale nazionale, focalizzandosi in particolare sul terzo punto indicato nel memoriale presentato alle autorità romane. In effetti, Ragghianti accarezzava l’ipotesi che nel nuovo quadro istituzionale dell’Italia uscita dalla guerra il CTLN potesse essere costituzionalizzato alla stregua di un autogoverno politico e amministrativo della regione, individuando preliminarmente nella difficile missione di ricostruzione materiale, sociale e politica postbellica del paese il campo nel quale il comitato (o i vari CLN regionali) avrebbe potuto sperimentare questa sua nuova funzione. L’esempio positivo e concreto del caso fiorentino, in particolare, dove il CTLN aveva lavorato in autonomia ad approntare i piani operativi necessari al ripristino dei servizi e alla ricostruzione del tessuto locale (come era avvenuto ad esempio nel caso del salvataggio e della efficiente riattivazione degli impianti cittadini di erogazione del gas metano della Italgas, successo conseguito grazie a un piano esecutivo promosso da Ragghianti stesso entro il CTLN e oggetto, dopo resistenze iniziali, dell’approvazione e del plauso del governo militare alleato) costituiva per Ragghianti la prova che i CLN erano in grado di esercitare la direzione dell’attività di ricostruzione postbellica, su scala provinciale o meglio regionale, in collaborazione con (se non in totale autonomia da) gli organismi centrali.

In tal senso, per stimolare e coordinare questo compito, Ragghianti già dal novembre del 1944 si era fatto promotore della convocazione di un convegno regionale dei CLN toscani (poi autorizzato a tenersi solo nel maggio 1945 e indi seguito da altri due nel luglio e nel settembre) mentre sin dal 12 di agosto del 1944 aveva delineato su La Libertà il progetto dell’istituzione di un Ente Regionale per la Ricostruzione traendo spunto dal modello dell’Ente per la ricostruzione delle tre Venezie. Quest’ultimo, creato su iniziativa di Silvo Trentin all’indomani della guerra 1915-1918 per provvedere alla ricostruzione delle terre liberate, aveva funzionato nel senso di un ente di autogoverno regionale dotato di funzioni esecutive autonome dal governo centrale. A tale scopo, Ragghianti, sin dal suo primo viaggio compiuto a Roma nel settembre 1944 per prendere contatti col governo, era riuscito a ottenere l’interessamento e l’appoggio del Ministro dei Lavori Pubblici Meuccio Ruini. Tuttavia, la prolungata opposizione delle autorità militari alleate procrastinò di molto l’attuazione del progetto, rendendo possibile infine non la costituzione di un Ente esecutivo autonomo, ma di un semplice Comitato per la ricostruzione, per di più provinciale. In ogni caso, costituito con decreto prefettizio del 24 aprile 1945 n. 293 e articolato in una giunta esecutiva (presieduta da Ragghianti) e in dodici commissioni per settore di intervento (Ragghianti fece parte come membro della commissione Cultura e arte), a questo Comitato provinciale fu affidato dal CTLN il compito di formulare un piano generale per la ricostruzione della provincia di Firenze.

Sotto la presidenza di Ragghianti, il comitato per la ricostruzione lavorò senza sosta dai primi di maggio alla fine di luglio 1945, quando le conclusioni vennero presentate agli organi centrali superiori. Al contempo Ragghianti, nominato nel giugno 1945 Sottosegretario alla Pubblica Istruzione del governo Ferruccio Parri con delega alle Belle Arti e allo Spettacolo, sfruttando la contemporaneità delle cariche cercò di creare una sinergia tra i ministeri romani e gli sforzi di ricostruzione urbanistica fiorentini affidati al comitato. Forte era, in ogni caso, la volontà di Ragghianti (al pari di altri) di dar prova politica di come il CTLN, tramite il lavoro del comitato provinciale, intendesse accreditarsi come organo dirigente autonomo dell’attività di ricostruzione. Questo, come si è detto, era un aspetto particolarmente caro a Ragghianti, il quale, d’altro canto, già all’interno della “commissione macerie” istituita dagli Alleati tra l’agosto e il dicembre del 1944 aveva cercato di far sì che il team di esperti chiamato con lui a farvi parte (Giovanni Michelucci, Edoardo Detti, Giovanni Poggi, Ugo Procacci e Carlo Maggiora) predisponesse i primi interventi di risanamento edilizio al di fuori o in autonomia dalle ingerenze degli entri governativi. Anche per questo, dopo la nascita del Comitato provinciale, Ragghianti non rinunciò al progetto originario di istituire un Ente regionale con funzioni esecutive autonome, la cui costituzione, tuttavia, sfumò definitivamente in seguito alla caduta del governo Parri.

Oltre dai conflitti di competenza con le autorità alleate e prefettizie sulle funzioni di ricostruzione post-bellica, l’attività di Ragghianti alla guida del CTLN fu investita altresì da una accesa polemica interna alla sezione fiorentina del Partito d’Azione dalla quale provennero chiari segnali di delegittimazione politica e di sanzione nei riguardi del suo operato. Già nell’ottobre del 1944, Ragghianti aveva presentato una prima volta le proprie dimissioni in seguito al voto di biasimo sollevato dall’esecutivo della sezione azionista per aver acconsentito a ricevere a Firenze in visita ufficiale il Luogotenente Umberto II di Savoia. Nel corso di una successiva riunione straordinaria del comitato del partito era stata avanzata su iniziativa di Tristano Codignola l’accusa di irregolarità sulla nomina del critico d’arte alla presidenza del CTLN, carica che – argomentava Codignola – era stata affidata in realtà fin dal luglio 1944 a Enriques Agnoletti e che Ragghianti si era però arrogato quando si era fatto accreditare come tale presso gli Alleati, costringendo indi Agnoletti a compiere un passo indietro onde evitare una crisi politica in seno al CTLN. A Ragghianti, che aveva replicato al Codignola d’esser stato regolarmente indicato alla Presidenza dal partito sin dal giugno 1944 (cfr. Materiale dalle Fonti,), in quella circostanza fu comunque rinnovata la fiducia.

13 giugno 45 a-compressed

La “Nazione del Popolo” del 13 giugno 1945 annuncia il passaggio di consegne alla Presidenza del CTLN tra C.L. Ragghianti e Luigi Boniforti e pubblica la lettera di congedo di Ragghianti.

