Ersilio Ambrogi: antifascista o informatore dell’OVRA?

Un quadro: i termini della questione

«Non rischiamo di essere smentiti affermando che il Pnf ha ricevuto l’apporto di gruppi compatti da tutti i partiti politici, eccetto che dal partito comunista»[1]. Nell’aprile 1928, in una serrata difensiva sulle pagine di «Stato operaio», Secondino Tranquilli tentava di scagionare così il presunto cedimento di alcuni militanti comunisti di fronte alle pressioni della polizia fascista. Pur cariche di impegno politico, tuttavia, le parole dell’intellettuale marsicano – poi conosciuto con lo pseudonimo di Ignazio Silone – poggiavano su fondamenta decisamente instabili. Ad oggi, infatti, il graduale accesso alle fonti archivistiche ha mostrato quanto e come – in realtà – le cellule comuniste si fossero rivelate uno dei terreni d’infiltrazione più fertili per il regime[2].

D’altronde, fin dal 1923, il modo in cui il partito si era attrezzato ad una situazione di semilegalità ne aveva fatto il principale obiettivo della Polizia politica guidata da Arturo Bocchini. Già nel 1925 una prima retata aveva assestato forti danni a molte federazioni, permettendo all’Ovra di acquisire preziose informazioni su militanti di base, segretari e dirigenti; operazioni destinate a moltiplicarsi tra il 1926 e il 1927, quando i fascisti riuscirono ad intercettare anche uomini e indicazioni orbitanti attorno al Centro estero del Pcd’I[3]. Come ciò avvenne non è difficile da immaginare: l’ampiezza e la profondità organica della rete clandestina comunista – studiate con accuratezza dalla macchina poliziesca – avevano reso relativamente semplice l’inserimento di agenti segreti, spie e osservatori in borghese, nonché la creazione di canali diretti con alcuni dissidenti dalla linea adottata dall’Internazionale. Se l’individuazione degli emissari del Centro costituiva una priorità assoluta, inoltre, quella disposta nei confronti dei simpatizzanti restava una morsa flebile, avvolta dalla consapevolezza che prima o poi sarebbero serviti da esche per intercettare i militanti più significativi. Una volta arrestati, interrogati e incarcerati, i funzionari si rendevano così conto del labirinto di delazioni entro il quale si erano inconsapevolmente mossi, finendo spesso per subire il peso e le pressioni delle torture e degli interrogatori: non stupisce pertanto che alla fine dell’estate 1927 i comunisti arrestati risultassero «almeno duemila […] e che, in quasi tutti i casi, la loro cattura [fosse] stata assicurata da spie, informatori o agenti provocatori premiati con notevoli somme di denaro dalle varie polizie che [concorrevano] alla caccia al comunista»[4].

Ciò detto, è comunque importante isolare l’arco temporale in cui il fenomeno si consolidò: quello tra il 1927 e il 1932. Di fatto, nel gennaio 1927 l’istituzione del Tribunale Speciale per la Difesa dello Stato aveva aperto una fase di crescenti tensioni che, pochi mesi dopo, sarebbero sfociate nel cosiddetto «processone» contro i comunisti e nelle conseguenti condanne a dirigenti del calibro di Gramsci, Terracini, Scoccimarro e Roveda. A queste si aggiunsero le difficoltà scaturite dalla rovinosa crisi economica del 1929 e – soprattutto – dalle crescenti tensioni legate all’esistenza di linee antitetiche all’interno del partito, crepe in cui la polizia fascista fu capace di penetrare con efficacia. In questo quadro, la paura, le minacce e le perquisizioni – al pari delle generose offerte di denaro, degli adescamenti e dei presunti favoritismi avanzati dalle forze fasciste – generarono un progressivo stravolgimento degli itinerari esistenziali e dei percorsi ideologici di numerosi militanti: un meccanismo del quale peraltro cadde vittima lo stesso Silone, probabilmente ricattato dopo l’arresto del fratello Romolo e protagonista di una vicenda segnata da risvolti familiari, politici e psicologici mai completamente chiariti[5].

Proprio la vicenda Tranquilli, ad ogni modo, risulta utile per introdurre la figura al centro di questo breve contributo: quella di Ersilio Paolo Giuseppe Ambrogi. In particolare, assieme ad essa sembra configurare un osservatorio privilegiato allo scopo di analizzare in che misura le lotte di fazione finirono con il contraddistinguere lo spionaggio comunista.

La vicenda Ersilio Ambrogi: antifascista o collaborazionista?

SovCome già evidenziato, le divergenze interne all’Internazionale erano ben note alla polizia fascista. Da un lato, ciò consentì all’Ovra di insinuarvisi per accentuarne le contrapposizioni; dall’altro – recuperando le parole di Mimmo Franzinelli – gli scontri toccarono punte talmente accese da «indurre esponenti del partito a denunziare identità e recapiti degli avversari interni, con la giustificazione machiavellica di favorire, insieme alla prevalenza della propria corrente, l’interesse generale del movimento comunista»[6]. Non è certo se furono queste motivazioni, assieme a quelle familiari, a spingere Silone – uscito profondamente amareggiato dalla sua esperienza come delegato al VII Plenum dell’Internazionale, dove aveva assistito all’espulsione di Grigorij Zinov’ev – ad intrecciare la sua fitta corrispondenza con l’ispettor Bellone; è forse più sicuro che lo furono nel caso di Ersilio Ambrogi, nonostante un percorso biografico segnato da ombre (tra cui quella di essere stato, viceversa, una spia stalinista) che attendono ancora di essere chiarite.

Nato a Castagneto Carducci (LI) il 16 marzo 1883, figlio di Antonio e Corinna Belli, Ambrogi crebbe in un ambiente di estrazione borghese. Il padre, medico condotto, gli aveva impartito un’educazione vicina alle posizioni del cattolicesimo liberale. Un’impostazione dalla quale si allontanò molto presto, attratto piuttosto dalle idee anarchiche che Pietro Gori aveva contribuito a diffondere lungo la costa toscana[7]. Recatosi a Pisa per studiare legge, dopo essersi iscritto al Psi prese parte – nel 1904 – ad in gruppo rivoluzionario internazionalista e antimilitarista in cui conobbe future figure di spicco dell’Alleanza Internazionale Antimilitarista quali Alfredo Polledro, Ugo Nanni, Domenico Zavattero e Cesare Maragoni. Sempre nello stesso anno, incaricato di cercare proseliti, si trovò coinvolto nella sparatoria che la polizia di Sestri Levante aprì sulla folla durante un  comizio del socialista Giovanni Pertini. Ne seguì un durissimo sciopero generale indetto dalle organizzazioni sindacali alla cui testa si pose lo stesso Ambrogi, il quale finì arrestato e condannato ad undici mesi di reclusione. Uscito dal carcere, iniziò così una fitta serie di viaggi che lo portarono a maturare contatti con soggetti libertari tra Svizzera, Francia (dove nel 1906 prese parte alle manifestazione indette dalla Confédération générale du travail) e Germania, prima di rientrare al paese natale (1911) e di contribuire – assieme ai braccianti Cesare Morganti e Giacinto Bongini – alla nascita del gruppo anarchico castagnetano “P. Gori”. L’anno successivo, dopo essersi laureato in legge all’Università di Bologna, aprì uno studio di consulenza legale a Milano: allo scoppio del primo conflitto mondiale venne richiamato alle armi, ma, come riportano le informazioni presenti nel suo fascicolo del Casellario Politico Centrale (aperto nel 1905 e chiuso nel 1942), finì più volte incarcerato per propaganda antimilitarista e disfattista. Ormai sempre più distante dall’anarchismo, nel 1919 scelse di rientrare nel Psi. Eletto deputato, esponente di spicco della corrente massimalista del partito, emerse ben presto come una delle personalità più incisive del socialismo tirrenico: una popolarità che, nel 1920, gli valse contemporaneamente l’elezione a sindaco di Cecina (rimasta fino al 1925 sotto la provincia di Pisa) e a presidente dell’Amministrazione provinciale di Pisa.

Tuttavia, fu la scissione di Livorno a segnare definitivamente il suo percorso politico: nel 1921 aderì infatti al Pcd’I, trovandosi da subito protagonista di violenti scontri contro le milizie fasciste. Destituito dall’incarico di primo cittadino per aver «levato dagli uffici del Municipio di Cecina  i ritratti dei Sovrani e la targa della Vittoria»[8], venne arrestato per «omicidio» e «tentato omicidio» nei confronti di alcuni squadristi. Grazie all’elezione come deputato comunista per la circoscrizione Livorno-Pisa-Lucca-Massa riuscì comunque ad eludere la condanna a 21 anni e ad uscire di carcere già nel maggio 1921 (la complessità della vicenda giudiziaria meriterebbe adeguati approfondimenti). In un clima di crescente violenza, ad ogni modo, decise di lasciare l’Italia e di iniziare in Germania un’attività di stretta collaborazione con il Kommunistische Partei Deutschlands. Non solo: nel 1922-1923, assieme ad Antonio Gramsci, venne eletto delegato a Mosca nel Komintern e successivamente nominato emissario dell’Internazionale comunista nell’Europa Occidentale. Fu in questo periodo che, pur in stretti rapporti epistolari con Terracini, Grieco e Togliatti, iniziò ad avvicinarsi sempre più alle posizioni di Amadeo Bordiga; e fu sempre in questa fase, in seguito ai durissimi contrasti emersi in seno al VI Plenum del 1926, che maturò un graduale adesione alle teorie di Lev Trockij. Dopo aver paventato – fallendo – la possibilità di creare anche in Russia un piccolo nucleo in contatto con il Centro estero del Pcd’I (di stanza in Francia e Belgio), si trovò così marginalizzato dal partito, finendo con l’esserne espulso nel 1929[9].

Ciononostante, i suoi rapporti con il Komintern proseguirono. Tornato a Berlino e guardato a vista da quella Gpu di cui aveva fatto parte, vi rimase dal 1930 al 1932. Fu proprio nella capitale tedesca che la polizia fascista, ormai perfettamente a conoscenza – dopo aver decapitato le sfere dirigenziali – di «tutto il meccanismo dell’organizzazione comunista»[10], iniziò a seguirlo più da vicino. Alcuni mesi prima, dettagliate informazioni su di lui erano state rilasciate al ministero dell’Interno dal prefetto di Livorno, Guido Farello, il quale aveva scorto nella linea politica intrapresa da Ambrogi una concreta possibilità di avvicinamento:

L’Ambrogi è uno dei capi del gruppo di sinistra tra gli emigrati politici. In una delle ultime riunioni del gruppo egli ebbe a manifestare la sua contrarietà che i componenti di esso non sanno discutere, accettando ogni relazione ed ogni risoluzione con una disciplina che non ha nulla di intelligente. Ciò non può dare nessuna utilità pratica e se non vi fosse il gruppo sinistro che discute e solleva obiezioni che illustrano e chiarificano le idee e i concetti manifestati da taluni oratori si avrebbero delle riunioni notevoli soltanto per l’apatia generale. Finì testualmente così: “i fatti dimostrano il mio dire, anche in questa riunione il compagno Garlandi ha parlato a lungo e contro la destra. Voi non dite nulla e fate blocco con essa contro di noi, questo dimostra che il gruppo non solo non ha capacità ma neanche serietà”. [11]

Le lettere inviate al padre, intercettate dall’Ovra, avevano rivelato al regime anche un’altra potenziale carta di adescamento: Ambrogi versava in drammatiche condizioni economiche. Nonostante tutto, la polizia scelse comunque di adottare nei suoi confronti la tipica tattica dispiegata nei confronti dei gruppi della «sinistra comunista»: fu infatti lasciato libero di operare tranquillamente, controllato e addirittura agevolato nei suoi spostamenti al fine di trarre profitto dalla opera disgregatrice procrastinata all’interno del partito. Dopo essersi trasferito in Belgio, egli aveva quindi fatto ritorno in Unione Sovietica senza incontrare alcun tipo di ostacolo: tuttavia, i suoi rapporti con Stalin e il temporaneo rientro nel partito bolscevico conobbero una brusca interruzione nel 1935, quando – passato nuovamente all’opposizione e ancora attivo nell’ala vicina a Bordiga – sfuggì alle «purghe» solo grazie all’intervento dall’ambasciata italiana a Mosca. Ripartito nuovamente alla volta di Bruxelles, fu qui che i fascisti tentarono definitivamente l’aggancio.

Il 31 luglio 1936, la Regia ambasciata d’Italia a Bruxelles inviò un telegramma riservatissimo e urgente a Roma. L’oggetto riportava la dicitura di «Ambrogi avv. Ersilio» e il contenuto una chiara sintesi della sua manifestazione d’intenti:

Ho l’onore di informare V. E. che ho potuto avvicinare l’Ambrogi allo scopo di conoscere i di lui intendimenti. Da tale colloqui è risultato che trattasi, come V. E. conosce, di un comunista dissidente, divenuto tale non per aver abbandonato le sue opinioni comuniste, ma per aver avuto campo di osservare da vicino il Governo sovietico all’opera. Egli (sono parole dell’Ambrogi), d’accordo con le diverse opposizioni, ritiene che la propria posizione politica sia insufficiente senza una lotta efficace contro la influenza della III° Internazionale. Ma, in considerazione del fatto che la III° Internazionale si appoggia sopra uno Stato potentissimo, ed avvantaggia la sua influenza dalle varie coalizioni di questo Stato con altri Stati, creando e sfruttando movimenti diretti a favorire e a rafforzare tali coalizioni nello esclusivo interesse del nazionalismo russo (che non sempre coincide con le esigenze del movimento rivoluzionario di cui essa si dice banditrice), ogni movimento di opposizione, ha continuato l’avvocato Ambrogi, limitato ai gruppi proletari dissidenti è a priori votato all’insuccesso ed è quindi necessaria la coordinazione di altre forze di opposizione coincidenti. Inoltre (sono ancora parole dell’Ambrogi) si può constatare la esigenza di tutti i punti di coincidenza anche fra lo Stato fascista e la opposizione comunista nella questione della lotta contro la influenza della III° Internazionale. L’Ambrogi intende in questa lotta mettere a profitto tutta la propria esperienza ove sia possibile un accordo diretto alla coordinazione di forze contro la influenza moscovita. Ma tale accordo sarebbe possibile (anche per ragioni tattiche) solo se non si escludesse a propri quella attività politica che spinge il Sig. Ambrogi alla lotta contro la III° Internazionale. In altri termini, l’Ambrogi teme che le varie frazioni di comunisti attualmente in opposizione con la III° Internazionale siano, a causa della loro debolezza, assorbite nuovamente dal Governo dell’Urss o dalle sue emanazioni; ad evitare ciò l’Ambrogi domanda un’intesa col Governo Fascista e l’appoggio di essa. Circa i termini concreti di tale accordo e delle attività dell’Ambrogi, questi ritiene che non potrebbe altrimenti discutersi che in colloqui che un incaricato del Governo Fascista dovrebbe avere col sig. Ambrogi, probabilmente in un tempo molto prossimo. [12]

Furono questi contatti e la percezione che i comunisti maturarono di essi a spingere Dante Corneli, nel suo ricordo del 1979, a dipingere Ersilio Ambrogi come un «agente staliniano e spia fascista che aveva fornito alla polizia italiana importanti notizie sull’attività clandestina che il partito svolgeva in Italia»[13]. Certo, le due parti in causa cercarono in quei contatti – frequenti tra il 1936 e il 1937 – favori vicendevoli: la polizia mussoliniana indicazioni finalizzate ad intercettare i movimenti dei principali esponenti attivi nella rete clandestina comunista; Ambrogi un appoggio alla sua causa politica, aspetto che il fascismo cercò di promuovere anche attraverso l’offerta di vantaggiose concessioni quali la promessa di una radiazione dal Casellario politico centrale o la cancellazione del suo nome dall’elenco dei «sovversivi attentatori o capaci di atti terroristici»[14]. Eppure, nonostante i contatti, Ambrogi conservò sempre una scaltrezza che – in realtà – gli consentì di non cadere nella trappola dell’Ovra, evitando di trasmutarsi come altri suoi compagni in un fiduciario dei servizi segreti.

