Assunta Del Freo (1919-2004)

Assunta Del Freo, nata a Montignoso l’8 novembre 1919 e morta il 1° agosto 2004, è una delle undici donne riconosciute partigiane combattenti nella Compagnia Montignoso, della quale è membro effettivo dal 1° maggio al 31 dicembre 1944.

Assunta Del Freo (©️Archivio famigliare; ISRA)

Tra i suoi ruoli vi è quello di supporto logistico, ovvero di trasporto viveri, messaggi, informazioni ed armi. Assunta è coraggiosa, consapevole e pronta ad affrontare i pericoli presenti sui sentieri montani, spesso battuti da pattuglie tedesche. Quando deve svolgere una missione lascia suo figlio Giuseppe, di soli cinque anni, ad una compaesana, Francesca Edifizi, che di anni ne ha quattordici, affinché si prenda cura di lui. Racconterà ai figli che un giorno, scesa dai colli di Montignoso per dirigersi verso Antona a consegnare il carico destinato alla banda, viene fermata da una pattuglia tedesca nei pressi del ponte d’Arola. I militi la molestano, ma lei riesce a non perdere il controllo e continua per la sua strada con la sua cesta sul capo, evitando una perquisizione che avrebbe permesso di scoprire le armi nascoste sotto la frutta.

La Compagnia Montignoso è incorporata nel Gruppo patrioti apuani, nato il fra il giugno e il luglio del 1944 dalla riorganizzazione di parte del gruppo “Mulargia” dopo l’eccidio di Forno del 13 giugno. Dislocata sui monti sopra Massa e Montignoso e comandata da Pietro Del Giudice, la formazione si distingue da molte altre sia perché è strutturata sul modello dell’organizzazione militare, sia perché rifiuterà sempre il commissario politico, qualificandosi dunque come autonoma da tutti i partiti. I Patrioti apuani riescono, anche grazie alle donne partigiane, a superare due grandi rastrellamenti: uno di fine agosto 1944 e uno tra la fine di novembre e l’inizio di dicembre, restando attivi fino alla Liberazione. Al momento della ripresa dell’offensiva alleata contro la Linea Gotica, il 5 aprile 1945, il loro contributo è fondamentale per lo sfondamento del fronte.

Assunta Del Freo

Altro ruolo delle donne apuane, e non solo montignosine, nella Resistenza è quello di attraversare gli impervi passi di montagna per andare verso la Garfagnana e l’Emilia e scambiare sale e corredi con farina e cibo, che si caricano in spalla e riportano a casa.

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🟥Relazione del Comando Gruppo partigiani di Montignoso, il comandante Francesco Orlandi, 24 giugno 1946 ( in Archivio AISRT, Fondo Resistenza armata in Toscana, b. 3, f. Massa Carrara, s.f. Gruppo patrioti apuani, Gruppo Partigiani Montignoso/Comando)

Le partigiane del Gruppo furono di gran giovamento e dimostrarono, oltre che gran patriottismo un indiscusso coraggio. A loro vennero affidate le missioni più difficili e più pericolose e le portarono felicemente a termine. Accompagnarono partigiani, li aiutarono in casi difficili a mettersi in salvo, trasportarono per loro armi, munizioni e viveri. Proprio a loro i partigiani devono essere riconoscenti perché attraverso difficoltà di ogni sorta superarono tutti gli sbarramenti tedeschi della zona per portare notizie preziosissime e molte volte quel pane che i partigiani sognavano anche la notte. Durante i rastrellamenti furono queste donne che mantennero il collegamento fra le formazioni, che portarono gli ordini, che salvarono importanti e segretissimi documenti. Furono esse che, passando attraverso i posti di blocco tedeschi, portarono tempestivamente gli ordini di movimenti che rappresentarono spesso la salvezza di interi reparti




Luisa Ballocci (1933-2020)

Nata nel 1930 a Trequanda, in provincia di Siena, fin da piccola respira un clima familiare profondamente antifascista: il padre Luigi, ex impiegato pubblico, non ha più un lavoro stabile a causa della sua opposizione al regime, mentre la madre Giuseppina Dini è maestra elementare a Pergine.

Dopo l’8 settembre 1943 il fratello Raul è catturato dalle truppe tedesche e caricato su una camionetta diretta verso il Nord Italia; giunti a Firenze, in un momento di distrazione dei carcerieri, riesce a scappare. Tornato a casa è richiamato per la leva e, con altri, si nasconde sulle colline limitrofe ad Arezzo. Si rifugia in un capanno di frasche e Luisa, assieme alle due sorelle maggiori, è incaricata di portargli coperte e cibo. Inizia così anche per lei, che ha circa tredici anni, l’attività di staffetta.

Luisa Ballocci

La casa di Luisa è frequentata da allievi che vanno a lezione per prendere la licenza elementare, cosicché la madre può ricevere lettere senza destare sospetti; i messaggi sono poi affidati alle figlie che devono consegnarli nella zona di Badia Agnano, dove alcune famiglie contadine ospitano dei partigiani.

