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Teresa Meroni e la marcia delle donne

Chi era Teresa Meroni? Quale fu il suo impegno di sindacalista e attivista per la pace durante il periodo della Grande Guerra? Rispondere a queste domande significa approfondire non solo la storia personale che la portò in Val di Bisenzio, ma anche indagare le condizioni socio-economiche che caratterizzavano quel territorio di precoce industrializzazione posto a Nord di Prato.

Legata al lombardo Battista Tettamanti da una “scandalosa” relazione che sarà sancita da matrimonio civile solo nel 1930 (tra l’altro dopo la nascita dell’unico figlio Vladimiro), la Meroni nacque a Milano nel 1885 da una famiglia operaia e subito, da giovanissima, si iscrisse al Partito Socialista da poco nato a Genova. L’attività politica e sindacale che svolse nel comasco accanto a Tettamanti, a cui nel 1915 fu affidata la segreteria della Lega Laniera di Vaiano,  avrebbe posto le premesse alle battaglie condotte successivamente in Val di Bisenzio. La sua vicinanza profonda al mondo contadino e operaio del comasco maturò in lei una forte consapevolezza del fatto che i diritti dei contadini e degli operai sarebbero stati conquistati solo grazie alla rivoluzione (Teresa era una seguace del socialismo rivoluzionario alla Sorel).

Giunta in vallata appena trentenne Teresa Meroni si trovò di fronte a una situazione socio-economica diversa da quella a cui era abituata nel comasco: in Val di Bisenzio le fabbriche tessili erano legate al ciclo della lana “meccanica” o rigenerata e le famiglie contadine seguivano il modello della mezzadria toscana. Erano tempi difficili, ma c’era la speranza di un miglioramento della vita quando si lasciava la campagna per andare a vivere in città. Speranza che andò esaurendosi con l’entrata in guerra dell’Italia, avvenuta il 24 maggio 1915.

All’inizio della Prima Guerra Mondiale Tettamanti fu richiamato alle armi nel 171° battaglione della milizia territoriale e Teresa Meroni si trovò a sostituirlo, assumendo la guida della Lega Laniera di Vaiano. Si trattò di un fatto epocale, perché la Meroni prima di allora non faceva parte nemmeno del Consiglio Direttivo della Lega, come del resto nessun’altra donna. Da allora si distinse per la sua strenua attività di pacifista, tant’è vero che il commissario Luigi Morelli, in una testimonianza del 19 luglio 1917, affermò che la donna per mesi cercò di “catechizzare le donne e i ragazzi, e indurli a fare una dimostrazione contro la guerra”.

In effetti i sospetti del commissario di pubblica sicurezza non erano infondati: il 2 luglio 1917 da Luicciana, piccola frazione di Cantagallo, partì una marcia di quattrocento donne alla volta di Prato. Il gruppo di protesta passò davanti ai principali stabilimenti produttivi di Vernio. Decisero di unirsi alla manifestazione le “fabbrichine” del tappetificio Peyron a Mercatale e anche quelle contadine per lo più provenienti da Gricigliana, che erano entrate in fabbrica per colmare l’assenza degli uomini richiamati al fronte. L’intenzione delle scioperanti era di raggiungere Prato, così da allargare anche alla città laniera la protesta sociale contro una guerra ritenuta ingiusta e per rivendicare condizioni di vita e di lavoro dignitose. La Prefettura decise di intervenire con un reparto di cavalleggeri, ma le donne scelsero di proseguire comunque, nonostante il pericolo delle cariche.

Il corteo, che si ingrossò nei pressi di Coiano, riuscì a superare lo sbarramento dei cavalleggeri nei pressi di San Martino, dove però una decina di donne fu arrestata. La marcia riuscì comunque a raggiungere le carceri, dove furono liberate alcune donne fermate. Una volta giunta in prossimità della stazione ferroviaria, la protesta fu bloccata dalla polizia e il corteo si disperse per le vie del centro. L’agitazione però non si fermò qui: fino al 9 luglio si protrassero episodi e sommosse diffuse dalla Val di Bisenzio sino alle porte di Pistoia, e infine tutto si concluse con l’arresto di 56 persone.

Prato '50 Teresa Meroni parla alle operaie tessiliTeresa Meroni fu ritenuta (a ragione) responsabile delle agitazioni avvenute. Rimase in carcere tre mesi ma, una volta uscita, riprese la sua propaganda politica, soprattutto in favore della conquista dei diritti femminili. Per questo motivo fu allontanata dalla Val di Bisenzio e spedita al confino in Garfagnana, dove sarebbe rimasta fino alla fine della guerra.

La protesta, prettamente di stampo politico, per le autorità fu allarmante per il fatto che a guidarla fosse stata una “rivoluzionaria di professione”, ritenuta pericolosa “per le sue idee socialistiche rivoluzionarie, antimilitaristiche, maniacali”. Come ricordano Annalisa Marchi e Alessandro Cintelli, l’idea mazziniana di donna paragonabile a un “angelo della famiglia” era quanto mai una sbiadita immagine rispetto a quella dipinta dalla vita della Meroni: “dal punto di vista delle autorità di polizia, a ragione Teresa risultava un’agitatrice estremamente pericolosa perché la sua opera di propaganda scardinava i punti fondanti della mentalità del tempo, giustificando nell’immaginario collettivo l’idea che le donne potessero mettersi a capo della rivolta contro la guerra” e pretendere un ruolo che non fosse subalterno come quello che le donne avevano avuto sino a quel momento.

Luisa Ciardi si è laureata in storia contemporanea all’Università di Firenze con una tesi sulla storia sociale d’impresa. Ha frequentato il master di archeologia industriale presso l’Università di Padova e attualmente lavora presso la Fondazione CDSE della Valdibisenzio e Montemurlo. Le sue ricerche spaziano dalla storia locale alla storia dell’industria, alla storia della seconda guerra mondiale, con un particolare interesse per la storia orale. è membro dal 2012 di AISO (Associazione Italiana di Storia Orale).

