Ofelia Giugni (1906-2001)

Giugni Ofelia (©️Archivio Fondazione CDSE)

 

Nasce a Schignano (frazione di Vaiano, allora nel Comune di Prato) nel 1906, tredicesima di quattordici figli. Da giovanissima si trasferisce a La Briglia per lavorare alla fabbrica tessile Forti e fin da subito mostra una forte avversione al regime e a qualsiasi forma di sopruso, tanto che non ha alcuna difficoltà a schiaffeggiare un fascista noto molestatore di sue colleghe.

Ofelia Giugni

Dopo l’8 settembre 1943, con l’inizio dei bombardamenti alleati, la famiglia Giugni sfolla alla cosiddetta Casa Rossa, punto di riferimento dei partigiani della zona, che si trova in un’area collinare in prossimità del Monte Javello. Lì conosce l’antifascista Armando Bardazzi, futuro comandante militare della Brigata Buricchi, che diventerà compagno per la vita e che sposerà in articulo mortis.

Secondo alcune testimonianze orali, all’indomani dell’armistizio, con la collaborazione della madre e della sorella Ada aiuta cinque renitenti che, fermati a un posto di blocco tedesco, sono già destinati all’internamento in Germania. Nasconde anche molti altri soldati permettendo loro di raggiungere i partigiani sul Monte Javello, che domina il paese di Schignano. Lei stessa partecipa alla Resistenza come staffetta della Brigata Bogardo Buricchi, portando instancabilmente comunicazioni, armi e viveri. Nel 1944, ad esempio, si reca a Vaiano per recuperare medicine e lungo il sentiero s’imbatte in un tedesco addormentato: non esita a sottrargli la pistola per consegnarla ai partigiani.

Prende parte a numerose azioni che le fanno conoscere da vicino tutti i più importanti membri della Resistenza pratese, ai quali rimarrà sempre fortemente legata. Terrà sempre in camera una foto dei 29 partigiani uccisi a Figline di Prato il 6 settembre 1944.

Nel dopoguerra le è riconosciuta la qualifica di partigiana combattente; continua a impegnarsi nella vita pubblica per tenere viva la memoria dell’antifascismo e della Resistenza. Si spegne il 18 maggio 2001 a Prato; le sue ceneri riposano all’ombra dei Faggi di Javello, il luogo della “sua” brigata.

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🟧 Stralcio dall’intervista realizzata da Laura Antonelli ad Anna Martini nel 2005, in: Laura Antonelli, Voci dalla storia. Le donne della Resistenza in Toscana tra storie di vita e percorsi di emancipazione, Prato, Pentalinea, 2006, pp. 644-5. 

Ofelia Giugni al funerale di Gilberto Favini (©️Archivio Fondazione CDSE)

[…] facevo quello che serviva, il volantinaggio, portare qualcosa, avere rapporti con la famosa Ofelia che era il nostro punto di riferimento poiché stava nella zona di Schignano, dei Faggi. L’Ofelia era una donna piena di iniziativa, lei e l’Ada2 ricordo. Anche quando finita la guerra s’andò a vivere in via Magnolfi si stava accanto, siamo rimasti amici anche dopo con l’Ofelia e Armando, anche lui veniva quando facevano i lanci perché c’era da preparare il campo con tutte le luci sennò l’aereo non sapeva dove buttare la roba, loro quindi li ho conosciuti durante il periodo clandestino. Lei era un po’ tipo maschiaccio, sempre con i pantaloni, con tutti i capelli tirati su, non aveva paura. L’Ada era più dolce, anche se anche lei era piuttosto decisa, ma era più dolce non perché l’Ofelia non sia stata poi una donna dolce, generosa e gentile, ma magari anche fisicamente l’Ada era più grassoccia, più pacioccona, invece l’Ofelia era più scattante.
L’Ofelia se ha potuto fare i piaceri s’è prestata in tutti i sensi, sempre, anche dopo, era una donna sulla quale potevi sempre contare se avevi bisogno di qualche cosa.

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🟦Stralcio della testimonianza di Ennio Saccenti in: Luca Squillante (a cura di), Ultime Voci. Memorie dei combattenti della Federazione Provinciale di Prato dell’Associazione Nazionale Combattenti, Prato, 2012

Ofelia Giugni (Credits: L. Squillante (a cura di), “Ultime Voci”, Prato, 2012)

[…] Ofelia comincia subito la sua attività come staffetta fin dal settembre 1943 ed il suo primo atto di resistenza è il favorire la fuga di alcuni militari italiani fermati e costretti dai tedeschi a scendere dal camion su cui viaggiavano poiché si rende conto che li attende una sorte incerta. Il camion era stato fermato proprio davanti a casa sua a La Briglia ed Ofelia fa capire a gesti ai giovai di entrare in casa e poi, con la collaborazione della madre e della sorella Ada, anche in seguito sua compagna nella lotta partigiana, li fa uscire dalla porta posteriore che si apre sul bosco.

[…] Ofelia insieme alla madre ed alla sorella aiuta questi giovani soldati, ma uno dei ragazzi che si è rifugiato da loro rifiuta di scappare nel bosco perché troppo impaurito e le donne sono quindi costrette a nasconderlo sotto il letto anche se si rendono conto del pericolo che corrono ed addirittura si preparano con alcuni bastoni a difendere il giovane in caso di perquisizione dei tedeschi, fortunatamente a fuga non viene scoperta ed il ragazzo per il momento è salvo.

In seguito sarà sempre Ofelia a portarlo al sicuro presso la casa di un contadino a Popigliano ed a mandare un messaggio alla famiglia del ragazzo, messaggio in cui, fingendosi una parente, rassicura sulle sue condizioni di salute e si firma con il nome di Nicoletta, poiché il ragazzo si chiama Nicola. Poco tempo dopo, in conseguenza di questo messaggio la famiglia del soldato manda a La Briglia un cappellano militare per riportare a casa Nicola, dopo un primo momento di diffidenza in cui Ofelia, chiamata dal prete del paese, nega di conoscere il ragazzo il cappellano militare le mostra il messaggio scritto da lei ed allora Ofelia ammette di conoscerlo e li fa incontrare.