Dopo che la sorella Silvia è stata avvicinata da un soldato tedesco, la madre cuce loro una tasca di stoffa che può essere legata alla vita, in modo da poter disporre di un nascondiglio più sicuro. Quando la famiglia viene avvertita che i movimenti di Silvia sono seguiti dai militi fascisti, sono Luisa e la sorella Ernesta (Nenne) a continuare da sole questa attività, che si svolge anche più volte a settimana. Un giorno, probabilmente il 9 luglio 1944, si vedono correre incontro i contadini che le esortano a scappare; in seguito ad uno scontro fra partigiani e tedeschi il casolare è stato incendiato e si conta almeno una vittima, un’anziana donna paralitica lasciata a casa con la speranza che fosse risparmiata1. Dopo l’accaduto anche la famiglia di Luisa è costretta ad allontanarsi da Pergine per farvi ritorno nei giorni successivi alla Liberazione, avvenuta fra il 17 e il 18 luglio.

Insieme a Nara Scaloncini (1931-2018)2, Luisa sarà la più giovane in tutta la Regione a ricevere il riconoscimento di partigiana combattente; la stessa qualifica verrà attribuita al padre, alla madre e al fratello, comandante dell’8a banda del Raggruppamento Monte Amiata che verrà insignito nel 1952 della Medaglia d’argento.

Luisa Ballocci

NOTE

2 Anche Nara Scaloncini fu attiva nel Raggruppamento Monte Amiata, nell’area fra il senese e il grossetano.

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🟥Intervista a LUISA BALLOCCI, in L. Antonelli, “Voci dalla storia. Le donne della Resistenza in Toscana tra storie di vita e percorsi di emancipazione”, Pentalinea, 2006, pp. 130-132

…la mia mamma diceva che bisognava fare tutto quello che era necessario fare, non c’era scelta, nessuno di noi poteva avere la scelta di dire: – io questo non lo faccio -. Perché era troppo importante, era veramente fondamentale che i collegamenti ci fossero e lo doveva fare chi era dentro ad una specie di sistema che non poteva permettere di essere allargato così. La sicurezza, allargare troppo era rischioso. E la mia mamma era convintissima di quello che faceva, era una donna molto forte.
[…] Io pensavo di fare una cosa molto importante, ero convintissima, sentivo che la mia funzione, per quanto di bambina, era importante e anzi mi sentivo, come posso dire, ripagata dal fatto che non si immaginassero che una bambina poteva fare da tramite. Mi sentivo importante e soprattutto io ho acquistato in quel periodo il senso del dovere, un senso del dovere quasi patologico però, […] mi è rimasto appiccicato, l’ho assimilato, come una cosa tanto importante più della vita.

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🟥Intervista in Enzo Gradassi (a cura di), Donne aretine. Guerra pace ricostruzione libertà. Mostra documentaria, Montepulciano, Le Balze, 2006, pp. 34-5.

E allora si continuò noi: io, la Nenne e il cane. Ci legava questo nastro con la tasca in vita, sotto i vestiti, noi si arrivava da queste famiglie, si consegnava soltanto a uno, che era un capoccia piuttosto anziano (del quale non saprei dire l’età, perché quando siamo bambini ci sembrano tutti vecchi, magari avrà avuto cinquant’anni). Questo succedeva due-tre e talvolta quattro volte la settimana. Lo abbiamo fatto decine e decine di volte. Per un mese e mezzo l’ho fatto anche da sola: io e il mio cane, perché Nenne, che era più gracilina, si ammalò. A lei queste camminate non facevano bene o forse era in un’età un po’ delicata. Poi venne il bel giorno che i contadini ci vennero incontro a dire “Scappate!”. C’era stato uno scontro tra partigiani e tedeschi. Per fortuna la gente era scappata… ma loro prima ammazzarono le bestie nelle stalle, poi dettero fuoco ad ogni cosa. Questi contadini avevano lasciato in casa una vecchia paralitica pensando che a lei non avrebbero fatto niente e invece questa povera vecchia fu bruciata viva. Perché dico che noi eravamo coscienti di quello che facevamo? La mia mamma ci aveva raccontato e spiegato tutte le sofferenze… questa impossibilità del mio babbo di avere un lavoro remunerativo, tutte le ingiustizie che le famiglie meno abbienti subivano […].

Dunque sapevamo di svolgere un lavoro illegale e rischioso.