Tra le sue pubblicazioni si ricordano: 

Il lanificio Silvaianese. Un’azienda a misura di famiglia e di territorio (1945-1989) , Prato, Pentalinea, 2011.

La Spiga e la Spola: contadini e operai nella Vaiano degli anni ’50, in Alle origini del Comune di Vaiano (1949-1951), Catalogo della mostra, a cura di A. Cecconi, Prato, CDSE della Valdibisenzio, 2011.

I pratesi, contadini, operai, imprenditori. L’etica del lavoro a Prato nel passaggio fra agricoltura e industria, in “Microstoria. Rivista toscana di storia locale”.

Il fiuto dei Bardazzi per la lana. La famiglia vaianese e la rete di finanziamento informale alle industrie della Valle, in “Microstoria. Rivista toscana di storia locale”.

Letizia Magnolfi si è laureata in Scienze Storiche nel 2012, con una laurea magistrale in Storia delle Dottrine Politiche. Ha collaborato con la Fondazione CDSE di Vaiano per la realizzazione della mostra 1944: l’ultimo anno di guerra a Schignano (aprile 2011) e ha recentemente vinto un concorso fotografico intitolato Immaginare…ascoltare, ricreare il lavoro, sempre a cura della Fondazione. Attualmente sta svolgendo un tirocinio di formazione presso la Rete Civica del Comune di Prato.

Tra le sue pubblicazioni:
A  proposito dell’USIA. Il ruolo dei mezzi di comunicazione negli anni ’60 della guerra fredda, Instoria, N. 42, Giugno 2011 (LXXIII)
Dal movimento Demau al femminismo di Oggi. Cosa è rimasto?, Instoria, N.41, Maggio 2011 (LXXII)




Il diario di prigionia inedito di un ufficiale dei granatieri durante la Grande Guerra

i11 marzo [1918]. Dopo una lunga interruzione riprendo le mie memorie. Io non so spiegarmi questa mia apatia in qualunque cosa. Salvo le due ore che io studio tedesco con un mio amico, passo la giornata in un ozio tale che mi fa sempre pensare ai giorni felici e mi rende più impossibile la vita che passo in prigionia. Del resto tutti passano il tempo in ozio, seguendo il consiglio degli ufficiali medici che dicono che è nocivo alla salute studiare e non mangiare. Ed è vero: io provo una tale depressione e debolezza dopo qualche ora d’applicazione. Il nostro mangiare diventa peggiore di giorno in giorno e non si sa come si andrà a finire con tale trattamento. Dei giorni ci danno acqua calda assoluta, altre volte qualche granello d’orzo: gli altri almeno ricevono numerosi pacchi dalla famiglia: io invece debbo contentarmi della poca brodaglia che questi infami tedeschi ci danno. E tutto ciò perché i miei genitori non mi mandano le cibarie richieste. In questi giorni, cioè dal 22 febbraio all’11 marzo sono morti altri 4 aspiranti e cinque soldati: tutti di polmonite, dicono i medici tedeschi, e perché non in seguito alla denutrizione? Intanto il locale ospedale si va popolando, e la tubercolosi va facendo strage.

Questa pagina di diario proviene dal taccuino di un ufficiale dell’esercito italiano detenuto nel campo tedesco di prigionia di Celle, nei pressi di Hannover, durante la prima guerra mondiale. Si tratta di un diario anonimo conservato presso l’archivio dell’Istituto Storico della Resistenza e della Società Contemporanea di Livorno, scritto da un ufficiale che cadde prigioniero delle truppe tedesche durante la disfatta di Caporetto. Fu deportato prima al campo di Rastatt e poi a Celle-lager. Il 24 gennaio 1918, dopo circa tre mesi di prigionia decise di iniziare a scrivere “quotidianamente e coscientemente” le sue memorie. Le sue pagine di diario, sebbene scarne di informazioni anagrafiche, permettono di tratteggiare alcuni dei caratteri della sua personalità e della sua indole. Era un ufficiale del primo reggimento dei granatieri, un corpo scelto per il quale erano richiesti particolari requisiti di prestanza fisica.

CelklePrima di cadere prigioniero aveva combattuto la guerra di trincea a capo di ventisette uomini e aveva comandato una sezione di “pistole mitragliatrici”. Dei suoi soldati scrive: avevo 27 uomini, tutti veterani della guerra, e ai quali la patria deve serbare eterna gratitudine per il contegno eroico da essi sempre dimostrato. Dai suoi scritti trapelano patriottismo, convinzione e una radicata adesione alla causa bellica. Era un uomo istruito, colto che durante la detenzione in Germania si dedicò allo studio del tedesco probabilmente per comprendere meglio la realtà che lo circondava; quotidianamente leggeva i giornali che arrivavano nel campo, commentando nel suo taccuino gli avvenimenti bellici.

Frequentava assiduamente le attività culturali che venivano organizzate nel campo. Infatti, per reagire a quella che è stata definita la “malattia del reticolato”, ovvero la forte apatia e l’abbattimento provocati dalla reclusione e dalla malnutrizione, gli ufficiali prigionieri unirono competenze e conoscenze e organizzarono corsi, conferenze, dibattiti e, ancora, realizzarono rappresentazioni teatrali, concerti e tornei. Attività con le quali cercavano di resistere alla monotonia dei giorni e all’abbrutimento della reclusione ritrovando la propria identità. Un episodio in particolare permette di rivolgere lo sguardo anche nella sfera intima, negli affetti della vita da civile dell’autore del diario. Nei primi giorni di aprile del 1918, racconta di aver fatto cadere nella fogna il portafoglio nel quale conservava preziosi ricordi: un’immagine di una madonnina miracolosa, la foto di una ragazza amata, il tesserino universitario e una sua foto di quando aveva sedici anni. Piccoli frammenti che raccontano una vita tra studio e amori giovanili.