Tuttavia, una nuova crisi emerse in dicembre nel momento in cui l’avallo dato da Ragghianti alla decisione prefettizia di rimuovere dalla Sezione Provinciale per l’Alimentazione i due commissari nominati in precedenza dal CTLN in rappresentanza dei Partiti comunista e socialista, non trovò sanzione da parte della dirigenza azionista. La scollatura tra Ragghianti e il Partito d’Azione fiorentino si rifletté successivamente in occasione delle elezioni per il rinnovo della direzione di partito che si tennero a partire dal febbraio 1945 e che sancirono l’esclusione di Ragghianti dal comitato esecutivo. Delegittimato, il 3 aprile Ragghianti decise perciò di presentare le dimissioni dalla Presidenza del CTLN, benché l’esecutivo del Partito d’Azione decidesse di congelarle in attesa del completamento della Liberazione del paese (cfr. Materiale dalle Fonti). Le dimissioni infatti vennero ufficialmente accettate dal CTLN solo il 2 giugno successivo. Il 9, Ragghianti passò così le consegne a Luigi Boniforti, congedandosi su La Nazione del Popolo con una lettera carica di riconoscenza per tutti coloro che avevano reso possibile entro il CTLN «lo spirito di unità, di fraterna comprensione, di superamento del necessario dibattito politico in proposte e risoluzioni che hanno avuto per oggetto costante l’interesse generale del popolo».

Gli attriti emersi con l’esecutivo della sezione azionista fiorentina, anziché legati esclusivamente a dissonanze caratteriali con alcune personalità dirigenti (Codignola anzitutto), erano in realtà gli effetti di un progressivo allontanamento politico che Ragghianti aveva compiuto proprio nel corso della lotta di liberazione dalle posizioni liberal-socialiste, maggioritarie nel gruppo azionista fiorentino, per avvicinarsi a quelle di democrazia repubblicana proprie di Max Bauer, Ugo La Malfa e Ferruccio Parri. Questo processo di differenziazione – che in Ragghianti implicava il rifiuto delle derive impresse al partito dalle tesi di Emilio Lussu e dall’interpretazione propria di Codignola del Partito d’Azione come di una forza socialista di nuovo tipo –  in occasione del congresso nazionale del Partito svoltosi a Roma nel febbraio 1946, portò il critico d’arte, assieme ai fiorentini Boniforti, Passigli, Niccoli e Giannattasio, a seguire gli scissionisti del gruppo di Parri e La Malfa entro il Movimento per la Democrazia repubblicana, nelle cui file Ragghianti si candiderà peraltro – ma senza successo –  alle elezioni per la Costituente del 2 giugno 1946.

La mancata costituzionalizzazione delle funzioni di autogoverno regionale sperimentate dal CLN, la caduta improvvisa del governo della Resistenza di Ferruccio Parri, la fine dell’esperienza unitaria del Partito d’Azione – realtà alle quali Ragghianti aveva legato la propria aspettativa di una radicale rigenerazione del paese nel senso di una “rivoluzione democratica” – produssero in lui un crescente disincanto, acuito dal carattere conservatore del nuovo costrutto politico, sociale, economico e culturale sancito dalla nascita dell’Italia repubblicana, incapace, a suo giudizio, di segnare una reale discontinuità col passato regime e di condurre a compiutezza la democrazia nata dalla Resistenza. Lasciata la propria militanza politica per dedicarsi all’insegnamento e a un’appassionata attività di studio e di organizzazione culturale, Ragghianti avrebbe in seguito fornito amare riflessioni sulla compiutezza democratica dell’Italia repubblicana e sulla mancanza di un partito della Sinistra democratica (o meglio di una Terza Forza intesa nel solco della tradizione di Carlo Rosselli come veramente liberale e socialista) in grado di contrastare il progressivo polarizzarsi della vita politica nei due blocchi conservatori e “autoritari” del Partito Comunista e della Democrazia Cristiana. Se in un suo libro di riflessioni politiche licenziato alla fine degli anni Settanta Ragghianti sentenziò con estrema amarezza il fallimento delle aspettative resistenziali, arrivando persino a qualificare i «trent’anni di regime repubblicano» come «più o meno eguali ai vent’anni fascisti», non mancò però di sottolineare comunque l’alto valore politico e morale che, nella speranza pur incompiuta di una radicale ristrutturazione democratica del paese, dopo tutto aveva significato l’esperienza autonomista del CTLN:

Firenze, nell’agosto 1944 – scriveva Ragghianti – dimostrò che il Cln, in quanto rappresentante legittimo e riconosciuto della popolazione, poteva imporre ordinamenti che non erano previsti dall’Amg, ordinamenti di autonomia e di poteri molto più ampi e capillari. E furono riconosciuti, sia pure con aspra lotta. (C.L. Ragghianti, Traversata di un trentennio. testimonianza di un innocente, Editoriale Nuova, Milano 1978, p. 16)

Bibliografia di riferimento:

P. Bagnoli, Carlo Ludovico Ragghianti. Il dovere della politica, I e II, in «Nuova Antologia» n. 2254, aprile-giugno 2010 e n. 2255, luglio-settembre 2010.

A. Becherucci, Carlo Ludovico Ragghianti dalla presidenza del CTLN al Movimento per la Democrazia repubblicana, in «Rassegna storica toscana» a. 54, n. 1, gennaio-giugno 2008.

C. Francovich, La Resistenza a Firenze, La Nuova Italia, Firenze 1975.

E. Panato, Il Contributo di Carlo L. Ragghianti nella Ricostruzione postbellica, Maria Pacini Fazzi Editore, Lucca 2013.

C.L. Ragghianti, Disegno della Lberazione Italiana, Vallecchi, Firenze 1975.

Id., Una lotta nel suo corso. Lettere e documenti politici e militari della resistenza e della Liberazione, Neri Pozza, Venezia 1954.

Id., Traversata di un trentennio. Testimonianza di un innocente, Editoriale Nuova, Milano 1978.