Ofelia per far partire con sicurezza i due uomini li accompagna anche a casa di una cugina dove Nicola può travestirsi da prete, il suo timore infatti è che far uscire da casa sua due preti possa dar adito sospetti ai fascisti locali, essendo una cosa assai insolita ed essendo La Briglia una piccola frazione in cui tutti si conoscono, da casa della cugina poi, rassicurando continuamente il giovane, li accompagna a fino alla stazione per assicurarsi che prendano il treno per tornare sani e salvi a casa.

Ofelia è una donna molto decisa ed anche impulsiva, in un’altra occasione trova un soldato tedesco addormentato su un sentiero e, dopo essersi accertata con un calcio che dorme profondamente, anche a causa dell’alcol ingerito gli porta via la pistola per consegnarla ai partigiani.

L’attività partigiana di Ofelia è ininterrotta fino alla liberazione, nel settembre del ’44, instancabile porta armi, viveri e messaggi ai partigiani della Bogardo Buricchi, ai faggi di Javello; una testimone la ricorda così: “… l’Ofelia, pantaloni bermuda, scarponi con certi calzini e i capelli ricciuti al massimo, tirati su con le forcine, non legati, abbastanza grande, non bella, determinata, bandoliera, energica però brava e buona …”. Una donna forte e decisa che non ha paura dei pericoli e che proprio tra i partigiani incontra anche l’amore della sua vita, il comandante Armando Bardazzi a cui rimane accanto per tutto il resto della sua esistenza e che sposa in punto di morte nel 2001.




Lina Cecchi (1926-2002)

Lina Cecchi, particolare di foto concessa da Fondazione CDEC, Milano, © Press Association, Inc. 

Nasce a Pistoia il 7 ottobre 1926 da Giuditta Agostini e Massimiliano Cecchi, che gestisce un negozio di prodotti ortofrutticoli nel quartiere popolare di San Marco. Il padre, come molti abitanti del quartiere, è ostile al regime e, non avendo mai voluto essere tesserato del PNF, viene spesso intimidito e provocato dai fascisti. Come ricorderà la sorella Liliana, le due ragazze vivono in un contesto umile ma di saldi principi: esse assimilano la caparbia volontà dei genitori di non essere obbedienti e di non sacrificare le proprie convinzioni.

Lina, di idee comuniste, decide di unirsi alla Resistenza dopo che il fratello Guglielmo deve darsi alla macchia per non aver aderito ad un bando di reclutamento emesso dalla Repubblica sociale; così, all’età di 17 anni, diventa una staffetta ed entra a far parte della sezione pistoiese dei Gruppi di difesa della donna, costituitasi il 10 gennaio 1944, rimanendovi fino al suo scioglimento avvenuto nel settembre successivo.

La sua attività si lega a quella della sorella maggiore Liliana, con cui ad esempio affigge manifesti del CLN nel quartiere di San Marco. Fra i diversi episodi, è fermata una sera dai tedeschi sulla via Pratese mentre trasporta bombe ed armi; dichiara di avere con sé viveri, i militi si offrono di aiutarla, ma risponde che preferisce riposarsi sul ciglio della strada per poi ripartire. Si rimette in cammino solo dopo due ore, ancora spaventata e consapevole del pericolo appena scampato.

Lina è insieme alla sorella Liliana e ad altre due partigiane nella foto scattata da un reporter americano a Pistoia e destinata a diventare il simbolo della pluralità dei protagonisti della resistenza. Le sarà riconosciuta la qualifica di partigiana combattente, rilasciata a solo sette donne del GDD pistoiese.

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🟩 STORIA DI UNA FOTO

Per gentile concessione della Fondazione CDEC, Milano, © Press Association, Inc. 

Lo scatto fu eseguito da un reporter della Press Association a Pistoia, all’incrocio tra via Abbi Pazienza e via Curtatone e Montanara, durante la Liberazione della città avvenuta l’8 settembre 1944. Da sinistra Israele (Lele) Bemporad, Liliana Cecchi, Bumeliana Ferretti Pisaneschi, Enzo Giorgetti (in secondo piano e con il volto parzialmente coperto dal fucile), Marino Gabbani, Lina Cecchi, un uomo russo non identificato e Lea Cutini (o Ilva Raffaella Ferretti). La fotografia è conservata anche presso l’Archivio ISRECPT, che ha riconosciuto in Lea Cutini la prima donna a destra, mentre il CDEC l’ha identificata come Ilva (Raffaella) Ferretti.




Teresa Mattei (1921-2013)

Teresa Mattei

 

Nasce in provincia di Genova nel 1921, in una numerosa famiglia borghese cattolica e di tradizione liberale. Cresce a Firenze in un clima culturalmente vivace e anticonformista; i suoi famigliari condividono una precoce attività antifascista, dal boicottaggio alla propaganda. Durante gli anni della guerra civile in Spagna a Teresa, allora sedicenne, viene affidato il compito di trasportare in Francia una colletta per i fratelli Rosselli.

Teresa Mattei

Fin dall’infanzia si mostra capace di svolgere un’analisi critica del fascismo, con un’attitudine al ribellismo verso le ingiustizie e alla disobbedienza nei confronti delle istituzioni del regime. Ne paga le conseguenze in prima persona: emblematico è l’episodio in cui si esprime con fermezza contro le leggi razziali, che le costa l’espulsione immediata dal Liceo Michelangiolo e da tutte le scuole del Regno; consegue il diploma da privatista e si iscrive a Filosofia all’Università di Firenze, laureandosi nel 1944.