Pensa che, finita la guerra, per almeno tre anni ogni volta che sentivo suonare il campanello alla porta, sobbalzavo sulla sedia. Non era stato un lavoro inconsapevole. Del resto avevamo visto tante volte i tedeschi tentare di buttare giù la porta di casa per entrare. Tanto è vero che dopo l’episodio dello scontro di San Donato, la mia mamma ci portò via, ci portò in casa di contadini. Cambiammo diverse case di contadini perché capitava che ci fermavamo in una casa dove – per carità! – ci accettavano a braccia aperte. Ma dopo un po’ veniva una pattuglia tedesca, si piazzava lì vicino, magari con i cannoni… e allora si doveva cambiare, spostarsi altrove.

Fin dall’inizio mi era stato raccomandato di non aprire mai le missive, a rischio della vita di tante persone. Persone che facevano questa lotta importantissima per il nostro paese. La mamma diceva che non dovevamo sapere niente. Quindi questo è stato fatto senza nessun merito, senza nessun merito personale: certo per i ragazzi che a vent’anni scelsero invece di imbracciare il fucile fu una cosa molto diversa… o per le donne che proteggevano e curavano i partigiani quando erano feriti, o quelle che nascondevano i prigionieri, quelli evasi dai campi di concentramento: quelle rischiavano la vita. Ne ricordo ancora uno che si chiamava Smith. Quasi in ogni famiglia ce n’era uno, famiglie di contadini. Specialmente quelle vicino al bosco, perché scappavano e si nascondevano nel bosco…




Eleonora Benveduti Turziani, detta Noretta (1908-1993)

Eleonora Benveduti Turziani (Credits: Giaccai)

Nata a Roma il 30 marzo 1908, Eleonora “Noretta” Benveduti trascorre l’infanzia e la prima giovinezza a Gubbio, dove consegue il diploma magistrale e si dedica all’insegnamento. Nel 1938 si laurea in Pedagogia a Roma e successivamente si trasferisce a Firenze per insegnare materie letterarie negli istituti superiori; dall’ottobre 1939 al maggio 1940 prosegue la sua attività di docente presso il R. Ginnasio di Derna, in Libia. Rientrata in patria dopo l’ingresso dell’Italia nel secondo conflitto mondiale, all’insegnamento scolastico affianca i compiti di assistente alla cattedra di Storia della filosofia dell’Università di Firenze.

Donna colta ed emancipata, negli anni Trenta “Noretta” si avvicina, grazie a Joyce Lussu1, al movimento di Giustizia e Libertà. A Perugia, inoltre, ha modo di frequentare gli ambienti liberalsocialisti e di conoscere Aldo Capitini2. Nei primi anni Quaranta aderisce al neonato Partito d’Azione (Pd’A) insieme al marito Giovanni Turziani, riscuotendo la piena fiducia dei compagni. Nel settembre 1943 il Comando esecutivo azionista le affida la responsabilità della “Commissione intendenza”, che si occupa prevalentemente degli approvvigionamenti per le formazioni partigiane in montagna e per i gruppi di città, nonché di garantire protezione a fuggiaschi e perseguitati politici e razziali mediante la fornitura di documenti falsi, vestiario, viveri e medicinali. Arrestata in novembre dagli uomini di Mario Carità, capo del Reparto servizi speciali della polizia fascista, pochi mesi dopo il rilascio – rimossa dall’insegnamento per motivi politici – entra in clandestinità.

Eleonora Benveduti Turziani (Credits: labibliotecadiscandicci.wordpress.com)

Continuerà instancabilmente ad operare per il partito fino al giorno dell’insurrezione di Firenze, l’11 agosto 1944: a guerra finita le sarà riconosciuta la qualifica di partigiana combattente afferente alla III Divisione “Giustizia e Libertà”.

Dopo la Liberazione, Eleonora prosegue il proprio impegno pubblico: candidata alla Costituente senza essere però eletta, lascia il Pd’A prima della sua definitiva fine politica e si iscrive al PCI, nelle cui liste viene eletta in Consiglio comunale a Firenze (novembre 1946).

Già presidente provinciale dell’Unione donne italiane, dal 1951 al 1961 ricopre la carica di sindaco di Scandicci; successivamente viene eletta consigliere provinciale.

Abbandona il PCI nel 1965, a seguito di forti contrasti interni. Decide allora di dedicarsi principalmente allo studio e all’organizzazione di liberi corsi su temi politici, filosofici e sociali, molto apprezzati dal pubblico e frequentati anche da numerosi studenti. Ritornata nella sua Gubbio nel 1989, “Noretta” vi muore il 17 giugno 1993.

Eleonora Benveduti Turziani nel 1950 tra i fondatori dell’ISRT (Credits: labibliotecadiscandicci.wordpress.com)

NOTE:

1 Joyce Lussu (Gioconda Beatrice Salvadori Paleotti, 1912-1998) è stata una scrittrice e traduttrice, capitano nelle brigate Giustizia e Libertà, Medaglia d’argento al valor militare, moglie del politico e scrittore Emilio Lussu.