S. Rogari, Carlo Ludovico Ragghianti, in P.L. Ballini (a cura di), Fiorentini del Novecento, 3, Polistampa, Firenze 2004, pp. 149-159

E. Rotelli (a cura di), La ricostruzione in Toscana dal Cln ai partiti, vol. I, Il Comitato Toscano di Liberazione Nazionale, Il Mulino, Bologna 1980.

Articolo pubblicato nel marzo del 2018.




Armando Angelini ed «il perdono dei forti»

Armando Angelini nacque nel 1891 nel comune di Seravezza, in una famiglia relativamente agiata; si laureò in legge presso l’Università di Pisa ed esercitò per il resto della sua vita la professione di avvocato. Nel 1921 il giovane Armando, già consigliere provinciale, partecipò alle elezioni politiche, divenendo deputato per il Partito Popolare Italiano (PPI), carica che avrebbe mantenuto fino al 1924. Il PPI era stato fondato due anni prima da don Luigi Sturzo e presentava un programma politico ispirato ai valori cattolici e basato su un forte impegno sociale, sul sostegno dato ai piccoli contadini e sul decentramento amministrativo.

Il giovane Armando ai tempi del suo primo incarico parlamentare.

Il giovane Armando ai tempi del suo primo incarico parlamentare, durante la XXVI Legislatura del Regno d’Italia. (Archivio fotografico Camera dei Deputati)

L’avvocato Angelini abbracciava in pieno la filosofia del PPI e dedicava non poche attenzioni al miglioramento delle condizioni di vita dei lavoratori della Versilia, sua terra natale. Nel primo dopoguerra, quell’area versava in uno stato di grave crisi economica, causato dal ristagno del commercio del marmo, che, a sua volta, era conseguenza del deterioramento dei rapporti internazionali provocato dalla Grande Guerra. Il risultato fu un aumento della disoccupazione: Armando si sentiva vicino a quelle genti in difficoltà e, in seguito, avrebbe ricordato «il baroccino trainato da un buon cavallo» con cui si recava nei più remoti borghi delle Alpi Apuane non solo per fare della propaganda politica, ma anche per difendere i cavatori rimasti vittima di incidenti sul lavoro.

Egli, inoltre, non mancava di prestare il proprio sostegno anche alle cause dei contadini, come nel marzo 1922, quando assistette tre coltivatori che, il 18 giugno 1920, avevano impedito con violenze e minacce il ritiro del grano appena raccolto da parte della commissione per la requisizione dei cereali. Oltre a tutto ciò, nel 1923 l’onorevole Angelini fu tra i promotori de «L’idea popolare», un periodico che divenne organo locale del PPI. Egli, in definitiva, era ritenuto da tutti «una persona equilibrata e corretta sì da godere la stima di ogni classe di cittadini».

Anni ’20: un affollato comizio popolare dell’onorevole Angelini.

Primi anni ’20: un affollato comizio popolare dell’onorevole Angelini. (Giannelli, La Versilia in camicia nera, p. 62)

L’impegno profuso per migliorare la qualità della vita in Versilia lo accompagnò anche nel suo primo mandato parlamentare, periodo che andò di pari passo con l’ascesa del fascismo. Subito dopo la marcia su Roma, pur tra le varie perplessità, il PPI entrò a far parte del nuovo governo, ma si indebolì progressivamente, in particolar modo a partire dal 1924, dopo il delitto Matteotti e la partecipazione del PPI all’Aventino. La posizione fragile del PPI era resa evidente anche dalla maggiore facilità con cui i fascisti rivolgevano contro di esso le loro iniziative più violente (in precedenza riservate soprattutto a comunisti, socialisti e anarchici). In particolare, i giorni che precedettero le elezioni del 1924 trascorsero in un clima di terrore, in cui le squadre fasciste impedirono ogni tipologia di propaganda non governativa: in quel contesto fu attaccato a Pietrasanta il circolo cattolico, dove Armando stava tenendo una conferenza elettorale per i popolari. Violentemente e pubblicamente percosso in piazza Carducci, Armando non venne rieletto e i fascisti riuscirono nel loro intento di impedirne il ritorno in parlamento.

Armando Angelini con il figlioletto Piero. Sulla destra, Giulio Paiotti con un prelato

Anni ’20: Armando con in braccio il figlioletto Piero, fotografato assieme ad un gruppo di amici. (Giannelli, La Versilia in camicia nera, p. 74)

Probabilmente tutto questo non servì a scoraggiare definitivamente il combattivo avvocato, poiché nel 1926 si verificò un nuovo episodio di violenza nei suoi confronti, vale a dire l’incendio di Villa Angelini, una dimora di sua proprietà situata sulle colline versiliesi. Dopo quell’ennesimo tentativo di intimidazione, Armando abbandonò la vita politica, si trasferì nella provincia di Massa-Carrara e si dedicò esclusivamente all’esercizio della sua professione. Ciò, tuttavia, non comportò un’adesione al regime, anzi, come in seguito avrebbe affermato, parlando di Armando, il Presidente della Repubblica Giovanni Gronchi

Tutto fu travolto, vennero gli anni oscuri ed egli si ritirò, come molti altri, dalla vita politica. Si chiuse nella sua attività professionale, ma non si piegò all’autoritarismo imperante. Ebbe campo di mostrare anche in quegli anni la bontà del suo animo perché egli pose la propria attività, la propria esperienza e anche le proprie non larghe finanze, nell’impiego di aiutare, difendere, di confortare, di sostenere coloro che erano perseguitati.

