Nara Marchetti (1924-2020)

Nara Marchetti

Nara Marchetti nasce il 24 maggio 1924 a Pescia. Il padre, figurinaio di idee socialiste, negli anni Venti emigra in Argentina e rientra definitivamente in Italia in seguito alla grande depressione del 1929. La bambina cresce a Guzzano, una frazione di Bagni di Lucca, in una famiglia libera e aperta alla discussione. In casa, spesso soggetta a perquisizioni, si parla di politica, si pratica la lettura collettiva anche di libri vietati dal regime e si ascolta la radio che il padre ha riportato dai suoi viaggi. Adolescente, proprio alla radio sente Dolores Ibárruri quando nel 1936 la “pasionaria” chiede aiuto per la Spagna libera e ne rimane profondamente affascinata. Morti i nonni, la famiglia si trasferisce a Lucca dove la ragazza segue corsi di dattilografia e stenografia.

Trova lavoro al Consiglio delle Corporazioni e dopo l’8 settembre conosce il colonnello Davini, che comincia ad invitarla alle riunioni antifasciste in casa sua. Qui incontra il commissario politico del CLN lucchese Vannuccio Vanni, “Alfredo”, comunista, e compie la scelta della Resistenza e della clandestinità. Si mette così in contatto con i Gruppi di difesa della donna, in particolare con la responsabile lucchese Maria Lazzareschi e con Ida Boschi. Svolge attività di volantinaggio, di propaganda,

Nara Marchetti

di staffetta, porta indumenti e viveri ai partigiani. Dopo il bombardamento di Lucca, nel gennaio 1944, i suoi si trasferiscono a Camigliano (Capannori). Dato che il padre si nasconde dai fascisti, lei si occupa della famiglia, ma nel contempo prende contatti con il prete di Petrognano e tramite questi con il CLN di Segromigno e la STS, la formazione partigiana del tenente Ilio Menicucci che opera nella zona tra Sant’Andrea in Caprile, Tofori e San Gennaro. Svolge un’attività intensa, trasportando viveri, facendo propaganda antifascista fra i contadini, curando i contatti tra il comando militare lucchese e le formazioni vicine, mettendo in salvo renitenti e fuggiaschi.

Continua il suo impegno dopo la Liberazione di Lucca (5 settembre 1944), nonostante il dolore per la morte di Ilio e il rimpianto di non essere riuscita a salvarlo: milita nell’UDI, collabora con la Croce rossa, allestisce a Camigliano una scuola materna per i figli delle operaie e delle contadine. Prende attivamente parte alla politica nel Partito comunista, rifiutando però un ruolo da dirigente e scegliendo di rimanere una militante di base. È in particolare sensibile al tema dell’emancipazione femminile, in relazione prima al diritto di voto e poi alle vertenze per la parità salariale.

Riconosciuta partigiana combattente, fino agli ultimi anni di vita è attiva nell’ANPI lucchese, diventandone presidente e poi presidente onoraria. Muore a Lucca il 23 novembre 2020.

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🟩 Intervista in “Noi, partigiani. Memoriale della Resistenza Italiana



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🟥Intervista a NARA MARCHETTI, in L. Antonelli, “Voci dalla storia. Le donne della Resistenza in Toscana tra storie di vita e percorsi di emancipazione”, Pentalinea, 2006, pp. 369-370

[…] Il periodo della guerra, io ero al Consiglio delle Corporazioni, lì conobbi, lo conoscevo già che era un antifascista perché il 25 luglio poi vennero fuori tutti gli antifascisti e si conobbero, insomma mi contattò verso ottobre questo colonnello Davini e mi chiese se volevo entrare a far parte del gruppo suo di antifascisti, erano liberali, io in quell’epoca non è che conoscessi i partiti perché in Italia avevamo il partito unico. Noi sapevamo per esempio, vedi l’emigrazione, che in America esistevano i partiti, che in Inghilterra esistevano i partiti, che era tutto un mondo diverso, che esisteva la democrazia, ma la democrazia che cos’era non si sapeva perché eravamo cresciuti sotto il fascismo. Questo colonnello mi invitò a prendere un tè a casa sua e lì ci ritrovai riuniti tanta gente che conoscevo, compreso un giudice, compreso degli avvocati, compreso una signora che conoscevo che era una sfollata di Genova, un’altra signora, la Perosino, che era la compagna di questo colonnello e lì si cominciò a parlare di resistenza al fascismo, però si facevano tutti discorsi che con la Resistenza partigiana non avevano a che fare, avevano a che fare ben poco […].

