Teresa Mattei, la “ragazza di Montecitorio”

2 giugno 1946, le cronache del voto descrivono lunghe file di donne in attesa alle urne per votare. E’ la prima volta che sono chiamate ad esercitare il proprio diritto di voto. Si chiede loro un atto di grande responsabilità, poiché con quelle elezioni si edifica la Repubblica italiana che deve dotarsi di uno degli strumenti atti a preservare la democrazia, la Costituzione. Ma è anche la prima volta che le donne hanno la possibilità di essere elette. Sono 21 le madri costituenti che il 25 giugno 1946 entrano per la prima volta alla Camera dei deputati insieme agli altri politici (556 in totale). Generi e generazioni a confronto, impegnati nella costruzione della democrazia italiana. Tra loro anche la giovane toscana Teresa Mattei.

teresa mattei a vent'anniNata a Quarto (Genova) il 1 febbraio 1921 da Ugo Mattei, industriale, attivo in Giustizia e Libertà, e da Clara Friedmann, Teresa cresce in una famiglia di ispirazione antifascista. Dopo l’infanzia passata a Milano, dove la famiglia si era stabilita per il lavoro del padre, i Mattei si spostano a Bagno a Ripoli nel 1933, dove la casa è frequentata da intellettuali e da quelle che sarebbero divenute personalità di spicco dell’antifascismo prima, della resistenza poi e infine della vita politica italiana del dopoguerra, come per esempio Piero Calamandrei, Giorgio La Pira, Natalia Ginzburg, Carlo Levi. L’apprendistato alla politica avviene quindi per Teresa in famiglia, partecipando ai dibattiti e anche ad alcune azioni concrete che il padre le affida. Appena sedicenne, nel 1937, accetta per esempio di portare a Nizza una colletta raccolta da alcuni compagni in sostegno dei fratelli Carlo e Nello Rosselli. Al ritorno da questa prima azione incontra don Primo Mazzolari a Mantova per portargli alcuni messaggi, ma in questa circostanza incorre nel fermo da parte della polizia fascista. Scagionata dall’intervento del padre e tornata a Firenze, manifesta in più occasioni apertamente le proprie convinzioni, soprattutto a scuola, discutendo e disobbedendo ad alcuni regolamenti, fino a che nel 1938, interrompendo un professore che sta esaltando in classe le leggi razziali, viene espulsa da tutte le scuole del Regno.

Nel 1942 si iscrive, insieme al fratello Gianfranco, al Partito comunista italiano e successivamente, in seguito alla destituzione di Mussolini, alla firma dell’armistizio e all’occupazione tedesca, fa parte della resistenza col nome di battaglia Chicchi. All’interno dei Gruppi di difesa della donna e dei GAP si occupa di tenere i collegamenti tra i diversi gruppi e i componenti delle brigate partigiane, ma è protagonista anche di azioni più impegnative. È questo il periodo in cui incontra Bruno Sanguinetti, poi suo futuro marito, del quale diventa stretta collaboratrice. Nel febbraio 1944 la famiglia Mattei è segnata da un tragico avvenimento. Il fratello Gianfranco, trasferitosi a Roma, dove fa parte dei GAP, viene catturato dai tedeschi, imprigionato e torturato in via Tasso. Per non rischiare di tradire i suoi compagni e rivelare informazioni sul movimento partigiano, si suicida in cella con la cintura dei pantaloni. Teresa parte subito per Roma, anche per dare conforto ai genitori, e porta con sé le matrici dell’Unità. Durante il tragitto è anche lei fermata da soldati tedeschi, interrogata, percossa e, come ha rivelato solo cinquant’anni dopo in un’intervista a Gianni Minà, stuprata.

La violenza subita non la fa desistere dal suo impegno e, tornata in Toscana, organizza e prende parte agli scioperi del marzo 1944 a Firenze e a Empoli, e più tardi è in prima fila, guidando una squadra di una cinquantina di partigiani, nella battaglia per la liberazione della città nel settembre del 1944.

Dopo la fine della guerra l’impegno attivo politico e sociale di Teresa continua: lavora nella Federazione fiorentina del PCI, soprattutto nell’ambito femminile e nell’UDI. E’ infatti proprio durante il primo congresso nazionale dell’UDI, tenutosi a Firenze tra il 20 e il 23 ottobre 1945, che Palmiro Togliatti rimane colpito dalla personalità della Mattei, che viene quindi chiamata a lavorare a Roma, alla direzione del partito.

