Suor Cecilia Maria Vannucchi, nata Olga Vannucchi (1901-1990)

Suor Cecilia Maria Vannucchi

Nata a Capalle (Campi Bisenzio) nel 1901 da una famiglia benestante, si trasferisce a Prato dove frequenta come educanda il convento di San Niccolò. Dopo aver conseguito la laurea, inizia a insegnare nel 1928 proprio presso la scuola del convento dove è stata allieva. In questi anni chiede di entrare a far parte della comunità domenicana di San Niccolò.

Durante il periodo universitario si è avvicinata molto agli ambienti domenicani di Santa Maria Novella a Firenze e questa esperienza, unita alla frequentazione di San Niccolò, la porta a maturare una profonda vocazione spirituale. Decide così di prendere i voti con il nome di suor Maria Cecilia Vannucchi. Nel 1933 diviene preside e direttrice del convitto; dal 1938 al 1941 ricopre il ruolo di sottopriora, dal 1941 al 1980 è priora del convento. Dal 1945 al 1961 è anche priora generale dell’Ordine domenicano toscano.

Nei mesi dell’occupazione nazista della città, suor Maria Cecilia riveste un ruolo chiave: come madre superiora del convento, si adopera affinché le porte della comunità domenicana siano aperte a tutti gli sfollati dei numerosi bombardamenti. Offre insieme alle consorelle asilo e sostegno, riuscendo inoltre a evitare perquisizioni e rastrellamenti.

Tra la fine di giugno e l’inizio di luglio 1944, Pietro Gini, membro del CLN di Prato in quota DC, si reca a San Niccolò chiedendo a suor Maria Cecilia di accogliere i membri direttivi del comitato. La madre superiora, dopo aver chiesto l’autorizzazione formale a monsignor Eugenio Fantaccini, vicario generale della città di Prato, li accoglie nel convento.

Suor Cecilia ricorderà le relazioni cordiali instaurate coi membri del CLN, che si muovono con discrezione ma liberamente tra gli altri sfollati nel convento. Oltre a Pietro Gini, a San Niccolò si nascondono anche Cesare Grassi e il comandante militare della resistenza pratese Mario Martini. La famiglia Martini è particolarmente legata a Suor Cecilia in quanto la moglie Milena è stata sua compagna di scuola.

Il coraggio dimostrato in questa fase vale a Suor Maria Cecilia un riconoscimento importante: nel ventesimo anniversario della Liberazione della città, il Comune di Prato le conferisce una medaglia d’oro. Suor Maria Cecilia rimane preside della scuola fino al 1966 e vicepreside fino al 1974. Dopo il 1980 lascia anche il ruolo di priora, ma resta a San Niccolò, dove trascorre gli ultimi anni della sua vita. Muore il 24 luglio 1990, all’età di 88 anni.

Suor Maria Cecilia Vannucchi

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🟧 Intervista realizzata da Michele Di Sabato il 9 agosto 1982, in “Ultime Voci. Memorie dei combattenti della Federazione provinciale di Prato dell’Associazione nazionale combattenti“, vol. 10, Prato, Casa delle memorie di guerra e di pace, 2017, pp. 45-8

– Mi può dire come e quando ebbe il primo contatto con gli esponenti della Resistenza?