La sua attività antifascista ha un crescendo con l’inizio della guerra, a cui si oppone organizzando una manifestazione, e successivamente con la propaganda antifascista e antinazista e il sabotaggio dei macchinari nelle fabbriche destinate alla produzione bellica. Nel 1942 insieme al fratello Gianfranco si iscrive al PCI e partecipa alle prime riunioni che seguono il 25 luglio 1943. Dall’8 settembre partecipa alla Resistenza col nome di battaglia “Chicchi”, entrando in clandestinità e lavorando con i Gruppi di difesa della donna, col Fronte della gioventù comunista e coi Gruppi di azione patriottica (GAP), con attività di assistenza, di organizzatrice e di staffetta; contribuisce inoltre all’organizzazione degli scioperi del marzo 1944 a Firenze e a Empoli.

È un periodo segnato da ferite profonde e perdite incolmabili, come quella del fratello Gianfranco, che, arrestato a Roma a causa di una delazione per cui era stato individuato come artificiere dei GAP, sceglie di suicidarsi nel luogo di detenzione di Via Tasso, dopo atroci torture. Nei giorni della Liberazione di Firenze è attiva come staffetta tra il fuoco incrociato e al comando della compagnia “Gianfranco Mattei” del Fronte della gioventù.

Teresa Mattei, la più giovane delle madri costituenti, nel giorno della firma della Costituzione

Nel dopoguerra è la più giovane eletta nell’Assemblea costituente e ne diviene segretaria di Presidenza. Espulsa dal PCI nel 1955 perché non condivide la linea del partito, si impegna per tutta la vita sul piano politico, sociale e culturale nell’affermare l’uguaglianza sostanziale, i diritti delle donne, delle bambine e dei bambini. La sua figura è legata all’articolo 3 della Costituzione, che contribuisce a scrivere, e alla mimosa, perché proprio lei lo propone come fiore simbolo per la festa dell’8 marzo. Negli ultimi decenni risiede vicino Lari, in provincia di Pisa, dove muore nel 2013.

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 🟥 Intervista di Bruno Enriotti e Ibio Paolucci, Dall’antifascismo attivo all’Assemblea Costituente, “Triangolo rosso”, maggio 2004, pp. 11-3.

Mio padre ha sostenuto sempre la necessità di un impegno diretto, soprattutto di noi giovani, nei confronti di un regime che – lui lo aveva capito – avrebbe portato l’Italia al disastro. Diceva che per essere antifascisti non ci si può limitare a raccontare barzellette contro il regime.
Per questo, quando avevo poco più di 16 anni, venni mandata in Costa Azzurra, per portare dei soldi ai fratelli Rosselli, capi di Giustizia e Libertà. Al ritorno venni arrestata, mentre mi trovavo a Mantova da don Primo Mazzolari. Sapevano che ero stata in Francia e quel mio incontro con un prete antifascista li insospettì, ma riuscii a cavarmela dicendo che mi occupavo di problemi religiosi. In quegli anni l’attività antifascista di tutta la nostra famiglia era notevole. In casa stampavamo in modo rudimentale dei volantini che poi con mio fratello Nino andavamo a mettere nelle buche delle lettere, all’ufficio postale o a quello dei telefoni. […]
Qualche giorno dopo il 25 luglio, credo fosse il 30, vi fu una grande riunione antifascista al Politecnico di Milano. Mio fratello Gianfranco era allora assistente di Natta, insignito in seguito del premio Nobel. Mio fratello era un chimico molto promettente, tanto è vero che dopo la Liberazione, Natta disse a mia madre che buona parte di quel premio se lo meritava Gianfranco, per le sue ricerche. Io vivevo a Firenze e Gianfranco mi avvertì di venire a Milano per partecipare a quella riunione. Cosa che feci e partecipai così ad un incontro di alto significato politico: gli intellettuali milanesi che si impegnavano a lottare contro il fascismo.
Poi tornai a Firenze, entusiasmata; e mi impegnai con gli antifascisti di quella Università dove frequentavo la Facoltà di Lettere. Ricordo Adriana Fabbri e Adriano Seroni che poi si sposarono e lei con il nome del marito divenne responsabile delle donne del Pci, ricordo Aldo Braibanti e molti altri giovani di allora. Facemmo una sorta di associazione degli studenti antifascisti e pochi giorni dopo, l’8 settembre, mentre eravamo riuniti, udimmo i carri armati tedeschi che passavano per piazza San Marco. Riunimmo le nostre forze e capimmo che dovevamo passare alla clandestinità. Con noi c’erano anche Mario Spinella ed Emanuele Rocco, ci riunivamo in casa sua. Io tenevo i collegamenti tra i diversi gruppi partigiani, ero una staffetta, ma facevo anche azioni molto più impegnative. Come quella del 3 giugno 1944. […]
Ricordo molto bene la data perché il giorno dopo mi sono laureata in modo rocambolesco.
Dunque avevamo saputo che in una galleria, i tedeschi avevano nascosto dei vagoni carichi di esplosivo, soprattutto dinamite. Io e un altro ragazzo, Dante, dovevamo farli saltare. Ci siamo inoltrati nel tunnel, io da una imboccatura lui dall’altra e siamo riusciti ad accendere una miccia, fuggendo da parti diverse prima dell’esplosione.
Quando essa avvenne io ero fuori dal tunnel; Dante, invece, era inciampato e l’esplosione lo ha travolto. È stata una cosa orribile. Sono fuggita in bicicletta e capivo che i tedeschi mi stavano inseguendo. Mi sono rifugiata nell’Università e sono entrata in una stanza dove Garin teneva una riunione di professori.1 Proprio con Garin in quei mesi stavo preparando la tesi. Gli ho detto: “professore, i tedeschi mi stanno inseguendo, dica che sono qui per discutere la tesi”. Così fecero e quando i tedeschi entrarono Garin disse: “questa ragazza sta discutendo la sua tesi, è sempre stata qui”. Con questo stratagemma non solo mi sono salvata, ma i professori hanno considerato valida la discussione della mia tesi e mi hanno laureato.