Nel mese di novembre ci disse questo colonnello: “Viene a parlare un rappresentante del comitato militare del CLN”. E io quando sentii parlare questo Alfredo, era un uomo che aveva una trentina d’anni, io rimasi, a quel momento mi resi conto di cos’era la Resistenza, fino allora non l’avevo ben presente, mi resi conto che dovevamo vivere nella clandestinità, dovevamo frequentare la solita gente, dovevamo frequentare i soliti posti, dovevamo frequentare i soliti fascisti, dovevamo fare le solite cose che avevamo fatto fino ad allora e io mi resi conto che vivere nella clandestinità era una cosa difficile. Quando andò via questo giovanotto io gli andai dietro perché gli dissi: “Voglio fare qualcosa”. Allora lui mi mise in contatto con un gruppo di donne qui in città che già lavoravano, distribuivano volantini, giornali, distribuivano ciclostilati, nelle case li infilavano nelle cassette e mi misi a lavorare con questo gruppo di donne. Era già un Gruppo di difesa della donna, la responsabile era la Maria Lazzareschi, era una che lavorava alla Teti, ai telefoni. […]

Dopo il primo bombardamento però, la mia mamma era incinta, noi si sfollò a Camigliano e qui ebbi contatti con il primo gruppo di resistenza […]. Allora io qui a Lucca parlai con questo Alfredo e lui mi disse che da quel momento, visto che lui era il commissario politico del Comitato militare, io ero una staffetta militare e dovevo tenere i contatti. Gli presi i contatti, organizzai delle riunioni, lui fece tutte le riunioni insieme con un altro che si chiamava Corrado. In seguito ebbi sentore che c’era una formazione in Pizzorna, presi contatto con il prete di Petrognano e lui mi mise in contatto con il comandante della formazione, era di maggio, si fece mezza strada per uno perché era lontano. Venne il comandante, il vice comandante e un certo John, un sudafricano, un prigioniero di guerra, che era nella formazione, che parlava benissimo cinque lingue, parlava tedesco, parlava italiano, parlava inglese, parlava francese e faceva parte di un reparto di sicurezza. Con questi qui fìssai un incontro con Alfredo, fissai il giorno e li portai al primo incontro e da lì rimasi staffetta di questa formazione fino in fondo. La formazione era la STS di Ilio Menicucci. Ilio Menicucci fu fucilato il 9 di settembre quando Lucca era già liberata dal 5 di settembre perché fu preso prigioniero. Lui però poteva scappare perché noi si faceva scappare, avevamo dei contatti, ma lui non volle perché disse che i tedeschi potevano fare una repressione e decise di sacrificarsi lui per salvare la popolazione.

Io avevo fatto i Gruppi di difesa della donna a Camigliano. Lì c’era il terreno, feci un lavoro enorme, insieme con il CLN e con i contadini. Io portavo venti chili di grano tutti i giorni a Lucca; qui all’ospedale, in via Galli Tassi, c’era il gruppo di Bonacchi, un gruppo di partigiani nascosti nelle cantine dell’ospedale, la formazione era un po’ dappertutto, era a Sant’Anna, a San Concordio e da altre parti. Tutti i giorni portavo venti chili di grano con lo zaino al Comitato militare, finita la guerra sulle spalle c’avevo due calli dal portare lo zaino per mesi.