– […] Venne qui il signor Gini, Pietro Gini, che era della Democrazia cristiana, e mi disse: “Madre, lei bisogna che mi faccia un piacere… lei deve… si sente di ospitare il Comitato di liberazione nazionale?”. Io dissi: “Senza il consiglio dell’autorità ecclesiastica, no. Allora, ritorni”. Mi ricordo che furono i primi di luglio, questo, o fine giugno. Andai dal monsignor Fantaccini e lui mi disse: “Non solo quello, ma tutti; apra le braccia a tutti. Bisogna aiutare tutti”. Non lo posso dimenticare quest’atto pastorale, quasi d’abbraccio in quel periodo doloroso che si doveva attraversare e che lui prevedeva come tale. Allora venne Gini e gli dissi di sì, ho avuto il permesso, così il Comitato di liberazione si installò […] dove una volta era l’infermeria dell’educandato, libero, vero. Aveva una porta per contro proprio, un orto dove poter scendere, diverse stanzette, c’era tutto completo il Comitato di liberazione. Vennero Pietro Gini e qualcun altro, tre o quattro ci stavano stabilmente. Venne poi anche il capitano Martini, che è ancora vivo. Era stato… si faceva su e giù con il treno quando io studiavo, era marito di una mia amica e lo conoscevo bene. Più tardi venne, molto più tardi, dopo l’eccidio sul monte a Figline, però sua moglie con i figlioli, con uno dei figlioli, era già qui, perché l’altro i tedeschi lo presero e lo portarono via. […] Poi a poco a poco cominciò a venire gente e io, dico la verità, non rifiutai nessuno. Di qualunque condizione fossero, questo io me lo sentivo in coscienza. Non in questo locale, ma in questo che le farò vedere in biblioteca, c’era la gente più paurosa, e vorrei dire più povera, non nel senso spregiativo: quella che aveva più paura. Le farò vedere, in quella neoclassica laggiù c’era molta mobilia. Portarono i mobili anche i Martini, quella mia amica, insomma c’era un monte di roba, si poté fare, come si può dire… delle camerette disimpegnate e nelle prime due stanze, per poter essere libere e fare un corridoio, c’erano le tende del teatro e io le misi con delle funi e il filo di ferro. M’aiutavano gli uomini che c’erano, tutti desiderosi di aiutarmi, e poi dormivano anche lì. Nelle sale su, dove c’erano le educande, c’erano tutte le famiglie di ex alunne, e così pure qui nelle scuole. Io non so mica quante erano, non l’ho mai contate. C’erano alcuni giovanotti che dormivano nel corridoio con una materassa che tiravano giù; parecchi giovanotti c’erano, di tutte le età, dai diciotto ai trenta, sicché, quando poi suonava l’allarme, quasi tutti scendevano giù dove c’era parecchio posto, perché è una cantina lunga quanto il chiostro. […]

– Come facevate a dare sostentamento a tanta gente?

– C’era qualcuno che portava qualcosa. Questa gente modesta si faceva da mangiare qui sotto, nei chiostri. Vede questi archi: uno per ciascuno […] e poi, vede, c’era una suora… – le suore sono state impagabili, straordinarie: hanno dato la medaglia d’oro a me, ma è il convento che rappresentavo […]




Natalina Marrocchesi (1920-2000)

Natalina Marrocchesi

Nasce il 26 marzo 1920 in una famiglia contadina che vive nei pressi di Torri, un paese nel Comune di Sovicille. Il padre non si piega alla richiesta di iscriversi al partito fascista, con la conseguenza di non riuscire ad avere un lavoro stabile né a trovare opportunità saltuarie. La famiglia, dopo alcuni anni di miseria, trova ospitalità dal prete del vicino paese di Rosia, sempre nel Comune di Sovicille. Qui Natalina frequenta la scuola e svolge le mansioni domestiche, impegnandosi con grande sacrificio nel rifornimento di acqua per il fabbisogno quotidiano della casa. Sa che il padre è stato in più occasioni prelevato e picchiato, ma gli adulti non ne parlano per paura che i “tetti bassi”, i bambini, possano raccontare fuori o fare domande aggravando una situazione già penosa. Una notte, agli inizi del 1944, un contingente di fascisti entra in casa con l’intenzione di prelevare il padre che riesce fortunosamente a mettersi in salvo, ma le minacce di morte e di incendio della casa, la distruzione operata negli ambienti domestici convincono ancor di più la giovane Natalina, che ormai è diventata sarta, ad essere parte attiva nella lotta di liberazione.

L’area di Sovicille è uno dei luoghi nevralgici per l’organizzazione della Brigata Garibaldi “Spartaco Lavagnini”, snodo strategico per le comunicazioni che il servizio delle staffette garantisce ai vari distaccamenti partigiani dislocati tra più territori limitrofi.

Della brigata entrano a far parte il fratello Giorgio, nome di battaglia “Scorretto”, e, dopo l’incursione subita, anche il padre Remigio. Natalina diviene una fidata staffetta: usa strategicamente la sua macchina da cucire per servire al meglio le richieste vere o

Matrimonio di Natalina Marrocchesi

presunte delle donne che abitano la fitta rete poderale della zona. Si muove tra le case sia in paese che nelle campagne, raccoglie per i combattenti vestiario, calze e maglie di lana, si sposta fino ai poderi più prossimi ai rifugi per cucire e rammendare gli indumenti dei partigiani e porta loro informazioni e messaggi celati ad arte in mezzo agli strumenti del mestiere. In diverse occasioni queste uscite sono concordate con una o due amiche; insieme si fermano per più giorni ad aiutare le massaie a fare il pane e rifornire i partigiani nei luoghi convenuti.

