Quella “storia ottocentesca” di un figlio di N.N.

Si ringrazia Franco Bertolucci della Biblioteca “Franco Seratini”1 per il tempo messo a disposizione e l’intervista concessa all’autore.

Chiunque abbia vissuto – o anche solo frequentato – per qualche tempo in una città universitaria ricorda certamente, pur senza esservisi soffermato attentamente, il ricco campionario di affissioni, scritte e adesivi che ne coprono i muri: autentica testimonianza di quel caratteristico underground di associazioni, circoli, collettivi e centri sociali vicini all’estrema sinistra e al movimento anarchico, questi veri e propri archivi murali sono particolarmente ricchi nei pressi dei dipartimenti universitari, e la città di Pisa non fa eccezione. In quella che fu una delle capitali italiane del ’68 non c’è angolo dove non ci si imbatta in qualcuno di questi “reperti”: in via Padre Bruno Fedi, dietro al polo universitario Porta Nuova, “A” stilizzate, simbolo dell’anarchia, disegnate con una bomboletta spray a coprire croci celtiche fasciste; scritte nere contro i “ricercatori di morte” e la pratica della sperimentazione animale; adesivi contro la TAV e a sostegno del Rojava, del movimento “Non una di meno” e del recente sciopero mondiale per il clima tenutosi il 15 marzo; in piazza San Frediano, la cui chiesa un tempo ospitava messe in suffragio di Mussolini, svetta una grande falce e martello nera; infine, in via Pietro Toselli, non lontano da Palazzo Gambacorti, sede dell’amministrazione comunale, il volto in bianco e nero di un giovane con i capelli ricci, che ricorda un poco – salvo l’assenza di barba – la celebre fotografia di Che Guevara scattata da Alberto Korda a L’Avana nel 1960. È lo stesso volto la cui fototessera correda una scheda dell’AVIS, che sorride con il pugno alzato sulla prima pagina del settimanale anarchico Umanità Nova – “la polizia ha assassinato un altro nostro compagno”, recita il titolo – e che campeggia sulla copertina della prima edizione del libro di Corrado Stajano “Il sovversivo”, edita da Einaudi nel 1975, a tre anni dalla morte di quel giovane dai capelli ricci che ne era il protagonista.

Cantava il Canzoniere Pisano che “Era il sette di maggio, giorno delle elezioni | e i primi risultati giungan dalle prigioni | c’era un compagno crepato là | era vent’anni la sua età”: le prigioni sono quelle del carcere “Don Bosco” di Pisa, dove il “compagno” ventenne, il giovane anarchico Franco Serantini – questo il nome del giovane “sovversivo”, protagonista dell’omonima ballata del Canzoniere e di molte altre – muore alle 9.45 del 7 maggio 1972, a seguito delle violente percosse subite per mano dei reparti della celere, che hanno caricato il corteo di protesta organizzato da Lotta Continua contro il comizio del parlamentare Giuseppe Niccolai del Movimento Sociale Italiano. Corteo al quale Serantini non aveva partecipato se non nelle sue fasi finali, senza mai unirsi al resto dei manifestanti, dopo aver passato il pomeriggio alla sede del circolo AVIS del quale era socio, vicino alla piazzetta dove Niccolai sta tenendo il proprio comizio: il ragazzo, poco più che uno spettatore isolato, è facile preda dei poliziotti, le cui manganellate provocheranno una emorragia cerebrale fatale per il giovane, nato a Cagliari il 16 luglio 1951 da genitori ignoti (“figlio di nn”), un’infanzia passata fra il brefotrofio, due famiglie adottive e tre diversi istituti: l’ultimo di questi è il riformatorio “Pietro Thouar” di Pisa, dove il giovane viene mandato nel 1968, dopo una breve permanenza presso l’Istituto per l’osservazione dei minori di Firenze. La sua è una “storia ottocentesca”, ha scritto Stajano “ai limiti dell’invenzione settaria”, quella di un giovane “alla ricerca di qualcosa che lo compensi di ciò che non ha mai avuto” e finisce per trovarlo – come molti suoi coetanei – nel gusto dell’attivismo politico, avvicinandosi inizialmente alle organizzazioni giovanili di PCI e PSI, poi a Lotta Continua e infine aderendo al gruppo anarchico “Pinelli” di Pisa alla fine del 1971. Soltanto pochi mesi dopo Franco avrebbe trovato la morte, vittima di una intera catena che va ben oltre i poliziotti che l’hanno massacrato in Lungarno Gambacorti, e passa per le guardie e il personale medico del carcere fino al procuratore generale Mario Calamari, che cerca di ostacolare le indagini sull’accaduto: Serantini entra suo malgrado in quella genealogia di vittime delle forze dell’ordine – e di uno Stato venuto meno al proprio ruolo, sancito dalla Costituzione – che arriva fino ai giorni nostri: la Scuola Diaz, Federico Aldrovandi, Stefano Cucchi.

Fin dai giorni immediatamente successivi alla sua morte, quella del giovane anarchico figlio di nn – fa notare Franco Bertolucci, ideatore della biblioteca “Franco Serantini” e fondatore della BFS edizioni – è una memoria che divide profondamente la città: una parte di essa, la Pisa conservatrice della borghesia e dei baroni universitari, già ostile alle istanze studentesche e operaie di fine anni ’60 – bollate in toto come “violente”, nonostante la violenza sia soprattutto quella delle forze dell’ordine – “non ha voluto condividere la memoria di Serantini per una scelta di classe, di opposizione a quelle rivendicazioni giudicate “moralmente nefaste”, che mettevano in discussione poteri e privilegi acquisiti a cui non si voleva rinunciare”. Contro questa damnatio memoriae si erge però tutta quella parte della società che vuole invece conservare e tenere vivo il ricordo di Franco: una memoria, sottolinea ancora Franco Bertolucci, nella quale si possono riconoscere tre livelli: uno intimo e personale; uno collettivo e laico; infine uno di natura politica. “Il caso Serantini”, afferma Bertolucci, “coinvolge persone, amici e conoscenti di Franco, fortemente colpiti da questa tragedia e che negli anni, individualmente, hanno cercato di mantenere vivo questo ricordo attraverso gesti “anonimi” che testimoniano questo affetto: […] i mazzi di fiori, i bigliettini e le poesie lasciati sulla tomba o nei pressi del monumento, ma anche alcune lettere inviate nel tempo alla nostra stessa biblioteca e/o a riviste”.

Su questo primo livello se ne innesta un secondo “laico e civile, di quella parte della città che ha adottato Serantini post mortem, perché resasi conto della grave ingiustizia da egli subita, e facendo sì che la sua memoria non restasse nel libro dei ricordi di una comunità ristretta”: è l’opera di tutta quella parte della società civile che si impegna per la verità giuridica (nel 1974 gli avvocati Massei e Sorbi promuovono la costituzione di un “Comitato giustizia per Franco Serantini”) e per valorizzare gli ideali e le utopie di Franco, tramite la ricchissima produzione intellettuale di scrittori, artisti e musicisti nel corso degli anni, da Franco Fortini a Costantino Nivola fino allo stesso Stajano, il cui libro permette di far conoscere la vicenda in Italia e all’estero. La stessa Biblioteca Serantini, fondata nel 1979, è un importante tassello di questo mosaico, che negli anni ha promosso tante iniziative nel ricordo di Franco, contribuendo all’inaugurazione del monumento che ancora oggi si trova in piazza San Silvestro (o, come la chiamano ancora oggi i militanti anarchici e della sinistra radicale, “piazza Serantini).

Da ultimo si situa il livello politico della memoria del Serantini militante rivoluzionario, anarchico e antifascista: una memoria entrata fin da subito nel patrimonio dei circoli libertari e dell’estrema sinistra, della quale il nostro piccolo adesivo seminascosto in via Toselli non è che una testimonianza. Ancora oggi le organizzazioni che popolano l’underground della sinistra pisana rivendicano questa memoria, ciascuno secondo le sfumature della propria formazione politico-culturale. Un esercizio della memoria che dura tuttora, e che, ricorda ancora Bertolucci, è parte di una più vasta battaglia: non più giuridica – in quasi cinquant’anni nessun rappresentante istituzionale ha mai riconosciuto l’ingiustizia inflitta a Serantini – ma storica, nel momento in cui questa battaglia assume, oggi più che mai, una valenza che è anche politica.