Fu nel secondo dopoguerra che Armando poté riprendere liberamente e pienamente la sua attività politica. Membro dell’Assemblea Costituente, nel 1948 egli divenne deputato per la Democrazia Cristiana (DC), carica che mantenne per tutta la I e la II legislatura (quindi complessivamente fino al 1958). In quel periodo Armando ricoprì il ruolo di Presidente della commissione trasporti – comunicazioni – marina mercantile e fu promotore di diversi progetti di legge, dedicati sia al settore delle comunicazioni e dei trasporti (di una certa rilevanza fu la proposta, poi divenuta legge, recante provvedimenti a favore dell’industria delle costruzioni navali e dell’armamento), sia, come sempre, alla sua Versilia. Di grande interesse, in questo senso, è il disegno di legge relativo alla tassa sui marmi nei comuni di Pietrasanta, Seravezza e Stazzema: i tributi sul commercio del marmo costituivano un’importante fonte di introito per i territori interessati dall’escavazione e il progetto dell’onorevole Angelini prevedeva un adeguamento dell’importo da riscuotere, che andava ora a interessare anche i prodotti di scarto come le scaglie e la polvere. Un altro progetto con ricadute territoriali fu quello dedicato alla messa in atto di provvedimenti a favore dell’area portuale di Pisa e Livorno.
A partire dal 1958, Armando Angelini ricoprì la carica di senatore e, tra il 1955 ed il 1960, presiedé il Ministero dei Trasporti. Il senatore Angelini non abbandonò mai la sua morale cristiana, quella stessa che, nel 1965, in una sezione del suo libro E le cicale continueranno a cantare, dedicata alla vittime della Seconda Guerra Mondiale, lo avrebbe condotto ad affermare che

Il perdono dei forti, il perdono cristiano, questo gigantesco atto di grandezza umana che non cancella la colpa ma che, lungi dal sancire una sentenza, fallace come possono essere tutte le sentenze degli uomini, sublima la giustizia in un abbraccio d’amore, questo perdono che ci hanno suggerito le vittime stesse e che suona condanna ugualmente nei secoli, non deve significare oblio.

Armando Angelini si spense nel 1968.

Rachele Colasanti (Pietrasanta, 1992) si è laureata in Storia e Civiltà all’Università di Pisa nel luglio 2017, con una tesi sugli antifascisti della provincia di Lucca denunciati al Tribunale speciale per la difesa dello Stato. Attualmente, sta frequentando un master di II livello in Comunicazione storica presso l’Università di Bologna.

Articolo pubblicano nel dicembre del 2017.




Piero Calamandrei: “la Costituzione che cammina”

Resistenza e dall’esperienza costituente.

20171031_115850-min

Il numero monografico de “Il Ponte” dell’aprile-maggio 1955 dedicato alla Liberazione

ordinamento costituzionale democratico e repubblicano che, spezzando ogni continuità col decaduto regime monarchico-fascista, Calamandrei vide in parte già prefigurato nella funzione di governo rivoluzionaria dei CLN e sancito per la prima volta minimum di benessere economico, senza il quale – era convinto Calamandrei – i cittadini non avrebbero potuto effettivamente esplicare la propria individualità morale né partecipare attivamente al regime di libertà promesso loro dai tradizionali diritti di libertà politica. Oltre a questi ultimi, dovevano perciò essere garantiti anche diritti di libertà economica (quali il diritto alla casa, allo studio, al lavoro, alla salute, in una parola la libertà dalla miseria) che come conquiste del nuovo ordinamento uscito dalla guerra Calamandrei voleva iscritti nel programma della futura costituzione repubblicana «come affermazioni di diritti insopprimibili al pari di quelli scritti nelle Costituzioni sorte dalla Rivoluzione francese» (P. Calamandrei, Libertà e legalità, 1944).

, operò in sede di Assemblea Costituente affinché le norme programmatiche in discussione, se non proprio dar subito adito a riforme strutturali economiche e sociali, quanto meno fossero in grado di indicare in modo nitido e con lungimiranza la via con la quale conseguire “di fatto” nell’immediato avvenire le agognate libertà individuali politiche e sociali, dovette però scontrarsi come noto col compromesso, «molto aderente alle contingenze politiche dell’oggi e del prossimo domani, e quindi poco lungimirante», raggiunto tra la DC e i partiti social-comunisti attorno alla necessità di rimandare il varo delle riforme strutturali e l’attuazione delle norme programmatiche a uno scenario non prossimo, passibile di divenire (Id., Chiarezza nella Costituzione, 4 marzo 1947).

Occorre procedere a quella trasformazione economica della società che renda possibile la soddisfazione dei diritti sociali. Questo si può fare a caldo, con una rivoluzione violenta, come avvenne in Russia. Ma questo si può fare [anche] a freddo, con una lenta trasformazione democratica. La nostra costituzione ha scelto la seconda via (democrazia parlamentare, pluralità dei partiti, alternanza al potere). Ma scegliere la seconda via, che vuol dire andar piano, ma andare, non vuol dire star fermi. Vuol dire che bisogna fare leggi (che non poté fare la Costituente) ispirate a questo programma di rinnovamento sociale contenuto nella Costituzione. [Una] Costituzione rivoluzionaria nel fine, ma democratica nei metodi […] (ISRT, Archivio P. Calamandrei, 11.3.3).

volontà di mera dominazione, come ben esemplificavano il fenomeno dell’ostruzionismo parlamentare di maggioranza e il varo della legge elettorale del 1953, o “legge truffa”, che modificava sostanzialmente il principio di rappresentanza proporzionale sancito nella Costituzione. Se il cospicuo premio di maggioranza previsto dalla nuova legge elettorale, prova per Calamandrei di scorrettezza costituzionale, alle elezioni del 7 giugno di quell’anno non scattò, fu anche grazie all’apporto in fase di campagna elettorale assicurato dall’esiguo ma battagliero gruppo di Unità Popolare, di cui il professore fiorentino era stato uno dei fondatori. Contro la strumentale polarizzazione politica di quelle consultazioni giocate tra comunismo e anticomunismo e il ricatto elettorale incentrato dalla DC sulla minaccia del «doppio terrore» “rosso” e “nero” (ma in realtà superato nella pratica dalle preoccupanti aperture di credito elettorale concesse in chiave anticomunista dalla DC alla Destra e persino a figure del vecchio fascismo) Calamandrei vide nel fallimento di quell’esperimento di ingegneria elettorale un segno di speranza per la ripresa dell’originario slancio riformatore dei partiti antifascisti, nello spirito che era stato proprio della Resistenza (Id., 20171031_122242-min

Il resoconto della manifestazione organizzata al teatro Brancaccio apparso su “L’Unità” del 24 dicembre 1954 con al centro la foto di Calamandrei

Contro il progetto di “democrazia protetta” tentato nei primi anni Cinquanta dai governi centristi per “blindare” la Repubblica e restringere con norme ad hoc improntate a una sorta di “maccartismo italiano” la legittimità delle forze comuniste (come nel caso delle misure varate nel dicembre del 1954 dal DC Mario Scelba), Calamandrei insorge, condannando la limitazione dei diritti civili e politici per categorie di cittadini disposte discrezionalmente sulla base dei loro orientamenti politici e contrarie perciò ai principi di eguaglianza sanciti dalla Costituzione. Il 19 dicembre del 1954, Calamandrei interviene così a una manifestazione organizzata da Unità Popolare a Roma al teatro Brancaccio stigmatizzando le norme “anticomuniste” scelbiane e paventando il timore che esse potessero degenerare in vere e proprie liste di proscrizione su base politica.