Constatata l’impossibilità di incidere sulla linea intrapresa dal Pcd’I e ormai sempre più emarginato, egli decise così di interrompere ogni forma di relazione con la polizia politica. A confermarlo un telegramma rigido e nervoso inviato da Guido Leto, capo della Polizia politica, alla Divisione affari generali e riservati il 15 ottobre 1940:

Si comunica che l’arresto dei connazionali Ambrogi Ersilio e Carrà Renzo è stato provocato – come quello di vari altri sovversivi – da questo Ministero allo scopo di eliminarli dal loro campo di azione all’estero, cosa più che opportuna specie nell’attuale momento. Per quanto riflette il contenuto del rapporto della Gerenza degli Affari Consolari a Bruxelles e, più specificatamente, l’accenno che vien fatto, in tale rapporto, ai contatti avuti dall’Ambrogi Ersilio con la R. Ambasciata a Bruxelles, codesto stesso Ministero sa come ebbero origine e come si risolsero, invero in ben poca cosa, i contatti stessi. È noto che l’Ambrogi, il quale nel 1924 fu condannato dalla Corte di Assise di Livorno in contumacia ad anni 21, mesi 10 e giorni 18 di reclusione per essersi reso moralmente e materialmente responsabile del grave eccidio di Cecina del 1921, nei primi del 1922 riuscì a raggiungere il “paradiso sovietico” ove, accolto con tutti gli “onori”, si mise a servizio della Gpu, dirigendone la sezione italiana. Egli lasciò poi la Russia soltanto per circostanze e contrasti ideologici, ma, come ricorderà codesto Ministero, egli dichiarò esplicitamente, quando noi tentammo approcci e contatti con lui, che “era comunista e rimaneva tale”, rifiutandosi recisamente di relazionarci su cose, uomini e metodi della Gpu. Ragioni di opportunità consigliarono, sul momento, di mantenere ugualmente i contatti con lui per poter trarre almeno qualche profitto della campagna giornalistica che egli si proponeva di svolgere in dipendenza dai contrasti ideologici che gli avevano fatto abbandonare la Russia. Ma, anche da questo lato, l’Ambrogi servì ben poco tanto che fummo costretti a troncare i rapporti iniziati con lui. L’Ambrogi è sempre stato un elemento pericoloso e resta tale, pertanto, non vi sono motivi di sorta che possano consigliare di avere per lui qualsiasi considerazione e di dispensarlo dal rendere, come gli altri, i dovuti “conti” sull’attività sovversiva da lui svolta all’estero. [15]

Allontanato dai compagni e messo al bando dal fascismo, nel 1940 Ambrogi venne arrestato dopo l’invasione del Belgio, rilasciato dai tedeschi e poi nuovamente catturato ed estradato in Italia. Assegnato al confino politico per un anno, dopo l’armistizio di Cassibile fu deportato in Germania.

La sua esperienza politica sarebbe rimasta ai margini anche al termine della guerra, quando si ritirò a Livorno per riprendere l’attività di avvocato. Il Pci lo tenne infatti sempre a debita distanza, condizionato dalle voci sul suo conto e da un ruolo mai definitivamente chiarito. Ottenne la riammissione solo nel 1957, sette anni prima di morire – l’11 aprile 1964 – a Venturina. A favorirne il rientro, arrivato dopo molteplici tentativi di riammissione, furono probabilmente l’età ormai avanzata e l’allentamento delle norme di accesso al partito che seguirono alle conseguenze dei fatti di Budapest e alla dura requisitoria con cui Kruscev aveva condannato i crimini di Stalin nel corso del XX Congresso del Pcus (1956). La sua storia, oltretutto, non venne neppure accennata da Paolo Spriano nei sui volumi sulla Storia del Partito comunista (nominato solo due volte, ma nei volumi antecedenti a quelli relativi al secondo dopoguerra) [16], specchio di un insabbiamento politico che difficilmente poteva trovare la sua ragion d’essere nella mancanza di informazioni al riguardo.

Il resoconto dei rapporti di Ambrogi con i fascisti, tuttavia, non ci consegna il profilo di un informatore. Piuttosto, emerge il quadro di un militante tanto avverso alla causa fascista, quanto apparentemente ostile alla direzione imboccata dall’Urss di Stalin e dalla maggioranza dei comunisti italiani. Una vicenda qui solo scalfita ed in attesa di scavi più accurati, eppure ugualmente utile per problematizzare più a fondo la complessa cornice degli anni della clandestinità e del collaborazionismo.

[1] S. Tranquilli, Borghesia, piccola borghesia e fascismo, in «Stato operaio», aprile 1928.

[2] Cfr. M. Franzinelli, I tentacoli dell’Ovra. Agenti, collaboratori e vittime della polizia fascista, Bollati Boringhieri3, Torino 2020, pp. 311-312; M. Canali,  Le spie del regime, Il Mulino, Bologna 2004.

[3] Cfr. C. Pinzani, Il partito nella clandestinità: problemi di organizzazione (1926-1932), in M. Ilardi – A. Accornero (a cura di), Il Partito comunista italiano. Struttura e storia dell’organizzazione (1921-1979), Feltrinelli, Milano 1982, pp. 975-1005.

[4] P. Spriano, Storia del Partito comunista. Gli anni della clandestinità, II, Einaudi, Torino 1969, p. 110.

[5] Romolo Tranquilli era stato fermato a Como con l’accusa – mai confermata – di aver preso parte all’attentato che il 12 aprile 1928 aveva provocato 20 morti e 23 feriti alla fiera di Milano, arrestato e tradotto nel carcere di Marassi, a Genova. La vicenda colpì profondamente Silone, il quale, forse nell’invana speranza di una sua scarcerazione, intrecciò fino al 1930 un intreccio di informazioni con l’ispettore Guido Bellone sotto il falso nome di «Silvestri»: cfr. M. Franzinelli, I tentacoli dell’Ovra, cit., pp. 335-342. Cfr. anche: M. Canali – D. Biocca, L’informatore: Silone, i comunisti e la polizia, Luni, Milano 2000.

[6] Cfr. M. Franzinelli, I tentacoli dell’Ovra, cit., p. 320.

[7] Cfr. A. Mettewie Morelli (a cura di), Lettres et documents d’Ersilio Ambrogi (1922-1936), in «Annali della Fondazione Giacomo Feltrinelli», 1977, pp. 173-291.

[8] Cfr. «Il Messaggero Toscano» 4 febbraio 1921.

[9] Per un breve quadro biografico di Ersilio Ambrogi, si veda: F. Andreucci – T. Detti (a cura di), Il Movimento operaio italiano. Dizionario biografico, I, Editori Riuniti, Roma 1975, pp. 58-60; F. Bertolucci, Ambrogi, Ersilio, in http://www.bfscollezionidigitali.org/entita/12902-ambrogi-ersilio/ (ultima consultazione: 21 settembre 2020); M. Franzinelli, I tentacoli dell’Ovra, cit., pp. 334-335.

[10] P. Spriano, Storia del Partito comunista. II, cit., p. 353.

[11] Archivio Centrale dello Stato, Ministero dell’Interno, Direzione generale della Pubblica Sicurezza, Casellario Politico Centrale, b. 92, fasc. 747, Ambrogi, Ersilio Paolo Giuseppe, Telegramma del prefetto di Livorno al ministero dell’Interno, 7 giugno 1929. Nel comunicato, il nome di Garlandi è sottolineato.

[12] In ibidem, Telegramma della Regia ambasciata d’Italia a Bruxelles al ministero dell’Interno con oggetto Ambrogi avv. Ersilio, 31luglio 1936

[13] D. Corneli, Lo stalinismo in Italia e nell’emigrazione antifascista, III,  Ripoli, Tivoli 1979, p. 32.

[14] Archivio Centrale dello Stato, Ministero dell’Interno, Direzione generale della Pubblica Sicurezza, Casellario Politico Centrale, b. 92, fasc. 747, Ambrogi, Ersilio Paolo Giuseppe, Comunicato del capo della Polizia politica alla Divisione affari generali e riservati del ministero dell’Interno, 15 ottobre 1940. Il telegramma, datato 29 novembre 1937 e firmato dal prefetto di Livorno, Emanuele Zannelli, recitava in chiusa che «in questi ultimi tempi [Ambrogi] si è dichiarato favorevole ai troschisti e desideroso di combattere di più il comunismo che il fascismo italiano. Richiami al riguardo la ministeriale n° 14064747 dell’11 Marzo 1936».

[15] In ibidem.

[16] Nei primi due volumi, il nome di Ambrogi compare solo saltuariamente: cfr. P. Spriano, Storia del Partito comunista italiano. Da Bordiga a Gramsci, I, Einaudi, Torino 1967, pp. 90; 100; 130; 163; 175; 217-220; 228n; 296n.; Id., Storia del Partito comunista italiano, II,  cit., p. 9.




Dover partire.

Come afferma Patrizia Gabrielli, quello biografico è un approccio a lungo rimasto a margine rispetto alla produzione storiografica sull’antifascismo che, solo fino a pochi anni fa, pareva prediligere una rimozione del retaggio delle storie personali, dei vissuti soggettivi quasi fossero soffocate dalle gesta dei molti eroi che contraddistinsero il periodo e segnarono la storia della nostra repubblica e della nostra libertà.

Nell’ambito della produzione memorialistica sull’antifascismo, il metodo biografico ha acquistato progressivamente uno spazio significativo, al punto che ormai, costituisce parte integrante della bibliografia sull’emigrazione con le sue memorie, autobiografie e carteggi, che hanno avuto il potere di mettere in luce angoli visuali inattesi.

Le ricche e interessanti storie soggettive e collettive contribuiscono così a rendere una visione d’insieme dell’esperienza dei fuoriusciti italiani attraverso plurimi punti di osservazione, non solo statistici o politici. La visione al tempo stesso vittimistica ed elogiativa dei migranti italiani all’estero, offre più profondi e interessanti spunti di riflessione sociologica e culturale. Infatti, ogni situazione contiene in se stessa una complessità che la rende unica. Questo articolo descrive la storia della migrazione da Marti a Valbonne durante l’affermazione del fascismo in Toscana raccontando, a titolo di esempio, la storia della famiglia Lanini una delle 28 famiglie immigrate in quel periodo da un paese che contava all’epoca 2000 anime, insieme ad altri toscani perseguitati dal fascismo[1]. In questa ondata migratoria una famiglia si caratterizzò dalle altre. In quanto strumento del regime, aveva un incarico ben preciso quello del controllo affermando le direttive del fascismo, fuori dal territorio nazionale, seppur interpretate secondo le necessità locali[2]. Il fascismo aveva provato a più riprese a incunearsi nelle società ospiti sebbene la forza del regime sia stata riconosciuta, soprattutto in Francia, con maggiore reticenza[3], sebbene tutti gli studiosi abbiano sempre concordato sul fatto che solo una minoranza degli italiani avesse aderito alle organizzazioni antifasciste all’estero.

Primo Lanini arrivò a Valbonne (Francia) nell’estate del 1924 a piedi, dopo una lunga e disagiata marcia lunga 400 km durata 5 settimane. Aveva 37 anni.  Il suo è un viaggio esplorativo per verificare la situazione, trovare un alloggio, prendere accordi, stabilire contatti, comprendere le potenzialità da dove partire. Cosetta è l’ultima figlia nata in Italia e ancora vivente. Nasce il 5 dicembre 1924 al civico 18 di Borgo d’Arena, una borgata di Marti, al tempo frazione del comune di Palaia in provincia di Pisa un quartiere, molto attivo da un punto di vista di impegno politico dove risiedevano anarchici, socialisti e comunisti afferenti alla Lega mista contadini-operai formatesi con autentica partecipazione durante il biennio rosso ma anche l’associazione La fratellanza operaia legata al modello del mutuo soccorso e già attiva agli inizi del 1900.