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🟩L’Italia è libera! Protagonisti della Resistenza – Nell’ambito del webdoc di RaiCultura ‘25 Aprile: il giorno della Liberazione’



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🟧 Belle storie. Donne e uomini nella Resistenza – Radio Rai3 – Michela Ponzani racconta la vita di Teresa Mattei, partigiana comunista, Firenze e Roma. Per la trasmissione di Rai Radio3 ‘Belle storie. Donne e uomini nella Resistenza’.



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🟦 Teresa Mattei raccontata da Simonetta Soldani, Puntata di Wikiradio del 08/03/2017






Nara Marchetti (1924-2020)

Nara Marchetti

Nara Marchetti nasce il 24 maggio 1924 a Pescia. Il padre, figurinaio di idee socialiste, negli anni Venti emigra in Argentina e rientra definitivamente in Italia in seguito alla grande depressione del 1929. La bambina cresce a Guzzano, una frazione di Bagni di Lucca, in una famiglia libera e aperta alla discussione. In casa, spesso soggetta a perquisizioni, si parla di politica, si pratica la lettura collettiva anche di libri vietati dal regime e si ascolta la radio che il padre ha riportato dai suoi viaggi. Adolescente, proprio alla radio sente Dolores Ibárruri quando nel 1936 la “pasionaria” chiede aiuto per la Spagna libera e ne rimane profondamente affascinata. Morti i nonni, la famiglia si trasferisce a Lucca dove la ragazza segue corsi di dattilografia e stenografia.

Trova lavoro al Consiglio delle Corporazioni e dopo l’8 settembre conosce il colonnello Davini, che comincia ad invitarla alle riunioni antifasciste in casa sua. Qui incontra il commissario politico del CLN lucchese Vannuccio Vanni, “Alfredo”, comunista, e compie la scelta della Resistenza e della clandestinità. Si mette così in contatto con i Gruppi di difesa della donna, in particolare con la responsabile lucchese Maria Lazzareschi e con Ida Boschi. Svolge attività di volantinaggio, di propaganda,

Nara Marchetti

di staffetta, porta indumenti e viveri ai partigiani. Dopo il bombardamento di Lucca, nel gennaio 1944, i suoi si trasferiscono a Camigliano (Capannori). Dato che il padre si nasconde dai fascisti, lei si occupa della famiglia, ma nel contempo prende contatti con il prete di Petrognano e tramite questi con il CLN di Segromigno e la STS, la formazione partigiana del tenente Ilio Menicucci che opera nella zona tra Sant’Andrea in Caprile, Tofori e San Gennaro. Svolge un’attività intensa, trasportando viveri, facendo propaganda antifascista fra i contadini, curando i contatti tra il comando militare lucchese e le formazioni vicine, mettendo in salvo renitenti e fuggiaschi.

Continua il suo impegno dopo la Liberazione di Lucca (5 settembre 1944), nonostante il dolore per la morte di Ilio e il rimpianto di non essere riuscita a salvarlo: milita nell’UDI, collabora con la Croce rossa, allestisce a Camigliano una scuola materna per i figli delle operaie e delle contadine. Prende attivamente parte alla politica nel Partito comunista, rifiutando però un ruolo da dirigente e scegliendo di rimanere una militante di base. È in particolare sensibile al tema dell’emancipazione femminile, in relazione prima al diritto di voto e poi alle vertenze per la parità salariale.

Riconosciuta partigiana combattente, fino agli ultimi anni di vita è attiva nell’ANPI lucchese, diventandone presidente e poi presidente onoraria. Muore a Lucca il 23 novembre 2020.

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🟩 Intervista in “Noi, partigiani. Memoriale della Resistenza Italiana



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🟥Intervista a NARA MARCHETTI, in L. Antonelli, “Voci dalla storia. Le donne della Resistenza in Toscana tra storie di vita e percorsi di emancipazione”, Pentalinea, 2006, pp. 369-370

[…] Il periodo della guerra, io ero al Consiglio delle Corporazioni, lì conobbi, lo conoscevo già che era un antifascista perché il 25 luglio poi vennero fuori tutti gli antifascisti e si conobbero, insomma mi contattò verso ottobre questo colonnello Davini e mi chiese se volevo entrare a far parte del gruppo suo di antifascisti, erano liberali, io in quell’epoca non è che conoscessi i partiti perché in Italia avevamo il partito unico. Noi sapevamo per esempio, vedi l’emigrazione, che in America esistevano i partiti, che in Inghilterra esistevano i partiti, che era tutto un mondo diverso, che esisteva la democrazia, ma la democrazia che cos’era non si sapeva perché eravamo cresciuti sotto il fascismo. Questo colonnello mi invitò a prendere un tè a casa sua e lì ci ritrovai riuniti tanta gente che conoscevo, compreso un giudice, compreso degli avvocati, compreso una signora che conoscevo che era una sfollata di Genova, un’altra signora, la Perosino, che era la compagna di questo colonnello e lì si cominciò a parlare di resistenza al fascismo, però si facevano tutti discorsi che con la Resistenza partigiana non avevano a che fare, avevano a che fare ben poco […].