2 Aldo Capitini (1899-1968) è stato un intellettuale e politico antifascista, teorico del movimento nonviolento.

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🟥Memoria di testimoni in: Sandro Contini Bonacossi, Licia Ragghianti Collobi (a cura di), “Una lotta nel suo corso. Lettere e documenti politici e militari della Resistenza e della Liberazione“, prefazione di Ferruccio Parri, Venezia, Neri Pozza, 1954, p. 302.

La Commissione Intendenza fu affidata da principio ad Eleonora Turziani, coadiuvata da Eva Mori, Bice Paoletto, Andreina Morandi, Elena Fanfani, Flunci, Romano Ragazzini, ed altri, e Bernardo Seeber per la Commissione Prigionieri. Già il 13 settembre aveva organizzato sia i depositi, che i turni di servizio per la consegna ai gruppi armati, secondo le indicazioni del Comando Militare. Per dare un’idea della ristrettezza di mezzi, si pensi che alla commissione non poterono essere assegnate, all’inizio, che cinquemila lire mensili. Tuttavia coi doni ed anche con i colpi di mano su magazzini e caserme si riusciva a rendere cospicue le riserve di viveri, di medicinali, di vestiario, coperte ed oggetti per i partigiani. Per esempio nel novembre Giorgio Faitsman e Max Boris poterono procurare, con un colpo di mano ad un magazzino militare, 160 teli da tenda, e un ingentissimo quantitativo di coperte e vestiario militare, che furono poi preziosi d’inverno; mentre Giovanni Turziani, medico distaccato dal P. d’Az. in servizio, traeva dal magazzino dell’Ospedale militare di Villa Granduchessa altro materiale prezioso. Per dare un’altra idea delle occorrenze, si ricorda che il 22 dicembre 1943 il comando chiese alla Turziani 350 carte annonarie per i partigiani. Arrestata da Carità il 23 dicembre (e per fortuna era stato fatto sparire dalla casa un deposito compromettente di materiali, e specialmente 150 bracciali tricolori con la scritta CTLN ordinati per i patriotti), fu sostituita da Eva Mori, e poi soprattutto da Achille Belloni (Prati), che già cooperava al servizio dall’ottobre. La Turziani veniva poi rilasciata e riprendeva attività di assistenza alle famiglie dei patriotti dal febbraio 1944.




Bruna Talluri (1923-2006)

Bruna Talluri (a destra) con la sorella Maria (©️Archivio della famiglia di Bruna Talluri)

Nasce a Siena il 12 giugno 1923, prima di tre sorelle e un fratello, da Amalia Barborini e Luigi Talluri. La famiglia Talluri appartiene alla piccola borghesia cittadina, aperta e liberale tra le mura domestiche, fascista rispettabile all’esterno. L’iscrizione al PNF permette a Luigi di mantenere il posto di ragioniere del Monte dei Paschi, a Bruna di frequentare la scuola elementare privata dalle Suore di Santa Caterina e sfuggire così ai rigidi dettami della scuola fascista e agli obblighi della socialità di regime che mal sopporta fin da bambina. La passione e lo studio della storia e della filosofia al Liceo classico Enea Silvio Piccolomini le fanno percepire tutta la distanza fra il libero pensiero e le restrizioni imposte dalla dittatura. Nel 1941 Luigi è condannato a due anni di confino con l’accusa di aver pronunciato parole ingiuriose nei confronti del duce. Bruna, che frequenta l’ultimo anno di liceo, è costretta a abbandonare gli studi e a prendere il posto di lavoro del padre per mantenere la famiglia; riuscirà comunque a sostenere l’esame di maturità e ad iscriversi alla Facoltà di Lettere e filosofia all’Università di Siena. Negli anni del liceo ha stretto un sodalizio intellettuale con un suo professore, Luigi Bettalli, di idee liberalsocialiste, con il quale resta in contatto anche negli anni successivi.

Agli inizi del 1943 si reca a Torino a trovare l’amica e compagna di studi Ida Levi e incontra l’avvocato Fortini, che le consegna un pacchetto di stampa clandestina da recapitare ad alcuni referenti senesi del Partito d’Azione. Avendo già consolidato questi legami, dopo l’8 settembre si attiva subito per nascondere i soldati sbandati e collabora alla costruzione di una rete segreta di militari e civili intenzionati a resistere all’occupazione.

Le sorelle Lina e Rina Guerrini, anche loro legate al Partito d’azione, nascondono nella loro abitazione nel vicolo del Bargello un ciclostile che usano insieme a Bruna per scrivere e diffondere volantini e un bollettino titolato “Liberalsocialismo”. Trasmette ai giovani le parole d’ordine necessarie per raggiungere i primi gruppi partigiani sparsi nelle campagne, raccoglie soldi, medicine, sollecita le donne a guastare gli indumenti per adattarli ai giovani alla macchia, inventa espedienti per ricoverare partigiani e soldati alleati bisognosi di cure nell’ospedale di Siena. In questo lavoro si fa aiutare dalla sorella Maria e dal giovane fratello Marcello.