La scelta del luogo dove installarsi con la famiglia era riconducibile essenzialmente al passaparola con altre famiglie toscane emigrate a Valbonne[4] già a fine Ottocento per motivi legati al lavoro stagionale costituito principalmente dalla vendemmia dell’uva servan e dalla raccolta dei fiori come il gelsomino e la rosa centifoglia per le profumerie di Grasse, che attirava nella zona donne e uomini provenienti anche dalla provincia di Cuneo e dalle valli limitrofe[5] e dal fatto che la Francia, in quel momento, registrava un importante presenza di antifascisti (nel dipartimento Alpi Marittime e nella Regione PACA ce ne sono molte)[6]. Il Paese confinante era stato ritenuto da Primo l’alternativa più sicura e più accessibile considerato l’inasprimento dei rapporti internazionali e l’affermarsi del fascismo. La comunità martigiana proveniva da un paesaggio rurale caratterizzato dalle belle colline inferiori pisane, punteggiato da boschi e calanchi di creta argillosa. La gente allevava polli, vitelli e porci, intrecciava cesta, costruiva cerchi per le botti, lavorava il castagno, forgiava il ferro, coltivavano la terra, il mare non era nelle loro corde, né tantomeno il paesaggio urbano di Nizza, per questo la scelta di un paese simile, se non altro per clima e contesto, sembrò la più appropriata. Valbonne al tempo, era circondata da boschi si poteva tagliare la legna, venderla, trasformarla in carbone, costruire gabbie per gli uccelli, arrangiarsi, ingegnarsi, destreggiarsi, adattarsi ma lavorare finalmente in pace e vivere in attesa di tempi migliori. Le migrazioni cambiano e arricchiscono la storia di un Paese, trasformano la composizione sociale e politica di un luogo, incrementano l’economia locale ma la transizione non è così immediata, lineare e pacifica e, sicuramente nella fase iniziale, non è mai semplice inserirsi nel nuovo tessuto sociale. Così, spesso, gli eventi sfociavano in importanti divergenze culturali anche se, nel caso di Valbonne, non ci sono state mai vere e proprie discriminazioni da parte francese[7]. L’integrazione, anche solo lavorativa, non sembrava essere facile salvo sfruttare liberamente le risorse naturali del territorio: i boschi, rendendo vitale questo settore. I martigiani si specializzarono nel taglio del bosco e nella produzione del carbone, realizzavano fascine per venderle nei ristoranti, nei panifici o nei forni di cottura della celebre ceramica di Vallauris dove si installerà Picasso dal 1948 al 1955[8].

unnamedParisina Bottai con il primogenito Rigoletto, 10 anni,  Alfio, 5 anni e Cosetta, di soli sei mesi[9], arrivarono a Valbonne un anno più tardi, nell’estate del 1925, quando ormai in Italia erano state parzialmente approvate le leggi fascistissime trasformando, progressivamente, la monarchia parlamentare in una dittatura totalitaria. Arrivarono con il treno con un biglietto di terza classe fino a Ventimiglia dove Primo li raggiunse e li aiutò a passare la frontiera. Lanini era un socialista non interventista (aderente in un successivo momento al comunismo) che, suo malgrado, fu coscritto quattro anni nel corpo degli alpini e inviato sul fronte orientale in Trentino Alto Adige per combattere durante la Prima Guerra mondiale[10]. Tornato a casa, scioccato da quanto aveva visto e vissuto, demoralizzato e amareggiato per il trattamento riservato loro al rientro dalla guerra, cercava, come tutti i reduci, di reinserirsi nel tessuto sociale e riprendere stabilmente il suo lavoro di boscaiolo che gli consentisse di mantenere la famiglia. Così quando le camice nere andarono a cercarlo a casa per ingaggiarlo nelle loro spregiudicate imprese intimidatorie, Primo non ne volle sapere: era stanco della violenza e del dolore. Era un uomo giusto, dignitoso, le sue pretese erano semplici e lecite:  voleva solo ricominciare a lavorare e dimenticarsi dell’orrore della vita delle trincee e della disillusione delle promesse fatte. Lanini non condivideva l’ideologia fascista pertanto si rifiutò con fermezza di partecipare anche alla Marcia su Roma. Considerato un sovversivo, divenne vittima delle vessazioni delle cosiddette squadracce e a seguito di un’aggressione fisica grave decise di mettersi in salvo con la famiglia da un paese ingrato e illiberale.. Vi erano già state nel Comune di Palaia situazioni di tensione alcune delle quali trasformarsi in tragedia. Una sera durante una veglia clandestina, un gruppo di camicie nere provenienti da Pontedera fece irruzione nella casa dove si erano riuniti clandestinamente alcuni esponenti antifascisti e cominciarono a colpire all’impazzata con il manganello tutti i partecipanti alla riunione. Emilio Doni (1886-1954) attivo sindacalista e autorevole sindaco di Palaia già dal 1920 si mise miracolosamente in salvo saltando velocemente fuori dalla finestra e nascondendosi dentro il forno per il pane. Doni fu costretto a dimettersi dal ruolo di sindaco a causa dell’avanzamento dell’ondata nera guidata dai proprietari terrieri della zona tra tensioni e tumulti che sfociarono in feroci aggressioni e atti di sangue. Ma l’evento determinante che fece maturare definitivamente la scelta di Primo Lanini di trasferirsi in Francia fu l’aggressione e l’omicidio di un compaesano. Primo, che da qualche tempo aveva già preso in considerazione l’ipotesi della fuga all’estero, ne fu convinto soprattutto dopo l’assassinio di Alvaro Fantozzi[11]  segretario della Camera del lavoro di Palaia di soli 29 anni avvenuto sulla strada di Castel del Bosco al mattino del 2 aprile 1922 mentre si recava a un comizio a Marti per cercare di ripristinare la Lega mista contadini-operai. Lanini comprese che la situazione stava degenerando, accelerò dunque i tempi passando velocemente all’azione avvalendosi delle indicazioni di altri martigiani che anni prima avevano già tentato l’avventura in cerca di fortuna e che nel frattempo, grazie a scelte oculate, erano diventati abbienti. Infine, la realtà nella quale questo giovane toscano dovette, suo malgrado, vivere gli prospettò un avvenire tranquillo e agiato, così quando, al termine della Seconda Guerra Mondiale si paventò l’idea di ritornare a casa a Marti, la scelta fu quella di restare in Oltralpe, a Valbonne dove morirà nel 1973[12]. Nonostante un forte senso esistenziale lo legasse ancora alla Toscana, la sua vita era ormai orientata a Valbonne e la Francia gli aveva procurato protezione e benessere economico.

[1] Famiglie provenienti da Marti: Bottai, Balducci, Bagnoli, Bandini, Banti, Doni, Trinti, Monti, Catalini, Giglioli, Ciampini, Cenci, Corti, Costagli, Ceccarelli, Giannini, Marmeggi, Gorini, Lanini, Nardi, Pretini, Pitti, Telleschi, Ulivieri, Regoli, Pistolesi, Pupeschi, Vanni. Famiglie originarie di Ponte a Egola : Billeri, di Forcoli : Doveri, di Massa : Trietti, di Pontremoli : Biasini e Valenti. Infine, famiglie provenienti da Pistoia: Vivarelli e Bizzarri.
[2] Il fascismo aveva provato a più riprese a incunearsi nelle società ospiti sebbene le forza del regime sia stata riconosciuta, soprattutto in Francia, con maggiore reticenza, sebbene tutti gli studiosi abbiano sempre concordato sul fatto che solo una minoranza degli italiani avesse aderito alle organizzazioni antifasciste all’estero.
[3] La penetrazione del fascismo nelle comunità italiane all’estero è stata per lungo tempo sottovalutata dalla storiografia, tanto in Italia quanto nei paesi d’arrivo. La storia del fascismo all’estero si è arricchita, nel corso degli anni, di diversi contributi che hanno ricostruito la penetrazione del regime in svariati contesti nazionali e regionali. Nell’ambito della storiografia italiana, il contributo recente più interessante appare quello di Matteo Pretelli.
[4] Demografia di Valbonne village: 1891 = 1015 , 1896 = 1138, 1901 = 1067, 1911 = 1045, 1921 = 831, 1926 = 949, 1931 = 1063. Nel periodo di cui stiamo parlando Valbonne contava 949 abitanti. Ultimi dati aggiornati al 2017 = 13 325 abitanti.
[5] Il Comune di Valbonne si era già dimostrato accogliente nei confronti degli italiani che svolgevano lavori stagionali poiché aveva già ospitato altri migranti toscani, provenienti da Marti primo su tutti Amerigo Balducci giunto nel villaggio nel 1895 con la moglie Zaira Nardi, seguiti, in ordine sparso, da altre 6 famiglie di cui il nucleo di Armando Nardi e Ida Petrini arrivati a Valbonne nel 1904 che rappresentano un’importante testa di ponte per la successiva migrazione politica.
[6] Occorre ricordare, a titolo di esempio, la famiglia di Amleto Gorini martigiano installatosi a Draguignan e Danilo Gorini che fu a lungo sindacalista nella CGT e che partecipò alla Resistenza francese.
[7]  Le condizioni di vita erano piuttosto favorevoli e la comunità locale dimostrava quanto meno una certa tolleranza nei loro confronti. Nel censimento del 1936 si contano in Francia 720.000 italiani tra esuli antifascisti e comunità di lavoratori immigrati di cui 11.000 aderenti ai partiti politici antifascisti.
[8] Studi antropologici mostrano che la catena di immigrazione si organizzava per via familiare, così che le nuove comunità che si formavano erano omogenee per area di provenienza; la stabilità di tale flusso migratorio è confermata dall’esiguo numero di ritorni in Toscana.
[9] L’ultima figlia della famiglia Lanini, Angel, nascerà in Francia nel 1931.
[10] Primo Lanini fu insignito dal capo della Repubblica dell’Ordine di Vittorio Veneto dell’Onorificenza di cavaliere al valore militare (Numero d’ordine 315). L’onorificenza commemorativa fu istituita in Italia nel 1968 dall’allora presidente Giuseppe Saragat.
[11] Alvaro Fantozzi, Segretario della Camera del lavoro di Palaia e Assessore comunale a Pontedera, fu un infaticabile organizzatore di leghe bracciantili. Il giovane fu assassinato con armi da fuoco la mattina del 2 aprile 1922 da tre fascisti di San Miniato rimasti poi impuniti. Dopo l’omicidio Fantozzi, che scosse per la sua cruenza tutta la Valdera, i comunisti aggredirono due fascisti a cui seguì una pronta rappresaglia delle camicie nere che, in varie località della Provincia di Pisa, bastonarono gli avversari.
[12] Solo due famiglie dell’ondata migratoria tornarono a Marti dopo la fine della seconda guerra a causa di lutti e della necessità di fornire un aiuto materiale ai propri cari. Gli altri rimasero tutti in Francia dove nel frattempo avevano preso la nazionalità.




Mazzino Chiesa, un uomo in mare

«Il bacino occidentale del Mediterraneo può venire considerato nel suo complesso come un unico mercato del lavoro per l’emigrazione italiana, nonostante le diverse condizioni, sia giuridiche, sia economiche dei paesi che ne fanno parte»: così scriveva il Commissariato generale dell’emigrazione nel 1926, riportando la stretta connessione e circolarità esistente tra le diverse sponde del Mediterraneo, in cui si venivano a intrecciare antichi insediamenti italofoni legati al commercio e alle professioni liberali, con nuovi flussi dell’emigrazione da lavoro attratti dagli interventi infrastrutturali, dalle attività portuali o minerarie, oltre che dai più tradizionali mestieri agricoli o servizi urbani. Alla metà degli anni ’20 si può stimare un totale di 550.000 persone di nazionalità italiana che vivevano stabilmente nei territori bagnati dal mar Mediterraneo e che intrattenevano con il paese di origine rapporti più o meno fitti e continui. Si trattava con ogni probabilità della più numerosa nazionalità in emigrazione nell’intero arco mediterraneo, considerando le minori dimensioni demografiche di Grecia e Malta, altri paesi con un’importante diaspora marittima.

Così come era successo con l’emigrazione politica degli esuli risorgimentali, lo spazio mediterraneo tornò a essere durante il periodo fascista un luogo di rifugio per gli emigrati politici avversati dal potere in Italia: gli antifascisti trovarono nei porti del “mare di mezzo” una risorsa molto importante per sfuggire alle maglie della repressione fascista e allo stesso tempo poter continuare a tenere rapporti con la società italiana.

L’intricato campo di relazioni dei sovversivi antifascisti che univa le coste del Mediterraneo si basava sulla presenza stabile delle comunità italiane all’estero, ma aveva poi bisogno di vettori e persone mobili che facessero da tramite. È il caso di Mazzino Chiesa, nato nel 1908 in un quartiere popolare di Livorno. La sua storia è strettamente legata al mare e al partito comunista: di madre valdese e di indole anarchica, fu attivo politicamente sin da giovane in un comitato sindacale comunista. Possiamo ricostruire la sua vicenda a partire dal fascicolo personale conservato nei faldoni della Polizia politica presso l’Archivio Centrale dello Stato e dall’intervista che gli fece Iolanda Catanorchi nel 1974, disponibile online.

chiesa_2A 17 anni si imbarcò per un trasporto oltreoceano, senza avere però l’accortezza di passare ai compagni le consegne delle sue attività politiche. Commise così una grave imprudenza: «avevo del materiale del soccorso rosso e dei soldi in casa e sono partito […] imbarcai a bordo di questo vapore […] partimmo e io nel partire siccome avevo lasciato tutto il materiale a casa e non avevo avuto il tempo di fare… […] scrissi una lettera a mia madre, scrissi: “cara mamma dietro al quadro trovi il materiale, dallo a Gino”». La lettera fu intercettata dalla polizia, che a distanza seguì gli spostamenti del vapore fino al suo rientro. «Ritornando da Montereale [Montreal, n.d.a.], dal Canada, avevamo caricato del grano, quando arrivammo nel porto di Napoli, fuora, nel golfo di Napoli, vedemmo dei motoscafi della milizia che circondavano il vapore, difatti diedero ordine al comandante di dar fondo fuora. Quando fummo fermi ci invitarono tutti al centro…». Non ancora maggiorenne Chiesa venne arrestato per la prima volta e portato al carcere minorile di Napoli, quindi a Regina Coeli e poi a Livorno.

Da allora fu costantemente sorvegliato dalle forze dell’ordine. Nel 1931 Chiesa venne a sapere che era stato spiccato un mandato di cattura e decise di partire per la Corsica insieme ad altri quattro ricercati, con una barca comprata per l’occasione. «Quasi tutta a remi ce la siamo fatta, 42 ore ci abbiamo messo, siamo stati più bischeri noi, perché non c’era vento, non abbiamo trovato…». Stabilitosi a Bastia con altri fuoriusciti comunisti, si fece notare per la vivace propaganda antifascista. Nel novembre 1931 venne arrestato per aver picchiato a sangue Vasco Patania, un altro livornese venuto a Bastia insieme a un commerciante di stoffe, ritenuto un agente dell’Ovra. Nonostante la gravità delle percosse (in seguito alle quali Patania morì in un sanatorio a Livorno) il processo si concluse con una lieve condanna, un mese di prigione che Chiesa aveva già scontato, come riferiva alla polizia italiana un’informativa anonima:

Il Chiesa è così uscito glorioso e trionfante, accolto dai compagnoni suoi, fra gli applausi generali. […] l’avv. Moretti di cui già altra volta abbiamo parlato per il suo antifascismo […] fra gli unanimi applausi sostenne invece che il Chiesa è un perseguitato politico dovuto fuggire dalla sua patria perché odiato dal Fascismo […]. Il processo è emerso [sic] una requisitoria antifascista che ha fatto andare in sollucchero i fuoriusciti che in gran numero si erano dati convegno nell’aula e nelle adiacenze del Tribunale. Il Chiesa Mazzino non appena uscito è tornato alla carica ed alla sera stessa ha tenuto una concione antifascista sulla banchina del Porto (malgrado il freddo) e dinanzi agli operai della “Impresa Vestrini” ha parlato ancora delle necessità di naturalizzarsi francesi per evitare di tornare in Italia a morir di fame sotto la sferza del fascismo. I soliti canti antifascisti hanno posto termine alla gazzarra senza che la polizia intervenisse.