La libertà della cultura nel decennale della Liberazione, 1955).

20171030_165911-min

L’articolo di Calamandrei “La disgrazia di essere innocenti” con cui propone un’assicurazione obbligatoria per la riparazione degli errori giudiziari (“Il Mondo” 29 settembre 1953)

assicurazione obbligatoria contro gli errori giudiziari, anche qui in ottemperanza all’articolo 24 della Costituzione che aveva demandato al legislatore il compito di stabilire modi e mezzi con i quali procedere alla riparazione.

di quei residui della legislazione fascista che, come la legge di polizia, minacciavano il pieno godimento dei diritti fondamentali garantiti dalla Repubblica. Tre mesi dopo, esultando per la prima sentenza della Corte con cui veniva cancellato il famigerato art. 113 del testo di polizia fascista, Calamandrei, dopo anni di immobilismo costituzionale, per la prima volta poté ammettere: «la Costituzione si è mossa» (Id. La Costituzione si è mossa, 1956).

democrazia autentica e sempre operante.

Articolo pubblicato nel novembre del 2017.




Il salto del muro: don Sirio Politi, preteoperaio a Viareggio.

“Hanno affittato anche le barche”. Con questa constatazione inizia un articolo dello scrittore viareggino Silvio Micheli, pubblicato sulle pagine del quotidiano comunista l’Unità all’indomani del ferragosto del 1961. Viareggio è in quegli anni una delle mete preferite del neonato turismo di massa, frutto di una crescita economica che proprio in quell’anno raggiunge il suo apice, con un aumento del PIL dell’8,3%. Sono gli anni del cosiddetto “miracolo italiano”, quando la lira conquista nel 1960 il riconoscimento di moneta più salda fra quelle del mondo occidentale. Milioni di italiani possono permettersi l’acquisto del televisore e del frigorifero: tuttavia, diventa l’automobile il sogno di molti. La FIAT, che nel 1955 mette in produzione la 600, presenta due anni dopo la 500, al costo di 490.000 lire, pari a tredici stipendi di un operaio: nonostante il prezzo sia elevato, inizia proprio in quegli anni la motorizzazione di massa degli italiani. L’utilitaria, spesso acquistata dopo la firma di numerose cambiali, permette di raggiungere, soprattutto in estate, le località balneari. “Tutta Viareggio” scrive Micheli “ha dovuto far posto ai ferragostini, una volta completati alberghi e pensioni. Ma i ferragostini continuavano ad arrivare rigati di sudore dalle città e dalle campagne cotte dal sole”.

Un’immagine del Lungomare viareggino in pieno boom economico: sullo sfondo, i cantieri della Darsena.

Un’immagine del Lungomare viareggino in pieno boom economico: sullo sfondo, i cantieri della Darsena.

Ma se esiste una Viareggio che fa del turismo, di élite e di massa, la sua risorsa principale e cerca di sistemare i villeggianti come può, c’è un’altra Viareggio che vive una situazione ben diversa. Da quando inizia la costruzione del porto-canale nel 1819, la città versiliese si sviluppa nei decenni successivi prendendo due direzioni: da una parte, la città turistica e commerciale con i suoi alberghi e i ritrovi per gli artisti, dall’altra, la Darsena con i cantieri navali, regno dei maestri d’ascia e calafati prima e della carpenteria metallica poi. A dividere queste due realtà, il porto-canale.

Tuttavia, nella Darsena viareggina non si costruiscono solo navi di ogni genere. In quella parte della città è situata anche una delle fabbriche più importanti: la F.E.R.V.E.T., acronimo che significa Fabbricazione E Riparazione Vagoni E Tramway, con sede principale a Bergamo e succursali in altre città. Le cronache e le testimonianze dell’epoca ci raccontano di un lavoro particolarmente duro, svolto in un ambiente malsano e con attrezzi inadeguati per il tipo di produzione richiesto. Per questo motivo gli operai, all’epoca circa 270, sono tra i più combattivi e politicizzati della città. Quando nel 1955 la FIOM subisce una pesante sconfitta nelle elezioni della commissione interna alla FIAT, passando dal 65% al 36%, nello stesso anno alla F.E.R.V.E.T. la FIOM aumenta i consensi, raggiungendo il 73% dei voti operai. Per tutti gli anni ’50 la conflittualità operaia si manifesta con scioperi e occupazioni dello stabilimento, come in quella estate del 1961. Dalla metà del mese di luglio, gli operai occupano lo stabilimento, contro la smobilitazione paventata dall’azienda, trascinando i lavoratori viareggini in più scioperi di solidarietà. Tuttavia, quella lotta passerà alla storia cittadina per un gesto di solidarietà e di disobbedienza di un prete, anzi di un preteoperaio.

Don Sirio Politi (1920-1988), preteoperaio

Nativo di Capezzano Pianore (Camaiore, Lu), don Sirio Politi (1920-1988), assieme al fiorentino don Bruno Borghi (1922-2006), fu il primo preteoperaio italiano.

Dall’estate del 1956 don Sirio Politi, nato nel 1920 e fino all’anno prima parroco di Bargecchia, una piccola frazione collinare del comune di Massarosa, si è stabilito nella Darsena, in un piccolo edificio trasformato in una chiesina che si affaccia sul Canale Burlamacca, e lavora come scaricatore di porto. Fino al 1959 ha lavorato in un cantiere navale, poi si è dovuto licenziare: le autorità ecclesiastiche romane hanno infatti posto fine all’esperienza dei pretioperai, nata in Francia nei primi anni ’40. Insieme a don Bruno Borghi di Firenze, Politi è il primo preteoperaio italiano.