Cristina Lenzini (1903-1944)

Cristina Lenzini

L’unica immagine di Cristina Lenzini che è stato possibile rintracciare 

Nata a Pisa nel 1903 da una famiglia di braccianti, si sposa con Alfredo Ardimanni, militante anarchico, da cui ha il figlio Alberto nel 1923. L’anno successivo la coppia emigra in Francia, per sfuggire alle persecuzioni e alle minacce di morte dei fascisti, stabilendosi nei pressi di Marsiglia, dove Alfredo svolge prima l’attività di muratore e poi quella di piccolo imprenditore edile. Dopo qualche anno si trasferiscono a Tolone, tenendosi in contatto con i gruppi di fuorusciti antifascisti.

Allo scoppio della guerra, Alfredo viene rinchiuso con altri italiani nel campo d’internamento di Saint Cyprien, nei pressi della frontiera spagnola, da cui sarà successivamente rilasciato. Nel 1942 la coppia si separa e Cristina torna in Italia, mentre Alfredo e il figlio rimangono in Francia, affrontando varie peripezie per evitare la cattura da parte dei nazisti.

Cristina raggiunge l’Appennino modenese, dove, nei pressi di Pian dei Lagotti, vive la nonna materna; nella primavera del 1944 si unisce ai partigiani sui monti della Versilia. Una decisione probabilmente maturata durante un soggiorno a Pisa, dove, ogni tanto, si reca per far visita ai suoi familiari. Prende parte attiva alle vicende della formazione “Bandelloni”, mostrando un carattere forte e combattivo.

L’8 agosto 1944 le compagnie 3a e 4a della 10a bis Brigata Garibaldi “Gino Lombardi”, in cui è confluita la Bandelloni, sono impegnate contro nazisti e fascisti sul Monte Gabberi, con pochi mezzi e isolate rispetto al resto della brigata che ha deciso di ripiegare dopo i combattimenti dei giorni precedenti. Lo scontro s’inserisce pienamente nel contesto dell’estate del 1944 a ridosso della linea Gotica, segnato da intensi scontri con le forze partigiane, rastrellamenti e stragi di civili.

Secondo le testimonianze, Cristina Lenzini muore proteggendo il ripiegamento dei compagni con la mitragliatrice. Infatti un nucleo della 3a compagnia, per permettere lo sganciamento della formazione, si sacrifica perdendo sette componenti, oltre a diversi altri feriti. Dopo la Liberazione sarà riconosciuta partigiana combattente.

Nel 2006, dopo una lunga ricerca dell’ANPI di Pietrasanta, è stato rintracciato il figlio Alberto, residente in Nuova Caledonia e divenuto un impresario edile.

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🟥 Memoria del partigiano Moreno Costa, in Giovanni Cipollini (a cura di), “Quattro anni sulla Linea Gotica. Ricordi di Moreno Costa partigiano, volontario nei Gruppi di combattimento, sminatore“, Viareggio, Grafiche Ancora, 2018, pp. 50-1.

Cristina era una donna decisa e pareva come una mamma, con i suoi quarant’anni, a noi che eravamo quasi tutti molto giovani. Alcuni la chiamavano “la francese”, per la sua provenienza, ma sapevamo poco della sua storia personale. Partecipava alle azioni, dimostrando di sapersi adattare bene ai disagi della vita in montagna, e si distinse nei combattimenti avvenuti durante il rastrellamento effettuato dalle SS sul monte Ornato, alla fine del luglio 1944. Il successivo 8 agosto noi della “Bandelloni” eravamo dislocati sopra Farnocchia, quando fummo attaccati dai Tedeschi. Prendemmo posizione per difenderci, ma fummo oggetto di un violento fuoco di mortai. Io mi trovavo ad un centinaio di metri dalla postazione in cui era Cristina, in località Le Mandrie, non potendo resistere all’attacco fu deciso lo sganciamento. Quando, dopo alcune ore, ci riunimmo nel luogo convenuto, venni a saper che era stata uccisa da un colpo di mortaio mentre azionava una mitragliatrice.