 Partì quindi verso Marsiglia e si recò a Parigi. Qui prese contatto con i vertici del Partito comunista d’Italia (Pcd’I) in esilio: lavorò dapprima per il Soccorso rosso, poi insieme a Giuseppe Di Vittorio iniziò a occuparsi dell’organizzazione della propaganda presso i lavoratori dei porti. Dopo aver partecipato con lo stesso Di Vittorio a un congresso internazionale dei portuali ad Altona, vicino ad Amburgo, entrò ufficialmente nell’organizzazione sindacale per conto del partito.

Alla fine del 1932 i servizi informativi fascisti lo individuavano come «un rappresentante della federazione italiana dei lavoratori del mare» (Film), inviato dal comitato centrale del Pcd’i a Marsiglia «allo scopo di tentare di organizzare in detta associazione i marittimi delle navi mercantili italiane che toccano quel porto»: «costui frequenta spesso il Club dei marittimi di Marsiglia, cercando di avvicinare connazionali ai quali distribuisce stampa del partito e tessere». Prese contatto tra gli altri con gli ambienti dei portuali di Genova, Livorno, Savona, Napoli: «andavo nei porti, creavo i comitati di diffusione e stampa, e poi attraverso questi prendevamo contatti con i marinari e dovevamo andare molte volte negli ambienti equivoci, molte volte passavamo per magnacci, altre volte passavamo per contrabbandieri, altre volte… perché i marinari si trovano lì, non si trovano…».

Come ha ricostruito Paolo Spriano, nella storia ufficiale del Partito comunista, «in questo periodo [tra 1933 e 1934] una buona parte della propaganda clandestina comunista che riesce a penetrare nel Regno ha come veicolo i marittimi, e la polizia aumenta la sua sorveglianza sugli equipaggi». Per poter svolgere questa attività e sfuggire al controllo poliziesco, Chiesa assunse differenti identità, in un gioco di dissimulazione che gli apparati di sicurezza italiani stentavano a seguire: Mario Landrelli, Mario Sandrelli, Assante Puntoni, Luigi Lenzi, Mario Luschi, Mario Lucchi, André Bernard, Masianello, Silverio, Masini, Alfredo o Alfredone, Ernest Morioli, Ernst Boschi, Roque Celeste Amado sono alcuni dei nomi utilizzati, il più delle volte con la copertura di un documento falsificato. Nel marzo 1933 da Parigi un informatore della polizia politica riferiva gli estremi della carta d’identità francese di un certo Alfredo Ferrari, nella convinzione che si trattasse in realtà della copertura fittizia per un’altra persona, Luigi Lenzi. Non sospettava che la vera identità dell’uomo che stava seguendo era ancora un’altra, quella di Mazzino Chiesa.

Alcune missioni di cui venne incaricato dal partito appaiono particolarmente rischiose. Ad Algeri ebbe il compito di avvicinare i membri italiani della flotta navale, creare delle cellule comuniste a bordo e trovare un marinaio disposto a disertare per recarsi a un congresso ad Amsterdam, per poi andare a vivere in Russia. «Mi hanno dato una valigia a doppio fondo, con già il materiale, i clichet pronti, tutto il materiale, il passaporto svizzero, mi chiamavo Morioli Ernest». Riuscì nell’intento e tornò a Marsiglia con un disertore comunista. Sempre in Algeria, ma a Bona, fu ancora inviato per fare proselitismo tra gli italiani che caricavano i fosfati e i concimi chimici sui vapori.

Nonostante tutti questi spostamenti, il centro del suo peregrinare per i porti mediterranei rimaneva Marsiglia, dove teneva le fila dell’organizzazione dei marittimi. «Ero più utile io in questo lavoro…», dichiarò con orgoglio alla metà degli anni settanta. La guerra di Spagna segnò una cesura in questa sua attività. Si recò una prima volta come volontario insieme al fratello nelle formazioni di Giustizia e libertà, nella colonna Rosselli. Venne quindi severamente rimproverato dal partito che lo rispedì a Marsiglia a riprendere il lavoro con la Film, fortemente indebolita dalla sua partenza improvvisa. Qui però continuò a pensare alla Spagna: «è anche latore – segnalavano gli informatori fascisti – presso alcune personalità ed organizzazioni, di richieste di materiale bellico e di uomini». Riuscì a ripartire per il fronte spagnolo, per poi finire all’inizio del 1939 nel campo di concentramento di Argelès-sur-Mer. Dopo un breve periodo scappò e fece ritorno a Marsiglia, dove la polizia francese lo stava aspettando per trarlo in arresto. Riuscì a imbarcarsi clandestinamente su un vapore diretto a Tunisi. Qui trovò Giorgio Amendola e Velio Spano e fu introdotto nel gruppo degli italiani comunisti locali.

 Attualmente è ospite di un giudeo che abita nella Avenue Jean Jures [sic] n. 59. Il controscritto – appena giunto – si mise subito in contatto con gli altri compagni di fede, ai quali rimprovera la mancata energia e la mancata attività di mettere in esecuzione il programma rivoluzionario e dinamitardo anarchico. Sembra – ma non lo si può affermare con prove specifiche – che il Chiesa avrebbe preso parte alla spedizione punitiva eseguita recentemente contro la sede del Dopolavoro del circolo rionale Bab El Kadra di Tunisi.

 Nel corso del Ventennio, la vicinanza geografica tra le sponde del Mediterraneo e l’eredità storica delle circolazioni che avevano avuto luogo all’interno del bacino crearono delle condizioni favorevoli per gli antifascisti: di fronte alla situazione oppressiva che il regime fascista aveva instaurato all’interno della penisola e su cui imponeva in maniera sempre più dura i suoi apparati di controllo, il mare rappresentò una risorsa fondamentale per gli oppositori. Le vie acquatiche potevano portare con facilità in ambienti non sottoposti al codice penale fascista né alla sovranità della sua polizia, ma pur sempre familiari, grazie alla presenza delle comunità italiane e alla larga diffusione della lingua italiana nell’arco mediterraneo. La zelante attività di informatori e consoli non mancò di estendere la rete di controllo anche fuori dai confini, ma pur sempre sotto ordinamenti giuridici e statuali differenti da quelli dominati dal fascismo. In questa situazione si mossero persone e organizzazioni con una competenza specifica nel fare propaganda presso i portuali e la gente di mare. La ricostruzione dei loro percorsi e dei network su cui si muovevano è di grande interesse per un’analisi della centralità della dimensione mediterranea come spazio storico e geografico di libertà e democrazia.




Emilio Angeli: il “nonnino” della Resistenza toscana

«Chi ricorda la situazione livornese dal ’45 al ’48 sa che cosa voleva dire, allora, agire nel piano sociale per una idea cattolica apertamente professata. [Emilio Angeli] era ancora dolorante per le percosse e le fratture riportate dalla aggressione di centinaia di scalmanati e ripartiva per affrontare in altre parti il rischio di nuove aggressioni. “Non sono questi i guai” diceva sorridendo e ricominciava la sua battaglia. Erano giorni in cui solo i manifesti murali del “Fides” osavano affrontare il terrorismo comunista per far conoscere le cose vere della città. La polizia non era sufficiente per proteggere, la gente era spaventata: affiggere quei manifesti, periodicamente, tra continue minacce significava rischiare letteralmente la vita: ma il sor Emilio insieme ad Alfio e a pochi altri, sempre diversi, non mancava mai. Non si trattava di episodi ma di una lotta continua ed estremamente rischiosa condotta in difesa dei valori cristiani con l’umiltà di chi la credeva un semplice dovere»[1].

Così scriveva il 20 gennaio 1957 sul «Fides» don Renato Roberti, nel terzo anniversario della morte di Emilio Angeli, il «nonnino»[2] della Resistenza toscana.

Emilio Angeli (Archivio Centro Studi R. AngelI)

Emilio Angeli (Archivio Centro Studi R. AngelI)

Due giorni prima il vescovo coadiutore di Livorno monsignor Andrea Pangrazio inaugurava in memoria del padre di don Roberto Angeli il «Centro di Assistenza Sociale Emilio Angeli»[3], situato vicino al Cantiere Orlando tra Borgo S. Jacopo e via Micheli. Quel Centro avrebbe raggruppato il “cuore” delle attività del Comitato Livornese Assistenza (CLA) di cui nel 1948 Emilio «fu uno dei più entusiasti e preziosi iniziatori»[4]: in Borgo S. Jacopo col tempo si raggrupparono un notevole numero di attività, tra cui una Casa di educazione per adolescenti, la Scuola Tipografica «Stella del Mare», un Centro medico-psico-pedagogico, un Refettorio e ricreatorio post-scolastico oltre agli Uffici e servizi vari del CLA[5]. Per la Pontificia Commissione Assistenza (PCA) e per il CLA, Emilio Angeli aveva speso senza risparmiarsi l’ultimo decennio della sua vita, occupando il tempo che gli restava libero finito il turno di operaio alla Motofides. «Senza mio padre – affermò don Angeli – non avremmo potuto fare per i ragazzi quello che abbiamo fatto»[6]. Scrive don Roberti: «Con lo stesso impegno e la stessa generosità del periodo clandestino si dava anima e corpo al successo dell’opera, ne amava intensamente le finalità e non c’era niente che egli considerasse estraneo alle sue premure e alle sue fatiche. […] Più di una volta, per un insieme di circostanze, si è trovato praticamente solo a sostenere il peso della organizzazione di tutto il C.L.A. Allora saltava notti in bianco, pasti, conversazioni estranee, e si moltiplicava per fare tutto quello che occorreva. […] I bimbi delle colonie, dei doposcuola, dei ricreatori, li amava, li difendeva»[7].

Gli scontri coi comunisti nel dopoguerra, anche seri e gravi[8], non furono niente a confronto con le nerbate e con le torture subite da Emilio Angeli nelle carceri di via Tasso a Roma durante gli interrogatori a cui fu sottoposto dal responsabile del Massacro delle Fosse Ardeatine in persona, Herbert Kappler, il famigerato comandante del Servizio di Sicurezza  (Sicherheitsdienst-SD), e della polizia segreta nazista (Geheime Staatspolizei-Gestapo) di Roma.

Tradito da un certo Ghirelli, che operava ai margini della Resistenza romana, Angeli fu arrestato dalla Gestapo sul ponte Milvio. «Fui portato in via Tasso in Roma – ricordava Angeli nel 1945 – bella villa, finestre murate, dimora delle S.S. luogo principale di tortura di Roma. Spogliato, perquisito, privato di quanto possedevo fui portato in cella dove si trovavano altri sei disgraziati. La mia persona parve alle S.S. tedesche molto importante perché fui subito sottoposto a lunghi e estenuanti interrogatori interrotti da nerbate perfino sotto le piante dei piedi. Il mio viso serviva come esercizio di box anche al colonnello Kappler comandante delle S.S. a Roma. Il mio viso era diventato gonfio come un pallone ciò durò per cinque giorni alla fine dei quali si sentenziò: “domani sotto torchio parlerete…”»[9]. Kappler «credeva nientemeno che fosse un generale – scrive don Angeli nel capitolo dedicato a suo padre nel Vangelo nei Lager – […] Questo – disse una volta Kappler ai suoi collaboratori dopo un’estenuante seduta, mentre il detenuto a testa bassa, taceva ancora ed il pavimento era chiazzato di sangue – questo è veramente un soldato…»[10].

Nel dopoguerra il Maresciallo d’Italia generale Giovanni Messe decorò Emilio Angeli con la Medaglia d’argento al Valor Militare con la seguente motivazione: «Nel corso di un lungo periodo di attività clandestina collaborava alla attività di due nuclei informativi operanti in territorio italiano occupato dai tedeschi. Arrestato e sottoposto a lunghi ed estenuanti interrogatori, manteneva ferma e dignitosa fierezza. Condannato a morte riusciva ad evadere e a raggiungere le truppe alleate»[11]. Anche il rabbino capo di Livorno, Alfredo Toaff, riconobbe che quello di Angeli fu un «esempio fulgido di bontà, di fede e di eroismo»[12].

Sia don Angeli che Renato Orlandini descrivono il fortunato epilogo del suo arresto[13]. Emilio Angeli lo ricordava così: «Per una ventina di giorni fui lasciato in pace e me ne chiedevo la ragione quando la sera del 3 giugno fui condotto in una sala dove mi legarono le mani dietro la schiena. La stessa sorte toccò ad altri 28, a un certo momento giunse in cortile un piccolo camion dove ci fecero salire, dopo il quattordicesimo non ce ne stettero altri, io ero il quindicesimo. Il maresciallo mi respinse e il carico partì. Noi ritornammo nella sala, si prolungava di qualche ora la nostra agonia, anche allora Iddio mi protesse. La macchina non fece ritorno e alle ventiquattro fummo slegati e ricondotti in cella. La mattina del 4 giugno sentimmo gran confusione, erano i tedeschi che dal palazzo di via Tasso fuggivano perché si sentiva la mitraglia e il cannone vicino Roma. Alle sette del mattino eravamo liberi, la popolazione ci aveva aperto le porte».

Erminia Cremoni e Emilio Angeli (Archivio Centro Studi Roberto Angeli)

Erminia Cremoni e Emilio Angeli (Archivio Centro Studi Roberto Angeli)

Ma perché c’era stato tanto accanimento contro Emilio Angeli? E in cosa consistette il suo «lungo periodo di attività clandestina»?

Merlini lo sintetizza così: «Si trattava di salvare tanti ebrei perseguitati, di portare aiuti a tanti soldati italiani e a tanti prigionieri alleati braccati sui monti, di raccogliere informazioni militari, di divulgare la stampa clandestina e soprattutto di dare vita ai primi gruppi di partigiani. E il “nonnino” compariva dappertutto, con tutti i mezzi, ad aiutare ed a risolvere le più disperate situazioni»[14].

[1] R. ROBERTI, Alla generosità della sua lotta non può mancare il premio del Signore, in «Fides», 20 gennaio 1957. Emilio Angeli era nato nel 1887 e morì nel gennaio del 1954.