Don Sirio chiede più volte alla direzione di poter effettuare la messa all’interno della fabbrica occupata, ma il permesso viene ripetutamente negato. Finché una domenica, dopo l’ennesimo rifiuto, prende una valigia e la riempie con gli arredi sacri. Porta con sé anche una scala, per permettergli di scavalcare il muro di cinta della fabbrica, e, con l’aiuto degli operai, riesce ad entrare. “Ho scavalcato questo abisso di divisione”, scriverà don Sirio, “e mi sono sentito come in terra libera, fra uomini liberi”. Gli operai gli fanno visitare la fabbrica: “Una attrezzatura primitiva, un macchinario antiquato di quarant’anni fa, un’organizzazione di lavoro assurda e un disordine inconcepibile”. Intanto viene preparato l’altare “con attrezzi di lavoro e lamiere”. Ricordando quella esperienza, scrive don Sirio: “Può darsi che molti non siano credenti. Forse alcuni hanno voluto questa Messa per interesse di pubblicità: ma a me non importava nulla dei motivi e delle intenzioni – e nel caso ero felice che almeno quella Messa servisse a dei poveri, a degli operai… l’importante era che Dio fosse lì tra i poveri, che Gesù Cristo consumasse lì, fra gli operai, il Suo Sacrificio di Redenzione… a dare senso, significato, valore infinito ed eterno a questa povera vicenda umana, a queste situazioni di ingiustizia, a questa sofferenza per i diritti fondamentali alla vita”.

Darsena viareggina: la "Chiesina del Porto" (o "Chiesina dei Pescatori") subito dopo la ristrutturazione del 1961, realizzata per mano dello stesso don Politi.

Darsena viareggina: la “Chiesina del Porto” (o “Chiesina dei Pescatori”) subito dopo la ristrutturazione del 1962, voluta e realizzata dallo stesso don Politi, che, poeta, uomo di lotta e di pace, era pure un abile artigiano.

La F.E.R.V.E.T. continuerà ancora per un trentennio l’attività, fino ad una ennesima occupazione e alla definitiva chiusura nel 1991. Don Sirio Politi proseguirà nel suo cammino, svolgendo l’attività di fabbro e continuando nelle battaglie nonviolente a difesa degli obiettori di coscienza, per la pace e contro l’opzione nucleare, attraverso una feconda attività editoriale. Morirà nel febbraio del 1988.

Articolo pubblicato nel luglio del 2017.




Alessandro Rinaldi, criminale di guerra dimenticato

Invitato a uno omicidio o a qualunque altra rea cosa,
senza negarlo mai, volenterosamente v’andava
e più volte a fedire e a uccidere uomini
con le proprie mani si trovò volentieri.

G.BOCCACCIO, Decameron, I,1.

Qualora la celeberrima descrizione del Boccaccio venisse purgata della sua aria ironica e assumesse un tono freddo e reale calzerebbe a pennello per un personaggio che tra il 1919 ed il 1947 assurse più volte ai disonori della cronache del territorio senese, ossia Alessandro Rinaldi.

Alessandro Rinaldi

Alessandro Rinaldi

Nato a Siena nel 1903, entrò giovanissimo nel movimento fascista; distintosi ben presto per l’intelligenza ed il coraggio, fece una rapidissima carriera assumendo una posizione di spicco ne La Disperata, la squadra d’assalto più brutale e sanguinaria del territorio.
Quando Mussolini prese il potere in Italia, il fascismo tentò di darsi una facciata di rispettabilità dislocando gli elementi più facinorosi in posti di scarsa importanza e questo fu anche il destino del Rinaldi ‘normalizzato’, come semplice impiegato, dietro una scrivania del Sindacato di Commercio.

Ancora il 25 luglio del ’43, il soggetto viene descritto come un tranquillo scribacchino precocemente invecchiato e piuttosto corpulento ma gli avvenimenti dell’8 settembre lo trasformarono completamente restituendogli vigore.
Con la nascita della Repubblica Sociale Italiana, Il Rinaldi si mise immediatamente a servizio del prefetto di Siena Giorgio Alberto Chiurco, il quale lo nominò commissario politico per la città con pieni poteri.
Il nuovo funzionario non perse tempo. Si insediò alla Casermetta (oggi sede delle Stanze della Memoria), redasse delle accurate liste di antifascisti, sospetti e presunti fiancheggiatori dei partigiani quindi procedé agli arresti, agli interrogatori e alle torture. La sua azione non si arrestò alle mura della città ma si allargò a tutto il territorio con alcune puntate persino nel Grossetano. Una serie di testimonianze confermano la presenza del Rinaldi su buona parte dei luoghi degli eccidi e dei rastrellamenti avvenuti poco prima del passaggio del fronte: a Rigosecco (Montalcino), dove il 19 gennaio 1944 furono fucilati i partigiani Panti Luciano e Marsili Luigi; il 28 marzo dello stesso anno a Casa Giubileo (Monteriggioni) dove vennero fucilati diciassette partigiani che si erano arresi; il 5 aprile a Monticchiello, dove venne passato per le armi il partigiano Mencattelli Mario e infine il 28 aprile a Castellina Scalo, dove in seguito ad un rastrellamento effettuato insieme alle truppe tedesche rimasero uccisi tre civili ed altrettanti vennero deportati. Da notare che in tutte queste circostanze il gerarca ricoprì ruoli decisionali.
Si ipotizza persino, anche se ancora non sono emerse conferme, la presenza dello stesso a Scalvaia (Monticiano), dove vennero fucilati 11 renitenti alla leva, il 21 marzo 1944.
Particolarmente raffinata era anche la cura dell’immagine di se stesso che il Rinaldi presentava; si era fatto realizzare, infatti, una propria divisa diversa dagli altri militi della Guardia Nazionale Repubblicana, ossia un abito da cacciatore su cui facevano bella mostra di sé l’inseparabile fucile mitragliatore e due cartucciere, una per le bombe a mano e una per i caricatori. Dopo ogni azione fruttuosa, i militi della casermetta sfilavano su dei mezzi scoperti per le principali vie della città; sulla prima macchina del corteo, invariabilmente, si vedere il gerarca con la faccia truce.
L’arrivo degli alleati a Siena, i primi di luglio del ’44, vide la fuga di molti fascisti che decisero di seguire, nel nord Italia, le sorti della Repubblica Sociale Italiana.