1La Biblioteca “Franco Serantini” ha lanciato una campagna nazionale di sottoscrizione per l’acquisto di una nuova sede: tutte le informazioni a questo link.

Articolo pubblicato nell’aprile del 2019.




L’operaio che guidò la Regione Toscana

Gianfranco Bartolini, classe 1927, nasce a Fiesole il 17 gennaio e proprio questa terra, dove abiterà fino alla sua scomparsa nell’ottobre del 1992 segna in modo indelebile la sua attività, politica e istituzionale. Autodidatta (ha la quinta elementare), figlio della sua generazione, dove il mestiere si imparava “a bottega”, all’età di otto anni inizia a lavorare come fabbro presso il negozio del padre Domenico in via Matteotti a Fiesole.

A quattordici era già operaio allo stabilimento delle Officine Galileo dove l’impegno politico e antifascista, certamente attinto in ambito familiare – il padre era stato consigliere comunale socialista prima dell’avvento al potere del fascismo – comincia a farsi largo nell’indole di un ragazzo che, già dalla giovanissima età, mostrava convinzioni culturali e impegno civile. Più volte ricordato come uomo ‘del fare’, Bartolini sussume pienamente quel clima di militanza collettiva, di impegno civile e municipale che caratterizza gli anni successivi al dopoguerra, avendo già partecipato come partigiano alla lotta di liberazione nel 1944. Proprio la Resistenza rappresenta un capitolo molto importante per la sua vita e per la sua città natale, Fiesole. Durante la terribile esperienza del passaggio del fronte nell’estate del 1944, anche quest’ultima fu infatti gravata – in particolare nel mese di agosto – dal peso e dalla violenza dell’occupazione nazista, culminante nel noto eccidio dei tre carabinieri. In questa fase i Bartolini svolsero un ruolo molto importante. Mentre il padre di Gianfranco si impegnò a lungo per aiutare la popolazione locale a sopravvivere nella situazione di emergenza, il figlio – al tempo diciassettenne – fu protagonista di alcune azioni di guerra con la “Banda partigiana di Fiesole” (poi diventata SAP di Fiesole) dipendente dal CLN cittadino fino alla liberazione avvenuta il 1° settembre.[1]

Le Officine Galileo segnano un altro momento fondamentale della sua vita. Dopo aver rivestito il ruolo di Segretario nella Commissione interna della grande fabbrica fiorentina, venne infatti chiamato alla segreteria della Camera Confederale del Lavoro di Firenze negli anni ’60 del XX secolo, diventandone segretario nel 1965. Dirà di lui Giorgio Napolitano che proprio il suo impegno come dirigente sindacale, la sua militanza politica, l’esperienza del lavoro in fabbrica sono state le prove superate con serietà, impegno e sobrietà che gli hanno permesso di diventare un autentico uomo di governo.

Solo 6 anni più tardi, nel 1971, ebbe l’incarico di segretario regionale della Confederazione generale italiana del lavoro (CGIL), entrando nel Direttivo nazionale della CGIL e della Federazione nazionale CGIL-CISL-UIL.

Ma il legame con le radici rimase sempre inalterato e l’impegno politico lo vide entrare nell’amministrazione comunale di Fiesole giovanissimo. Già nel 1951, all’età di 24 anni, capolista del Partito comunista, riportò 215 voti di preferenza a fronte dei 644 voti ottenuti da Luigi Casini, rappresentante del Partito socialista e figura emblematica dell’antifascismo fiesolano. Alle elezioni amministrative successive (nel 1954, quando lo stesso Casini conseguirà 341 voti e Gianfranco 510) viene rieletto e riconfermato Assessore ruolo che manterrà fino al 1964.

Il suo sguardo attento di Assessore al bilancio non mancava di osservare i limiti oggettivi della cittadina collinare e il difficile rapporto con il capoluogo di Regione; è nel commentare il bilancio del 1964 che ebbe a dire:

Fiesole è oggi sempre più pressata dai bisogni che sono bisogni propri di una città moderna, una città che adesso è un po’ la periferia di Firenze […] È un problema che investe un po’ tutti i Comuni limitrofi, ma specialmente Fiesole ne risente in misura maggiore per cui il suo bilancio va sempre più in deficit. [Noi] non siamo certo in grado, oggi, di poter assicurare a Fiesole questi servizi che dovrebbero essere, io penso, in dotazione ad una città moderna, e forse non lo saremo mai […]. Fiesole ha un po’ il carattere di “Città – dormitorio”, infatti il Capoluogo ha avuto un certo sviluppo edilizio costituito da una serie di villette per il ceto medio, mentre nelle frazioni si è visto uno sviluppo per l’edilizia popolare per operai, ecc. …[2]

D’altro canto l’economia era la sua “fissazione”, non solo per retaggio sindacale, ma anche per la convinzione che il modello toscano dei distretti fosse un successo e che quindi intrecciare impresa, infrastrutture, attrezzature del territorio, mondo dell’università e della ricerca fosse il perno sul quale progettare il futuro. Bartolini aveva la percezione, e ciò emerge spesso nei suoi discorsi, che i meccanismi di globalizzazione in atto stiano portando l’industri italiana, il sistema produttivo, l’economia in generale verso il declino.

Sarà il 1975 a segnare la sua piena maturità politica, quando già Consigliere provinciale a Firenze, venne eletto con la seconda legislatura al Consiglio della Regione Toscana: nella lista del Pci e nella circoscrizione di Firenze, riportò 9.488 preferenza e divenne Vicepresidente della Giunta Regionale (Vicepresidente di Lelio Lagorio e, dal settembre 1978, di Mario Leone) con la responsabilità diretta della programmazione economica e del bilancio.

Alle consultazioni successive, giugno 1980, conquistò 15.489 preferenze e per questo è confermato nei suoi incarichi Vicepresidente e Assessore (sempre a programmazione e bilancio, con Presidente Leone) divenendo – dal 31 maggio 1983 – presidente della Giunta, carica che assume, pur modesto e schivo di carattere, con il fermo impegno di tentare la ricerca di soluzioni di governo e la collaborazione con realtà internazionali facevano perno sull’idea e sulla pratica della programmazione.[3]

Le vicende politiche regionali lo portano, infatti, alla guida di un governo “quasi” monocolore, retto da una scarsa maggioranza che godeva di un’altrettanto scarsa fiducia, soprattutto da parte dei vecchi alleati del Psi, che lo consideravano debole, soprattutto a causa del suo insediamento sociale “limitato alla classe operaia”.[4]

Eppure ci si dovette ricredere e accettare che il temuto monocolore rappresentasse, in realtà, una risorsa volta verso un impegno comune per l’innovazione del sistema produttivo, un confronto diretto con le forze sociali, con l’imprenditoria, con la Chiesa e con le Forze armate. Dall’’85 al ’90, con la fine naturale della terza legislatura, l’alleanza di governo sarà più ampia: una compagine determinata dal rientro dei socialisti e l’avvento dei socialdemocratici; ma per le Regioni saranno anche gli anni più difficili: da una parte il Governo le considera meri uffici decentrati dall’altra il Parlamento legifera  in tutti i campi regionali.