[2] «Lo chiamavamo così perché, a noi ventenni, un cinquantenne o poco più sembrava vecchio. E, in effetti, era il più anziano del nostro gruppo [dei cristiano-sociali]», cfr. R. ORLANDINI, Attorno al quarantatré, MCS, Livorno 1989, p.49

[3] A Emilio Angeli vennero intitolate anche la Colonia montana presso Cutigliano (Pistoia) e nel 1969 il Soggiorno montano in località Talento presso Marliana (Pistoia), cfr. 1948-1964 Gli anni e le attività, in «Il Ponte», notiziario del Comitato Livornese Assistenza, n.2, aprile 1964 e 30 anni, «Il Ponte», n.1, maggio 1976

[4] Cfr. Emilio Angeli, «Il Ponte», n. 2, aprile 1964

[5] Cfr. Il Vescovo e il Prefetto inaugurano il nuovo Centro di Assistenza Sociale “Emilio Angeli”, in «Fides», 20 gennaio 1957

[6] Cfr. Il «nonnino» che aveva per amici i bambini, in «Fides», 24 gennaio 1954

[7] Cfr. R. ROBERTI, Rischiare la vita per il bene degli altri fu la sua soddisfazione più bella, in «Fides», 21 febbraio 1954

[8] In Archivio Centro Studi don Roberto Angeli, si trova una lettera di don Angeli a Gianfranco Merli, datata 1963, in cui il sacerdote ricordando il decennio 1945-1955 e gli scontri con i comunisti afferma che «a mio padre, che scortava i nostri “attacchini” [del “Fides” edizione murale], venivano rotte due costole». In R. ROBERTI, Perché voglio parlare di don Pessina, in «Darsena Toscana», 21 settembre 1991 don Roberti sostiene che nel dopoguerra «il “nonnino”, il babbo di don Angeli, l’eroico antifascista, torturato dai nazisti a Roma in via Tasso, senza che riuscissero a farlo confessare, aggredito dai comunisti a S. Jacopo e bastonato a sangue – ricoverato all’ospedale con due costole rotte – accusato e punito come un “bieco fascista”»; concetto ribadito in Id., Delitto di leso giornalismo, in «Darsena Toscana», 21 settembre 1996: «il babbo di don Angeli, l’eroico “Nonnino” della Resistenza, lo picchiarono a sangue i comunisti».

[9] La testimonianza inedita si trova nell’Archivio ISRT, Fondo Clero, Busta n.6, Fascicolo XIII, Diocesi di Livorno.

[10] R. ANGELI, Vangelo nei lager: un prete nella Resistenza, Stella del Mare, Livorno 1985,  pp. 20-21

[11] Cfr. R. ROBERTI, Rischiare la vita per il bene degli altri fu la sua soddisfazione più bella, in «Fides», 21 febbraio 1954.

[12] ibid.

[13] R. ANGELI, Vangelo nei lager, cit.,  pp. 21-22 e R. ORLANDINI, Attorno al quarantatré, cit., pp. 48-50

[14] L. MERLINI, In memoria di Emilio Angeli, in «Il Tirreno», 20 gennaio 1954

Articolo pubblicato nel luglio del 2019.




«…quella metà del popolo italiano che ha pur qualcosa da dire»

Cingolani-Guidi

Angela Guidi Cingolani

Nella primavera del 1946 le italiane hanno votato nella prima tornata di consultazioni amministrative, ma sono le elezioni del 2 giugno del 1946 ad essersi impresse nella memoria collettiva come un evento storico: quasi 13 milioni di donne, ora pienamente cittadine, hanno votato per eleggere l’Assemblea costituente e hanno scelto tra Monarchia e Repubblica. Tredici donne hanno già partecipato a un altro importante organismo, la Consulta Nazionale, composta da 430 esponenti dell’antifascismo nominati dai partiti politici. Tra loro 5 future madri costituenti[1], tra cui Angela Guidi Cingolani, prima donna a parlare in un’Assemblea istituzionale – la Consulta, appunto – e a chiedere ai colleghi uomini di essere considerata

«come espressione rappresentativa di quella metà del popolo italiano che ha pur qualcosa da dire, che ha lavorato con voi, con voi ha sofferto, ha resistito, ha combattuto, con voi ha vinto con armi talvolta diverse ma talvolta simili alle vostre e che ora con voi lotta per una democrazia che sia libertà politica, giustizia sociale, elevazione morale»

Filomena Delli Castelli

Filomena Delli Castelli

Alle elezioni del 2 giugno sono entrate in lista pochissime donne, poco meno del 7% di tutti i candidati. Sono state elette 21. Poche, quindi, si sono guadagnate l’onore e l’onere di partecipare attivamente al varo della nuova Costituzione. Ma chi sono? Quali esperienze hanno alle spalle? Cosa rappresenta e cosa potrà fare questo 3,7% su un totale di 556 deputati?

Delle 21 madri costituenti, nove sono del Partito Comunista[2], tra cui cinque fondatrici/attiviste dell’UDI; nove appartengono alla Democrazia Cristiana[3], tra cui 5 tra attiviste o dirigenti della FUCI, altre attiviste del CIF o dell’Azione cattolica; due sono socialiste[4]; una soltanto, Ottavia Penna Buscemi, è eletta nella lista ”Uomo Qualunque”. Impressionante il numero di preferenze che le elette hanno avuto, basti pensare che Bianca Bianchi nel collegio di Firenze ha preso il doppio delle preferenze di Sandro Pertini, il partigiano, l’eroe, il perseguitato dal regime, l’incarnazione di tutto ciò che è stata la vittoriosa lotta antifascista.

Bianca Bianchi

Bianca Bianchi

Rita Montagnana Togliatti

Rita Montagnana Togliatti

La più anziana è Lina Merlin, 59 anni; la più giovane è Teresa Mattei, 25 anni; entrambe parteciperanno ai lavori della “Commissione dei 75”, il ristretto gruppo che materialmente scriverà la Costituzione. Sette madri costituenti[5] sono nate tra il 1887 e il 1900; hanno esperienze politiche e sindacali alle spalle: Angela Merlin è stata una delle prime donne iscritte al Partito socialista, collaboratrice di Matteotti; Rita Montagnana, già iscritta al Partito socialista, è stata con Teresa Noce tra le fondatrici del PCI nel 1921; Angela Guidi è stata iscritta al Partito popolare di Don Sturzo. Molte di loro sono state costrette durante il fascismo a scappare all’estero; Montagnana e Noce, mogli rispettivamente di Togliatti e Longo, sono state esuli in tutta Europa, hanno partecipato alla guerra civile spagnola, in seguito hanno fatto parte dei movimenti resistenziali nei paesi di accoglienza, subendo anche il carcere e l’internamento.

Lina Merlin

Lina Merlin

Teresa Mattei

Teresa Mattei

La maggior parte delle donne che fa parte di questo “gruppo anagrafico” ha una cultura suffragista per via dei forti legami dei partiti clandestini con i movimenti europei. Anche le cattoliche, fortemente impegnate nell’associazionismo, sono state perseguitate o “attenzionate” dalla polizia politica; Maria Federici ha avuto un trascorso all’estero, al seguito del marito, militante antifascista; Elisabetta Conci, presidente della FUCI (Federazione universitaria cattolica italiana), di Roma, è conosciuta come la “pasionaria bianca” per la tempra con la quale porta avanti le proprie battaglie politiche e religiose.

Altre sette madri costituenti[6] sono nate tra il 1902 e il 1908, hanno quindi compiuto almeno gli studi superiori non universitari nel periodo liberale, trovandosi poi a dover fronteggiare le privazioni di libertà del periodo successivo. Alcune, soprattutto le comuniste, hanno condiviso la sorte dell’esilio: Adele Bei, Elettra Pollastrini, Maria Maddalena Rossi. Le cattoliche Laura Bianchini, Maria De Unterrichter e Angela Gotelli hanno trovato nell’azionismo cattolico e nella FUCI, di cui sono diventate anche dirigenti, il terreno di formazione culturale e politica. Ottavia Penna, eletta con l’Uomo Qualunque ha assistito i siciliani poveri e i fanciulli abbandonati, ribellandosi alle dure regole del regime sull’ammasso di beni alimentari in periodo di guerra e al mercato nero.

Teresa Noce

Teresa Noce

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Maria Federici Agamben

Le 7 madri costituenti più giovani[7] sono nate tra il 1913 e il 1921, sono cresciute e hanno compiuto gli studi durante il regime, hanno respirato pienamente l’ideologia fascista. Non hanno avuto esperienza diretta di attività politica e sindacale, pur tuttavia al fascismo si sono ribellate; molte hanno tratto ispirazione dalle tragiche vicende dei familiari perseguitati o vittime del regime e dell’alleato occupante (lo sono, ad esempio, il padre e il fratello – poi morto suicida per non tradire i compagni partigiani – di Teresa Mattei e i fratelli e il marito di Nadia Gallico).

Il loro primo apprendistato politico, quindi, si è compiuto principalmente nell’ambiente privato per poi riversarsi, in maniera spesso dirompente, sulla scena pubblica. Eclatante, ad esempio, il gesto di una appena adolescente Teresa Mattei: la contestazione pubblica delle lezioni in difesa della razza le costa l’espulsione da tutte le scuole del Regno.

Ottavia Penna Buscemi

Ottavia Penna Buscemi

Elisabetta Conci

Elisabetta Conci

Quasi tutte, comuniste, socialiste e cattoliche, giovani e meno giovani, sono state protagoniste del movimento di Liberazione. Lina Merlin, Laura Bianchini e Angela Gotelli sono state membri del Comitato di Liberazione nazionale Alta Italia; Angela Minella ha fatto parte di una Brigata Garibaldi del savonese; Teresa Mattei è stata combattente di una formazione garibaldina a Firenze e organizzatrice dei Gruppi di difesa della donna nell’alta Toscana, così come Nilde Iotti in Emilia Romagna e Lina Merlin in Lombardia. Filomena Delli Castelli, Maria Nicotra e Angela Gotelli sono state crocerossine, quest’ultima con compiti di grande responsabilità negli scambi tra ostaggi civili e prigionieri tedeschi; Bianca Bianchi ha fatto la staffetta in Toscana; Maria Federici e Angela Guidi hanno appoggiato in vari modi la lotta antifascista a Roma.

Nilde Iotti

Nilde Iotti

Resistenza civile e Resistenza militare: tutto si è intrecciato nella storia di queste donne. Compresa la Resistenza all’estero: quella di Nadia Gallico in Francia; di Elettra Pollastrini, Rita Montagnana e Teresa Noce prima in Spagna nelle Brigate Internazionali, poi durante la guerra nei campi di concentramento e ai lavori forzati. Hanno subito il carcere e il confino anche Adele Bei (già attiva nel movimento di Liberazione in Belgio) e Maddalena Rossi, così come Angelina Merlin nei primissimi anni della dittatura.

Adele Bei

Adele Bei

Geograficamente le 21 elette rappresentano tutte le zone d’Italia: Trentino (2), Piemonte (3), Lombardia (2), Veneto (1), Liguria (1), Emilia Romagna (2), Toscana (2), Marche (1), Abruzzo (2), Lazio (1), Puglia (1), Sicilia (2). Nadia Gallico è nata a Tunisi ma ha forti legami con la Sardegna, terra d’origine del marito, Velio Spano, antifascista e perseguitato politico, anch’egli costituente.

angiola minella2Ben 14 delle elette hanno una laurea, le più in filosofia, lettere e pedagogia ma non mancano laureate in lingue e letterature straniere e in chimica.

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Maria Maddalena Rossi

Quattordici hanno lavorato come insegnanti/maestre; Lina Merlin è stata sospesa dall’insegnamento perché si è rifiutata di prestare giuramento al partito fascista, obbligatorio per i dipendenti pubblici; Bianca Bianchi perché insegnava cultura ebraica nelle sue ore di lezione. Le altre sono state operaie o artigiane (4), una ha lavorato come ispettrice del lavoro. Molte in alcuni passaggi della vita sono state redattrici/giornaliste, occupandosi principalmente della stampa e della propaganda rivolta alle donne. Alcune di loro proseguiranno questa attività anche durante o dopo l’attività parlamentare, la maggior parte di loro nella redazione di “Noi donne”, giornale dell’UDI.

Maria Nicotra

Maria Nicotra

Quattordici madri costituenti sono sposate al momento dell’elezione, molte di loro hanno figli. Lina Merlin è vedova da un decennio; Teresa Mattei, accompagnata ad un uomo sposato, rimarrà incinta durante i lavori dell’Assemblea costituente, la prima “ragazza madre” delle Istituzioni repubblicane. 5 le “coppie costituenti”: Teresa Noce e Luigi Longo; Rita Montagnana e Palmiro Togliatti, Nadia Gallico e Velio Spano; Maria de Unterrichter e Angelo Raffaele Jervolino; Angela Maria Guidi e Mario Cingolani.

Nadia Gallico Spano

Nadia Gallico Spano

Per alcune di loro la situazione familiare avrà ripercussioni sulla carriera politica: isolate progressivamente dal Partito dopo le separazioni da Togliatti e Longo, Rita Montagnana (che sarà abbandonata per un’altra costituente, Nilde Iotti) e Teresa Noce (che saprà dai giornali dell’annullamento del matrimonio da parte della Sacra Rota richiesto e ottenuto dal marito) usciranno in breve tempo dall’arena politica; Teresa Mattei, la “maledetta anarchica” nella definizione di Togliatti, “scandalosamente” incinta, entrerà in forte dissidio con un Partito moralista e bigotto e deciderà di non ricandidarsi alle elezioni del 1948. Tre comuniste: per loro lo “scandalo”, subìto o provocato, segnerà la fine dell’esperienza politica.

Elettra Pollastrini

Elettra Pollastrini

Ad esclusione di Mattei, che concluderà l’esperienza politica con la Costituente, la maggioranza delle costituenti, ben 8 di loro, si fermerà dopo la prima legislatura (1948-1953); 3 dopo la seconda (1953-1958), 5 dopo la terza (1958-1963), 3 dopo la quarta (1963-1968). Nilde Iotti, che tra i tanti primati[8] potrà vantare anche quello di essere stata la prima Presidente della Camera nel 1979, sarà eletta ininterrottamente fino alla XIII legislatura nel 1996, tre anni prima della sua morte.

Laura Bianchini

Laura Bianchini

Non tutte le madri costituenti prenderanno parte ai lavori della “Commissione dei 75”, composta da tre sottocommissioni. Della prima, che si occuperà dei diritti e dei doveri dei cittadini, farà parte Nilde Iotti; Maria Federici, Angelina Merlin e Teresa Noce saranno membri della terza, che si occuperà dei diritti economico-sociali. Nessuna donna farà parte della seconda, dedicata all’ordinamento costituzionale. Ottavia Penna si dimetterà dopo pochissimi giorni dalla Commissione dei 75, lasciando il posto all’on. Gennaro Patricolo. Angela Gotelli entrerà nella prima sottocommissione nel febbraio 1947 in sostituzione dell’on. Carmelo Caristia.

Angela Gotelli

Angela Gotelli

L’attività di queste 5 madri costituenti si concentrerà soprattutto sul ruolo delle donne nel nuovo assetto sociale, lavorativo e familiare, riuscendo a far inserire nella Carta articoli, commi e in alcuni casi poche ma significative parole (si pensi al “senza discriminazioni di sesso” dell’art. 3 Cost., che dobbiamo a Lina Merlin), che saranno alla base del successivo sviluppo della legislazione a garanzia dei diritti delle cittadine. Le altre 16 saranno molto attive in Assemblea generale con interrogazioni su vari argomenti, non solo concentrate su tematiche tradizionalmente femminili. Quello che colpisce, seguendo il filo delle attività che le lega l’una all’altra, è la consapevolezza che la partecipazione alla Costituente e il varo della Costituzione sono solo i primi passi di un più lungo e tormentato percorso che – sperano tutte, cattoliche, comuniste, socialiste – porterà all’uguaglianza sostanziale tra i due sessi. Per usare le parole di Teresa Mattei: «Il riconoscimento della raggiunta parità esiste per ora negli articoli della nuova Costituzione. Questo è un buon punto di partenza per le donne italiane, ma non certo un punto di arrivo. Guai se considerassimo questo un punto di arrivo, un approdo». Parole profetiche in un’epoca come la nostra dove i diritti delle donne – e con essi la partecipazione alla vita sociale, politica ed economica – sono rimessi costantemente in discussione.