Nel mese di novembre ci disse questo colonnello: “Viene a parlare un rappresentante del comitato militare del CLN”. E io quando sentii parlare questo Alfredo, era un uomo che aveva una trentina d’anni, io rimasi, a quel momento mi resi conto di cos’era la Resistenza, fino allora non l’avevo ben presente, mi resi conto che dovevamo vivere nella clandestinità, dovevamo frequentare la solita gente, dovevamo frequentare i soliti posti, dovevamo frequentare i soliti fascisti, dovevamo fare le solite cose che avevamo fatto fino ad allora e io mi resi conto che vivere nella clandestinità era una cosa difficile. Quando andò via questo giovanotto io gli andai dietro perché gli dissi: “Voglio fare qualcosa”. Allora lui mi mise in contatto con un gruppo di donne qui in città che già lavoravano, distribuivano volantini, giornali, distribuivano ciclostilati, nelle case li infilavano nelle cassette e mi misi a lavorare con questo gruppo di donne. Era già un Gruppo di difesa della donna, la responsabile era la Maria Lazzareschi, era una che lavorava alla Teti, ai telefoni. […]

Dopo il primo bombardamento però, la mia mamma era incinta, noi si sfollò a Camigliano e qui ebbi contatti con il primo gruppo di resistenza […]. Allora io qui a Lucca parlai con questo Alfredo e lui mi disse che da quel momento, visto che lui era il commissario politico del Comitato militare, io ero una staffetta militare e dovevo tenere i contatti. Gli presi i contatti, organizzai delle riunioni, lui fece tutte le riunioni insieme con un altro che si chiamava Corrado. In seguito ebbi sentore che c’era una formazione in Pizzorna, presi contatto con il prete di Petrognano e lui mi mise in contatto con il comandante della formazione, era di maggio, si fece mezza strada per uno perché era lontano. Venne il comandante, il vice comandante e un certo John, un sudafricano, un prigioniero di guerra, che era nella formazione, che parlava benissimo cinque lingue, parlava tedesco, parlava italiano, parlava inglese, parlava francese e faceva parte di un reparto di sicurezza. Con questi qui fìssai un incontro con Alfredo, fissai il giorno e li portai al primo incontro e da lì rimasi staffetta di questa formazione fino in fondo. La formazione era la STS di Ilio Menicucci. Ilio Menicucci fu fucilato il 9 di settembre quando Lucca era già liberata dal 5 di settembre perché fu preso prigioniero. Lui però poteva scappare perché noi si faceva scappare, avevamo dei contatti, ma lui non volle perché disse che i tedeschi potevano fare una repressione e decise di sacrificarsi lui per salvare la popolazione.

Io avevo fatto i Gruppi di difesa della donna a Camigliano. Lì c’era il terreno, feci un lavoro enorme, insieme con il CLN e con i contadini. Io portavo venti chili di grano tutti i giorni a Lucca; qui all’ospedale, in via Galli Tassi, c’era il gruppo di Bonacchi, un gruppo di partigiani nascosti nelle cantine dell’ospedale, la formazione era un po’ dappertutto, era a Sant’Anna, a San Concordio e da altre parti. Tutti i giorni portavo venti chili di grano con lo zaino al Comitato militare, finita la guerra sulle spalle c’avevo due calli dal portare lo zaino per mesi.




Primetta Cipolli (1899-1963)

Primetta Cipolli Marrucci ad un comizio durante la campagna per l’elezione dell’Assemblea costituente, 1946 (©️Archivio Renza Bendinelli)

Nasce a Cecina il 23 settembre 1899; la madre fa la lavandaia, il padre è un operaio fornaciaio. Primetta interrompe la scuola in terza elementare, dovendo contribuire a mantenere la famiglia dato che la madre è malata. L’abbandono degli studi costituirà per lei sempre motivo di rammarico.

Nel 1911 i Cipolli sono costretti a trasferirsi in Maremma poiché il padre si è esposto durante gli scioperi organizzati dal sindacato tra Livorno e Piombino; emigrano successivamente a Torino, ma fanno ritorno a Cecina in seguito allo scoppio della grande guerra.

Nel 1918, alla morte della madre, Primetta prende su di sé il carico della famiglia e torna al lavoro in fabbrica dove alcuni compagni socialisti la invitano ad entrare nel partito ed a formare il gruppo femminile. Aderisce poi al Partito comunista d’Italia (PCd’I), fondato a Livorno nel 1921.

Nel 1923 sposa Oreste Marrucci, cugino di Ilio Barontini, che conosce fin dalle scuole elementari. I due – presi di mira per i loro atteggiamenti antifascisti − sulla base di motivazioni politiche ed economiche decidono nel 1924 di emigrare in Francia, prima a Marsiglia e poi a Parigi, dove Primetta diventa agente di collegamento per il Partito comunista.

1951, Livorno comizio piazza Magenta elezioni amministrative (©️Archivio Renza Bendinelli)

Dopo la morte del marito Oreste, avvenuta nel settembre del 1938 nella “battaglia dell’Ebro” durante la guerra civile in Spagna, Primetta partecipa alla Resistenza francese, impegnandosi probabilmente in compiti di assistenza e sostegno alle attività dei partigiani di origine italiana; è arrestata per circa un mese tra la fine del 1943 e l’inizio del 1944.

Nel 1945 torna a Livorno impegnandosi nel partito e nell’amministrazione comunale. Grazie anche alla partecipazione alla scuola di partito entra nei quadri del PCI. Dopo le elezioni amministrative del novembre 1946, diventa assessore all’Anagrafe, annona e beneficenza nella giunta presieduta dal sindaco comunista Furio Diaz. Primetta è dunque la prima donna in tutta la provincia di Livorno ad occupare cariche politiche.

Nel 1947 interrompe l’attività pubblica per motivi di salute, torna a Parigi e rientra a Livorno un paio di anni più tardi. Continua a lavorare per il partito, per l’UDI e per l’amministrazione comunale come consigliera. Nel 1957 le sue condizioni di salute si aggravano e nel 1959 presenta le sue definitive dimissioni al sindaco. Muore il 3 maggio 1963.

1952, Livorno, Asilo comunale, visita da assessore (©️Archivio Renza Bendinelli)

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Memoria autobiografica in: Renza Bendinelli, Primetta e Oreste, “fuoriusciti” antifascisti. Fra storia e memoria, Pisa, ETS, 2022, p. 112.