Gianfranco Bartolini affronta la sfida da riformista e regionalista convinto. Del resto, già nel 1984, come Presidente di turno della Conferenza dei Presidenti delle Regioni, aveva consegnato al Presidente della Commissione bicamerale per le riforme istituzionali, Aldo Bozzi, la proposta della Camera delle Regioni. Un Governo Regionale in fieri e in via di stabilizzazione, uno sviluppo delle autonomie locali, un’idea – insomma – regionalista e autonomista della quale Bartolini si fa portavoce e promotore in grado di accettare e gestire le sfide della modernità, facendo perno sull’idea e sulla pratica della programmazione:

Bartolini si cimenta in particolare modo con un’idea di programmazione “concordata e contratta”, e lo fa con modernità e apertura; batte e ribatte su esigenze cruciali di innovazione; non si chiude in vecchie visioni statalistiche ma sostiene “nuovi rapporti tra pubblico e privato”, difende “una sorta di gemellaggi tra la Regione e le imprese”, suggerisce “intese che si propongano di suscitare investimenti e occupazione, di dare risposta ai problemi dello sviluppo tecnologico, di affrontare quelli dell’ambiente e delle infrastrutture”.[5]

Rimarrà in carica per l’intera durata della quarta legislatura del governo toscano, fino al 1990, mantenendo ininterrottamente la delega per le politiche della programmazione e i rapporti con il Parlamento, il Governo e Comunità Europea. Come era nella sua natura, o forse come gli aveva insegnato l’esperienza, negli anni in cui si pone a guida della Regione Toscana non perse occasione per intrecciare rapporti di varia natura: il dialogo e il confronto si sviluppava verso ogni espressione della società toscana partendo dalla cittadinanza, passando per il mondo dell’industria e dell’imprenditoria, rivolgendosi all’associazionismo e alle cariche vescovili, fino alle più alte sfere istituzionali. Questa fitta rete di relazioni rispecchiava la sua naturale tendenza alla concretezza nell’agire locale, legandosi, d’altra parte, a un’interpretazione dei fatti globale e internazionale. Non a caso poi, all’inizio del 1989, di fronte alla Commissione parlamentare per le questioni regionali, traccia un importante bilancio del regionalismo italiano esordendo proprio con la dimensione europea di questo movimento[6].

Gianfranco Bartolini esprime un riformismo forte. Ancorato alla fermezza dei valori, alla fine degli anni ’80 già intravedeva un’era di crisi politica, l’assenza di grandi propositi di rinnovamento dovuta, forse in parte, anche alla paralisi delle istituzioni marchiate da un centralismo soffocante che alimentava “le diseguaglianze e il divario fra le aree del paese, aprendo varchi pesanti a larghe fasce di illegalità e a fenomeni che reclamavano la centralità della questione morale”. La libertà, affermava, non può tradursi nelle ingiustizie e nelle inefficienze che vanno mortificando l’intera società e piegando la democrazia agli interessi dei più forti.[7]

Non solo sull’economia tout-court si basava però la sua azione di governo: la difesa del suolo,[8] il regionalismo, l’autonomia statuaria, le “aree vaste” come risposta alla crisi della società toscana. Su quest’ultimo tema, affrontato per la prima volta in maniera organica in occasione del dibattito in Consiglio regionale, avviato dall’approvazione del Programma regionale di sviluppo 1988-1990, Bartolini svilupperà un’approfondita analisi sulle difficoltà che il sistema policentrico toscano stava affrontando sul piano economico. Se le strategie interne non sono più in grado di garantire le condizioni necessarie e i livelli di efficienza adeguati per attestarsi sui mercati sarà necessario “individuare nuovi ambiti, all’interno dei quali sia possibile stabilire le condizioni necessarie per annullare le diseconomie esistenti e per rilanciare il policentrismo, che è un valore nella nostra regione, ma ad una scala diversa e meno angusta, se vogliamo stimolarne il rilancio e fargli ritrovare il dinamismo del passato”. [9]

Gianfranco Bartolini muore a Firenze il 10 ottobre 1992.

Elena Gonnelli, archivista, direttrice della sezione Montecatini Terme-Monsummano dell’Istituto storico lucchese, collaboratrice dell’Istituti storico toscano della Resistenza e dell’età contemporanea per il quale ha curato l’inventario del fondo G. Bartolini  e la mostra “Gianfranco Bartolini: il sindacalista, l’amministratore, il Presidente”.

Note:

[1] I. Tognarini in La Toscana e il Riformismo: una riflessione a 15 anni dalla scomparsa di Gianfranco Bartolini, Associazione Autonomie Locali Legautonomie Toscana, Pisa, 2009, p. 22.

[2] G. Bartolini. Il governo regionale cit., pp. 13-15.

[3] Archivio Comunale di Fiesole, Delibere del Consiglio Comunale, Serie I, n. 44, 25/03/1964

[4] P. Ranfagni, Il coraggio della sfide, in Gianfranco Bartolini. Un uomo del popolo alla guida della Regione, a cura di P. Ranfagni, Direzione generale della Presidenza Giunta Regione Toscana, Firenze, 2014, pp. 20-24.

[5] G. Napolitano, Presentazione in G. Bartolini. Il governo regionale, a cura di M. Badii, F. Gigli, P. Ranfagni, Edizioni della Giunta Regionale, Firenze,1995, p. 14.

[6] Archivio Gianfranco Bartolini, d’ora in avanti AGB, Scritti e discorsi, b. 10, 33.14, 1989.

[7] I. Tognarini in La Toscana e il Riformismo, cit., pp. 19-28.

[8] Bartolini stigmatizzerà più di una volta la mancanza di una normativa nazionale per la difesa del suolo, lamentando in generale l’assenza dello Stato su queste tematiche, facendo particolare riferimento all’alluvione del 1966 di Firenze e la Toscana. Cfr. AGB, Scritti e discorsi, b. 8, 30.33 e 30.36, 1986.

[9] AGB, Scritti e discorsi, b. 9, 32.15, 1988. Sul concetto di “area vasta” (compresa la Firenze-Prato-Pistoia) e su quello, conseguente, della Città-metropolitana Bartolini tornò molte volte, anticipando il varo della legge 142/90.

Articolo pubblicato nel luglio del 2018.




Fernando Melani, un “incantatore di atomi”

Fernando Melani (1907-1985) fu artista pistoiese e ricercatore scientifico cosmopolita. Partendo dalle riflessioni sulla materia e sull’atomo portò avanti una ricerca creativa vicina a correnti come l’Arte Povera, l’Arte Concettuale e la Minimal Art, anticipandone in alcuni casi gli esiti. Molte sue opere oggi trovano sistemazione presso la casa-studio Fernando Melani a Pistoia.
Donatella Giuntoli, amica e studiosa di Fernando Melani, affermò che “Melani si poteva configurare nell’immaginario pistoiese come un manipolatore di particelle o un incantatore di atomi”. In questa frase è racchiusa l’essenza profonda di un uomo del Novecento che ha votato la sua vita alla sperimentazione sulla materia.