Verso la fine dell’inverno 1943-44 il gruppo azionista senese subisce un duro colpo: il professor Bettalli, le sorelle Guerrini e alcuni ufficiali che collaborano con il “Raggruppamento Monte Amiata” vengono arrestati. Bruna non viene coinvolta e continua ad operare con le poche forze attive in città. Tuttavia a metà giugno viene condotta alla Casermetta, sede della polizia politica, e messa a confronto con un giovane trovato in possesso di volantini; resiste ad un lungo interrogatorio ed è lasciata libera dal famigerato comandante Luigi Zolese, ma ritiene necessario allontanarsi con la famiglia da Siena, ospitata da amici alla fattoria di Celsa.

Dopo la Liberazione torna a casa e insieme a Renata Gradi, Tina Meucci e Annunziata Pieri fonda i Gruppi di difesa della donna. Riconosciuta partigiana combattente, l’impegno culturale e politico rimane il filo conduttore della sua vita: apprezzata saggista, docente di storia e filosofia del Liceo scientifico Galilei, infaticabile testimone della Resistenza. Insieme a Vittorio Meoni è fondatrice dell’Istituto storico della Resistenza senese e sua prima direttrice. Muore il 21 novembre 2006.

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🟩 Testimonianza di Bruna Talluri su “Noi Partigiani. Memoriale della Resistenza italiana”

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🟪 Bruna Talluri tenne dal 1939 al 1945 un diario, conservato alla Fondazione Archivio diaristico nazionale di Pieve Santo Stefano. I brani citati sono tratti da Patrizia Gabrielli, Scenari di guerra, parole di donne. Diari e memorie nell’Italia della seconda guerra mondiale, Bologna, Il Mulino, 2007, pp. 262-3, 266.

13 ottobre 1944

Mi hanno offerto un posto alla redazione della “Libertà”. Non so cosa fare. Devo decidere tra politica e… cultura.

Non dimentico, d’altra parte, di essere una donna. Mi manca la sicurezza e la fiducia in me stessa. Poi non vedo chiara la situazione del Partito d’Azione. Non capisco il significato delle Associazioni femminili o dei movimenti femminili nell’ambito dei Partiti.

Bruna Talluri (©️Archivio della famiglia di Bruna Talluri)

Che senso hanno? Non siamo tutti cittadini, uomini e donne, con uguali diritti?2 Bisogna puntare su questa effettiva uguaglianza. Come studiosa mi considero una dilettante, ma potrei dedicarmi all’insegnamento… Sono come color che son sospesi… Non ho voglia di decidere… Sono abbastanza matura, purtroppo, per sapere che a ventun anni una donna che vuole fare “carriera” politica deve accettare l’aiuto e la protezione di un uomo: è tollerata nella misura in cui lavora su commissione.

Rifuggo per natura da intrighi e compromessi e non potrei rinunciare a pensare e ad agire secondo le mie convinzioni. Stasera sono quasi sicura che sceglierò di insegnare. […]

2 novembre 1944

Quando il pericolo di un “arresto” mi teneva in allarme, mio padre più volte mi aveva detto che avrebbe preso il mio posto e si sarebbe accusato di tutto, se io fossi stata interrogata. Il timore di questo intervento mi impacciava. Allora ricorsi ad uno stratagemma. Dissi a mio padre di aver nascosto nella fodera del mio cappotto un documento compromettente e che lo avrei tirato fuori per confermare le mie responsabilità, se avesse tentato di intervenire. La strisciolina di carta la cucii davvero, in sua presenza, nel bavero del mio cappotto invernale. L’ho ritrovata oggi e l’ho ripiegata con cura. Mi sono intenerita. Naturalmente non era un documento importante: soltanto un piccolo espediente per ingannare mio padre; un rotolino di carta, in cui avevo scritto in microscopica calligrafia un inno ingenuo, e per di più bruttino, al sacro ideale della libertà:

Schiera esigua

in stretta fila

alza al vento

la bandiera

che promette

LIBERTÀ ecc. ecc.

[…]

22 gennaio 1945

Sono stata a Colle Val d’Elsa ad una riunione dell’UDI. Ho dovuto esibirmi con un breve discorso al saloncino comunale. Parlare in pubblico mi imbarazza: non ne sono capace.

25 aprile 1945

Abbiamo ritrovato il gusto di raccontare. Per tanti anni abbiamo vissuto in attesa del nemico: “Taci, il nemico ti ascolta”. Rivedo il dito teso e minaccioso che spunta dal manifesto appiccicato sui muri. Per alcuni anni abbiamo evitato di parlare, di scrivere, imparando soltanto a tacere. Anche oggi se mi sorprendo a parlare di politica con un amico in mezzo alla strada, mi volto in giro preoccupata. Devo ritrovare tutti i ricordi sepolti o accantonati nella memoria per paura del “nemico”…

“L’Italia libera” clandestina, organo del Partito d’Azione, è uscita il 14 aprile con questo titolo: “La Germania crolla. Pronti per l’insurrezione. L’unificazione di tutte le forze partigiane”. Il foglio è arrivato oggi a Siena per canali misteriosi.