In vista delle elezioni per la Costituente viene candidata per la circoscrizione Firenze-Pistoia. Ottiene 5299 preferenze, poche in confronto alle 15384 dell’altra candidata fiorentina, la socialista Bianca Bianchi, ma quante bastano per essere una delle 21 donne che entrano a far parte dell’Assemblea.

19471222-presentazione-costituzione-al-presidente-de-nicola-4In seno ai lavori della Costituente sono da ricordare in particolare la battaglia di Teresa Mattei affinché al comma secondo dell’art. 3, relativo alla “completa uguaglianza di tutti i cittadini di fronte alla legge”, venisse aggiunta l’espressione “di fatto”; l’impegno, disatteso, per ottenere che il testo costituzionale riconoscesse esplicita­mente il diritto delle donne ad entrare in magistratura; la discussione  per l’articolo 37, laddove, con riferimento al lavoro femminile, si fissava l’obiettivo di assicurare “alla madre e al bambino una speciale adeguata protezione” (articolo che ha destato aspre polemiche, per quella espressione, che identificava “l’essenziale” funzione di madre delle donne).

Il 27 dicembre 1947 viene conferito a Teresa l’incarico, in qualità di costituente più giovane, di consegnare nelle mani del presidente Enrico De Nicola il testo costitutivo della neonata Repubblica Italiana.

In seguito Teresa Mattei ha alcune divergenze con Togliatti, già avviate in seno alla discussione per l’art. 7, in quanto sostenitrice della laicità dello Stato, proseguite per la sua gravidanza, frutto della relazione extraconiugale con Sanguinetti, e culminate nel 1955 quando, per la sua opposizione alla linea antidemocratica del partito, viene espulsa.

Negli anni seguenti l’impegno di Teresa Mattei, dopo la fase pisana di partecipazione al fermento della fine degli anni ’60 e inizio degli anni ’70, si rivolge prevalentemente alle tematiche dell’ educazione e dei diritti dell’infanzia e nella fase finale della sua vita, si  dedica alla testimonianza e all’impegno civile nell’ANPI, sul terreno dei diritti e della difesa della Costituzione, mostrando fino alla più tarda età la fierezza, la determinazione e il coraggio delle proprie idee.

Articolo pubblicato nel giugno 2014.




Oriano Niccolai, il creativo rosso

Racconta Oriano Niccolai, classe 1930, di essersi fatto tutta la Sardegna a dorso di mulo per girare documentari, in 16 mm, per la propaganda politica del Partito comunista. Era il 1968 e grazie al benestare di Enrico Berlinguer, conosciuto negli anni Cinquanta a Livorno, Niccolai organizzò quello che fu probabilmente l’esordio di una campagna elettorale multimediale nella storia del Pci. Con Berlinguer, allora non ancora segretario nazionale, passò una nottata girovagando tra le strade di Cagliari per esporgli la sua idea innovativa di comunicazione politica. E quell’anno, per le elezioni regionali sull’isola, non furono solo comizi e manifesti: per la prima volta vennero utilizzati musica, report e documentari.

Oltre 2000 manifesti
Non è da molto che la storiografia ha cominciato ad occuparsi delle forme della comunicazione politica dei partiti di massa del dopoguerra. Un contributo originale e significativo è arrivato di recente proprio dalla riscoperta dell’opera di Niccolai, grazie al progetto che gli ha dedicato l’Istituto Storico della Resistenza e della Società Contemporanea nella provincia di Livorno (Istoreco). Selezionando tra gli oltre 2mila manifesti presenti nel suo archivio (di cui quasi due terzi realizzati da Niccolai dagli anni Cinquanta ad oggi), l’Istoreco ha allestito una mostra a lui dedicata Rosso creativo. Oriano Niccolai 50 anni di manifesti, da cui è scaturito poi un catalogo curato da Margherita Paoletti e Valentina Sorbi (vedi a fianco).

Il creativo rosso
Difficile definire con categorie standard il profilo biografico di Niccolai: non certo un intellettuale, né un semplice creatore di manifesti. La penna del giornalista del “Tirreno” Luciano De Majo, in occasione dei suoi ottant’anni, gli trovò una definizione originale: «il creativo rosso». Creativo perché non solo funzionario addetto allo stampa e propaganda, non solo grafico e impaginatore, ma anche disegnatore, autore, giornalista. Un creativo a tutto tondo, che è stato in grado di anticipare i tempi ideando per la Federazione di Livorno, e poi in diverse parti d’Italia, delle moderne campagne di comunicazione, capaci di utilizzare strumenti nuovi e diversi registri per veicolare il messaggio politico.