Melani passò gran parte della sua esistenza a Pistoia. Nacque a San Piero Agliana (PT), secondogenito di una famiglia borghese, il 25 marzo 1907 e morì a Pistoia nel marzo 1985. Nel 1937, di rientro da un’esperienza lavorativa a Novara, entrò in possesso dell’abitazione familiare in Corso Gramsci a Pistoia, dove abitò per tutta la vita con un’unica parentesi legata allo sfollamento per i bombardamenti del 1943/44.
Lo spartiacque del secondo conflitto mondiale cambiò drasticamente il modo di pensare di Fernando portandolo a una completa rielaborazione delle sue priorità, si dedicò all’arte e sposò un’assoluta essenzialità, sostituendo ogni suo abito con una tuta blu (accompagnata da una sciarpa gialla) ed eliminando ogni accessorio domestico dall’abitazione, compresi cucina e termosifoni. La casa di Corso Gramsci divenne così il luogo della creatività, lo studio, dove gli ‘atomi potessero essere liberi di vagare per le stanze’, mentre l’esterno acquisì una funzione legata alle necessità fisiche, gestite attraverso una rigorosa routine. Melani, infatti, mangiava sempre nel medesimo ristorante e frequentava regolarmente i soliti centri d’aggregazione.
Nell’“immaginario pistoiese”, un tessuto culturale ampio e variegato, Melani era inserito per analogia o contrasto, la sua era una socialità fatta di provocatorie discussioni e biunivoci rapporti di crescita. Lo si poteva incontrare al Cafè du Globe, al bar Piemontese o al bar Valiani, a pranzo e a cena alla trattoria Autotreni in Porta al Borgo, oppure a discutere animatamente presso la Libreria dello Studente di Giovanni Tellini. In questi ambienti era entrato in contatto con molte personalità (come Luigi Bruno Bartolini, Alfiero Cappellini, Gianfranco Chiavacci, Donatella Giuntoli, Remo Gordigiani, Giulio Innocenti, Lando Landini, Antonio Nespoli, Renato Ranaldi, Giovanni Tellini); ma manteneva sempre un occhio vigile nei confronti di un macrocontesto, non strettamente locale, stringendo rapporti con figure importanti come Luigi Ardemagni, Ettore Bonessio di Terzet, Silvio Ceccato, Luciano Fabro, Ernesto Galeffi (in arte Chiò), Rosy Novella, Fiamma Vigo, Marisa Volpi.
Il suo essere Fernando, assieme al modo di esplicarsi verso l’esterno, è una diretta emanazione dei suoi valori scientifico-razionali, in questo le definizioni di “manipolatore di particelle” e “incantatore di atomi” tentano di inquadrare, a loro volta, il processo intellettuale melaniano in un sistema razionale. La sua attività non è semplicemente definibile in categorie standardizzate e univoche, infatti, se da un lato si può identificare come artista astratto, dall’altro vanno ricordati i suoi slanci di ricercatore scientifico, di scrittore, di teorizzatore, di fotografo e altri aspetti che il recente lavoro di sistemazione dell’archivio ha approfondito. Possiamo, quindi, concepire il suo lavoro come se fosse accomunato dall’unico obiettivo di analizzare la verità dell’universo, in altre parole l’atomo; il suo lavoro diviene così uno strumento e non il fine ultimo della ricerca. Solo in quest’ottica possiamo comprendere opere come le ‘macchine semplici’, meccanismi funzionali e funzionanti finalizzati alla sperimentazione sonora o fisica; oppure le riflessioni spaziali legate alle opere ‘bucato’ e ‘bandiera’; o ancora lo studio della casualità, opere nate dalla sedimentazione di materiale nel corso del tempo.
In questo rapporto tra materia, esistente e teoria risiede la ricerca artistico-scientifica di Fernando Melani. Dal 1950 comincia a esporre le prime opere già definibili ‘astratte’ e per più di quarant’anni continua la sua attività collaborando con vari centri d’arte pistoiesi come la Galleria Studio La Torre o la Galleria Vannucci; arriva anche a Firenze e a Milano grazie alla fruttuosa collaborazione con Fiamma Vigo; nel 1972 partecipa assieme a Luciano Fabro a ‘Documenta 5’ presso il Museo Fridericianum di Kassel in Germania. Tra i suoi numerosi scritti ricordiamo: Davanti alla pittura (1953), Addio Giulio! (1955), Chiò e Melani, due indirizzi della pittura plastica formativa (1956), Un’analisi critica di Fernando Melani, Quadri di John Forrester (1960), Astratto vecchio nuovo ed oltre (1963-64), Universo Evoluzione Arte (1979).
Oggi la sua eredità intellettuale e culturale è portata avanti dalla Casa-studio Fernando Melani, sita in Corso Gramsci 159, di proprietà del Comune di Pistoia e gestita dall’ U.O. Musei e Beni Culturali dello stesso comune. Nella casa-studio, accessibile su prenotazione, è possibile immergersi completamente all’interno di un ambiente creativo unico nel panorama culturale pistoiese e toscano.

Lorenzo Sergi ha conseguito la laurea magistrale in Archivistica con la prof.ssa Laura Giambastiani svolgendo una guida dell’Archivio di Fernando Melani. Collaboratore esterno per istituti di ricerca, ha svolto e svolge attività di valorizzazione culturale, per bambini e adulti, in enti e associazioni del territorio. Tra le sue pubblicazioni: SERGI L. (a cura di), Catalogo di mostra I 7 Antichi, le carte dell’Archivio Storico comunale di Monsummano Terme, in «Caffè Storico. Rivista di studi e cultura della Valdinievole», anno I, n. 2, Monsummano Terme, Istituto Storico Lucchese, 2016; Ricerca fotografica e fotografie in LOMBARDI M., PALANDRI A., SERGI L., Jorio raccontato ai bambini, Buggiano, Edizioni Vannini, 2013.

Articolo pubblicato nel gennaio del 2017.




A fronte alta davanti al padrone.

Il 7 novembre 2016 abbiamo avuto un interessante colloquio con Gennaro Meli, responsabile della Federterra di Carmignano negli anni Cinquanta-Sessanta. Proponiamo il testo dell’intervista ai lettori di ToscanaNovecento.

Quando e dove sei nato? Che ricordi conservi della tua infanzia?
Sono nato a Carmignano il 31 gennaio 1922, in una famiglia di mezzadri. I miei genitori lavoravano in un podere che era di proprietà di diversi padroni. La Carmignano di quand’ero ragazzo era un paese che si reggeva sull’agricoltura, dove i rapporti interpersonali erano diversi, molto diversi, da come sono oggi. Rammento ancora quando ci si riuniva, per esempio in occasione della vendemmia: c’era quello che cantava di poesia, quello che suonava, ed il clima era festoso, riuscivamo a scordare, per un momento, le difficoltà della vita. Non c’era, allora, l’individualismo che c’è oggi, la solidarietà, anche quella di classe, non era una parola vuota e questo rappresentava un punto di forza per gli organizzatori, per il movimento contadino.

Come ti sei avvicinato al sindacato e quali cariche hai coperto al suo interno?
Tornato dal servizio militare, fui colpito dall’impegno che, tanto a livello locale quanto a livello nazionale, i dirigenti del Partito comunista e della CGIL mettevano per migliorare le condizioni di vita dei contadini. Fu così che decisi di impegnarmi a mia volta, di cercare di dare il mio contributo. Si trattò di una scelta non facile e non priva di conseguenze perché, allora, chi militava attivamente nel sindacato veniva boicottato dai padroni e spesso non riusciva a trovare lavoro: io ho provato questo sulla mia pelle. In seguito sono diventato responsabile della Federmezzadri di Carmignano che, almeno fino alla fine degli anni Cinquanta, gravitava su Firenze più che su Prato. Io avevo rapporti diretti con Vittorio Magni, segretario della Federmezzadri provinciale, e spesso mi recavo in via dei Servi, dove avevano sede il partito e la Camera del lavoro. Ho pubblicato anche diversi articoli sui problemi dei contadini della mia zona sull’Unità e su Toscana nuova.

Puoi dirci qualcosa sulle condizioni dei contadini del Carmignanese negli anni Cinquanta-Sessanta?
Molto dipendeva dal tipo di podere che il mezzadro coltivava: se il podere dava olio, vino, frutta il contadino stava meglio, ma, in generale, si può parlare di condizioni di vita difficili: in tanti dovevano tirare la cinghia. I carichi di lavoro erano pesantissimi, la meccanizzazione insufficiente, le condizioni delle abitazioni pessime. In molte case i servizi igienici mancavano od erano cattivi, non c’era la corrente elettrica, non c’era l’acqua. Dove abitavo io, ad esempio, per procurarsi l’acqua bisognava fare un chilometro a piedi per arrivare ad una sorgente, portandosi dietro le mezzine. Nella fattoria di proprietà della contessa Lepri, nella zona di Artimino, le case dei contadini erano dei veri tuguri. Ricordo che quando andai a parlare con la contessa per chiederle di far eseguire dei lavori di miglioramento, mi voleva denunciare. “Non vedo l’ora – le dissi –, mi denunci, così poi ci facciamo due risate insieme”.

Quali erano le principali rivendicazioni dei mezzadri di Carmignano?
Oltre al miglioramento delle coloniche, le richieste più importanti riguardavano, come altrove, i contributi unificati, l’imponibile di manodopera, la meccanizzazione ed una modifica del riparto dei prodotti che, tenendo conto degli apporti reali, assegnasse al mezzadro una quota superiore al 50%.
Io avevo organizzato in modo capillare la Federterra, creando più gruppi di dieci-quindici contadini, ognuno con un suo capogruppo, per un totale di circa cinquecento mezzadri. Quando si trattava di fare una riunione, portavo l’avviso ai capigruppo e nelle case di campagna. Per parlare con la controparte, si formava una delegazione. I proprietari, spesso, non si presentavano e le trattative si svolgevano coi fattori, che adottavano una tattica dilatoria, sostenendo di dover riferire al padrone perché non potevano prendere determinate decisioni e così via. Con alcuni proprietari ci furono scontri molto duri, in specie col conte Contini Bonacossi, proprietario della Fattoria di Capezzana, la più grande della zona. Il conte aveva incaricato il fattore, un certo Del Giallo, di discutere con noi la questione dell’addebito ai mezzadri dei contributi unificati. I contadini erano stati costretti a firmare un documento in cui accettavano di pagare i contributi. Io però riuscii a convincerli a ritirare la firma. Si costituì poi una delegazione composta di una ventina di mezzadri e si andò da Del Giallo che, con fare altezzoso, rifiutò di riceverci. Io gli risposi a tono ed alla fine la battaglia fu vinta.