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Maria Assunta Lorenzoni, detta Tina (1918-1944)

Tina Lorenzoni (©️Archivio ISRT, Fondo Tina Lorenzoni)

Figlia dell’economista e docente universitario Giovanni Lorenzoni, nasce a Macerata il 15 agosto 1918. Iscritta alla Facoltà di Magistero, con l’entrata in guerra dell’Italia lascia gli studi e presta servizio come crocerossina in soccorso ai feriti di ritorno dal fronte. Dopo l’8 settembre 1943 Maria Assunta Lorenzoni entra in contatto con il Partito d’Azione. “Tina” – questo il nome di battaglia scelto –, entra a fare parte della Brigata V, formazione partigiana inquadrata nella I Divisione “Giustizia e Libertà”. Durante l’occupazione tedesca di Firenze, che durerà undici lunghi mesi, Tina Lorenzoni si adopera in soccorso di ebrei e perseguitati politici, cercando di favorirne la fuga in Svizzera sia procurando loro documenti e carte annonarie falsi, sia accompagnandoli personalmente nel Nord Italia. Staffetta coraggiosa, assiste feriti e malati militari e civili e collabora al reperimento di medicinali e di generi di conforto. Nei giorni cruciali della battaglia di Firenze, Tina attraversa più volte la linea del fronte, mantenendo i collegamenti tra le forze partigiane a nord della città e il Comando d’Oltrarno. Durante una di queste azioni, viene catturata da una pattuglia tedesca e condotta a Villa La Cisterna, sede del comando nazista, per essere interrogata.

Francobollo commemorativo

Il 21 agosto 1944, nel tentativo di sfuggire ai suoi aguzzini, viene freddata da una raffica di mitra: ha soltanto 25 anni. Lo stesso giorno il padre Giovanni, appresa la notizia della cattura di Tina, ma inconsapevole della sua tragica fine, attraversa la città insorta e raggiunge un avamposto alleato per avere notizie della figlia: resta ucciso probabilmente dallo scoppio di una granata tedesca, anche se altre fonti fanno riferimento ad un colpo mortale sparato da un franco tiratore repubblichino.

Maria Assunta Lorenzoni sarà insignita della Medaglia d’oro al valor militare alla memoria. Nel documento per la richiesta della medaglia, il comandante della Brigata Vittorio Sorani presenta la proposta di decorazione usando un linguaggio che, oltre ad essere dettato dalla vicinanza emotiva agli eventi, è modellato sulle celebrazioni delle eroine del Risorgimento. Se il numero di 200 ebrei salvati non si riferisce alla sola attività di Tina, ma a una più ampia rete di soccorso, il testo ripercorre invece fedelmente i suoi ambiti di intervento e offre interessanti indicazioni sulla sua personalità.

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Alberta Fantini (1919-1984)

Alberta Fantini (Archivio ISRECPT)

Albertina Fantini, nota come Alberta, nata a Firenze il 29 agosto 1919, nel 1943 è una studentessa di Lettere all’Università di Firenze e milita nel Partito comunista clandestino.

Nel febbraio 1944 ospita in casa propria a Pistoia Cesare Collini e Guerrando Olmi, inviati dal PCI di Firenze a riorganizzare la federazione locale. Olmi riconoscerà il particolare aiuto resogli da Fantini nell’organizzazione clandestina.

Il Gruppo pistoiese di difesa della donna nasce su iniziativa del PCI nel gennaio 1944 grazie a Leda Niccolai, Alina Lulli e Aladina Gruni; tra febbraio e marzo si costituiscono gruppi simili presso la fabbrica SMI1 di Campo Tizzoro e in altre località della provincia. Le attività e le funzioni del gruppo sono molte, dall’assistenza ai militari disertori e ai soldati alleati scappati dai campi di prigionia, alla cura ai feriti, al sabotaggio, al trasporto di armi, stampa e collegamento tra una formazione partigiana e l’altra. Alberta ne diviene una delle più attive organizzatrici; prende contatti con donne di diversi orientamenti politici, dato che i GDD hanno l’obiettivo di coordinare la componente femminile a prescindere dalle appartenenze ideologiche.

Il suo ruolo nella Resistenza pistoiese è poliedrico; è anche ufficiale di collegamento tra il CLN provinciale e le diverse componenti dell’antifascismo pistoiese. In casa sua si tengono riunioni, si smistano armi e munizioni e si prepara la stampa clandestina. Partecipa inoltre ad azioni di sabotaggio e alla distribuzione di materiale propagandistico.