il-campo-di-celle-fotoIl tema ricorrente in ogni pagina del diario è il problema della scarsa alimentazione; l’ufficiale dei granatieri si nutrì per circa un anno essenzialmente con pane e zuppe di carote e patate. Quotidianamente riporta annotazioni sulla carenza di cibo e ancor più sulla mancanza di aiuti dall’esterno. Il fondamentale studio di Giovanna Procacci sui prigionieri italiani della prima guerra mondiale ha dimostrato come l’esperienza della prigionia in Germania per i militari italiani sia stata particolarmente dura. Secondo gli accordi internazionali ratificati con la convenzione dell’Aja, il governo dello stato che catturava i prigionieri doveva garantire a costoro vitto, alloggio, vestiario in quantità e qualità non inferiore a quanto veniva consegnato alle truppe. In realtà gli stati belligeranti si trovarono del tutto impreparati a rispettare il regolamento che rimase generalmente disatteso; in particolare la Germania dichiarò di non poter rispettare le convenzioni in seguito al blocco economico imposto dagli stati dell’Intesa. Di fronte a questa situazione, Francia, Gran Bretagna, e in seguito gli Stati Uniti iniziarono a spedire aiuti collettivi, come viveri, vestiario e medicinali, a spese dello Stato ai propri militari prigionieri. Al contrario il governo italiano decise di non mettere in atto alcun provvedimento di pubblico soccorso: non inviò alcun aiuto statale e semplicemente non proibì alle singole famiglie l’invio di pacchi privati.

In un secondo momento, per le pressioni internazionali il governo decise di inviare aiuti collettivi organizzati dalla Croce Rossa ma solo agli ufficiali e dietro il pagamento di denaro da parte dei familiari. Un passaggio del diario parla chiaramente di questo problema: Oggi è venuta la Commissione governativa: il nostro generale [Pisani], comandante del campo, ha parlato con il generale tedesco. Si sono intrattenuti sul trattamento di noi ufficiali prigionieri e dietro le lagnanze del nostro comando ha risposto: – Rivolgetevi al vostro governo e fate sì che egli faccia quello che fa il governo Inglese e Francese: noi non possiamo far di più.- In altre parole voleva dire: se morite di fame non è colpa del nostro governo ma del governo italiano. Per l’ufficiale anonimo la prigionia fu particolarmente difficile perché, per un motivo ignoto, non ricevette mai pacchi di generi alimentari dalla famiglia. Il suo diario-documento è quindi emblematico delle vessazioni subite dai prigionieri italiani, probabilmente anche per una retorica che li vedeva come i perdenti di Caporetto.

 




Dalla parte del lavoro: Giulio Braga

Giulio Braga nacque a Ferrara il 25 agosto 1868 da Annetta Braga e da padre ignoto, falegname. Abbandonato dalla madre in tenera età, fu ospitato a Torino da una famiglia di conoscenti e poi condotto a Firenze da un operaio che gli fece da padre. Nella città toscana Braga iniziò l’attività politica, costituendo un gruppo anarchico nel rione di San Niccolò.

Nel marzo del 1892 si trasferì a Prato, dove, forte delle letture fatte e dell’esperienza acquisita, svolse un’intensa propaganda e collaborò alla Tribuna dell’operaio, un settimanale di indirizzo socialista-anarchico di cui era direttore Giovanni Domanico. Ricoprì anche la carica di cassiere provvisorio del Fascio operaio, costituitosi poco dopo la conclusione del congresso di Genova. Nel 1893 si sposò con Pia Casini, da cui ebbe sei figli (due maschi e quattro femmine). Alla fine del 1893, in una lettera indirizzata al direttore di un settimanale pratese, Braga, parlando della condizione di sfruttamento in cui versavano gli operai in generale e quelli di Prato in particolare, espresse così i suoi convincimenti di rivoluzionario: «la causa prima, noi socialisti senza distinzione di scuola la ravvisiamo nel capitale accentrato in mano di pochi […] Quali i rimedi! Facili ad indovinarsi! Se il capitale accentrato è la causa prima, il suo rovescio ne sarà il rimedio […] Quali i mezzi?…Ammaestrato dalla storia delle generazioni passate […] mi formai la convinzione che per sciogliere l’arduo problema non avvi che un mezzo: quello cioè che adottò la borghesia francese per emanciparsi dalla nobiltà e simultaneamente dal clero» (La luce, 6 gennaio 1894, la lettera è datata 24 dicembre 1893).

Ritenuto la personalità di maggior spicco del movimento anarchico pratese ed «un individuo assai pericoloso all’ordine ed alla tranquillità pubblica» (Archivio centrale dello stato, Ministero dell’interno, Direzione generale di pubblica sicurezza, Divisione affari generali e riservati, Casellario politico centrale, Fascicoli personali, b. 812, fasc. Braga Giulio di ignoti, scheda biografica compilata dalla prefettura di Firenze, 8 agosto 1895), venne inviato nel 1894 al domicilio coatto, prima alle Tremiti, dove fu coinvolto nella sollevazione contro quel regime carcerario, poi a Favignana, infine a Ustica. Tornato a Prato il 21 novembre 1896, riprese subito l’impegno politico, tenendo numerose conferenze, scrivendo un lungo racconto sulla sua esperienza alle Tremiti per un numero unico pubblicato dal Comitato pratese per l’abolizione del domicilio coatto e dando un importante contributo alla costituzione della Camera del lavoro (4 luglio 1897), di cui fu il primo segretario. Ricercato dalla polizia e costretto a riparare in Francia dopo i tumulti del maggio 1898, rientrò in città l’anno successivo. Dopo l’uccisione di Umberto I (29 luglio 1900), fu tratto in arresto, insieme con altri compagni, perché sospettato di essere in relazione con Gaetano Bresci: in agosto, tuttavia, era di nuovo in libertà, nulla essendo emerso a suo carico.