Alessandro Rinaldi riparò ed operò nella zona di Brescia fino al maggio 1945 quando si rese latitante e divenne un criminale comune.
Riconosciuto a Firenze, venne arrestato e rinviato a giudizio il 28 febbraio del 1947. Inchiodato da prove e testimonianze inconfutabili, il gerarca insieme ad altri commiltoni subì la condanna all’ergastolo, ma la sua vicenda non finì qui: nel luglio 1948, riuscì ad evadere dall’Ospedale San Gallo di Firenze ma fu arrestato nuovamente a Brescia. A questo punto per lui si aprirono definitivamente le porte del carcere.

Nel 1959, dopo dieci anni di detenzione, venne anmistiato.

Articolo pubblicato nel giugno del 2017.




Fernando Melani, un “incantatore di atomi”

Fernando Melani (1907-1985) fu artista pistoiese e ricercatore scientifico cosmopolita. Partendo dalle riflessioni sulla materia e sull’atomo portò avanti una ricerca creativa vicina a correnti come l’Arte Povera, l’Arte Concettuale e la Minimal Art, anticipandone in alcuni casi gli esiti. Molte sue opere oggi trovano sistemazione presso la casa-studio Fernando Melani a Pistoia.
Donatella Giuntoli, amica e studiosa di Fernando Melani, affermò che “Melani si poteva configurare nell’immaginario pistoiese come un manipolatore di particelle o un incantatore di atomi”. In questa frase è racchiusa l’essenza profonda di un uomo del Novecento che ha votato la sua vita alla sperimentazione sulla materia.

Melani passò gran parte della sua esistenza a Pistoia. Nacque a San Piero Agliana (PT), secondogenito di una famiglia borghese, il 25 marzo 1907 e morì a Pistoia nel marzo 1985. Nel 1937, di rientro da un’esperienza lavorativa a Novara, entrò in possesso dell’abitazione familiare in Corso Gramsci a Pistoia, dove abitò per tutta la vita con un’unica parentesi legata allo sfollamento per i bombardamenti del 1943/44.
Lo spartiacque del secondo conflitto mondiale cambiò drasticamente il modo di pensare di Fernando portandolo a una completa rielaborazione delle sue priorità, si dedicò all’arte e sposò un’assoluta essenzialità, sostituendo ogni suo abito con una tuta blu (accompagnata da una sciarpa gialla) ed eliminando ogni accessorio domestico dall’abitazione, compresi cucina e termosifoni. La casa di Corso Gramsci divenne così il luogo della creatività, lo studio, dove gli ‘atomi potessero essere liberi di vagare per le stanze’, mentre l’esterno acquisì una funzione legata alle necessità fisiche, gestite attraverso una rigorosa routine. Melani, infatti, mangiava sempre nel medesimo ristorante e frequentava regolarmente i soliti centri d’aggregazione.
Nell’“immaginario pistoiese”, un tessuto culturale ampio e variegato, Melani era inserito per analogia o contrasto, la sua era una socialità fatta di provocatorie discussioni e biunivoci rapporti di crescita. Lo si poteva incontrare al Cafè du Globe, al bar Piemontese o al bar Valiani, a pranzo e a cena alla trattoria Autotreni in Porta al Borgo, oppure a discutere animatamente presso la Libreria dello Studente di Giovanni Tellini. In questi ambienti era entrato in contatto con molte personalità (come Luigi Bruno Bartolini, Alfiero Cappellini, Gianfranco Chiavacci, Donatella Giuntoli, Remo Gordigiani, Giulio Innocenti, Lando Landini, Antonio Nespoli, Renato Ranaldi, Giovanni Tellini); ma manteneva sempre un occhio vigile nei confronti di un macrocontesto, non strettamente locale, stringendo rapporti con figure importanti come Luigi Ardemagni, Ettore Bonessio di Terzet, Silvio Ceccato, Luciano Fabro, Ernesto Galeffi (in arte Chiò), Rosy Novella, Fiamma Vigo, Marisa Volpi.
Il suo essere Fernando, assieme al modo di esplicarsi verso l’esterno, è una diretta emanazione dei suoi valori scientifico-razionali, in questo le definizioni di “manipolatore di particelle” e “incantatore di atomi” tentano di inquadrare, a loro volta, il processo intellettuale melaniano in un sistema razionale. La sua attività non è semplicemente definibile in categorie standardizzate e univoche, infatti, se da un lato si può identificare come artista astratto, dall’altro vanno ricordati i suoi slanci di ricercatore scientifico, di scrittore, di teorizzatore, di fotografo e altri aspetti che il recente lavoro di sistemazione dell’archivio ha approfondito. Possiamo, quindi, concepire il suo lavoro come se fosse accomunato dall’unico obiettivo di analizzare la verità dell’universo, in altre parole l’atomo; il suo lavoro diviene così uno strumento e non il fine ultimo della ricerca. Solo in quest’ottica possiamo comprendere opere come le ‘macchine semplici’, meccanismi funzionali e funzionanti finalizzati alla sperimentazione sonora o fisica; oppure le riflessioni spaziali legate alle opere ‘bucato’ e ‘bandiera’; o ancora lo studio della casualità, opere nate dalla sedimentazione di materiale nel corso del tempo.
In questo rapporto tra materia, esistente e teoria risiede la ricerca artistico-scientifica di Fernando Melani. Dal 1950 comincia a esporre le prime opere già definibili ‘astratte’ e per più di quarant’anni continua la sua attività collaborando con vari centri d’arte pistoiesi come la Galleria Studio La Torre o la Galleria Vannucci; arriva anche a Firenze e a Milano grazie alla fruttuosa collaborazione con Fiamma Vigo; nel 1972 partecipa assieme a Luciano Fabro a ‘Documenta 5’ presso il Museo Fridericianum di Kassel in Germania. Tra i suoi numerosi scritti ricordiamo: Davanti alla pittura (1953), Addio Giulio! (1955), Chiò e Melani, due indirizzi della pittura plastica formativa (1956), Un’analisi critica di Fernando Melani, Quadri di John Forrester (1960), Astratto vecchio nuovo ed oltre (1963-64), Universo Evoluzione Arte (1979).
Oggi la sua eredità intellettuale e culturale è portata avanti dalla Casa-studio Fernando Melani, sita in Corso Gramsci 159, di proprietà del Comune di Pistoia e gestita dall’ U.O. Musei e Beni Culturali dello stesso comune. Nella casa-studio, accessibile su prenotazione, è possibile immergersi completamente all’interno di un ambiente creativo unico nel panorama culturale pistoiese e toscano.