Debbo dire che malgrado la mia attività politica sia stata continuativa e mai abbia avuto la minima incertezza sulla giustezza della linea del Partito e nella lotta che si stava combattendo, riconosco che non sempre nella mia attività ho reso al massimo. Penso che spesso nei primi tempi della mia attività ero chiamata facilmente a coprire cariche di responsabilità e di fiducia non per la mia capacità, ma piuttosto per il mio attaccamento al Partito e per la mia serietà morale e politica che ispiravano fiducia. Infatti ritengo sempre di essere stata un quadro mediocre: ho letto un po’ ma non ho mai studiato e forse questo è dovuto in gran parte al fatto che, oltre all’attività politica, ho dovuto sempre lavorare per vivere. Ed all’epoca in cui avrei dovuto svilupparmi non vi erano possibilità di frequentare scuole e corsi politici e non era nemmeno facile, data la scarsezza enorme dei quadri, togliere compagne che avevano del posti di responsabilità. Ed in me forse non vi è stata nemmeno facilità di studiare e di apprendere.
Inoltre ero soggetta ad una certa timidezza che era di freno al mio sviluppo e credo di aver avuto anche una sottovalutazione delle mie forze e possibilità. Ad esempio fino al 1938 non ho mai avuto il coraggio di prendere la parola in pubblico ed ero molto reticente a parlare in assemblee alla presenza di compagni che ritenevo più qualificati: e di queste deficienze mi restano ancora alcuni residui.
La timidezza l’ho in parte vinta al momento della partenza per la Spagna del mio compagno. Di fronte all’esempio del suo sacrificio non vidi che una cosa: sostituirlo nella lotta, seguire il suo esempio e quello delle altre migliaia di eroi, battermi con tutte le mie forze e su tutti i fronti. Fu così che dopo la sua partenza e soprattutto dopo la sua morte affrontai il pubblico, vinsi ogni reticenza e mi accorsi che i1 mio lavoro così rendeva molto di più e mi dava anche maggior soddisfazione. E nel lavoro attivo trovai l’unico conforto per la perdita del mio compagno. Ho preso parte alla lotta di liberazione e se non ho potuto dare di più ciò è in rapporto alle mie condizioni di salute. Sono stata arrestata e non ho avuto la minima defezione malgrado la mia situazione fosse preoccupante.




Virginia Cerquetti (1917-?)

 

Virginia Cerquetti con la figlia Annabella, il marito Sante Gaspare Arancio e Mario, figlio di Sante (©️Archivio ISGREC)

 

Nasce il 17 dicembre 1917 a Rosario, nei pressi di Santa Fé in Argentina, da Pietro ed Emilia Cerquetti. Impossibile stabilire a quando risale il suo trasferimento in Italia, ma dalle testimonianze risulta che la famiglia di Virginia è originaria del Lazio e che lei conosce il futuro marito, con cui si trasferirà a Manciano, durante la permanenza in un collegio romano. Verrà descritta dalle altre partigiane come “una donna fine, intelligente e molto religiosa”.

Dall’8 settembre 1943 partecipa alle riunioni clandestine che si tengono in casa di Giuseppe Gori a Manciano insieme al marito Sante Gaspare Arancio e ad altri partigiani della futura formazione di zona e in cui tutti giurano sulla democrazia e sulla libertà, come ricordato dalla testimonianza di un’altra donna coinvolta, Mariella Gori, figlia sedicenne di Giuseppe. A guidare il gruppo è proprio il marito di Virginia, da cui la banda che sta nascendo prenderà il nome: si chiamerà infatti Banda Arancio Montauto, spesso identificata con l’acronimo BAM.1

Secondo il rapporto compilato dagli ufficiali della BAM, la sera del 25 dicembre 1943, Virginia, dedita alla propaganda e al reclutamento, è “costretta a fuggire da Manciano con la famiglia, perché preavvisata del loro arresto deciso dalle autorità repubblichine del luogo”. Resta alla macchia con la formazione insieme al primo figlio di Arancio, Mario, di soli 8 anni, e nonostante il suo stato di avanzata maternità: “pur consigliata a raggiungere il sicuro e comodo rifugio approntatole, rifiutò sdegnosamente l’offerta, preferendo alla comoda vita da sola, quella movimentata dell’azione abbracciata dal marito”. Giunta al parto senza assistenza ostetrica, il 28 febbraio all’accampamento dà alla luce una bambina, cui, per espressa volontà dei partigiani, viene dato il nome di Annabella. Una foto ricorda quel momento, immortalandola con la bambina in braccio davanti alla capanna del comando della formazione.

Retro della foto di Virginia Cerquetti con la famiglia alla macchia (©️Archivio ISGREC)

Di Virginia, proposta per una medaglia di bronzo probabilmente mai conferitale, sono noti gli spostamenti nelle macchie maremmane a causa delle necessità militari della formazione. I toni paternalistici della relazione della banda ne esaltano le doti paragonandola alle donne del Risorgimento, ma fra le altre cose vi si legge che “nei momenti più cruciali, passati per i tentativi di rastrellamenti, non esitò ad imbracciare anch’ella il mitragliatore come il più modesto gregario della Banda” e che “al fianco del consorte volle partecipare ad alcuni atti di sabotaggio dei ponti”.

Solo la mattina del 20 maggio 1944, appena viene sferrato un massiccio attacco contro la banda che la porterà al completo sbandamento, Virginia accetta di allontanarsi con i figli per nascondersi in un rifugio sicuro. Nell’immediato dopoguerra la famiglia si trasferisce: l’ultimo luogo di residenza noto di Virginia e del marito è Istria di Castro (Viterbo), dove sicuramente si trovano ancora nel 1948 quando le viene comunicato il riconoscimento dell’attività di partigiana combattente.