Nei primi anni del secolo Braga continuò la sua opera di propaganda e di proselitismo sia attraverso l’attività giornalistica (fu corrispondente del giornale anarchico fiorentino Il risveglio, che ebbe l’incarico di diffondere a Prato) sia attraverso quella di conferenziere, particolarmente brillante ed efficace: nel 1903 la polizia lo considerava “il capo della setta anarchica di Prato” (ibidem, cenno di variazione del 12 giugno 1903). Rappresentante della sezione falegnami della Camera del lavoro al II congresso dei lavoranti in legno (Milano, settembre 1903), egli assunse l’anno successivo la direzione de Il fascio operaio, un nuovo settimanale socialista-anarchico che si pubblicava a Prato. Il 7 giugno 1906, in quanto direttore di tale giornale, venne condannato dalla corte d’assise di Firenze a tre mesi e dieci giorni di detenzione «per i reati di vilipendio all’esercito, eccitamento alla disobbedienza delle leggi e dei doveri del giuramento e della disciplina» (ibidem, cenno di variazione dell’8 giugno 1906), in seguito alla pubblicazione, nel numero del 29 novembre 1905, di un articolo intitolato “Se fossi mamma”. Il fascio operaio chiuse nel 1907. L’anno dopo Braga aderì al Partito socialista. Alle elezioni amministrative parziali del 28 giugno 1908 fu candidato al consiglio comunale in una lista formata da repubblicani e da socialisti.

Negli anni successivi il suo impegno politico e sindacale lo portò, fra l’altro, ad essere segretario della Camera del lavoro di Empoli, assessore nella prima giunta rossa di Prato, guidata da Ferdinando Targetti (1912-1914), direttore de La sveglia, organo della Confederazione italiana fra i lavoratori dell’Arte bianca, segretario propagandista e poi segretario generale dell’Arte bianca stessa, membro del consiglio direttivo della Confederazione generale del lavoro, di nuovo assessore a Prato dopo le amministrative del 31 ottobre 1920, quando i socialisti riconquistarono il comune e Giocondo Papi divenne sindaco.

Protagonista di tante battaglie per l’emancipazione del proletariato, fu uno dei primi bersagli dei fascisti locali, che, nella notte fra il 24 ed il 25 giugno 1921, lo aggredirono nella sua abitazione, e, sotto gli occhi della moglie e delle figlie terrorizzate, lo trascinarono in strada percuotendolo selvaggiamente. Bandito dalla città nel 1922, Braga vi fece ritorno due anni dopo, ma le sue condizioni di salute, compromesse dall’aggressione subìta, si aggravarono progressivamente. Morì a Prato il 9 febbraio 1925. Sulla facciata della casa di via Santo Stefano dove Braga risiedeva si trova oggi una lapide con questa iscrizione: «Qui abitò dal 1893 / Giulio Braga / e lottò per il socialismo per / la democrazia per un sindacalismo / libero e qui morì il giorno / 9 febbraio 1925 in seguito / a vile aggressione fascista».

BIBLIOGRAFIA:

Alessandro Affortunati, Sotto la rossa bandiera. Profili di dirigenti del movimento operaio pratese, Prato, Camera del lavoro di Prato, 1996, pp. 1-18
Id., Fedeli alle libere idee. Il movimento anarchico pratese dalle origini alla Resistenza, Milano, Zero in condotta, 2012, pp. 119-122
Valerio Bartoloni, I fatti delle Tremiti. Una rivolta di coatti anarchici nell’Italia umbertina, Foggia, Bastogi, 1996, ad indicem
Claudio Caponi, Gli albori del movimento operaio a Prato: la figura di Giulio Braga, Prato storia e arte, a. 17, n. 47, dicembre 1976, pp. 39-71.




Giuseppe Becheroni

Contrariamente all’opinione corrente, dalla fine dell’Ottocento al periodo della Resistenza, il movimento anarchico fu attivamente presente a Prato. In questo contesto, Giuseppe Becheroni fu una delle figure più interessanti dell’anarchismo locale, che si distinse per i suoi sforzi di dare al movimento un minimo di coesione. Ne ricostruiamo qui, brevemente, la vita e l’esperienza politica.

Giuseppe Becheroni nacque a Vernio il 27 agosto 1887 da Giovan Battista e da Maria Meucci, intagliatore. Sposato con Annita Sanesi, aderì all’anarchismo dopo aver militato nel Partito socialista, e, insieme con Tullio Gambacciani, fondò a Prato un microscopico gruppo anarchico denominato “L’inferno”, del quale i due amici erano gli unici componenti.
Propagandista infaticabile, l’8 dicembre 1911 venne arrestato e condannato per aver disturbato una manifestazione indetta per festeggiare una vittoria dell’esercito italiano impegnato in Libia. Fu questa la prima condanna riportata da Becheroni, che nel 1912 era ritenuto pericoloso dalla polizia e risultava essere uno degli uomini di punta del movimento anarchico pratese. Il 3 settembre di quell’anno lanciò una sottoscrizione per la costituzione di un Circolo libertario di studi sociali: il Circolo, che disponeva anche di una biblioteca, era già attivo alla data del 18 ottobre e Becheroni ne era il cassiere. Diffusore del quindicinale antimilitarista milanese Rompete le file!, nel 1913 creò un Gruppo libertario rivoluzionario (ai primi di aprile), partecipò al congresso regionale anarchico che si svolse a Pescia (11 maggio) e ad un convegno libertario che si tenne a La Spezia (1-2 giugno). Fatto ritorno a Prato, la sera del 3 giugno contestò vivacemente, insieme con altri compagni, una dimostrazione studentesca inneggiante all’esercito. In tale circostanza Pietro Barni, un anarchico intimo di Becheroni, strappò il tricolore dalle mani del portabandiera e fu tratto in arresto. Becheroni riuscì invece ad eclissarsi e poco dopo promosse una sottoscrizione a favore di Barni: venne per questo condannato ad un’ammenda. Il 25 ottobre, alla vigilia delle prime elezioni politiche a suffragio universale maschile, fece affiggere “un manifesto intitolato ‘Non votate’, diretto ai lavoratori e contenente eccitamento alla rivolta”: nuovamente denunciato, fu assolto dal tribunale di Firenze il 19 marzo 1914. Il 3 maggio dello stesso anno cercò di tenere una pubblica conferenza a Prato, ma il prefetto di Firenze la proibì per ragioni di ordine pubblico.
Il 10 giugno, nel corso delle agitazioni della Settimana rossa, incitò i dimostranti della città laniera alla ribellione aperta. Immediatamente denunciato, si allontanò da Prato il 29. Colpito da mandato di cattura ed attivamente ricercato in tutto il regno, venne arrestato a Prato il 7 settembre e tradotto nelle carceri fiorentine: il 12 novembre fu condannato a sette mesi di reclusione per oltraggio agli agenti della forza pubblica.
Il 10 maggio 1915, nell’imminenza dell’entrata in guerra dell’Italia, venne deferito all’autorità giudiziaria per istigazione a delinquere, avendo, insieme con altri anarchici, indotto gli operai della ditta Forti di Casarsa, uno degli stabilimenti più importanti di Prato, ad astenersi dal lavoro “onde suscitare disordini e commettere violenze sotto il pretesto del richiamo alle armi”. Il 18 maggio il giudice istruttore dichiarò tuttavia il non luogo a procedere nei suoi confronti.
Becheroni morì di tubercolosi il 27 dicembre 1917 nell’ospedale di Prato: per volontà della famiglia i funerali si svolsero in forma religiosa, e pertanto i compagni non vi presero parte.