Il sindacato cattolico era forte tra i contadini della zona?
La CISL era forte dove c’erano molti coltivatori diretti, ma fra i mezzadri la sua presenza era una presenza minoritaria. Nel Carmignanese il sindacato cattolico era radicato in certe zone di tradizione bianca, moderata, Era questo il caso di Artimino: rammento che una volta io e Vieri Bongini, responsabile del movimento contadino pratese, giunti ad Artimino per un comizio, ci trovammo di fronte alla piazza completamente vuota. Il comizio però andava fatto perché i contadini conoscessero le nostre idee, le nostre proposte: “Non ti preoccupare – dissi a Vieri –, tanto nelle case ci sentono”. E parlammo lo stesso.

Che giudizio dai oggi della mezzadria e come hai vissuto la sua crisi?
L’istituto mezzadrile era un istituto superato perché non riusciva a soddisfare i bisogni della famiglia colonica, perché non garantiva un reddito soddisfacente ai contadini. Questo è sicuro. Però alla fine della mezzadria non è seguito qualcosa di meglio, è seguito il nulla. Occorreva una riforma agraria strutturale, che desse ai contadini la terra ed i mezzi per lavorarla. Ma questo non è mai avvenuto a causa delle resistenze dei proprietari. Come risultato abbiamo avuto lo spopolamento delle campagne, e questo, certamente, è stato un male.

Articolo pubblicato nell’ottobre del 2016.




Un Partigiano di nome Annibale

Nato a Pistoia (Santomato) il 19 gennaio 1922, figlio di Leonardo e Capponi Maria Ida, Annibale Trinci ottiene la licenza elementare, contadino poi elettricista e operaio alla fabbrica pistoiese San Giorgio dall’ottobre del 1939, iscritto alla CGIL dove si compie la sua educazione di classe, in quella che negli anni ‘40 era una fucina di militanti operai comunisti. Nel 1941 Trinci è chiamato alle armi all’Elba a Portoferraio nel genio foto elettricisti; partecipa dal 18 novembre 1942 al 21 gennaio 1943 alle operazioni di guerra svoltesi nel Mediterraneo con la 105a Compagnia mista genio mobilitato e poi dal 7 febbraio 1943 al luglio 1943 e dal 9 agosto 1943 all’8 settembre 1944 nelle operazioni nel Mediterraneo per la difesa della patria a copertura costiera con la 105a Compagnia Mista Genio Mobilitato.

Dal 22 marzo 1944 per ordine della dirigenza della San Giorgio è trasferito nella sede di Cambiano, vicino Torino, da lì inizia la sua esperienza da partigiano con il nome di battaglia “Marco Polo”. È a Cambiano che Annibale incontra Giordano Bruschi e Olga Arcargioli. Giordano, di origine pistoiese, si era diplomato in ragioneria a Genova ed era stato assunto a 19 anni alla San Giorgio di Cambiano, introdotto dallo zio, il primo settembre 1944 come impiegato contabile per i settori della mensa e del magazzino; nonostante la giovane età diverrà ben presto, con il nome di battaglia “Giotto” commissario politico della 30a Brigata delle SAP “Capriolo”. Olga, in fabbrica dal primo luglio 1943 come impiegata stenodattilografa, anche lei diciannovenne, si ritrova nel tumulto della guerra e diventa una fida staffetta.
A Cambiano s’incontrano due classi operaie: una proveniente da Pistoia, l’altra da Sestri Ponente. I pistoiesi erano diretti da Trinci e Niccolai, impiegato originario di San Marcello. Il gruppo genovese era un nucleo storico nato in seno all’esperienza di “Soccorso Rosso” nel 1936 che aveva dato vita alla solidarietà ai compagni impegnati nella guerra civile in Spagna. La fabbrica genovese aveva una peculiarità: non aveva dirigenti fascisti, ma due ebrei, che non avevano mai fatto discriminazioni nell’assunzione di antifascisti. A Cambiano, fabbrica di armi di precisione, i BGS, arrivano quindi operai già politicizzati.

annibale e amiciDal 1o settembre 1944 Annibale Trinci s’iscrive al Fronte della Gioventù per l’indipendenza nazionale e la libertà nel comitato regionale Piemontese, nella sezione di Torino, VI zona, la zona delle Langhe. In seguito è garibaldino della XIV divisione del Piemonte della brigata d’assalto Garibaldi “Luigi Capriolo”, guidata dal Comandante Kin. In pieno accordo con i compagni del P.C.I. fu deciso di inviare Trinci presso una formazione “Giustizia e Libertà”, a Pino d’Asti, vicino Cambiano, precisamente nella IX G.L. al Comando del Maggiore Alberti, con il preciso compito di formare entro queste bande delle cellule del Partito Comunista, e intanto stabilire solidi collegamenti fra il Partito e i partigiani.
Nel novembre del 1944 si assiste a un rastrellamento nazifascista d’ingenti dimensioni, le divisioni se pur a conoscenza dell’imminente attacco subiranno perdite e feriti. Il 20 novembre 1944 Annibale Trinci combatte ed è ferito nella battaglia di Aramengo, vicino ad Asti sulle colline del Monferrato. Riconosciuto combattente partigiano dalla commissione regione Piemonte, Annibale Trinci ha partecipato dal 3 settembre 1944 al 8 maggio 1945 in territorio metropolitano astigiano con la qualifica di Sergente Maggiore Capo con la formazione partigiana IX divisione “Giustizia e Libertà” comandata dal capitano Oreste Gastone Alberti, dal 6 settembre 1944 (già combattente nel Veneto nelle formazioni “Giustizia e Libertà” e della 1a divisione alpina) Divisione Pedro Ferreira, nella III “Brigata Montano”, nello specifico nella colonna “Biz”(Luigi), e sulla brigata “Domenico Tamietti”. Tra il febbraio e il marzo 1945, fa parte anche di gruppo gappista che si occupava di far saltare i binari della ferrovia, nella zona di Villa Stellone, una stazione a circa tre chilometri da Trofarello. Il 18 aprile 1945, durante lo sciopero, Trinci occupa militarmente Trofarello e Cambiano e arrestando i fascisti armati. Il 21 maggio 1945, riconosciutagli l’attestazione di buona condotta dal prefetto, è ammesso come volontario nella Polizia del Popolo. Trinci era stato anche nominato capo della polizia interna alla fabbrica per garantire l’integrità della fabbrica, a causa di furti nello stabilimento, e successivamente di preparare il materiale sui vagoni merci diretti a Genova e Pistoia.

Nell’ottobre del 1945 riprende servizio alla fabbrica San Giorgio di Pistoia. Nel 1950 Annibale si sposa con Roberta Giannini, dalla quale avrà le figlie Manuela e Tamara. Il 29 novembre 1951 a causa di un infortunio sul lavoro durante un cantiere in Abruzzo perde una gamba; inizia questa volta una lotta con l’ingiustizia burocratica per il riconoscimento dell’infortunio, tanto che si occuperà del caso anche il sindacalista comunista Giuseppe Di Vittorio. Nel 1955 è licenziato dalla fabbrica essendo considerato “non adatto ai lavori di stabilimento”. Per la sua passione e attività nel dopoguerra ricopre varie cariche, è dirigente dell’ANPI di Pistoia, dirigente dell’Associazione invalidi di Pistoia, dirigente PCI della sezione di Porta Lucchese. Muore il 1 agosto 1981.

Alice Vannucchi è ricercatrice presso l’Istituto storico della Resistenza e della società Contemporanea di Pistoia, è membro della redazione della rivista “Quaderni di Farestoria”, è docente nella scuola primaria dal 2007. Fra le sue pubblicazioni: Il rientro in città: il problema degli alloggi, in Pistoia fra guerra e pace a cura di M.Francini, I.S. R.Pt. Editore, 2005. Teorie di democrazia in Italia e Francia nel dopoguerra in “Quaderni di Farestoria”,anno VIII-n2 maggio –agosto 2006,pag.61-69. Le scuole di partito nel PCI di Togliatti.Il caso toscano (1945-1953) in “Quaderni di Farestoria”,anno XII-n 2- maggio –agosto 2010,pagg.33-45. Ha curato la mostra e il numero monografico Cupe Vampe: la guerra aerea a Pistoia e la memoria dei bombardamenti, ISRPt. Attualmente si occupa di storia sociale e storia dell’editoria.