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🟧Le madri del futuro libero

Episodio della serie podcast dell’Isgrec “Racconti Resistenti: le vite di partigiani e partigiane della Maremma” dedicato a Mariella Gori, nata a Manciano (GR) il 29 maggio 1923. Dopo l’8 settembre 1943, nella casa di suo padre nacque la Banda Armata Maremmana, guidata dal Comandante Sante Arancio. Tra i membri spicca un gruppo di donne coraggiose, tra cui Virginia Cerquetti. Racconto basato su documenti Isgrec, scritto da Silvia Meconcelli, interpretato da Irene Paoletti.



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🟦Volontarie per la libertà – Il 25 aprile 2024 a Rai Radio 3, a cura di Laura Zanacchi. Ilaria Cansella, direttrice dell’Istituto storico grossetano della Resistenza e dell’età contemporanea, racconta Virginia Cerquetti. 



 




Anna Maria Enriques Agnoletti (1907-1944)

Anna Maria Enriques Agnoletti (©️Archivio ISRT, Fondo Leonardo Giorgi)

Anna Maria Enriques nasce a Bologna il 14 settembre 1907. Figlia del biologo Paolo Enriques, dovendone seguire gli spostamenti che la professione di docente universitario gli impone, trascorre l’infanzia in varie località della penisola. Stabilitasi a Firenze, si laurea in Lettere e filosofia e, nel 1933, ottiene il diploma in paleografia e archivistica presso la Scuola per bibliotecari ed archivisti paleografi, che dal giugno 2005 porta il suo nome.

Assunta presso l’Archivio di Stato di Firenze, nel 1936 diviene “primo archivista”, ma due anni dopo, a causa della promulgazione delle leggi razziali – il padre ha origini ebraiche – è costretta a lasciare l’impiego. Anna Maria già da tempo sta affrontando un personale, intenso percorso di fede che la porterà alla conversione al cattolicesimo, religione della madre Maria Clotilde. Il suo particolare caso, grazie all’interessamento di Giorgio La Pira e dell’arcivescovo di Firenze, il cardinale Elia Dalla Costa, giunge pertanto a conoscenza di monsignor Giovanni Battista Montini, allora sostituto alla Segreteria di Stato in Vaticano. Questi si adopera per farla assumere come paleografa presso la Biblioteca apostolica vaticana di Roma. Nella capitale, a partire dal 1939, Anna Maria frequenta gli ambienti cattolici ed entra in confidenza con Gerardo Bruni, anch’egli bibliotecario alla Apostolica, avvicinandosi al movimento cristiano-sociale.

Anna Maria Enriques Agnoletti

Dopo l’8 settembre, Anna Maria si impegna nella propaganda e nell’assistenza ai patrioti, ai prigionieri politici e agli ebrei. Rientrata a Firenze, contribuisce inoltre al mantenimento dei contatti tra il Partito d’Azione, in cui opera il fratello Enzo, e il movimento cristiano-sociale livornese, soprattutto tramite lo stretto legame con don Roberto Angeli, che per la sua attività antifascista finirà deportato a Dachau.

Nel maggio 1944 la sua identità viene scoperta. Arrestata assieme alla madre, tradotta in carcere, poi rinchiusa a Villa “Triste”, subisce atroci torture senza mai cedere e fornire informazioni che possano mettere in pericolo la vita delle compagne e dei compagni di lotta. Trasferita nel carcere femminile di Santa Verdiana, il 12 giugno 1944 viene prelevata da tedeschi e portata a Cercina, nella zona di Monte Morello; qui viene fucilata assieme ad altri cinque militari e ad un partigiano cecoslovacco.

Nel 1947 le viene conferita la Medaglia d’oro al valor militare alla memoria, quale “indimenticabile esempio di valore e di sacrificio”.

Murales dedicato ad Anna Maria Enriques Agnoletti a Sesto Fiorentino

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🟪Isabella Insolvibile racconta la vita di Anna Maria Enriques Agnoletti per la trasmissione di Rai Radio3 ‘Belle storie. Donne e uomini nella Resistenza’.



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🟦Documentario realizzato dalla Rai in occasione del ventennale della Liberazione, e diretto da Liliana Cavani. Con storie e testimonianze di e su Germana Boldrini (Bologna), Norma Barbolini (Modena), Adriana Locatelli (Bergamo), Gilda Larocca (Firenze), Tosca Bucarelli (Firenze), Marcella Monaco (Roma), Maria Giraudo, Anna Maria Enriques Agnoletti e sua madre, Suor Gaetana del carcere di Santa Verdiana (Firenze), Maria Montuoro (Milano)

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🟩 Storia di Anna Maria Enriques Agnoletti – Video a cura dell’Università di Firenze




Mercede Menconi (1926-2014)

Mercede Menconi (©️Archivio familiare; ISRA)

Mercede Menconi cresce in una famiglia antifascista di idee repubblicane nella frazione di Avenza. Da bambina assiste alle frequenti perquisizioni che la polizia compie presso la sua abitazione e a quella dei suoi nonni e alle angherie che questi subiscono, maturando un precoce e sentito antifascismo. Insieme ad altre ragazze di Avenza inizia a frequentare la casa di Gino Menconi,1 stringe un forte legame con Nella Bedini, fidanzata di Menconi, e, a nemmeno diciotto anni, entra a far parte dei Gruppi di difesa della donna aderendo all’ideologia comunista.

Non si tira indietro di fronte a qualsiasi richiesta, dal fare delle calze a maglia per i partigiani al portare delle armi; è in continuo movimento sprezzante del pericolo, quasi sempre accompagnata da una o due amiche con cui condivide tutto.

In un’intervista racconterà di aver utilizzato vari stratagemmi per compiere le sue azioni, come nascondere nelle trecce comunicati da portare ai partigiani, occultare armi in un materasso fingendosi sfollata o, fermata su un’ambulanza che trasporta un partigiano ferito, far credere piangendo di avere la mamma in pericolo di vita.