Fonti: Archivio centrale dello Stato, Ministero dell’interno, Direzione generale di pubblica sicurezza, Divisione affari generali e riservati, Casellario politico centrale, Fascicoli personali, b 430, fasc. Becheroni Giuseppe fu Giov. Battista; “Commemorazione di due compagni”, Il lavoro (Prato), 5 gennaio 1918.

Bibliografia: Alessandro Affortunati, “Giuseppe Becheroni: un  anarchico pratese dei primi del Novecento”, Rassegna storica toscana, a. 59, n. 2 (luglio-dicembre 2013), pp. 311-334.




Guidare la diplomazia in tempo di guerra

Il 5 novembre del 1914, a poco più di tre mesi dalla dichiarazione di guerra dell’Austria-Ungheria alla Serbia, Sidney Sonnino (Pisa, 11 marzo 1847-Roma, 24 novembre 1922) prestava giuramento come nuovo Ministro degli Esteri nel secondo governo presieduto da Antonio Salandra. Il politico toscano, chiamato alla guida della politica estera italiana nel pieno della conflagrazione mondiale, vi sarebbe rimasto fino al giugno del 1919, divenendo pertanto il quarto ministro degli esteri dell’Italia liberale per durata di incarico, dopo Visconti Venosta, Tommaso Tittoni e Antonino di San Giuliano. In questi quattro anni e mezzo Sonnino svolse un ruolo centrale nell’entrata in guerra dell’Italia a fianco delle potenze dell‘Intesa e rappresentò nel 1919 assieme a Orlando gli interessi italiani alla Conferenza di Pace di Parigi.

Con Sonnino, Salandra, oltreché un amico personale e un antico alleato, aveva voluto chiamare alla guida della politica estera uno dei leader dell’Italia liberale di maggior esperienza che proprio con quella nomina coronava una lunga carriera pubblica iniziata giovanissimo nella diplomazia italiana quando, poco dopo la laurea conseguita a Pisa in giurisprudenza, aveva servito come volontario tra il 1867 e il 1871 presso le Legazioni italiane di Madrid, Vienna e Berlino.

Ritratto di Sidney Sonnino (gentile concessione dell'Archivio Sidney Sonnino Montespertoli)

Ritratto di Sidney Sonnino (gentile concessione dell’Archivio Sidney Sonnino Montespertoli)

Precoce studioso, secondo la migliore lezione di Pasquale Villari, della questione sociale e contadina nonché della rappresentanza parlamentare, Sonnino elaborò sin dalla gioventù un proprio pensiero politico che a un progetto di consolidamento delle istituzioni interne legava la necessità di condurre sul piano internazionale una politica estera che consentisse il raggiungimento di una completa sicurezza dei confini nazionali e al contempo permettesse il rilancio di un ruolo attivo dell’Italia nel contesto mediterraneo e del Vicino Oriente, anche tramite la ricerca di una politica di espansione coloniale considerata come mezzo utile al miglioramento delle condizioni dell’emigrazione italiana.
Convinto che molti di questi obiettivi si potessero conseguire sul piano diplomatico, Sonnino giudicò positivamente l’ingresso dell’Italia nel 1882 nella Triplice Alleanza con Austria-Ungheria e Germania, un blocco di potenze ritenuto in grado di assecondare gli interessi di espansione e sicurezza del governo di Roma, nonché fornire una soluzione pacifica al completamento dell’unificazione nazionale. In particolare, l’eventuale applicazione dell’articolo VII del trattato di alleanza, che prevedeva in caso di una espansione asburgica nei Balcani la concessione di ipotetici compensi territoriali all’Italia, poteva costituire, secondo Sonnino, lo strumento col quale ottenere pacificamente i territori irredenti del Trentino e della Venezia Giulia. Questa lettura pratico-strategica della alleanza basata più su un calcolo degli obiettivi esteri nazionali che su ragioni ideologiche (tanto che Sonnino la intese come «un connubio che non esclude il divorzio») assieme al principio di nazionalità guidarono tra Otto e Novecento le sue convinzioni sulla politica estera.