Manifesto per la Festa dell’Unità di Livorno (1965) (Archivio Istoreco Livorno)

Manifesto per la Festa dell’Unità di Livorno (1965) (Archivio Istoreco Livorno)

Spicca il volo dal “Nido delle Aquile”
D’altra parte la formazione di Niccolai è imbevuta di pittura e cinema. A Livorno, sua città natale, giovanissimo frequenta gli ambienti di pittura cittadini, per poi grazie a Nelusko Giachini e, soprattutto, Silvano Filippelli, appassionarsi al cinema francese e all’arte del far manifesti. Alla fine degli anni ’40 comincia dunque a frequentare “il Nido delle Aquile”, cioè l’Ufficio propaganda della Federazione comunista livornese, un gruppo effervescente composto da intellettuali, giornalisti, disegnatori e critici d’arte. In questa fucina Niccolai impara ad andare oltre l’idea del grafico tout court, diviene un comunicatore: testo e immagine cooperano in pari grado alla comunicazione del messaggio. Da qui la grande attenzione alle tecniche giornalistiche di impaginazione e la sperimentazione di nuove forme di comunicazione, come la striscia luminosa lunga più di 350 metri, costruita per la Festa dell’Unità di Livorno del 1979.

L’uomo delle isole
Di lui si accorgono i vertici nazionali, che da Livorno lo inviano in giro per l’Italia a mettere la sua esperienza nella comunicazione al servizio delle Federazioni più deboli. Nel 1968 in Sardegna, poi nel 1971, a seguito di un gemellaggio delle Federazioni di Livorno e Pisa con quella di Caltanissetta, cominciano i suoi pellegrinaggi in Sicilia. Fino al 1984 saranno undici i suoi viaggi in terra siciliana (in particolare per le elezioni regionali del 1976). E poi la Calabria nel 1978 per tenere corsi sulla propaganda e le tecniche di comunicazione. Privilegiato poi il rapporto con l’Isola d’Elba in cui lavora moltissimo fino alla fine degli anni Ottanta.

Da Rodari a Steiner, passando per Zancanaro
Quello con Berlinguer non è il solo incontro importante nella vita di Niccolai, tutto il suo percorso è costellato di incontri e amicizie di rilievo: con Gianni Rodari, nel 1949 a Reggio Emilia (con cui lavorò poi fianco a fianco nella campagna elettorale nazionale del 1958), con Albe Steiner negli anni Sessanta a Bologna, con Tono Zancanaro con cui lavorò negli anni siciliani. Niccolai è curioso e innovativo, gli incontri ne forgiano l’estro e la personalità, ma è capace di rielaborare un suo percorso autonomo, lontano dalle esagerazioni retoriche della lotta politica tra blocchi. Nei manifesti di Oriano, scrive Sergio Staino nel catalogo della mostra, «tutto si muove nella ricerca di un giusto equilibrio tra l’informazione del messaggio e la sottolineatura espressiva dello stesso».

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Articolo pubblicato nel marzo 2014.




Gabrielle-Marie de Jacquier de Rosée (1913-1944)

Gabriella de Rosée

Nata il 24 febbraio 1913 a Bruxelles, nel settembre 1936 intraprende con due amiche un viaggio verso Roma, con l’obiettivo di completare la sua tesi di laurea sul Quattrocento italiano. Fermatasi casualmente a Castiglion Fiorentino, conosce l’artista Pericle Brogi, figlio del noto ceramista Antonio.

Si innamorano e nel 1938 Gabrielle dà alla luce una bambina, Lucha; nello stesso anno si sposano al Santuario della Verna, stabilendosi a Castellamonte in provincia di Aosta, dove Pericle insegna disegno alla scuola d’arte “Felice Faccio”. Nel 1941 è richiamato alle armi e inviato in Grecia; dopo l’8 settembre 1943 è catturato dai tedeschi e inviato nel Reich come internato militare.

In seguito allo scoppio del conflitto, Gabrielle si trasferisce con Lucha a Castiglion Fiorentino, presso la famiglia del marito. Nella fase dell’occupazione insieme alla sorella di Pericle, Corallina Brogi, si dedica ad attività di soccorso alla popolazione e svolge un ruolo di supporto per la 23a brigata Garibaldi “Pio Borri”.