Emilia Valsuani (1924-1944)

Emilia Valsuani (Archivio ISRECLU)

Nasce nel 1924 a Camaiore da Marino Biagini e Lauretta Valsuani. Il padre è un marinaio di fede socialista che, quando torna a casa, spesso è vessato e a volte malmenato dai fascisti; secondo la memoria famigliare, a queste esperienze risale l’antifascismo viscerale di Emilia. Nei primi anni Trenta Marino, che non ha riconosciuto le due bambine tanto che portano il cognome materno, emigra in America, dove forse crea una nuova famiglia; né Lauretta né le due figlie lo rivedranno più ed è la madre a doverle mantenere da sola con il lavoro di lavandaia.

Emilia Valsuani (Archivio ISRECLU)

Le foto che ci rimangono di Emilia mostrano una bella ragazza disinvolta, in camicia dal taglio maschile e pantaloni, cosa inusuale specie per le donne di estrazione popolare. Il nipote, figlio della sorella, racconterà di una giovane moderna che ama molto andare in moto.

Nell’aprile 1944 entra nella formazione partigiana di Lorenzo Bandelloni (“Loré”), stanziata a San Rocchino; svolge prima compiti di staffetta e poi di combattente.

La cittadina di Camaiore è liberata dalle truppe brasiliane nella notte tra il 17 e il 18 settembre. Nello stesso mese buona parte della Versilia ricade sotto il controllo del IV Corpo d’armata statunitense, ma il confronto armato continua a nord, dato che i tedeschi sono indietreggiati sulla sovrastante cresta montana. Se in quasi tutto il territorio toscano l’occupazione tedesca terminerà entro l’ottobre 1944, bisognerà attendere il 25 aprile 1945 per la Liberazione della provincia apuana, della Garfagnana in provincia di Lucca e dell’area dell’Abetone nel pistoiese.

La formazione Bandelloni è una delle poche che non sono state sciolte ma continuano a guidare le pattuglie alleate in perlustrazione e a combattere nei pressi delle Apuane e della Linea Gotica. Anche Emilia continua la lotta partigiana fino al 21 ottobre, quando viene ferita gravemente durante le operazioni nella zona di Malbacco. Trasportata prima in ospedale a Pietrasanta, muore il 28 ottobre all’ospedale di Camaiore. Dopo la Liberazione sarà riconosciuta partigiana combattente.

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🟪Memoria del partigiano Moreno Costa in: Giovanni Cipollini (a cura di), Quattro anni sulla Linea Gotica. Ricordi di Moreno Costa, pp. 69-70.

Il 22 ottobre, mentre eravamo all’Argentiera, vennero portate all’infermeria due donne, che, sopra Malbacco, erano state ferite ad una gamba dalla stessa scheggia di mortaio. Si trattava della cognata di Bandelloni e di una nostra partigiana ventenne, Emilia Valsuani di Camaiore. Non ricordo bene, ma mi sembra che facessero parte di una pattuglia partigiana, composta da nostri compagni, che si trovavano a Seravezza. Erano state ferite il giorno precedente, ma non era stato possibile trasportarle subito all’Argentiera in quanto era in corso un combattimento tra Riomagno e il Monte Canala. Emilia aveva una profonda ferita ad una gamba, che sembrava anche fratturata, e probabilmente aveva anche l’infezione perché si sentiva un odore inconfondibile, invece la cognata di Lorè [Bandelloni] era ferita in modo meno grave. Nella piccola infermeria non potevamo fare nulla, pertanto partimmo subito per Pietrasanta, seguendo il percorso più breve, ma, quando arrivammo alle Ghiare, cominciarono i colpi di mortaio. Era un continuo fermarsi, gettarsi a terra con le barelle, rialzarsi e correre fino al sibilo successivo, che annunciava l’arrivo di un altro proiettile, movimenti che accrescevano le sofferenze delle due donne, in particolare di Emilia, che si lamentava in modo straziante. Finalmente arrivammo oltre Pontearanci, dove ci venne incontro una jeep con la bandiera della Croce Rossa, che caricò le due donne e un partigiano, rimasto ferito ad una mano. La cognata di Lorè riuscì a guarire, invece la povera Emilia morì il 28 ottobre all’ospedale di Camaiore.