Chiamato nel novembre 1914 da Salandra al Ministero degli Esteri in seguito alla morte improvvisa di San Giuliano, Sonnino agì in continuità con la politica di quest’ultimo, sostituendo però un atteggiamento più dinamico all’incertezza e all’attendismo del San Giuliano. Anziché attendere dall’andamento della guerra il profilarsi di un vincitore per porvisi vicino, Sonnino, persuaso anche di una rapida vittoria austro-tedesca si convinse che, per evitare i pericoli di un isolamento internazionale del paese, fosse necessario rompere la neutralità dichiarata dal governo italiano il 2 agosto e scendere in guerra a fianco di Vienna verosimilmente entro la primavera del 1915, non prima però di aver concordato con quest’ultima, anche in cambio dell’intervento italiano, la natura delle compensazioni territoriali che in base all’art. VII sarebbero spettate all’Italia a seguito delle nuove conquiste balcaniche compiute dall’esercito asburgico.
Contrariamente a quanto spesso sostenuto, Sonnino rimase fino all’ultimo sostenitore della fedeltà alla Triplice e fu in realtà solo l’intransigenza del governo austroungarico nell’ignorare le precise richieste italiane di compensazione territoriale che spinsero il governo Salandra-Sonnino a troncare le trattative con Vienna e negoziare in segreto con le potenze dell’Intesa (Gran Bretagna, Francia e Russia) il Patto di Londra. L’accordo, firmato il 26 aprile 1915 e mantenuto segreto, fu un grande successo diplomatico di Sonnino perché dava soddisfazione agli obiettivi della politica estera italiana ricercati nei decenni precedenti. Oltre a garantire un equilibrio nel Mediterraneo centro-orientale e prevedere qualche allargamento delle colonie italiane, il patto stabiliva che in cambio dell’intervento l’Italia avrebbe così ottenuto, oltre al Trentino e al Sud Tirolo (con confine sul Brennero), il controllo della Venezia Giulia e dell’Istria (ad eccezione di Fiume), della Dalmazia settentrionale e della gran parte delle isole, di Valona e del suo retroterra.

Firmato segretamente l’accordo e denunciata la Triplice solo il 3 maggio, il 20 Sonnino presentò al Parlamento una raccolta di atti diplomatici che documentavano le fallite trattative tra Roma e Vienna e illustravano le ragioni della guerra (il cosiddetto Libro Verde). L’Italia dichiarò guerra all’Austria-Ungheria il 23 maggio 1915 mentre l’adesione all’Intesa fu resa pubblica solo il 30 novembre. Sonnino il 1° dicembre, in un discorso tenuto alla riapertura delle Camere, poté presentare le ragioni e gli obiettivi della guerra a fianco dell’Intesa. Il rapporto diplomatico con gli alleati si rilevò però subito complicato per via dell’atteggiamento sospettoso degli anglo-francesi che ritenevano l’Italia poco affidabile, imputandole di condurre una sorta di guerra separata con Vienna sulla base dei soli interessi nazionali (in effetti la dichiarazione di guerra alla Germania, richiesta all’Italia dal Patto di Londra, sarebbe giunta solo il 28 agosto 1916). Fu soprattutto Sonnino che con lento lavoro diplomatico poté ricucire in parte i rapporti, assicurare il rispetto dei patti da parte dell’Italia e divenire l‘uomo forte dell’Intesa a Roma: egli «è il solo che ha l’autorità all’interno ed inspira vera fiducia all’estero», scriveva nel 1916 sul suo diario Guglielmo Imperiali ambasciatore italiano a Londra. Tuttavia, l’andamento complessivo delle operazioni belliche sfuggito oramai a ogni previsione, il successivo intervento statunitense a fianco dell’Intesa nell’aprile del 1917 e lo scoppio della rivoluzione bolscevica in Russia, mutarono non solo la situazione politica interna ma soprattutto gli equilibri politici e diplomatici. La pubblicazione inattesa da parte della stampa sovietica dei contenuti del Patto di Londra costrinse Sonnino nel dicembre 1917 a difendere in parlamento le ragioni del segreto diplomatico e a respingere le richieste di dimissioni presentate dall’opposizione. Sul piano internazionale, negli ultimi anni del conflitto Sonnino continuò a lavorare soprattutto per creare il terreno favorevole affinché al futuro tavolo della pace potessero essere mantenuti gli accordi sanciti nel Patto di Londra.

Sonnino alla Camera nella seduta del 18 dicembre 1916 spiega le ragioni dell'inopportunità di una pace separata con Vienna (La Domenica del Corriere)

Sonnino alla Camera nella seduta del 18 dicembre 1916 spiega le ragioni dell’inopportunità di una pace separata con Vienna (La Domenica del Corriere)

Il suo rifiuto, tra la fine del 1916 e gli inizi del 1917, di accettare le offerte di parte tedesca per fa siglare all’Italia una pace separata con Vienna era motivato proprio dal timore che con questa sarebbero andate in frantumi le acquisizioni promesse all’Italia col Patto. Tuttavia, al pari di molti altri leader europei, Sonnino non colse probabilmente fino in fondo che l’intervento statunitense in Europa e soprattutto la politica di pacificazione del Presidente Wilson avrebbero imposto una netta presa di distanza dalle logiche di potenza e dalle dinamiche della diplomazia segreta che in passato avevano retto le relazioni tra gli stati europei e che alcuni ritenevano di poter riproporre ancora dopo il 1918. Le future condizioni di pace indicate da Wilson nei celebri 14 punti smentivano queste aspettative e in particolare respingevano la legittimità delle rivendicazioni italiane riconosciute nel Patto di Londra, bollandole come imperialiste. Sonnino stesso, ricercando sempre con gli alleati un’applicazione integrale dei termini del Patto di Londra si dimostrò forse troppo intransigente, trascurando l’eventualità di adeguare la sua posizione ai nuovi equilibri internazionali mutati a seguito dell’ingresso in guerra degli Stati Uniti.