Articolo pubblicato nel dicembre del 2015.




Giovanni Tellini libraio ed editore

Giovanni Tellini (Firenze 1932-1984)  a fine anni ’60 lasciò Firenze, da poco alluvionata, e approdò a Pistoia.

In corso Gramsci, davanti alle sede del PCI pistoiese, aprì una piccola libreria variegata, confusionaria, piena di cose nuove …  la libreria ben presto si guadagnò l’esagerata nomea di “libreria di Mao”. Frequentata da politici, intellettuali e artisti diventò un punto di riferimento nella geografia culturale della città.

Poi il salto di qualità: nella piccola stanza senza finestra Tellini  partorì l’idea della casa editrice ed iniziò a pubblicare. Dall’arte, alla poesia, dalle prime guide turistiche ai saggi storici, il panorama si ampliò in poco tempo, le pubblicazioni  avevano recensioni e buon riscontro di vendita.
Il grande amore di Giovanni, la Maremma, grazie ad un incontro con il “custode di Roselle” Morbello Vergari (e poi con Alfio Cavoli),  divenne  musa di un’appassionata serie di pubblicazioni sulla “amara terra” e  su gli etruschi.  In quasi venti anni i titoli, frutto di questa piccola casa editrice di provincia, arrivarono a più di un centinaio.
Non da meno erano i nomi degli autori,  ed amici, che si raccoglievano intorno a Giovanni Tellini: Giovanni Michelucci, Claudio Rosati, Renato Risaliti, Domenico Maselli, i giornalisti Valeriano Cecconi e Maurizio Tuci, artisti come Fernando Melani e Sigfrido Bartolini. Una parentesi che valeva la pena di raccontare per una figura autodidatta, un uomo timido ed ironico, libraio e editore ricordato  a distanza di trent’anni dalla morte con affetto e stima.

Alice Vannucchi  è ricercatrice presso l’Istituto storico della Resistenza e della società Contemporanea di Pistoia,  è membro della redazione della rivista “Quaderni di Farestoria”, è docente nella scuola primaria dal 2007. Fra le sue pubblicazioni: Il rientro in città: il problema degli alloggi, in Pistoia fra guerra e pace a cura di M.Francini, I.S. R.Pt. Editore, 2005. Teorie di democrazia in Italia e Francia nel dopoguerra in “Quaderni di Farestoria”,anno VIII-n2 maggio –agosto 2006,pag.61-69. Le scuole di partito nel PCI di Togliatti.Il caso toscano (1945-1953) in “Quaderni di Farestoria”,anno XII-n 2- maggio –agosto 2010,pagg.33-45. Ha curato la mostra e il numero monografico Cupe Vampe: la guerra aerea a Pistoia e la memoria dei bombardamenti, ISRPt. Attualmente si occupa di storia sociale e storia dell’editoria.

Articolo pubblicato nel gennaio 2015.




La Resistenza continua…

Angiolo Gracci nacque a Livorno il primo agosto 1920, da una famiglia con radici contadine. Fu condotto presto dalla Toscana alla Sicilia a causa del mestiere del padre, ferroviere che diresse in successione le stazioni di Sciara Aliminusa e Castellammare del Golfo tra il 1926 e il 1929.

La permanenza nei centri palermitani, dove il piccolo venne inquadrato nelle strutture educative fasciste, lo colpì profondamente e lo rese poi sensibile alla questione del divario socioeconomico Nord-Sud e al disagio materiale di larga parte della popolazione meridionale. Nei suoi racconti agli studenti, durante gli ultimi decenni di vita, affiorava spesso il ricordo di esser stato l’unico ad indossare le scarpe in quella stalla riadattata che era l’aula della scuola elementare frequentata in Sicilia.

 Al termine del  liceo classico Galilei di Pisa, il giovane Gracci si spostò a Roma per frequentare l’Accademia e Scuola di applicazione della Regia Guardia di Finanza e ottenere così l’arruolamento nel Corpo il 23 ottobre 1939. Nominato sottotenente il primo settembre 1941, venne inviato in Albania nel gennaio seguente tra le truppe d’occupazione italiane, con le quali partecipò alle operazioni di guerra.

Rientrato in Italia, il 9 settembre 1943 fu assegnato al Comando della Legione di Firenze della Guardia di Finanza. Assistendo così all’invasione nazista dell’Italia, Angiolo fondò con altri studenti della sinistra del Gruppo Universitario Fascista fiorentino il Movimento giovani italiani repubblicani. Conclusa questa breve esperienza, la maggioranza degli aderenti al gruppo si schierò con la Repubblica Sociale Italiana. Gracci, preso contatto col futuro Commissario Politico della Divisione Arno Danilo Dolfi – del suo stesso quartiere – scelse invece la via della montagna.

Gracci – in alto a destra – con altri partigiani della Brigata Sinigaglia a Monte Scalari, estate 1944

Gracci – in alto a destra – con altri partigiani della Brigata Sinigaglia a Monte Scalari, estate 1944

All’inizio del giugno 1944 Angiolo, che diventava così il partigiano “Gracco”, raggiunse la Brigata Sinigaglia presso Poggio alla Croce, con l’incarico di Capo di Stato maggiore conferitogli dal Corpo volontario della libertà. Un mese più tardi, su designazione del Comando di divisone e dietro conferma dei partigiani, assunse il comando della formazione stessa, riorganizzandola dopo le gravissime perdite subite nella battaglia di Pian d’Albero del 20 giugno 1944.

Compromessa l’importanza strategica di Monte Scalari per i nazifascisti, contribuì a sottrarre all’accerchiamento e alla distruzione la Brigata raggiungendo Poggio Firenze e Fonte Santa. Dopo ulteriori combattimenti, passando alla testa delle avanguardie dell’VIIIª Armata britannica, la Sinigaglia riuscì ad entrare a Firenze il 4 agosto 1944. Soltanto grazie ad una tenace opposizione all’iniziale ordine alleato di disarmare, le formazioni partigiane garibaldine ottennero di partecipare alla liberazione cittadina. “Gracco” condusse allora il rastrellamento dei quartieri di Santo Spirito e San Frediano, che furono liberati dai franchi tiratori nazifascisti. Guidando poi una pattuglia di esplorazione sui piazzali ferroviari di San Iacopino, rimase ferito in combattimento il 13 agosto ma riprese poi il comando della Brigata fino alla smobilitazione.

Nell’aprile 1945 venne pubblicato il suo Brigata Sinigaglia, primo libro edito in Italia sulla Resistenza partigiana, a cura del Ministero dell’Italia occupata. Gracci avrebbe poi ricevuto la medaglia d’argento al valor militare nel 1954.

 Intanto, conclusa l’esperienza partigiana, Angiolo riprese servizio attivo nella Guardia di Finanza il 7 settembre 1944, al Comando della Legione di Firenze. Nell’agosto 1948 gli venne conferito per anzianità il grado di Capitano, ma la sua permanenza in Finanza si fece sempre più travagliata. Non tanto per i gravi e recidivi problemi di salute che determinarono una lunga aspettativa, quanto piuttosto per le difficoltà relazionali all’interno del Corpo.

Gracci infatti, che sin dal 1944 aveva aderito al PCI ed era stato tra i membri costituenti del Comitato provinciale dell’ANPI fiorentino, non aveva mancato di manifestare pubblicamente il suo orientamento in varie circostanze. Si procurò così diverse sanzioni e richiami per inosservanza al «criterio assoluto di apoliticità» richiesto ai membri delle forze dell’Ordine, per «scarso senso di disciplina», «tendenza alla polemica», «particolare animosità», «presunzione». È quanto riferiscono le note caratteristiche sul suo conto compilate annualmente dai superiori, che pure gli riconoscevano notevoli capacità e competenze.

Angiolo, sposatosi nel frattempo con Margherita Aiolli, fu seguito dalla famiglia negli spostamenti che gli vennero pertanto disposti tra il 1950 e il 1956, alla volta di Palermo, Bologna ed Udine. Viste le reiterate destinazioni ad incarichi amministrativi e a seguito di un ulteriore ordine di trasferimento a Bari nel dicembre 1956, Gracci scelse di far domanda di pensionamento e congedarsi dal Corpo. Idea coltivata da oltre un anno, per il sempre più problematico permanere nell’Arma e per l’intuibile preclusione riguardo a possibili avanzamenti di carriera.