Lorenzo Sergi ha conseguito la laurea magistrale in Archivistica con la prof.ssa Laura Giambastiani svolgendo una guida dell’Archivio di Fernando Melani. Collaboratore esterno per istituti di ricerca, ha svolto e svolge attività di valorizzazione culturale, per bambini e adulti, in enti e associazioni del territorio. Tra le sue pubblicazioni: SERGI L. (a cura di), Catalogo di mostra I 7 Antichi, le carte dell’Archivio Storico comunale di Monsummano Terme, in «Caffè Storico. Rivista di studi e cultura della Valdinievole», anno I, n. 2, Monsummano Terme, Istituto Storico Lucchese, 2016; Ricerca fotografica e fotografie in LOMBARDI M., PALANDRI A., SERGI L., Jorio raccontato ai bambini, Buggiano, Edizioni Vannini, 2013.

Articolo pubblicato nel gennaio del 2017.




Vittorio Bardini. Costituente senese

Condannato dal Tribunale Speciale nel 1928 perché comunista e pericoloso oppositore del regime, si era fatto otto anni di reclusione. Poi era espatriato clandestinamente in Unione Sovietica dove aveva frequentato una scuola militare. Inviato in Spagna, aveva combattuto nelle file repubblicane ed era riparato in Francia in seguito alla vittoria del franchismo. Dopo due anni di campo di concentramento, consegnato alla polizia fascista dal governo filonazista di Vichy, nel 1941 aveva fatto il suo ingresso nel carcere di Santo Spirito di Siena. Lì lo volle incontrare l’Arcivescovo della città, Mario Toccabelli, forse incuriosito dalla sua storia e dalla sua personalità. “In occasione della festa del carcerato (…) fui l’unico che non andò a messa (…). Verso la fine della cerimonia (…) Monsignor Toccabelli vene a trovarmi in cella. Con molto garbo e correttezza ci salutammo. Mi fece alcune domane e dopo qualche battuta a conclusione del nostro incontro, mi chiese a quale curia appartenevo: gli risposi che non ero molto ferrato nella conoscenza della gerarchia e della organizzazione ecclesiastiche. Si congedò invitandomi a pregare il buon Dio e a ritornare su quella che secondo lui era la giusta strada, la strada del fascismo”.

Bardini (al centro della foto sotto il ragazzo seduto sul cannone) in Spagna negli anni della guerra civile

Bardini (al centro della foto sotto il ragazzo seduto sul cannone) in Spagna negli anni della guerra civile

Così amava raccontarsi Vittorio Bardini, nato a Sovicille nel 1903, professione muratore. A quell’incontro con l’alto prelato sarebbero seguiti il confino a Ventotene, un breve periodo di libertà dopo il 25 luglio 1943, il trasferimento a Milano, di nuovo in clandestinità, per organizzare i Gap, l’arresto, la deportazione a Mauthausen e infine, a guerra conclusa, i ruoli dirigenti nel Pci, l’elezione al Parlamento e prima ancora all’Assemblea Costituente.
Di questa suo ruolo in uno dei luoghi politici di massima rilevanza per la storia della Repubblica, Bardini non ha lasciato memorie, mettendolo in secondo piano rispetto all’attività nel partito e per il partito. Probabilmente considerava un puro servizio anche il suo voto su quei banchi. E d’altra parte, se la preparazione in materia giuridica non gli poteva consentire chi sa quali apporti originali, la sua presenza, insieme a quella di molti altri ed altre come lui, bastava da garanzia sul fondamento antifascista della legge fondamentale del nuovo Stato repubblicano che si andava elaborando.

Roma, dicembre 1947. Da sinistra: Vittorio Bardini, Ilio Barontini, Walter Audisio e Francesco Moranino.

Roma, dicembre 1947. Da sinistra: Vittorio Bardini, Ilio Barontini, Walter Audisio e Francesco Moranino.

Solo da qualche ricordo frammentario si ricavano notizie non sulla discussione in aula, bensì su quella che si svolgeva fra la base comunista, con una dialettica e una libertà di parola superiori a quanto ci si potrebbero immaginare. Per due volte, nel 1946 e nel 1947, Palmiro Togliatti arrivò a Siena per assistere al Palio. In entrambe le occasioni partecipò ad una assemblea degli scritti, accompagnato da Bardini. E in entrambe le occasioni non mancò chi gli rivolse critiche esplicite sull’amnistia che aveva decretato come Guardasigilli e sul voto del Pci sull’articolo 7, rivelando il malcontento serpeggiante sia per la mano tenera con i fascisti, sia per la mano tesa alla chiesa e alla Dc. Bardini probabilmente non gradì quegli interventi, ma alla fine poté quasi rallegrarsene perché, come ricordò, si trattava di parole dette da “bravi compagni, ma di tipo particolare, personaggi caratteristici che con alcune loro espressioni si rendevano anche simpatici. Per queste caratteristiche si resero simpatici anche Togliatti”.

Anche un comunista d’acciaio come lui non mancò tuttavia di ricevere critiche da chi ancora più d’acciaio lo avrebbe voluto. Teresa Noce ebbe infatti a dolersi per il fatto che avesse accettato di entrare, in quota Pci, nella Deputazione del Monte dei Paschi di Siena. A lei i banchieri non piacevano, anche se erano iscritti al partito e certi incarichi le parevano un allontanamento dalla prospettiva della rivoluzione socialista. Ma forse era nel torto, non avendo valutato a pieno quale fosse il significato, anche simbolico, di un comunista dentro la Rocca di Piazza Salimbeni, da sempre presidio finanziario esclusivo della nobiltà agraria, della borghesia dei commerci e della rendita immobiliare e delle forze politiche di loro rappresentanza.

Bardini in Piazza Matteotti a Siena. Comizio per il 25 aprile 1946

Bardini in Piazza Matteotti a Siena. Comizio per il 25 aprile 1946

Articolo pubblicato nel novembre del 2016.