 Queste premesse, assieme all’allineamento franco-britannico sulle posizioni statunitensi, al termine della guerra avrebbero fortemente condizionato i lavori della Conferenza di Pace tenutasi a Parigi tra il 18 gennaio 1919 e il 21 gennaio 1920. La classe dirigente liberale italiana, nonostante avesse incassato il successo politico di Vittorio Veneto e della conseguente conquista italiana dei territori irredenti, vi si presentò delegittimata da una crisi di rappresentanza parlamentare e incalzata dall’opposizione socialista e cattolica. Sonnino, la cui presa sulla politica estera italiana era ora subordinata al protagonismo del nuovo presidente del consiglio Vittorio Emanuele Orlando, rappresentò meglio di altri il simbolo di questa fragilità nazionale. Ormai settantunenne e dopo circa quattro anni «di estrema tensione nervosa, senza un giorno di riposo», come ebbe a scrivere lui stesso, Sonnino non riuscì a far valere le sue doti diplomatiche né a sfruttare la sua profonda conoscenza delle lingue per avvantaggiare la posizione italiana: alla conferenza «Sonnino tace in tutte le lingue che sa ed Orlando parla in tutte le lingue che non sa» recitava un motto molto diffuso al tempo. Sonnino, dovette peraltro allinearsi alla impostazione diplomatica data da Orlando che anziché chiedere la semplice applicazione del Patto di Londra, come da lui suggerito, puntava anche a ottenere l’annessione di Fiume. L’opposizione statunitense alle rivendicazioni dell’Italia sulla Dalmazia (dopo che le erano stati invece riconosciuti i diritti sul Trentino e l’Istria occidentale) e la proposta di Wilson di fare di Fiume una città libera impedirono di raggiungere in sede di trattative un accordo e furono alla base nell’aprile 1919 dell’abbandono dalla conferenza della delegazione italiana e poi delle dimissioni del governo Orlando-Sonnino il 23 giugno successivo.

Lo statista toscano, da quel momento e negli anni seguenti fu spesso additato come il responsabile del fallimento della diplomazia italiana e della vittoria mutilata. Il giornale della federazione socialista fiorentina, “La Difesa”, nell’agosto 1919 lo chiamò ad esempio «l’inetto bocciato di Parigi», «unico e vero responsabile della rovina d’Italia per averla coinvolta e trascinata, contro volontà, nell’inumana carneficina». Per Giovanni Amendola, il metodo diplomatico di Sonnino tenuto a Parigi fu causa «di tutte le cecità e di tutte le rovine», mentre più tardi Togliatti vi avrebbe rintracciato «il vero responsabile del fallimento della diplomazia italiana». In realtà, se è vero che a Parigi la stella di Sonnino apparve assai opaca, va però detto che la macchina diplomatica da lui diretta nel corso della guerra si era rivelata efficiente e la sua politica estera coerente con il raggiungimento degli interessi nazionali.

Se per alcuni dei suoi detrattori la sua visione degli interessi italiani nell’Adriatico fu ritenuta troppo moderata o accondiscendente alle rivendicazioni degli altri Stati balcanici questo lo si dovette in parte al fatto che la sua politica estera non fu mai di tipo imperialista ma tenne anzi conto delle altre nazionalità oltre che della propria. La decisione pur dolorosa assunta all’inizio del 1915 assieme a Salandra di non includere tra i territori richiesti dall’Italia nel Patto di Londra la città di Fiume, fu presa anche perché si ritenne giusto che in caso di dissoluzione dell’Impero asburgico l’Ungheria o, in caso di indipendenza da questa, la Croazia potessero avere uno sbocco sul mare per le esigenze commerciali delle loro popolazioni. Più in generale, la defaillance della politica estera italiana al termine dei negoziati di Parigi, anziché addossarsi solo a Sonnino dipese più che altro dalla profondità della crisi interna alla classe dirigente liberale, dalle contraddizioni di un paese affetto da evidente arretratezza economica e sociale, nonché in sede diplomatica dall’intransigenza statunitense e dall’atteggiamento ostile di Francia e Gran Bretagna, oltreché dall’effettivo difetto negoziale della delegazione italiana. Il giudizio severo che toccò allo statista toscano fu perciò in buona parte esagerato. Guglielmo Imperiali, che pure dalla politica estera del toscano aveva spesso dissentito, scrisse sul suo diario dopo l’abbandono di Sonnino della conferenza di Pace: «non posso però non inchinarmi dinanzi all’onestà, rettitudine ed altissimo sentimento patriottico dell’uomo, di cui gli sforzi e l’importanza dei risultati comunque già ottenuti meritavano miglior sorte».




Vittorio Locchi

Vittorio_Locchi_Toscana_NovecentoQuella di Vittorio Locchi è stata una figura di rilievo nel panorama della poesia italiana di inizio Novecento. Poeta ben più che promettente scomparse però, a soli 28 anni, a causa di un sommergibile tedesco durante la prima guerra mondiale.

Locchi era nato a Figline Valdarno l’8 marzo 1889. Aveva ricevuto il medesimo nome del padre ucciso solo tre mesi prima mentre cercava di separare due contendenti in una rissa. La sua adolescenza è quella di un ragazzino esuberante, uno scapestrato. I giochi all’aria aperta e i cavalli lo attirano più dei libri. Uno dei suoi due biografi, Vittorio Franchini, racconta un episodio di una lite con un compagno. In un impeto d’ira il giovane Vittorio afferra un calamaio e glielo scaglia addosso. Il maestro si infuria e gli pone un ultimatum «O mettete giudizio, o coi cavalli di ‘Zio Pasqualone’». Vittorio resta appartato tutta la mattina, poi con fare sicuro va verso il maestro e lo informa della decisione «voglio studiare», gli dice.
Si fa chiudere in un collegio a Firenze. Studia ardentemente e in un anno recupera il tempo perduto prendendo la licenza tecnica. Prosegue gli studi all’Istituto tecnico, ramo Ragioneria. E qui ha il primo incontro fondamentale della sua carriera: quello con il suo professore, il poeta di scuola carducciana Diego Garoglio. È questi il primo ad accorgersi del talento del giovane. Allora Vittorio è ideatore e direttore del giornalino “L’Idea studentesca” un foglio portatore di idee patriottiche e nazionalistiche.