Cessato il suo servizio nella Guardia di Finanza alla fine del 1957, l’anno successivo ottenne un impiego a Roma come consulente legale alla Lega nazionale delle cooperative, con i cui responsabili aveva già avviato da tempo i contatti. Poté mettere così a frutto la laurea in giurisprudenza conseguita nel 1949, impiegata poi per riorganizzare il servizio di assistenza legale alla Camera del Lavoro di Firenze e per svolgere un’intensa attività professionale di difesa dei lavoratori e dei militanti della sinistra rivoluzionaria nel corso degli anni Sessanta.

Gracci – sulla destra – accanto a Vincenzo Misefari di Reggio Calabria e Salvatore Puglisi di Spezzano Albanese durante una manifestazione a Livorno in occasione della fondazione del Pcd’I (m-l), 16 ottobre 1966.

Gracci – sulla destra – accanto a Vincenzo Misefari di Reggio Calabria e Salvatore Puglisi di Spezzano Albanese durante una manifestazione a Livorno in occasione della fondazione del Pcd’I (m-l), 16 ottobre 1966.

Si tratta di una fase di svolta nella posizione politica di “Gracco”, come continuò ad esser chiamato per tutta la vita. Nel 1966 si dimise infatti dal PCI e fu tra i fondatori del Partito comunista d’Italia (marxista-leninista), che si poneva quale alternativa al primo, reo insieme al PCUS di aver «tradito» la «vera» politica rivoluzionaria di classe. Quella politica che il nuovo organismo, grazie anche alla dedizione assoluta richiesta agli adepti, si proponeva di perseguire per realizzare la dittatura del proletariato, la sola forma di governo in grado di instaurare il socialismo.

Nell’agosto 1968 seguì l’espulsione di Gracci dall’ANPI, con l’accusa di imporre metodi di lotta e di azione politica antidemocratici e non unitari, esclusivamente in linea con il  proprio partito. Decisione che secondo Angiolo era invece motivata dalla propria battaglia «per lo sviluppo di una lotta di massa per cacciare dal paese le basi e i comandi degli imperialisti Usa».

 Lo stesso antimperialismo si rivelò poi una componente essenziale del movimento antimperialista-antifascista La Resistenza continua (RC), che nacque nel 1974 a Milano come associazione partigiana esterna ed alternativa all’ANPI e lo vide nuovamente tra i promotori, accanto ad altri ex partigiani, giovani studenti ed operai. La responsabilità dell’organizzazione fu affidata al Comitato direttivo della rivista, che “Gracco” guidò fino agli ultimi anni di vita, a riprova del suo intenso e prolungato impegno redazionale per varie testate di area marxista-leninista. Si ritrovò così a ricoprire una posizione di primo piano nel movimento, accanto ai veterani, «compagni» marxisti-leninisti ed amici Guido Campanelli e Alberto Sartori.

Resistenza, antimperialismo e meridionalismo rappresentavano per RC componenti inscindibili di un unico programma, che faceva della prima un simbolo guida. La stessa Resistenza che, animata da un avanzato progetto politico, economico e sociale, era stata «bloccata» e «tradita» dalle forze imperialiste anglo-americane, dal «capitalismo monopolistico italiano», dal Vaticano e dall’«ala revisionista-socialriformista» del movimento operaio. Non si poteva pensare all’antifascismo senza l’antimperialismo, essendo il fascismo subordinato all’imperialismo. Antimperialismo – secondo il manifesto-programma del movimento – significava anche lotta contro la soggezione di tipo coloniale e razzista di cui era vittima il Meridione da oltre un secolo. Una subordinazione aggravata dall’imperialismo statunitense ed europeo, instaurato con l’annientamento del movimento spontaneo di Resistenza del popolo meridionale nell’immediato dopoguerra.

Gracci con l’amico Matteo Visconti, altri militanti marxisti-leninisti e alcuni operai durante l’occupazione della fabbrica Berga Sud di Salerno, luglio 1974.

Gracci con l’amico Matteo Visconti, altri militanti marxisti-leninisti e alcuni operai durante l’occupazione della fabbrica Berga Sud di Salerno, luglio 1974.

In virtù di questa rivoluzione «negata», delle ingiustizie e dell’oppressione subite dalle «masse supersfruttate del Meridione», Gracci svolse un’intensa attività di mobilitazione politica e sociale nel Sud, dove erano presenti diverse cellule del Pcd’I (m-l) Linea rossa, il primo degli innumerevoli gruppi in cui si frantumò il Pcd’I (m-l) dal 1968 in avanti e del quale Angiolo rappresentava uno dei principali esponenti. Come testimoniano le stesse immagini della sezione fotografica del fondo archivistico a lui intitolato – recentemente riordinata ed inventariata dallo scrivente – non c’era praticamente anno in cui Angiolo non si spostasse dalla sua casa fiorentina verso località meridionali, di cui abitualmente ritraeva realtà marginali e disagiate. Non mancavano trasferte in Basilicata, Molise, Sardegna, Puglia e Sicilia, ma centri calabresi e campani figuravano tra le sue principali mete. In questi luoghi Gracci sviluppò non solo legami politici, ma anche rapporti amicali e affettivi che avrebbe mantenuto per tutto il corso della sua vita. Emblematiche le relazioni con i militanti marxisti-leninisti Rosario Migale di Cutro e Matteo Visconti di Salerno.

Gracci con Rosario Migale e altri «compagni» a Roma per il I Congresso nazionale di Democrazia proletaria, aprile 1978

Gracci con Rosario Migale e altri «compagni» a Roma per il I Congresso nazionale di Democrazia proletaria, aprile 1978

Oltre che come attivista di La Resistenza continua, Angiolo continuò il suo impegno meridionalista anche in veste di promotore del Movimento leghe lavoratori italiani e quale membro di Democrazia proletaria, in cui la Linea rossa confluì nel 1978. “Gracco” proseguì poi incessantemente la difesa e l’assistenza legale dei militanti, che culminarono con il maxiprocesso alle BR del 1989. Nel 1991 aderì al nuovo Movimento della Rifondazione comunista, che alla fine dello steso anno si costituì in Partito, accogliendo tra gli altri la maggioranza dei dirigenti di Democrazia proletaria.

In questi anni seguitò costante la sua attività antimperialista. Al diretto coinvolgimento in diverse iniziative e manifestazioni pubbliche contro le basi USA e NATO in Italia – come mostrano le stesse foto del suo archivio – e alla collaborazione con varie associazioni, quali la Lega per il disarmo unilaterale e la Lega internazionale per i diritti e la liberazione dei popoli, si aggiunse il sostegno alla causa di Silvia Baraldini. Nella costituzione del Comitato per il rimpatrio di Silvia Baraldini di Firenze del 1991 e del Coordinamento nazionale dei comitati per il rimpatrio di Silvia Baraldini del 1994 Gracci si rivelò ancora una volta tra i principali animatori.

Gli stessi anni Novanta, nel corso dei quali “Gracco” si prodigò anche per la diffusione dei valori della Resistenza e della Costituzione repubblicana tra i giovani, videro poi il suo ritorno nel Comitato provinciale dell’ANPI fiorentino. Il rapporto restò comunque travagliato: è del 25 giugno 2000 un provvedimento disciplinare a suo carico, adottato dai dirigenti provinciali dell’ANPI per l’intervento contro gli USA e la NATO durante la celebrazione del 56° anniversario della battaglia di Pian d’Albero presso Figline Valdarno. Tuttavia Angiolo proseguì fino alla fine la sua militanza nell’organizzazione, rimanendo sempre coerente con le proprie posizioni. Dopo una grave malattia, è venuto a mancare a Firenze il 9 marzo 2004.

Articolo pubblicato nel dicembre del 2014.




I fratelli Melauri e la famiglia Soffici

YADVASHEMQuella dei Soffici è una famiglia contadina che vive lavorando la terra nel Valdarno fiorentino. La loro storia si incrocia con due giovani ebrei Tullio e Aldo Melauri  a cui fra il dicembre del 1943 ed il luglio del 1944 Dante e Giulia, Oreste e Marianna Soffici scelsero, nonostante i pericoli, di dare rifugio e accoglienza.