Vittoria Titomanlio

Vittoria Titomanlio

NOTE:
[1] Elettra Pollastrini, Laura Bianchini, Teresa Noce, Adele Bei e Angela Guidi Cingolani.
[2] Adele Bei, Nadia Gallico Spano, Nilde Jotti, Teresa Mattei, Angiola Minella, Rita Montagnana, Teresa Noce, Elettra Pollastrini, Maria Maddalena Rossi
[3] Laura Bianchini, Elisabetta Conci, Filomena Delli Castelli, Maria De Unterrichter Jervolino, Maria Federici, Angela Gotelli, Angela Guidi Cingolani, Maria Nicotra, Vittoria Titomanlio

Maria De Unterrichter Jervolino

Maria De Unterrichter Jervolino

[4] Angelina Merlin e Bianca Bianchi
[5] In ordine di anno di nascita: Angelina Merlin, Rita Montagnana, Elisabetta Conci, Angela Guidi Cingolani, Vittoria Titomanlio, Maria Federici, Teresa Noce
[6] Maria De Unterrichter Jervolino, Laura Bianchini, Adele Bei, Maria Maddalena Rossi, Angela Gotelli, Ottavia Penna Buscemi, Elettra Pollastrini
[7] Maria Nicotra, Bianca Bianchi, Filomena Delli Castelli, Nadia Gallico Spano, Angiola Minella, Leonilde Iotti, Teresa Mattei
[8] Nel 1987 è incaricata dal Presidente della Repubblica Cossiga di mandato esplorativo per la soluzione della crisi di governo, sfociata poi nelle elezioni anticipate; un doppio primato: fu la prima donna e la prima comunista a ricevere tale incarico.

Articolo pubblicato nel dicembre del 2018.




L’internamento dei reduci antifascisti italiani di Spagna nei campi francesi (1939-1941)

La storia dell’internamento degli antifascisti italiani reduci dalla guerra di Spagna nei campi nel Sud della Francia è stata ingiustamente trascurata sia dalla memorialistica sia dalla storiografia italiana. Dal punto di vista delle memorie, probabilmente, ha influito il fatto che i cupi e monotoni anni di prigionia francese risultano, per i combattenti stessi, compressi e schiacciati tra l’esaltante vicenda spagnola e la successiva lotta resistenziale. Dal punto di vista storiografico, invece, il significativo vuoto si ricollega direttamente con il ritardo della storiografia francese che, complice forse la propria cattiva coscienza, ha iniziato a occuparsi della questione dell’internamento soltanto di recente, da quando sembra aver trovato il modo di inquadrare il fenomeno nel discorso pubblico della Francia democratica[1]. In Italia, a oggi, assenti completamente le traduzioni, l’unico a essersi occupato in modo approfondito dell’argomento è Pietro Ramella che, oltre alla curatela del volume di memorie di Riccardo Formica, in cui si descrive l’arrivo al campo di Saint Cyprien del gruppo di italiani guidato dal comandante Morandi, ha pubblicato nel 2003 un volume intitolato proprio La Retirada e nel 2012 un nuovo studio sul tema[2]. Si tratta di un testo che, però, fa riferimento prevalentemente a materiale edito e non apre alcuno spiraglio interpretativo per quanto riguarda la specificità italiana nella vicenda e che, del resto, non ha avuto, nonostante la novità del tema, né un’accoglienza particolarmente calorosa né una grande visibilità.

Foto André Alis

La Retirada ©André Alis

L’argomento, affrontato dal recentissimo Quaderno Isgrec Storie di indesiderabili e di confini[3], è insomma pressoché sconosciuto o ignorato agli storici nostrani e questo nonostante l’ampia mole di documentazione reperibile presso gli archivi francesi centrali e periferici in merito all’esperienza dei reduci di Spagna e, nello specifico, degli italiani nei campi. In particolare, negli Archives Départementales des Pyrénées Orientales a Perpignan (ADPO) per la documentazione pertinente ai campi cosiddetti “della spiaggia”, dove i volontari sono radunati nei primi mesi del 1939, e nell’Archive Départementale de l’Ariège a Foix (ADEA) in cui è conservato l’archivio del campo disciplinare del Vernet, in cui sono imprigionati i sospetti e i cosiddetti estremisti politici nelle fasi successive. Dell’esperienza dei campi rimane anche un’abbondante produzione documentaria di parte comunista, a cui alcuni storici hanno potuto avere accesso durante il troppo breve periodo di disponibilità alla consultazione, negli anni passati, degli archivi del Comintern raccolti a Parigi. Recentissimamente, la digitalizzazione dei documenti sovietici, presso il sito del Russian State Archive of Social-Political History (RAGSPI), ha aperto nuove frontiere in termini di accessibilità ai documenti sulla Spagna e sulle vicende successive dei membri delle Brigate internazionali.

David Seymour, La Retirada. Le Perthus, à la frontière franco-espagnole, février 1939 © Musée national de l'histoire et des cultures de l'immigration

David Seymour, La Retirada. Le Perthus, à la frontière franco-espagnole, février 1939 © Musée national de l’histoire et des cultures de l’immigration

I campi di internamento del Sud della Francia, in ogni caso, rappresentano un oggetto di studio particolarmente interessante proprio per quanto riguarda l’Italia perché moltissimi furono gli italiani che vi transitarono. Basti pensare che a Saint Cyprien, uno dei cosiddetti campi della spiaggia, gli italiani furono la terza nazionalità rappresentata fra gli internazionali, mentre a Gurs, quindi in uno dei campi dell’interno sorti in una seconda fase di stabilizzazione, furono probabilmente la seconda nazionalità presente. Il trattamento riservato loro fu in alcuni casi estremamente duro e non può essere compreso se non tenendo conto del più ampio arrivo di rifugiati spagnoli che si verificò tra la fine del gennaio e l’inizio del febbraio 1939 e che passò alla storia con il nome di Retirada. Fu un evento eccezionale per i tempi: in pochissimi giorni, a partire dal 29 gennaio, transitarono dai valichi franco-catalani circa 470.000 persone[4], un consistente e concentrato movimento di popolazione che prima di allora non si era mai registrato in un lasso di tempo così breve, un esodo impressionante che in sostanza non aveva precedenti nella storia europea.

Proprio su tale eccezionalità, del resto, si è basato negli anni il vasto impianto autoassolutorio francese costruitosi intorno a questi temi, mentre solo recentemente gli storici hanno riproposto la questione in termini di responsabilità, analizzando le carenze della politica di accoglienza francese o, secondo alcuni, la vera e propria assenza di una qualsivoglia politica[5]. Di fatto, però, la chiusura del governo d’Oltralpe si inseriva perfettamente nel clima maturato già negli ultimi mesi del 1938, quando termini come “indésirable” e “clandestin” erano diventati sempre più presenti nel dibattito pubblico e il radicale Edouard Daladier, tornato primo ministro, aveva fatto approvare un gran numero di decreti legge in particolare repressivi verso gli immigrati e i rifugiati. Fu proprio nel caso degli ex combattenti spagnoli e dei reduci delle Brigate internazionali, laddove meno potevano pesare gli appelli di carattere umanitario, che si palesò apertamente il focalizzarsi dello Stato francese sulla sicurezza e l’ordine pubblico, concretizzatosi nella chiusura totale della frontiera agli uomini in età di leva e nell’organizzazione allo scopo di un dispositivo militare e poliziesco molto efficiente.

Gli ormai ex volontari internazionali, che dalla smobilitazione erano concentrati in Catalogna, in campi organizzati su base nazionale, rimasero così bloccati in attesa che venisse deciso il loro destino. Solo alla fine del 1938 si avviò una lenta evacuazione: venne via via concesso il transito dei volontari originari dei paesi democratici, accolti e subito reindirizzati “chez eux”, mentre vittime dell’intransigenza crescente della politica francese furono soprattutto coloro che venivano dai paesi fascisti, che rischiavano al rientro di subire persecuzioni politiche. Fra loro gli italiani, per molti dei quali – per esempio per i disertori arrivati direttamente dall’Italia e passati nelle file repubblicane che rischiavano condanne molto pesanti, ma allo stesso tempo non godevano di nessun appoggio da altri paesi – trovare una via di uscita dall’imminente crollo del fronte divenne un dramma vero e proprio.

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Volontari in fuga concentrati nei “campi della spiaggia”

Alla fine, come successe per i civili, anche per i reduci stranieri la situazione precipitò di colpo sotto la pressione degli eventi, con l’ordine francese del 5 febbraio 1939 di lasciar passare tutti gli uomini accalcati presso i valichi di frontiera, compresi i miliziani armati pronti a forzare il passaggio in caso di rifiuto. Dall’altro lato del confine, però, i reduci delle BI non trovarono l’accoglienza che si aspettavano dalla vicina e amica Francia, dal paese che era stato per decenni il rifugio sicuro per i perseguitati politici di mezza Europa. Infatti, avendo il governo francese stabilito che tutti gli uomini in età di leva dovevano restare nel dipartimento di arrivo, cioè quello dei Pirenei orientali, l’unico modo di “accoglierli” era quello di disarmarli e raggrupparli in appezzamenti di terreno circondati da filo spinato sulle spiagge del Roussillon. Si tratta dei campi della spiaggia, dove i volontari furono radunati nei primi mesi del 1939, e cioè Argelès, Saint Cyprien e Barcarès.

Qui, in un contesto sempre più emergenziale, situazioni drammatiche sul piano materiale vennero accentuate dallo sconforto morale dei rifugiati, come testimoniato dai racconti anche italiani di quegli eventi, in cui spicca il momento simbolico della consegna delle armi e della bandiera al confine. Avrebbe ricordato Francesco Scotti,

I gendarmi francesi avevano già dato l’ordine di ammassare le armi da una parte. Ogni possibilità di continuare le operazioni anche con azioni di guerriglia era finita. I soldati mi circondarono e mi chiesero perché dovevano deporre le armi. “Entriamo in un paese amico o nemico?” […] Il primo incontro con la Francia libera ci raggelò il sangue più delle nevi delle montagne[6].

principali-campi-francesiL’arrivo in Francia si imprimeva così nelle memorie individuali, sia dei civili sia dei militari, come un evento ad alto coefficiente traumatico: l’idea di società nella quale si era creduto, e per la quale molti avevano combattuto, andava in frantumi e attraversare quel confine significava sancire una sconfitta tanto individuale e personale quanto collettiva e comunitaria. Lo spirito del Fronte popolare non c’era più e le proteste non ebbero, a quell’epoca, una base politica sufficientemente ampia né furono particolarmente durature; così, senza la forza della pressione popolare, a prevalere furono le congiunture e la volontà politica del governo conservatore. Iniziava per gli antifascisti il durissimo momento dei campi di internamento, che divennero, anche dal punto di vista spaziale, la prova tangibile delle spaccature createsi all’interno della società francese tra il 1938 e il 1948, in quelli che la storiografia ha recentemente definito il periodo degli “anni neri”, caratterizzati dall’esclusione dal tessuto sociale nazionale di coloro che erano considerati un peso dal punto di vista economico o un pericolo per la sicurezza interna.

Un nuovo capitolo biografico che sembrava aprirsi tra gli auspici più foschi, tra il freddo, il vento, la sabbia e le recinzioni delle spiagge francesi. Affacciati sul litorale, circondati da terreni acquitrinosi infestati da mosche e battuti dalla tramontana, i primi campi del Roussillon erano, in effetti, quasi completamente sprovvisti d’installazioni, semplici terreni sabbiosi delimitati dal filo spinato. A Saint Cyprien, per esempio, non era previsto alcun riparo, alcuna struttura, tranne un monumentale arco all’entrata del campo e saranno poi gli internati stessi a costruire i primi baraccamenti. Aldo Morandi, riguardo al suo arrivo durante la notte dell’8 febbraio, avrebbe scritto:

su un arco fatto di pali e assi di legno, una scritta “Saint Cyprien”. È l’entrata del campo ma non riesco a distinguere baracche o alloggiamenti, forse per l’oscurità […]. Avvolto nell’impermeabile, con il sacco da montagna sotto la testa come cuscino, ho tentato di dormire sulla sabbia umida e mi sento tutto intirizzito. […] Si è fatto giorno. Non vedo alcuna baracca, il campo d’internamento non esiste, è una nuda distesa di sabbia sul mare circondata da tre lati da filo spinato[7].

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Entrata del Campo di Vernet

Nonostante lo sconforto iniziale, però, la ripresa di una capillare organizzazione politica si ebbe proprio nei campi. In particolare in quelli dell’interno, sorti nelle fasi successive per ovviare al sovraffollamento delle strutture vicine alla frontiera, in seguito a un tentativo di riorganizzazione da parte del governo francese, resosi conto che non avrebbe potuto disfarsi molto rapidamente degli internati. In primis nel campo di Gurs, sui Pirenei orientali, dove gli internazionali vennero ricongiunti nel maggio 1939 e dove i 900 internati italiani si collocavano al secondo posto fra le nazionalità, e quindi in quello di Vernet, nella prefettura di Foix, che, in seguito all’applicazione della legislazione anticomunista francese varata nel settembre 1939, divenne un campo disciplinare, definito “a carattere repressivo”, dove inviare gli stranieri sospetti, gli estremisti o gli individui pericolosi per l’ordine pubblico o per l’interesse nazionale, e quindi gli ex volontari delle Brigate internazionali. Proprio l’altissima concentrazione di ben noti antifascisti fece via via del Vernet uno dei centri francesi ed europei della Resistenza al nazifascismo. Di fatto, l’internamento di un gran numero di dirigenti comunisti europei e di una buona parte dei dirigenti delle Brigate Internazionali lo trasformarono in uno dei principali centri dopo Mosca, dove particolarmente rilevante era la presenza di tedeschi, italiani e polacchi.