Ad Alberta Fantini è riconosciuta la qualifica di partigiana combattente con il grado di sergente maggiore; è insignita della Croce di guerra e del “Brevetto Alexander”, un certificato dell’esercito alleato conferito ai patrioti e patriote italiani.

Nel 1949 consegue la laurea in Lettere presso l’Università di Genova e successivamente l’abilitazione all’insegnamento di italiano, greco e latino nelle scuole superiori. Dagli anni Cinquanta, dopo spostamenti in altre città, risiede stabilmente a Pistoia dove insegna al Liceo classico Niccolò Forteguerri e, ben più a lungo, al Liceo scientifico Amedeo di Savoia fino alla morte, avvenuta a Pistoia il 18 febbraio 1984.

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Alberta Fantini

🟪Relazione conservata in Archivio ISRT, Miscellanea di piccoli fondi, Carte Alberta Fantini, pubblicata in Mazzamuto Degl’Innocenti, La Resistenza e la presenza femminile a Pistoia, in Comitato femminile antifascista per il XXX della Resistenza e della Liberazione in Toscana, Donne e Resistenza in Toscana, Firenze, Giuntina, 1978, pp. 301-2.

Gruppi di difesa della donna

Corpo volontario della libertà

Fin dall’8 settembre 1943 cominciai a fare propaganda antinazista nella mia zona (Maresca, Campotizzoro, Ponte Petri e zone limitrofe).

Nel novembre 1943 ritornarono a Campotizzoro le mie compagne Fantini Alberta e Beneforti Pia e organizzammo i Gruppi di difesa della donna in quella zona. Vi aderì subito Zora Zinanni e così incominciammo il nostro pericoloso lavoro.

Nostro compito era di fare propaganda antinazista, trovare altre fidate aderenti alla nostra causa, fare opera sobillatrice fra le masse operaie, sabotaggio alla lavorazione bellica.

D’accordo con i capi partigiani della zona (Biondi Sergio, Vivarelli Giuseppe ed altri) organizzammo lo sciopero bianco2 che ebbe esito favorevole nella fabbrica SMI di Campotizzoro.

Dalla fabbrica asportavo munizioni che poi passavo alle brigate partigiane, malgrado la stretta sorveglianza tedesca e repubblichina. Le brigate partigiane soffrivano per mancanza di viveri, indumenti ed armi. Organizzai una raccolta fra tutti gli operai e la popolazione e così fu possibile fare avere armi, viveri e indumenti ai partigiani del Monte Teso, opera che si svolgeva in mezzo a pericoli tremendi per la grande sorveglianza tedesca o repubblichina. Questi rifornimenti sono stati continui.

Ho assolto anche altri pericolosi incarichi affidatimi sempre dai capi partigiani.

Il mio compito l’ho assolto fino a Liberazione avvenuta: settembre 1944 con entusiasmo e fede.

Di tutto questo ne possono far fede Pia Beneforti, Fantini Alberta e i capi partigiani suddetti.

Agnoletti Maddalena




Fiorenza Fiorineschi




Valchiria Gattavecchi (1921-2013)

 

Valchiria Gattavecchi

Nasce ad Asciano, in provincia di Siena, nell’ottobre del 1921, figlia di un ferroviere socialista e di una casalinga che saltuariamente fa la sarta. La famiglia arriva a Livorno nel 1930 in seguito al trasferimento del padre. Valchiria riesce a prendere un diploma magistrale preparandosi da sola per le prime due classi e completando nel 1943 il corso di studi a Pisa. L’unico fratello è richiamato in guerra e inviato in Jugoslavia; di lui non si hanno più notizie fino al suo ritorno al seguito delle truppe alleate nei giorni della Liberazione.

Il 3 giugno 1943, a causa dei bombardamenti, Valchiria e la madre sfollano ad Asciano, mentre il padre resta a lavorare a Livorno. Nell’area opera dopo l’8 settembre la 5a Banda autonoma, facente parte del Raggruppamento patrioti Monte Amiata e comandata dall’azionista Bruno Dal Pozzo. A Valchiria è recapitato un biglietto del cugino Mario Farfarini, unitosi alla formazione; inizia dunque a collaborare coi partigiani insieme alla madre e ad altre donne del paese. Esse li riforniscono di alimenti e vestiario, raccolgono collette, curano ammalati; dato che la famiglia possiede una radio, Valchiria si occupa anche di trascrivere i messaggi emessi da Radio Londra e di recapitarli ai partigiani.

Valchiria Gattavecchi (in piedi al centro della foto) all’inaugurazione della Colonia marina “Ilio Barontini”, Livorno 1 agosto 1951.

Dopo la Liberazione non fa domanda per il riconoscimento di patriota, forse perché non ritiene di averne i requisiti. Torna a Livorno e si iscrive al PCI; per sei anni lavora nel partito come funzionaria, poi prende l’abilitazione all’insegnamento e diventa docente nelle scuole professionali. Consegue anche il diploma di assistente sociale all’Università di Firenze e nel 1970 si laurea ad Urbino in sociologia, con una tesi sui movimenti giovanili.