Tornando a Figline Valdarno Vittorio dà vita con alcuni amici ad una brigata in cui si compongono e si leggono poesie. I luoghi di raduno sono le sponde del fiume Resco e un bar nella piazza del paese. La loro diventa la “Brigata del Giacchio”. È lo stesso Vittorio Locchi a raccontare l’origine del singolare nome:
«Una sera che il vento soffiava più forte, nacque d’improvviso il nome della brigata. Uno di noi, il più sciammanato e allegro […] portava sempre […] una giacca ampia e prolissa che non finiva mai. A vederlo, così lungo e magro com’è, camminare […] sventolando le braccia con le falde di quella sua giacchettina sempre al vento come ali, pareva proprio un uccellaccio. Quella sera il vento era più forte e a veder venire l’amico verso di noi come portato dalla giacchetta, mi venne fatto di dire: ‘Ecco il giacchio’. In lingua ‘giacchio’ è una rete, ma io gli avevo dato un significato tutto mio di giacchettine, tutti lo capirono subito e sul momento fu stabilito di chiamare la nostra compagnia ‘La Brigata del giacchio.’».

Nella brigata viene composto il nucleo di quelle poesie che, pochi anni dopo, verranno pubblicate come “Le canzoni del Giacchio.” Intanto Vittorio diplomatosi ragioniere ha necessità di un impiego. È il 1909, ha vent’anni, e trova lavoro come contabile in un’azienda fiorentina. È un lavoratore scrupoloso, per quanto di fronte alle  non riesca a non distrarsi e così alcuni clienti alle lettere contabili trovano allegati fogli di poesie. Vince poi un concorso per impiegato postale. Deve lasciare familiari e amici e partire per Venezia.

È il 1910. Il periodo veneziano, che per Vittorio durerà fino alla sua chiamata al fronte, si dimostrerà il più importante e fecondo. Fonda una nuova compagnia poetica che chiama “Tempestissima”. Si fa strada nel giornalismo e collabora con il giornale “L’Adriatico”. Grazie all’interessamento del suo vecchio professore Diego Garoglio riesce a pubblicare nella collana “Scrittori nostri” una scelta di liriche del poeta veneziano del XV secolo Giustinian da lui commentate. Si consolida poi in lui una fiorente vena drammaturgica e compone “La Notte di Natale”, “La Tempesta” e soprattutto “L’Uragano”.

Negli anni veneziani avverrà anche l’incontro che lo consacrerà come uno dei più promettenti giovani poeti italiani: quello con l’editore spezzino Ettore Cozzani. Questi pubblica una collana di poesia denominata “l’Eroica”, a celebrare la poesia che eroicamente resiste nonostante i tempi ostili. Il critico Sam Benelli gli fa avere alcune poesie del giovane Vittorio e Cozzani ne rimane entusiasta e decide di pubblicarle nel 1914 ne “L’Eroica” con il titolo “Le canzoni del Giacchio”.

Intanto, sempre nel 1914, quando Gabriele D’Annunzio pronuncia a Quarto la famosa orazione per l’intervento italiano nella prima guerra mondiale Vittorio ascolta entusiasta. Rientrato a Venezia, una sera balza sui tavoli di un caffè in Piazza San Marco e arringa la folla.
Frontespizio Santa GoriziaCon l’ingresso dell’Italia in guerra il 24 maggio 1915, Vittorio parte immediatamente per il fronte come tenente della XII divisione di fanteria. Al fronte scrive articoli per il Giornale d’Italia e compone “Il Testamento”. Si ammala, ma riesce a rientrare in tempo per partecipare il 9 agosto 1916 alla presa di Gorizia. Il generale Laderchi ha per Vittorio un incarico diverso dal suo ruolo abituale: comporre un poema per celebrare il successo. Obietta timidamente che forse non è la persona più adatta. Ma non può discutere l’ordine e completa l’opera prima del Natale di quell’anno. Ne nascerà la sua opera più famosa, “La Sagra di Santa Gorizia”, che pubblicata postuma per iniziativa del Cozzani verrà ristampata continuamente  fino al 1968.

Poco prima, nonostante le condizioni di salute non ottimali, Locchi aveva scritto ai superiori chiedendo di “tenerlo presente nell’eventualità di una spedizione all’estero: essendo scapolo, giovane ed entusiasta della nostra guerra, sarà tanto più lieto quanto più si tratterà di andare lontano e d’incontrare rischi e disagi”.
All’inizio del 1917 il comando italiano decide di inviare un corpo di spedizione in Palestina. Vittorio Locchi viene prescelto per partecipare. Deve imbarcarsi per Napoli il 13 febbraio. Sono cinque le navi che salpano da quel porto. A Vittorio, che è ufficiale, sarebbe destinata una nave più agiata. Sceglie invece di imbarcarsi su una nave stracolma di soldati semplici: il Minas. La scelta gli sarà fatale. Il Minas viene affondato da un sommergibile tedesco a largo delle coste greche il 15 febbraio 1917.
Per alcuni giorni la famiglia di Vittorio spera. Poi la testimonianza del tenente Luigi Trevale scampato al naufragio fa piazza pulita di ogni dubbio. Vittorio ha scelto di andare incontro al suo destino, senza accapigliarsi con il resto della folla per un posto sulle scialuppe insufficienti. La testimonianza del Trevali è riportata da Cozzani nella sua appassionatissima biografia Come visse e come morì Vittorio Locchi. «È morto eroicamente cercando di calmare l’equipaggio in preda al panico. Il primo siluro, urla con tutta la sua forza il giovane Vittorio, non ha colpito gravemente, la nave non sta affondando. Poi un secondo sicuro e la nave si inclina verticalmente scomparendo in pochi minuti.».