Organizza la partenza di piccoli gruppi di donne, così da non creare sospetti, da Avenza verso Carrara in occasione della rivolta dell’11 luglio 1944 a cui lei stessa prende parte. Episodio questo che contribuirà a far ottenere alla città di Carrara, il 12 gennaio 2007, la Medaglia d’oro al merito civile. Si legge infatti nella motivazione: “Le donne carraresi offrirono un ammirevole contributo alla lotta di Liberazione organizzando una coraggiosa protesta contro l’ordine delle forze di occupazione tedesche di sfollamento della città”. Nel settembre dello stesso anno ha l’incarico di portare dei farmaci sopra Massa, sul Monte Brugiana, dove si trova ferito a morte il partigiano Enzo Petacchi.2

Durante la sua attività di staffetta conosce il gappista Bruno Orsini (Pippo) che sposerà. A guerra finita vive con grande soddisfazione la possibilità di votare, ma rimane delusa dall’atteggiamento del PCI, che non valorizza la presenza femminile nelle sezioni del partito. Questo non le impedisce di portare avanti il suo impegno, perché ha sempre sostenuto che le donne possono fare politica ovunque, nei negozi, in autobus o per strada, semplicemente parlando con la gente. È riconosciuta partigiana combattente.

Note

1Il comandante partigiano Gino Menconi (Avenza 1899), ucciso a Bosco di Corniglio (Parma) il 17 ottobre 1944, fu insignito della Medaglia d’oro al valor militare alla memoria.

2Enzo Petacchi (Livorno 1912), rimasto ferito nel corso dell’attacco al presidio tedesco di Castagnola di Massa, morì il 27 settembre 1944 sul Monte Brugiana dove era stato trasportato.

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Donne nella Resistenza, a Carrara” (1986), Frammento della IV puntata di “C’era una volta gente appassionata, viaggio nella Resistenza toscana



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Intervista realizzata da Pina Menconi e Isa Zanzanaini il 27 aprile 1994, in Comitato provinciale per le celebrazioni del cinquantenario della Resistenza – Commissione provinciale pari opportunità, “A Piazza delle Erbe! L’amore, la forza, il coraggio delle donne di Massa-Carrara”, Massa-Carrara, Amministrazione provinciale di Massa Carrara, 1996, pp. 112-3.

Col tempo ci siamo organizzate, son venute tante di quelle persone, perché da soli, è inutile… Abbiamo cominciato che gli amici venivano per casa e dicevano: “Vai a Carrara, vai a prendere questi volantini, vai da sola?” “No, c’è una mia amica, ha detto che vuol venire con me” “Sì, sì”. Era gente fidata, ragazze bravissime, del posto. Andavamo sempre in coppia, in tre, in due, facevamo finta (perché la vita scorreva normale) di andare o all’annonaria, o di qua o di là. A una a una venivano da sole, io non chiamavo nessuno. Quando mi dicevano: “Vai in quei posto?” “Sì che ci vado”, e allora dicevo: “Ciao ragazze, ci vediamo più tardi”; e loro dicevano: “Se vuoi vengo anch’io a farti compagnia”; ecco, succedeva così. Io non ho mai chiamato nessuna e nemmeno le altre, non sono state spinte da me o da un’altra: sentivano quello che sentivo io. Si allargava a macchia d’olio. Chi andava da una parte, chi da un’altra, eravamo sempre in movimento, non esisteva il lavorare di più o di meno, esisteva di prestarsi: ci chiamavano e eravamo sempre pronte. Andavamo a piedi via Fiorino, via Nazzano: se avevamo sete tutti ci davano da bere, tutti se avevano un pezzo di pane se lo levavano anche dalla bocca, per darcelo; se dicevo: “A l’è tutt ‘1 dì ch’a son ‘n zir, a son stracca morta”; “Tieni, toh ti manca qualcosa, vuoi qualcosa?”. Si andava a cercare il latte nei campi, dalla gente che aveva le mucche, per darlo ai bambini. C’erano due fuoriusciti di Firenze, che abitavano dalla Ilva Babboni, e si doveva andare a prendere e a riferire notizie. Poi c’era chi andava alle formazioni, alla Partaccia, al distaccamento Petacchi, anche dal “Memo”;1 ci mettevano i biglietti nelle trecce a me, alle mie amiche, a mia sorella; facevamo finta di andare negli stabilimenti a prendere il sale, e invece andavamo a prendere, a dire o a riportare le risposte. È cominciata così, fino al punto poi di andare proprio a portare armi. […]
La prima volta che ho toccato delle armi mi avevano mandato al cimitero, dove dovevo incontrare una donna con un cappotto blu che si chiamava Amelia. Io e una mia amica eravamo andate con qualche fiore striminzito, per far finta di essere in visita a qualche morto, e io la chiamavo Amelia, per farmi sentire da quell’altra. Infatti era lì, ci salutammo e lei mi consegnò un pacchetto con due pistole.
Una volta uno mi disse di caricarmi in testa delle armi avvolte nei materassini. Siccome c’era gente che andava e veniva, sfollati che andavano sui monti, io facevo finta di essere una sfollata. Sono andata fino alla tranvia, con un partigiano che mi aiutava, andava avanti, facendo finta di niente. Siamo scesi in piazza Farini: questo qui mi ha aiutato a scaricare, come se fossi stata sfollata; io ho portato il carico fino all’ospedale. Poi se l’è caricato lui e m’ha mandato avanti, dicendo: “Se vedi qualcuno canta, qualunque canzone, che io conosco la tua voce e pianto lì tutto”. Infatti è successo: abbiamo incontrato i Maimorti; io ho cantato e lui è sparito. Poi siamo tornati indietro a prendere le armi.