Continua a dedicarsi all’attività politica sia nel partito sia nell’associazionismo: nell’UDI, nell’organizzazione delle colonie estive a Livorno, nell’ANPI. Nel 1953 fonda l’associazione Studenti livornesi. Negli anni Sessanta viene eletta consigliera comunale e si interessa particolarmente del problema degli asili.

Oltre alla spinta ad arricchire il suo percorso di studi, durante tutto il corso della sua vita si dedica ad attività sociali ed educative, in particolar modo coi bambini e coi giovani. Si spegne a 91 anni.

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Intervista a VALCHIRIA GATTAVECCHI, in L. Antonelli, “Voci dalla storia. Le donne della Resistenza in Toscana tra storie di vita e percorsi di emancipazione”, Pentalinea, 2006, p. 687

Io dico che questo si deve sottolineare, se non c’era questo aiuto, questa solidarietà, è stata determinante la solidarietà delle donne e la chiamano la Resistenza taciuta e si deve cercare di metterla in luce. E noi poi che per la prima volta si metteva la testa fuori, per noi era più difficile capire queste cose, se si faceva si faceva per istinto, dice per istinto materno che poi si organizzava questo istinto, si cambiava, si trasformava e diventava forza insomma ecco. Perché chi c’aveva il fratello, chi c’aveva il marito, chi c’aveva il babbo per cui tutti eravamo coinvolti e poi quando le donne si accorsero che non solo la guerra gli prendeva i mariti, i figlioli, ma le coinvolgeva e per i bombardamenti e per il mangiare, quando non avevano da dare da mangiare ai ragazzini che piangevano, cosa gli davano. Fu una cosa spontanea che aderirono, ecco perché anche tante donne pur non avendo…chiesero di andare a combattere anche con le armi e c’andarono e fecero tutto come potevano fare gli uomini, questa è stata la cosa… Secondo me la cosa più grande che ci sia stata è stata questa solidarietà di tutti, di tutti quanti…

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Stralci dell’intervista in Tiziana Noce, Nella città degli uomini. Donne e pratica della politica a Livorno fra guerra e ricostruzione, Soveria Mannelli, Rubbettino, 2004, pp. 107, 134.

Il nostro gruppo era nominato la V banda autonoma. Faceva capo al raggruppamento Amiata, però era autonoma perché l’aveva formata un ufficiale dell’esercito del Partito d’azione, che era stato buttato fuori dall’esercito. Si chiamava Bruno Dal Pozzo, era del Partito d’azione e io ho avuto i primi opuscoli dal Partito d’azione e mi piaceva il Partito d’azione, mi piaceva moltissimo, mi piaceva in particolare la rigidezza, la questione morale, di dire si fa così, si segue una via, il disinteresse, soprattutto. […]

Innanzitutto abbiamo avuto la cobelligeranza e quest’è stata, perché se non ce la meritavamo non ce la davano, e poi perché abbiamo combattuto a fianco degli Alleati.1 La Resistenza è stata una scelta, decisa, ragionata, e sudata, con tanti sacrifici. E poi mi piace sottolineare, te che fai storia,2 perché non è mai stata detta una cosa del genere, le donne sono sempre state sottovalutate. In quell’epoca non ci si faceva caso, in quell’epoca c’era proprio la parità, senza le pari opportunità, nell’epoca della Resistenza eravamo piombati nella parità uomo donna. Perché? Perché i rischi erano uguali. Le donne non soltanto facevano attività di assistenza, di staffette per portare i messaggi, eccetera, ma anche perché avevano gli stessi compiti degli uomini, hanno combattuto con le armi […]. Perché checché ne dicano gli uomini, e cominciano un pochino a capirlo ora, senza il movimento femminile nella Resistenza non si poteva avere quella vittoria che s’è avuto, questo diciamolo sempre.

Valchiria Gattavecchi (Credits: (R)esistenze. Le immagini,
di Giovanna Bernardini e Ippolita Franciosi, Bandecchi & Vivaldi, 2006)

Ora lo hanno capito, anche attraverso le pari opportunità, perché guarda tutta l’assistenza, tutte le comunicazioni, le famose staffette, che ora, dice, si poteva dire che erano ufficiali di collegamento, però l’avete buttato via, il riconoscimento ufficiale non c’è stato, per gli uomini c’è stato, per noi non c’è stato. Quindi noi c’eravamo poste questa questione: noi siamo convinte che serve a qualche cosa, siamo convinte che diamo il nostro contributo, perché se no non si può andare avanti e non si vincerà la nostra battaglia. Eravamo convinte di questo e, d’altra parte, eravamo accettate nelle brigate, con le armi, senza le armi, convinte che si sarebbe continuato, invece poi hanno messo il veto, eh.