La loro storia inizia a Trieste il 15 febbraio del 1925. Paolo e Lea Melauri danno alla luce il loro primo figlio: Tullio. Sedici mesi dopo sarà seguito dal fratello Aldo.
La loro è una famiglia relativamente benestante. Pur vivendo a Trieste, in realtà la loro non è una famiglia triestina. Il padre infatti proviene da Leopoli nell’odierna ucraina. Hanno origini ebraiche. Ma sono e si sentono completamente integrati. Anche per questo hanno prima rinunciato al cognome originario di Goldfrucht per cambiarlo nell’italiano Melauri e poi ottenuto la cittadinanza italiana nel 1920.
Tullio e Aldo hanno un’infanzia serena ed osservante delle proprie tradizioni religiose, ma tutt’altro che isolata dai compagni. Frequentano delle scuole elementari ebraiche, ma poi proseguono i loro studi nelle scuole pubbliche e sono in amicizia con molti altri adolescenti italiani di famiglia cattolica.

Le leggi razziali dell’autunno 1938 sconvolgono però le loro vite. Per fortuna il padre non subisce conseguenze immediate nel proprio lavoro, anche se perderà ben presto la cittadinanza italiana divenendo apolide. Sono proprio loro due Tullio e Aldo a subire all’inizio le ripercussioni più pesanti della discriminazione. Devono abbandonare la scuola pubblica per re-iscriversi in una scuola ebraica.

Ben presto le leggi razziali sono foriere di altre conseguenze molto più pesanti. Quella che fino ad allora era stata una discriminazione diventa chiaramente una persecuzione. I Melauri non si sentono più al sicuro a Trieste. Nel 1940 avevano acquistato un appezzamento di terreno al Brollo nel comune di Figline Valdarno (FI). A coltivarlo è una famiglia di contadini composta da Oreste e Marianna Soffici e i loro 5 figli. Ma quello fra i Melauri e i Soffici non è solo un rapporto di lavoro. È un’amicizia. I Melauri, insieme alla nonna paterna, si trasferiscono così in casa loro nell’estate del 1943. Partecipano alla vita, al lavoro e alle feste della piccola comunità di contadini del Brollo.

Oreste ha un fratello, Dante, che vive con la moglie Giulia in una casa isolata in località Scandelaia, sopra al Ponte agli Stolli. Così nascosta quell’abitazione può tornare utile in caso di pericolo e Oreste la mostra ai Melauri. Purtroppo tutti i segnali lasciano intendere che il pericolo potrebbe giungere presto. Nell’ottobre del 1943 infatti era arrivato in Italia uno dei più fedeli collaboratori dell’organizzatore della soluzione finale al problema ebraico: il capitano delle SS Theodor Dannecker, esperto nella caccia agli ebrei. Agisce con  poche decine di uomini, ma sa perfettamente come muoversi.

Vengono organizzate  retate in tutte le città d’Italia. il 6 novembre 1943 verrà rastrellata la comunità ebraica di Firenze. Gli ebrei vengono trasferiti in prigioni o nei campi di raccolta come Fossoli, Bolzano o la Risiera di San Sabba e da qui smistati verso Auschwitz o altri campi di concentramento. Presto si  uniscono alla caccia  anche  le autorità della Repubblica sociale italiana. Il 30 novembre il ministro degli interni della RSI emana precise direttive ai prefetti per l’arresto di tutti gli ebrei. Dall’Ottobre del ‘43 fino al Marzo del ‘45 verranno deportati quasi 8000 dei circa 32000 ebrei italiani. Di questi se ne salveranno poco più di 600 soltanto.

In questo clima di terrore è difficile mantenere la speranza e la fiducia. E i Melauri non si fanno illusioni: sanno benissimo cosa li attende quando l’antivigilia di Natale, il 23 dicembre 1943, vedono arrivare sotto casa loro una camionetta dei carabinieri.
Paolo Melauri, dopo aver perso la cittadinanza italiana è un apolide. È costretto a comunicare i propri spostamenti alle autorità. Crede di avere instaurato un rapporto di amicizia con il maresciallo dei carabinieri di Figline e crede che questa amicizia possa fornirgli protezione. Ma quando fa il  nome del maresciallo ai carabinieri scesi dalla camionetta nessuno di loro torna sui suoi passi. Lui e la sua famiglia devono seguirli. Gli viene concesso solo il tempo di tornare in casa a preparare le valigie.

Ma la sorveglianza non è ferrea. Così prende piede un’idea. I figli Tullio e Aldo di 18 e 17 anni possono scappare sul retro della casa attraverso i campi verso quella casa isolata di Dante Soffici che gli era stata mostrata. Il piano ha successo. Tullio e Aldo riescono a fuggire fino a Scandelaia e lì vengono accolti da Dante e Giulia Soffici. Ma non possono essere sempre tenuti in casa. È  troppo rischioso. Così per loro dopo il periodo invernale viene costruita una baracca nascosta nei campi. Tutti i giorni Dante o Giulia vanno a portargli da mangiare. In quelle giornate di isolamento il tempo è lunghissimo per i due ragazzi. A fargli visita e portargli dei libri viene anche la famiglia dei Banchetti che avevano conosciuto durante il periodo al Brollo. A Tullio e Aldo arrivano anche delle lettere dei genitori e della nonna. La madre e la nonna sono rinchiuse nel carcere fiorentino di Santa Verdiana, il padre in quello delle Murate. Ma Tullio e Aldo non si fanno illusioni. Mesi prima hanno ascoltato Radio Londra. Sanno qual’è la sorte scelta dai nazisti per gli ebrei. Purtroppo sia la madre che la nonna verranno deportate ad Auschwitz e lì verranno uccise il 6 febbraio del 1944; il padre sopravviverà poco oltre e morirà nel dicembre del 1944.

Con l’arrivo del fronte bellico in prossimità del Valdarno nel luglio del ‘44 un giorno Dante gli suggerisce di scappare. Sta diventando troppo rischioso per loro rimanere lì. Devono fuggire verso gli alleati. Così Tullio e Aldo scappano nella direzione che gli ha indicato Dante. Nella loro fuga incrociano anche una truppa tedesca, ma riescono a non farsi vedere. Infine dopo quarantotto ore senza bere e senza mangiare si imbattono in dei soldati inglesi.

Tullio e Aldo nel dopoguerra sono stati privati della famiglia, ma per fortuna non sono allo sbando. Con l’aiuto economico di alcuni amici di famiglia riescono a riprendere gli studi e a diplomarsi a Roma. Verranno a Firenze da una zia, poi rientrano a Trieste nel 1947. Ma la loro prospettiva come per  molti altri ragazzi ebrei europei scampati allo sterminio è una sola: Israele. Si iscrivono ad una scuola preparatoria poi dopo un anno si trasferiscono definitivamente in Israele lavorando nei kibbutz.

Nei primi anni ’50 le vite di Tullio e Aldo dopo tutto il tempo passato insieme si separano. Tullio durante una vacanza dalla zia di Firenze conosce quella che diventerà sua moglie. Nel 1957 Tullio si sposa e rientra definitivamente in Italia. Succede anche altro. Sta trascorrendo le proprie vacanze all’Impruneta quando re-incontra Oreste Soffici che proprio lì si è trasferito e allacciano rapporti di fraterna amicizia.

Con gli anni in Tullio matura un’idea. Ha sentito parlare dell’onorificenza di “Giusto fra le nazioni” che lo stato di Israele, attraverso l’ente apposito, lo Yad Vashem, concede ai non ebrei che durante la seconda guerra mondiale hanno contribuito a salvare la vita degli ebrei. Si sente in dovere di far assegnare il titolo alle persone cui deve la propria vita. Chiede aiuto al fratello che vive ancora in Israele e insieme inviano la richiesta.

Il 14 novembre 1988 lo Yad Vashem, con il dossier 2604, riconosce Dante, Giulia, Oreste e Marianna Soffici come “Giusti fra le nazioni”. Il loro nome viene aggiunto al Giardino dei giusti presso il museo dello Yad Vashem a Gerusalemme dove per primo nel 1961 era stato invitato a piantare un albero Oscar Schindler.

Articolo pubblicato nel luglio 2014.