Nel microcosmo dei campi i reduci provenienti dalla Spagna videro via via riconsolidarsi quella solidarietà internazionale, nata in Spagna, che farà delle resistenze europee un momento di sintesi di aspirazioni e impegno militare e civile per antifascisti di diversa provenienza, nazionale e politica. In questi luoghi, dove gli italiani rimasero in media due anni (dal febbraio 1939, quando la Francia si vede costretta ad “accoglierli” nei primi reticolati sulle spiagge del Roussillon, fino alla primavera del 1941 quando l’Italia cominciò a pretenderne il rimpatrio), si svolsero vicende e fatti che influirono profondamente sulla costruzione in divenire delle identità dei futuri combattenti, ma che ancora di più determinarono il ricostruirsi, dopo la Spagna, dei networks cruciali nella successiva lotta europea al nazifascismo.

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Registro del campo di Vernet (©Isgrec)

Qui maturarono anche le competenze apprese sul campo di battaglia spagnolo, quella preparazione politica, tattica e militare che fece dei reduci italiani di Spagna, come ha ben evidenziato Paolo Spriano, “la punta di diamante” dei quadri dirigenti della lotta partigiana in Italia[8]. Nei campi, infatti, nonostante le condizioni di vita spesso durissime, la vicenda degli antifascisti italiani si declinò in un costante sforzo collettivo per la preparazione della futura lotta, percepita come ineluttabile e necessaria. Si andava dal concreto addestramento militare, come per esempio nel caso dell’empolese Pietro Lari, «esperto in tattica dei colpi di mano e di fabbricazione di esplosivo», che a Gurs aveva passato giornate intere ad addestrare i suoi compagni di prigionia alla fabbricazione delle bombe a mano[9], alla più generale preparazione culturale e politico-organizzativa dei militanti, derivata dai corsi e dal lavoro culturale svolto fra il filo spinato; tenendo conto anche, semplicemente, del quotidiano processo di condivisione di esperienze e insegnamenti tattici e strategici.

Insegnamenti che saranno messi a frutto dopo il rientro in Italia, per i più direttamente dal campo del Vernet (ultima tappa nell’itinerario dei campi), a seguito delle procedure di rimpatrio forzato avviate dalla Francia nel febbraio 1941 o volontariamente, a seguito della richiesta del Partito comunista italiano di fornire personale politico e militare per combattere. Una scelta, quella di tornare, che veniva messa in cantiere già dal 1941, ma che nella maggior parte dei casi si concretizzò solo fra il 1942 e il 1943: di conseguenza, molti antifascisti si ritrovarono a introdurre in Italia anche le tecniche e la metodologia d’azione tipiche del maquis francese.

Proprio in Francia, del resto, molti italiani scelsero di rimanere a combattere, dando in alcuni casi un contributo determinante alla costruzione dei gruppi locali. Già alcune evasioni dai campi, in effetti, erano state organizzate dalla nascente rete clandestina del maquis, la cui composizione era, prevalentemente, francese, ma in cui cominciavano a entrare fuorusciti italiani, spagnoli e “internazionali” reduci dalla Spagna. Nati come vere e proprie centrali d’evasione e di assistenza ai clandestini – in cui, di fronte alla crisi dei partiti dell’antifascismo e di associazioni come la Lidu, a rafforzarsi erano i legami di solidarietà personali – questi gruppi diedero via via inizio a una resistenza capillare, composta da una diffusa rete di formazioni militari di montagna e cittadine, queste ultime impegnate nell’organizzazione sistematica di sabotaggi e azioni di contrasto nei centri urbani. Basti pensare all’esempio dell’anarchico fiorentino Umberto Marzocchi, che nel 1941 si rifugiò sui Pirenei, nella zona del campo di Vernet, dove, sotto copertura, fu attivo proprio nell’attività di soccorso viveri agli internati e nell’organizzazione delle evasioni dal campo; collegatosi in seguito con la Resistenza francese della regione di Tolosa, partecipò alla liberazione del campo e nell’agosto 1944 entrò a far parte delle Forces Françaises de l’Intérieur (FFI) come vicecomandante di un’imprecisata unità spagnola[10].

Perpignan, Registro del campo di Argeles (©Isgrec)

Quelle degli antifascisti italiani reduci dalla Spagna sono insomma vicende biografiche compresenti in una serie di cornici: locali, nazionali, internazionali. Da un lato, perché il contributo consistente dato da questi uomini prima alla lotta contro Franco e poi contro il nazifascismo è comprensibile solo in virtù della convinzione, che li accomunava, del legame indissolubile fra la sorte della Spagna nel 1936 e quella delle democrazie europee tutte; dall’altro, perché i volontari stranieri furono vittime, loro malgrado, di politiche internazionali che li avrebbero voluti fuori dalla scena politica europea dopo il settembre 1938. Essi rappresentarono la pesante e tangibile eredità di un periodo che la velocità della politica internazionale aveva ormai spazzato via.

In particolare, il limbo nel quale vissero gli italiani e coloro che non poterono rientrare nel paese di origine testimonia quanto la guerra civile spagnola sia stata un conflitto che per essere capito fino in fondo deve essere declinato secondo categorie transnazionali. È quindi fondamentale analizzare le vicissitudini di questi combattenti dietro al filo spinato, seguirne l’iniziale sconforto e poi il risveglio politico fino allo svilupparsi nei campi di una complessa organizzazione clandestina, capire per esempio come fra gli italiani fosse gestita la difficile convivenza fra le diverse anime dell’antifascismo. Risolvere queste domande permette allora di colmare un significativo vuoto di conoscenze sugli anni decisivi che fanno da trait d’union fra la guerra di Spagna e la Seconda guerra mondiale, ma anche di porre dei punti fermi da cui ripartire per un’indagine sull’apporto dei reduci delle Brigate internazionali alla lotta contro il nazifascismo, indagine che ancora manca come evoluzione della storiografia sulla guerra civile spagnola.

Collettivo “El Cubri”, grafiva dfel disco “Cantata del exilio - ¿Cuándo volveremos a Sevilla?" Prima ed. Parigi 1976

Collettivo “El Cubri”, grafica del disco “Cantata del exilio – ¿Cuándo volveremos a Sevilla?” Prima ed. Parigi 1976

 

Note:

[1] Un’evoluzione esemplificata dal brillante lavoro di ricerca e divulgazione condotto sul sistema dei campi francesi da Denis Peschanski, con il suo volume La France des camps pubblicato da Gallimard nel 2002; una corposa opera di analisi in cui nulla si tace delle colpe della Francia di Vichy, la cui ampia diffusione è stata resa possibile da un clima culturale disposto finalmente ad affrontare quella memoria (D. Peschanski, La France des camps. L’internement 1938-1946, Gallimard, Parigi 2002).

[2] P. Ramella (a cura di), Morandi, Aldo. In nome della libertà: diario della guerra di Spagna 1936-1939, Mursia, Milano 2002; Id., La retirada: l’odissea di 500.000 repubblicani spagnoli esuli dopo la guerra civile, 1939-1945, Lampi di stampa, Milano 2003; Id., Dalla Despedida alla Resistenza. Il ritorno dei volontari antifascisti dalla guerra di Spagna e la loro partecipazione alla lotta di Liberazione europea, Aracne, Roma 2012.

[3] E. Acciai, I. Cansella, Storie di indesiderabili e di confini. I reduci antifascisti di Spagna nei campi francesi (1939-1941), Isgrec Quaderni 05, Effigi, Arcidosso 2017.

[4] Sulle stime governative fornite all’epoca e sul problema della loro attendibilità e completezza cfr. l’interessante punto della situazione presentato in G. Tuban (a cura di), Février 1939. La Retirada dans l’objectif de Manuel Moros, Mare nostrum, Perpignan 2008.

[5] Il dibattito in merito a questo tema è ricostruito accuratamente dal testo di J. Rubio, La politique française d’accueil: les camps d’internements, in P. Milza e D. Peschanski (a cura di), Exils et migration. Italiens et espagnols en France 1938-1946, L’Harmattan, Parigi 1994.

[6] D. Lajolo, Il “voltagabbana”, BUR, Milano 2005, pp. 163-164.

[7] Ramella (a cura di), Morandi Aldo. In nome della libertà, cit., pp. 221-222.

[8] P. Spriano, Storia del Partito comunista italiano. IV. La fine del fascismo. Dalla riscossa operaia alla lotta armata, Einaudi, Torino 1973.

[9] Archivio INMSLI, Fondo AICVAS, b. 23, f. 24. Anello Poma, Come vissero gli ex combattenti delle Brigate internazionali nei campi di concentramento francesi, s/d..

[10] I. Cansella, F. Cecchetti, Volontari antifascisti toscani nella guerra civile spagnola, Isgrec Quaderni 02, Effigi, Arcidosso, 2012.

Articolo pubblicato nel luglio del 2018.




Il vescovo Giovanni Piccioni: la Chiesa livornese tra fascismo e guerra

Giovanni Piccioni esercitò il suo ministero episcopale a Livorno dal 1921 al 1959. Quasi un quarantennio che lo vide al centro della scena in una diocesi tradizionalmente ritenuta tra le più difficili in Italia per i radicati fenomeni di irreligiosità e la presenza di una forte massoneria: un terreno difficile per lo sviluppo delle organizzazioni cattoliche [Bedeschi, 1983]. Alcuni studi hanno evidenziato le inequivocabili manifestazioni di deferenza al regime che caratterizzarono l’attività pubblica del presule durante il ventennio [Litrico, 2002; Mazzoni, 2009]: è indubbio che il vescovo salutasse con favore – specie in un contesto come quello livornese – l’inedita protezione che lo Stato fascista garantì alla religione cattolica, tanto più dopo i Patti lateranensi e la sanzione solenne del ruolo pubblico e ufficiale del cattolicesimo nella società italiana [Ceci, 2013].

Tuttavia a leggere nel suo complesso il messaggio pubblico di Piccioni si svelano i lineamenti di una strategia giocata su due tavoli, coniugando il caloroso appoggio al governo di Mussolini, i buoni rapporti mantenuti col federale di Livorno Umberto Ajello e, soprattutto, con la potente famiglia Ciano, con la frequente esteriorizzazione di una identità separata, discordante con le ambizioni totalitarie del fascismo, e coltivata anche nei confronti riservati col proprio clero e col laicato.

Monsignor Giovanni Piccioni e don Angeli (Archivio Centro Studi R. Angeli)

Monsignor Giovanni Piccioni e don Angeli (Archivio Centro Studi R. Angeli)

Indizi in questo senso punteggiano il suo ministero negli anni del fascismo, caratterizzato dalla particolare fermezza con cui si prodigò a difesa del clero e dell’associazionismo [Zargani, 1997], ed hanno la manifestazione più evidente nell’indizione dei sinodi diocesani del 1927 e 1938 (i primi in assoluto per la diocesi sorta nel 1806), nel secondo dei quali non si nascondevano gli obiettivi – come si legge nella lettera pastorale d’apertura – di una «restaurazione cristiana» del popolo. Va notato poi come immediata fu la reazione di Piccioni alla promulgazione delle leggi razziali: non sul piano pubblico, ma nella convocazione nel dicembre 1938 di un «incontro riservatissimo» a cui furono invitati i massimi dirigenti dell’Azione cattolica e alcuni sacerdoti (tra cui don Roberto Angeli) allo scopo di approntare una rete diocesana che favorisse «la collaborazione con i parroci e con le altre organizzazioni caritative per dare agli ebrei aiuti materiali e morali» [Erminia Cremoni, 1955].

Negli anni di guerra, fino alla destituzione di Mussolini, il presule alternò alle manifestazioni di lealismo patriottico, la vigorosa celebrazione della «missione indefettibile» del pontefice. Da un lato non si mancò di impetrare i «divini favori sull’Italia e sulle Forze Armate» nell’occasione della consacrazione dei soldati al Sacro Cuore di Gesù per la festa della Candelora del 1941 [«Bollettino Diocesano Livornese», n.1, 1941, p. 5], né furono meno solenni i momenti di invocazione alla “pace vittoriosa” come avvenne soprattutto nella imponente funzione del 16 maggio 1943 al santuario di Montenero in cui il vescovo, davanti a quarantamila livornesi, implorò la protezione della «Madre di Misericordia» sulla «nostra cara Patria», affinché potesse «presto intrecciarsi sulle bandiere al lauro dell’eroismo e della vittoria, l’ulivo della pace» [«Bollettino Diocesano Livornese», maggio, giugno, luglio 1943, p. 14]. Dall’altro, dal maggio 1942 al maggio 1943, la diocesi fu impegnata in un denso programma di celebrazioni per ricordare il giubileo episcopale di Pio XII, culminato con la festa di Cristo Re del 1942, nella quale Piccioni rievocò con forza gli obiettivi pacelliani di «ricostruzione della famiglia cristiana».

Dopo il 25 luglio, in linea con l’episcopato toscano, Piccioni mostrò di sposare la linea di pacificazione tracciata dal cardinale di Firenze Elia Dalla Costa pubblicando sul “Bollettino Diocesano” la notificazione del 31 luglio in cui l’arcivescovo di Firenze invitava i fedeli a rispettare le «legittime autorità» e richiamando «clero e popolo a uniformare la loro condotta ai principi che vi sono esposti» [«Bollettino Diocesano Livornese», maggio-giugno-luglio 1943, pp. 30-32]. Ed è significativo che il presule intese ribadire questa linea ancora nel marzo 1944, quando era ormai nota l’ampiezza dell’impegno di tanti cattolici nella Resistenza, dando spazio sull’organo ufficiale della diocesi, alla notificazione sul clero e i partiti pubblicata dal cardinale di Milano Ildefonso Schuster nell’ottobre 1943 con la quale si esprimeva la necessità che la Chiesa si mantenesse «fuori ed al di sopra di tutte le diverse competizioni d’indole politica» e si intimava esplicitamente all’obbedienza «secondo le leggi, alle legittime Autorità stabilite» [«Bollettino Diocesano Livornese», gennaio-marzo 1944, pp. 11-12].

Eppure è in questo contesto – che nel discorso pubblico non pare far emergere una significativa eccezione rispetto al coevo quadro regionale [Bocchini Camaiani, 2009] – che si sviluppò il Movimento cristiano sociale, senza dubbio uno dei gruppi cattolici di resistenza al fascismo più strutturati della Toscana, entrato nel Cln di Livorno già il 9 settembre 1943. Un contesto che appare di ancor più difficile lettura se solo si tenga conto che il gruppo strutturatosi intorno alla Fuci livornese ricevette a pochi giorni dall’armistizio una lettera degli assistenti don Angeli e don Amedeo Tintori che proponeva un invito aperto alla ribellione e affrontava esplicitamente il problema dell’obbedienza all’autorità costituita. Appellandosi al principio del diritto romano per il quale l’unico comando ammesso era quello proveniente dalla legge, si negava con forza ogni legittimità a comandi imposti con «la forza o la violenza o l’astuzia o l’arma di un uomo o di molti uomini» e si riaffermava che l’«unico governo legittimo», al quale era necessario «obbedire in coscienza», era «quello eletto secondo lo Statuto, il quale non è abrogabile se non per volontà concorde – liberamente e chiaramente manifestata – di tutto il popolo italiano» [Angeli, 1975, pp. 184-186].