Nel giugno 1944 l’area è interessata da ampie operazioni messe in atto dall’esercito germanico nel tentativo di rallentare la ritirata e da intensi scontri con le bande partigiane, a cui si accompagnano numerosi episodi di violenze e rastrellamenti che interessano la popolazione civile.

Il 6 luglio 1944, avendo saputo che una famiglia è stata presa in ostaggio, Gabrielle si offre per svolgere un ruolo di mediazione, data la sua conoscenza del tedesco.

Gabriella de Rosée

All’alba del 7 luglio muore mitragliata da tedeschi al Ponte delle Fontanelle, lungo la strada che da Castiglion Fiorentino sale al Passo della Foce. Il suo corpo è recuperato solo alcuni giorni dopo, probabilmente dopo l’arrivo degli alleati (il centro di Castiglion Fiorentino è stato liberato il 4 luglio).

Le sarà riconosciuta la qualifica di partigiana combattente. Corallina sarà invece riconosciuta come patriota al servizio della stessa brigata, mentre le sarà rifiutato il grado di combattente. Nel luogo dell’uccisione sarà eretto un cippo alla memoria, realizzato da Pericle Brogi.

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Memoria della figlia, Lucha Brogi, Tratta da Ivo Bigianti (a cura di), “Dal fascismo alla democrazia. Castiglion Fiorentino negli anni della seconda guerra mondiale”, Montepulciano, Le Balze, 2006, p. 364

Nel gennaio del 1941 mio padre fu richiamato alle armi, destinazione Grecia, e mia madre per non rimanere sola con me, che ero nata nel settembre 1938, si trasferì a Castiglion Fiorentino.
La zona dell’aretino era diventata bersaglio di bombardamenti aerei. Dopo quello del 19 dicembre ‘43 su Castiglioni [Castiglion Fiorentino], tutta la famiglia Brogi si trasferì a Muriello. Da qui mia madre, mia zia Corallina (sorella di mio padre), Lorenzo Bernardi ed altri scendevano in Paese per dare il loro aiuto a quanti ne avevano bisogno.
Intanto sulle alture di Muriello, i tedeschi avevano stabilito la loro linea di resistenza, sottoposta a continui bombardamenti da parte degli inglesi. La famiglia decise allora di tornare a Castiglioni.
Il 6 luglio 1944 mia mamma e la zia incontrarono la signora Gaci dalla quale appresero che la famiglia Pagnan era stata presa in ostaggio dai tedeschi. Mia madre conosceva bene il tedesco ed era convinta di poter parlare con il comandante tedesco per perorare la causa degli ostaggi. Fu così che il 7 luglio all’alba, con lo zaino pieno di alimenti vari, si avviò verso Muriello con lo scopo anche di riconoscere e segnalare le postazioni del dispositivo bellico nazista, ma al Ponte delle Fontanelle fu raggiunta da una raffica di mitraglia: il suo corpo rimase sulla strada per alcuni giorni. Fu recuperato dall’agente Arsage Mordenti (cugino di mio padre) e da alcuni volontari. È sepolta nel cimitero di Castiglion Fiorentino.




Modesta Rossi (1914-1944)

Modesta Rossi

Nata a San Martino d’Ambra (Bucine) in provincia di Arezzo nel 1914, Modesta impara il mestiere di sarta. Nel 1935 sposa Dario Polletti, con cui ha cinque figli; la famiglia contadina abita in via Cornia, non lontano da Civitella della Chiana. Dopo l’8 settembre 1943 il marito entra a far parte della banda “Renzino”; anche Modesta aderisce alla formazione svolgendo mansioni di staffetta. Dopo la battaglia di Montaltuzzo, avvenuta il 23 giugno 1944, compie lunghi tragitti a piedi insieme alla cognata Assunta Polletti per ripristinare i collegamenti fra i componenti della formazione, ritiratisi nelle aree circostanti.

Lo scontro di Montaltuzzo e altre azioni compiute dalla banda diventano il pretesto per un grande rastrellamento operato dai tedeschi, sotto il comando della divisione corazzata “Hermann Göring”. L’operazione si deve infatti verosimilmente al più ampio obiettivo di “ripulire” dalla presenza partigiana un territorio divenuto, con la risalita del fronte, strategico nell’ottica di contrastare l’avanzata degli alleati e di garantire rifornimenti alle truppe. Il 29 giugno unità naziste compiono dunque una strage nella cittadina di Civitella della Chiana e nelle zone limitrofe (per un totale di 146 vittime), nella località Valle di Sopra (8 vittime) e a San Pancrazio di Bucine (58 vittime).

Nello stesso giorno l’azione si estende anche alla località di Cornia, riconosciuta come un punto d’appoggio della banda. Militi tedeschi e italiani giungono a Solaia, piccolo insediamento vicino alla casa di Modesta, dove si è recata per avvisare alcuni suoi famigliari del rastrellamento in corso; vogliono sapere dove sia il marito e avere indicazioni sui nascondigli dei partigiani. Dato che si rifiuta di dare qualsiasi tipo di informazione, viene uccisa insieme al figlio più piccolo (13 mesi); nei dintorni colpi d’arma da fuoco raggiungono altre quattro persone. I corpi delle vittime sono poi ritrovati in una capanna data alle fiamme.

Dopo la Liberazione sarà riconosciuta partigiana combattente e le sarà conferita la Medaglia d’oro al valor militare alla memoria.

Conferimento della medaglia d’oro

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🟪Memoria del partigiano Edoardo Succhielli, “Renzino”, comandante della formazione (in: Edoardo Succhielli, La Resistenza nei versanti tra l’Arno e la Chiana, Arezzo, Tip. Sociale, 1979, pp. 261-2. 

Un altro posto di rilievo meriterebbe Assuntina Polletti, cognata di Modesta, ed agli effetti della famiglia Polletti e della formazione Renzino sua assidua collaboratrice ed emula nei rischi e nel lavoro. Durante la battaglia di Montaltuzzo molti partigiani s’erano sbandati. Nella notte che seguì, furono Modesta ed Assuntina a camminare di più per riorganizzarli, dato che diversi erano passati da casa loro e vi avevano lasciato il prossimo recapito. Tale compito si riteneva più pericoloso per gli uomini in considerazione che pattuglie nemiche potevano essere in giro alla ricerca dei dispersi. Assuntina andò a rilevare Gesualdo Doganieri ed Edilio e Lionello Caldelli oltre la Sughera in un capanno di carbonai. Partì da sola in piena notte e da sola ricoprì quella distanza, che richiede parecchie ore di cammino a piedi senza spaventarsi all’abbaiare dei cani ed ai fremiti indecifrabili dei boschi nelle tenebre.

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🟧 Memoria del marito Dario Polletti (in: Dario Polletti, La lucida follia, in Edoardo Succhielli, La Resistenza nei versanti tra l’Arno e la Chiana, Arezzo, Tip. Sociale, 1979, p. 205)

I miei quattro bambini superstiti, appena i fascisti e le SS ebbero lasciato le casa di Solaia, si precipitarono giù per l’erta verso casa.

Non fu Giovanni il primo a darmi la notizia. Egli, che sentiva la responsabilità d’essere il più grande, era rimasto attardato per aiutare a scendere giù e sorreggere Gualtiero, che non aveva ancora compiuto i tre anni. Arrivarono per primi Mario e Silvano, sconvolti dal terrore, poveri piccoli.

“E la mamma?” – chiesi ansiosamente.

“Oh, babbo! Sono venuti gli uomini cattivi. Uno ha cavato un coltello e poi così… così… prima a Gloriano e poi alla mamma…” diceva Mario. Agitava il piccolo pugno chiuso come se realmente stringesse un coltello.

Allora corsi su con tutta la fretta che mi dava la trepidazione e più m’avvicinavo a Solaia più avvertivo la dura verità della tragedia. Vedevo alzarsi lassù una colonna di fumo e, quando fui più vicino l’odore acre dei cadaveri ch’andavano carbonizzandosi incominciò a offendere le mie narici. Appena giunto ansimante nella piazzuola, penetrai in una capanna invasa ancora dalle fiamme. Era da lì che proveniva quel fumo. Dentro respiravo a fatica. La visibilità era molto confusa; appena sufficiente a distinguere a terra i corpi umani ch’emanavano il fumo accecante e l’odore sgradevole.

Corsi difilato ad una pozza d’acqua, presi un secchio e con quello cercai di spegnere il fuoco, che lento e implacabile distruggeva le salme. Quando il fumo si fu un po’ dissolto, notai che un foro rosso segnava ogni proiettile penetrato nelle parti non ancora interamente combuste delle vittime, ch’erano sei ammucchiate una sull’altra. Poco discosto da loro c’era il corpo del piccolo Gloriano, accanto a quello di Modesta, che riconobbi dall’anello matrimoniale più che dagli squarci del pugnale, perché il fumo aveva imperversato e consumato.