Non può essere imputato a casualità anche il fatto che tra il clero legato a Piccioni non fu solo la figura di don Angeli ad emergere con un preciso profilo di antifascismo militante negli anni convulsi della guerra. Si è fatto ad esempio notare come tra i sacerdoti che più si impegnarono nella Resistenza nella diocesi di Massa Marittima-Populonia – retta con incarico ad personam dal vescovo di Livorno tra il 1924 e il 1933 – forti erano state le influenze esercitate dal presule livornese, assai diverso nel contegno verso il regime dal più allineato mons. Faustino Baldini che gli successe: è il caso di don Ivo Micheletti, che presiedette il Cln di Piombino, e di don Ivon Martelli, che fu a capo di quello di San Vincenzo, entrambi compagni di studio di don Angeli negli anni ’30 presso il Seminario Gavi di Livorno [Tognarini, 1995, p. 83]. Nel gennaio 1943 Piccioni non si fece scrupolo neanche nell’accogliere nella sua diocesi il lucchese don Antonio Vellutini, il quale era noto per il suo sbandierato antifascismo (tanto da essere inviato per qualche anno in una sorta di “confino” presso Montalto Uffugo in Calabria), e che, non a caso, presiedendo il Cln di Vada, fu assoluto protagonista delle azioni di difesa della popolazione contro l’occupante tedesco nel paese della costa livornese.

Piccioni 002È oltre il messaggio pubblico che, evidentemente, vanno ricercate le ragioni del fiorire in seno alla Chiesa di Piccioni di certi temi e personalità. La disponibilità completa delle carte dell’Archivio diocesano di Livorno potrebbe forse sbrogliare definitivamente certi nodi, tuttavia alcuni punti fermi emergono già con chiarezza. Intanto è il profilo biografico precedente la carriera episcopale di Piccioni a fornire più di una traccia: nella Pistoia di inizio Novecento il presule ebbe trascorsi di prete democratico-cristiano, avendo in  Toniolo e, soprattutto, in Murri i suoi ispiratori; fu tra gli organizzatori della prima Settimana Sociale del 1907 e sedette sui banchi del consiglio comunale di Pistoia dal 1903-1909 come leader dell’opposizione alla giunta socialista; nel primo dopoguerra, nominato vicario della diocesi pistoiese, entrò in rotta di collisione con le prime manifestazioni squadriste del fascismo [Angeli, 1977]. Inseriti in questo percorso non stupiscono né l’influenza che il vescovo esercitò nella formazione del fratello più piccolo Attilio, poi leader di punta della Dc degasperiana [Fanello Marcucci, 2011, pp. 15-21] né il fatto che tramite l’altro fratello Ulisse, questore a Torino, egli si procurasse letture vietate dal regime che poi metteva a disposizione dei suoi seminaristi. Fu così, ad esempio, che al Seminario Gavi si poté leggere nella sua prima stesura in francese del 1936 l’Humanisme Intégral di Jacques Maritain [Noce, 2004, pp. 84-85].

Si sostanzia dunque su questi presupposti il percorso di formazione intellettuale che condusse alcuni giovani sacerdoti della diocesi livornese a manifestare con precocità una matura coscienza politica e democratica. La scelta di Piccioni di nominare don Angeli e don Tintori assistenti ecclesiastici della Fuci nel 1939 appare in questa luce frutto di un progetto ponderato: i due sacerdoti erano inseriti in un circuito di relazioni che annoverava personalità come Guido Calogero, Giorgio La Pira, Igino Giordani e il gruppo che ruotava attorno alla rivista pisana “Il crivello” diretta da don Telio Taddei  e frequentavano già da un triennio le Università pontificie romane: in particolare don Angeli alla Gregoriana era venuto in contatto con un ambiente in cui «si respirava un’aria chiaramente antifascista» [Angeli, 1975a]. È, ad esempio, significativo che il sacerdote facesse derivare l’acquisita consapevolezza di una antitesi tra il cristianesimo e il totalitarismo nazista dalla frequentazione nel 1937 delle lezioni di etica fondamentale del professor Louis Chagnon: come annota don Angeli «non venivano citati, per iscritto, esempi concreti di stati totalitari (salvo gli stati comunisti), ma si indicavano come fautori della “statolatria”, Schelling, Hegel ed altri autori tedeschi. Gli studenti dovevano trarre da sé le conclusioni». Erano argomentazioni alle quali il sacerdote attinse a piene mani per dar forma a quella che lui stesso definì la «resistenza ideologica organizzata» dei cattolici livornesi: in particolare, a partire dal 1941, quegli argomenti vennero utilizzati nell’organizzazione delle lezioni pubbliche tenute presso il Cenacolo di studi sociali di S. Giulia nelle quali vennero pubblicamente criticate le tesi naziste e il concetto fascista dello stato [Merli, 1978]: si trattava di momenti di formazione a cui parteciparono studenti universitari, operai, allievi dell’Accademia Navale che ebbero l’esplicito appoggio del vescovo Piccioni che ne dava notizia sul “Bollettino Diocesano”.

Articolo pubblicato nel giugno del 2018.




MICHELE BARUCH BEHOR: da Cutigliano ad Auschwitz

L’alba del 21 gennaio 1944 fu tragica per la famiglia Baruch, composta da ebrei livornesi sfollati presso la pensione Catilina di Cutigliano, paese posto sulla montagna pistoiese lungo la strada verso l’Abetone. Per quella mattina erano stati convocati nella locale caserma dei carabinieri che li avrebbero inviati a un cupo destino, quello dei campi di concentramento nazi-fascisti.

La famiglia, emigrata a Smirne in Turchia nel 1920 alla ricerca di lavoro, aveva fatto ritorno a Livorno nel 1933 ed era composta da Isacco e Cadina, marito e moglie, rispettivamente di 54 e 44 anni  e dai loro figli, Michele (24 anni), Clara (17 anni) , Susanna (19 anni) e Marco (14 anni).

Erano ebrei sefarditi, discendenti cioè degli ebrei che alla fine del XV secolo i re cattolici di Spagna e Portogallo avevano deciso di espellere dai loro regni, facendo fortuna poi nell’impero ottomano nel quale avevano trovato rifugio. I sefarditi si erano poi diffusi lungo le rive del Mediterraneo e quindi anche in Italia dove si stabilirono soprattutto a Ferrara e Venezia prima e in Toscana poi. I granduchi medicei favorirono con le “Costituzioni leonine” lo stanziamento degli ebrei, in particolar modo a Livorno. Intorno agli anni Trenta del XX secolo la comunità ebraica della città labronica contava su circa 2.300 persone ed era una delle più consistenti della penisola.

Michele, che sarà il solo superstite della famiglia, nel 1933 lavorava alla Società Italiana del Litopone, produttrice di una miscela di solfato di bario e solfuro di zinco che dava il nome all’azienda. Con l’avvento delle leggi razziali, nel 1938, perse il suo impiego e la sua famiglia riuscì a sopravvivere solo grazie all’appoggio della locale comunità ebraica. In una sua testimonianza afferma di aver lavorato anche sotto falso nome per la Todt, un’impresa di costruzioni operante in Germania e poi negli altri paesi occupati che in Italia provvide alla costruzione di parte della linea Gotica, aggiungendo che “dopo una decina giorni i repubblichini, scoperto che ero ebreo, mi consigliarono con tono quasi bonario di abbandonare quel lavoro“.

P.ne Catilina2MG

Foto gentilmente concessa da Simone Breschi e Gianna Tordazzi

Le famiglie di origine ebrea vivevano nella zona del porto, occupandosi di cantieristica e nel centro storico intorno alla Sinagoga, cioè nelle zone più soggette ai bombardamenti alleati della primavera/estate 1943. Diversi gruppi familiari, fra cui i Baruch, decisero pertanto in quei mesi di spostarsi in zone ritenute più sicure. Molti si rifugiarono nell’entroterra fra Livorno e Grosseto e sulle colline pisane, altri andarono più lontano, nelle zone di Firenze, Lucca, Arezzo. Alcune famiglie si recarono in Garfagnana sfruttando la rete di conoscenze acquisite con le donne di servizio che tradizionalmente scendevano a Livorno da quelle zone. Altre decisero di spostarsi nei paesi della Toscana settentrionale, secondo alcuni direttamente su indicazione della Delasem, la Delegazione per l’Assistenza agli ebrei Emigranti, creata nel 1939 dall’Unione delle Comunità israelitiche per favorire la fuga agli ebrei che erano rimasti bloccati in Italia.

Fu in seguito a questo insieme di situazioni che i Baruch giunsero sulla montagna pistoiese e precisamente a Cutigliano. Quel che accadde loro nel piccolo paese dell’Appennino pistoiese lo sappiamo dallo stesso Michele che, a quarant’anni circa da questi fatti decise di far conoscere il calvario della propria famiglia attraverso un breve dattiloscritto, attualmente conservato presso la biblioteca della comunità ebraica di Livorno.

Una volta catturati, i membri della famiglia Baruch furono condotti prima nel carcere di Pistoia e da qui, dopo dieci giorni, alle Murate a Firenze. Nel carcere fiorentino i Baruch rimasero quindici giorni fra atroci sofferenze prima di partire per Fossoli, presso Carpi (MO), dove vissero circa un mese. Da qui, caricati su un carro bestiame assieme ad altre settanta persone circa, furono indirizzati verso una destinazione a loro originariamente ignota, che si rivelerà essere il campo di concentramento di Auschwitz. Per il viaggio di dieci giorni dice Michele nelle sue memorie “ci era stato dato un fiasco d’acqua e dei barattoli di marmellata e di pane“.

All’arrivo i superstiti furono posti in file di cinque davanti alle Kapò e al temuto dottor Mengele. Lavati, depilati con “rozzi rasoi” e cosparsi di creolina, furono condotti all’aperto in attesa del vestiario, cioè la nota divisa a righe e un paio di zoccoli di legno e, come si legge nelle memorie, delle “mutande pidocchiose appartenute a qualche altro deportato deceduto“. Michele ricorda quindi con dolore la marchiatura  sulla pelle del numero di matricola che ha portato sino alla morte, il 174474 e quella, con lo stesso numero, del vestito.

L’autore rammenta chiaramente a distanza di anni le lotte con i prigionieri già presenti nel campo per conquistare un posto nei letti a castello e gli appelli, fatti spesso alle tre del mattino, con accanto ai sopravvissuti le cataste costituite dai  corpi dei compagni deceduti durante la notte, perchè “all’atto della conta, doveva tornare il numero preciso” dei prigionieri.

Il loro lavoro consisteva nel “portare pietroni sulle spalle o con un carrettone o portare via i cadaveri dalle baracche per condurli ai forni crematori“, accompagnati dalle note di  Rosamunda, una polka della cui versione tedesca nel 1938 erano state vendute più di un milione di copie. Colpisce il fatto che questo stesso dettaglio è citato nell’opera “Se questo è un uomo” di Primo Levi.

Il pranzo era costituito da una brodaglia di rape, la cena che arrivava dopo un altro estenuante appello, da un po’ di margarina.

Michele afferma che solo dopo un po’ di tempo scoprì la funzione della ciminiera “le cui fiamme uscivano dipinte di mille colori“. In quel momento sentì mancargli il terreno sotto i piedi perchè fu solo allora che comprese che i suoi cari, non appena divisi dal dottor Mengele, erano stati destinati alle camere a gas e non alle docce come promesso. Il pezzo di sapone e l’asciugamano che avevano ricevuto erano stati insomma un vile inganno.

Nel suo breve dattiloscritto l’autore cita le baracche destinate all'”ospedale” (in realtà i locali dove venivano effettuati gli esperimenti dei medici nazisti) e fa riferimento alle esecuzioni capitali tramite “fucilazioni e tortura“.

Michele afferma di essere stato scelto, poi tramite il consueto appello, per andare a lavorare in un altro campo, quello di Monovitz, in polacco Oswiecim, a 7 km. da Auschiwitz, dove fu impiegato come manovale per scavare fosse e scaricare sacchi di cemento.

La mattina del 26 febbraio 1945 fu fatta una selezione per individuare gli inabili al lavoro che, si diceva, sarebbero stati destinati a un “lager di riposo“. La reale destinazione dei prescelti erano i forni crematori. Terminato l’appello Michele e altri giovani furono condotti in una fabbrica di armi e pezzi di ricambio per carri armati e autoblinde, la Buna Weke. Per i lavoratori di questa fabbrica i maggiori rischi erano dati dai bombardamenti alleati, quattro complessivamente, che colpirono la struttura e dal fatto che durante questi i tedeschi si recavano nei rifugi chiudendo i prigionieri nei locali con il rischio di rimanere sepolti vivi sotto le eventuali macerie.

L’ultima destinazione di Michele fu Buchenwald, da lui definito un campo di “eliminazione”, dove giunse dopo otto giorni di viaggio sotto i bombardamenti.  Michele, ormai pieno di sporcizia e di “bolle per mancanza di vitamine“, venne adibito a lavorare a un tunnel e riuscì a sopravvivere a diverse epidemie di tifo.

La mattina del 26 febbraio i russi fecero finalmente irruzione nel campo liberando i superstiti. Michele era ridotto a pesare solo 31 chilogrammi. Dopo quattro mesi di cure e una dieta “a base di brodo di carne senza ulteriori aggiunte” per evitare sforzi eccessivi a un corpo estrememamente delibitato, Michele potè tornare nell’amata Livorno dove però non aveva più nessuno che lo aspettasse e soprattutto pochissimi a credere ai suoi racconti. Ritornerà con la moglie nei campi di concentramento molti anni dopo.

Il breve dattiloscritto si conclude con un toccante appello di Michele “Noi scampati lotteremo con tutte le nostre forze perchè tutti si sentano fratelli ed amici, per il progresso che vada sempre avanti nella libertà e nella democrazia, affinchè nessuno abbia più a vivere la triste storia dei campi di sterminio“. Il semplice racconto di Michele si pone quindi nella scia delle testimonianze di molti altri reduci dai campi di sterminio, come ad esempio Primo Levi. Non è solo un resoconto breve, anche se circostanziato dei fatti, ma anche un invito, rivolto a tutte le persone, a fare in modo, attraverso il ricordo e l’impegno quotidiano, che questi tragici eventi non debbano ripetersi più, a far si che certe ideologie, sconfitte dalla storia, non debbano riapparire.

Andrea Lottini (Montecatini Terme, 1975) si è laureato in Scienze Politiche nel 2001 con una tesi sulla formazione professionale e in Scienze Religiose nel 2015 con una tesi su Egeria, pellegrina del IV secolo. Attualmente è insegnante di religione presso gli istituti comprensivi di San Marcello Pistoiese e di Agliana.

Articolo pubblicato nel gennaio del 2018.