Con l’approssimarsi del fronte di guerra Natalina si trova nei pressi di Molli, teatro dell’ultimo scontro cruento tra partigiani e forze naziste prima della Liberazione di Siena: sta cucinando per la banda quando all’improvviso inizia la sparatoria ed è costretta ad allontanarsi per non perire sotto i colpi dell’artiglieria nemica. Subito dopo la Liberazione sarà attiva nel PCI e nell’UDI; otterrà la qualifica di patriota.

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🟪Stralcio da un’intervista realizzata nel 1992, in Folchi, Frau, “La memoria e l’ascolto”, pp. 102-103. L’episodio si riferisce allo scontro nella zona di Molli avvenuto il 24 giugno 1944.

Come si fu buio noi si prese i nostri fagotti, ecco. Sicché e fu tutto un giorno un combattimento che ogni pochino chi sparava di qui chi sparava di là, le pallottole ci fischiava tra le gambe mentre si veniva via, c’era un marroneto: via senza sape’ da che parte venivano e dove andavano. Sicché piano piano ci si ritrovò a Meleto. Quando s’arrivò a Meleto ma noi donne così, poi c’era arrivato anche il mi’ babbo, ecco, in quel momento poi ritornò […] anche la mi’ povera mamma e c’erano tutti, allora dissi: “Ora noi si muore tutti, si muore tutti insieme, siamo tutti per qui”. Quando s’arrivò a Meleto c’era solo due vecchi in casa: uno era di qua e una era di là. Litigavano questi poveri vecchi, mi pare di vederli ora. Lui le diceva: “Maria ti do una bastonata”. E noi s’era lì di fori: “Aprite Nicchino! – si chiamava Nicchino quest’omo – o Nicchino apriteci, e so’ Remigio!” Diceva il babbo. E questi niente ’unn’apriva nessuno e ’un c’era nessuno, la chiave nell’uscio ’un c’era, erano spariti tutti perché con quella battaglia che c’era dicevano che venivano a brucia’ Meleto: erano scappati e avevano lasciato in casa questi du’ vecchi. Allora, uno di qua uno di là litigavano parevan diavoli, allora poi da ultimo aprirono, ma noi ’un se ne poteva più, e si rimase lì. Dopo un po’ arrivò Aldo il Minacci, eramo a casa sua, venne su a vede’ che faceva ’sti du’ vecchi e ci ritrovò tutti a quel modo e dice: “Guardate, noi siamo scappati, hanno detto che vengono a brucia’”. Ci si affacciò a una finestra e bruciava Tegoia, gli avevan dato fuoco. “Noi non si viene”. Noi non se ne poteva più e si rimase tutti lì […]. Ad ogni modo si fece giorno. Ecco, ora poi questi partigiani, questi partigiani che c’erano rimasti erano laggiù a questo fosso e noi si stette lì, poi c’era da fargli anche il pane e allora si fece anche il pane. Si misero in du’ forni, si accese il forno di Meleto e quello di Meletino. Si fece il pane di qua e si portò di là, poi a mezzogiorno con un caldo che ’un se ne poteva più si mise questo pane dentro un sacco e via a corsa si arrivò qua alle Reniere. Poi qualche giorno noi siamo stati anche lì alle Reniere, però quando si arrivò a fare il pane c’era il guardia, non si sapeva come fa’ perché veniva sempre a vede’, era sempre intorno i’ forno. Il pane, capirai, eran tanti, eramo in tanti anche noi per là, fra quelli di Meleto e quelli che arrivavano. Capirai, con quelli che c’era si capiva, si vedeva che era tanto, era troppo il pane, ma insomma giù, in ogni modo s’ebbe fortuna: non disse niente.




Anna Martini (1924)

Anna Martini (©️Archivio Fondazione CDSE)

Nasce a Prato il 9 marzo 1924, in una famiglia composta dai genitori Mario e Milena Dami, i fratelli minori Piero (1926) e Marcello (1930). Entrambi i genitori di Anna sono insegnanti; quando il padre vince il concorso per la docenza nelle scuole pubbliche, l’intera famiglia si trasferisce a Pistoia.

Anna si diploma all’Istituto magistrale e comincia a insegnare: continuerà a lavorare e insieme a studiare anche dopo la guerra. Grazie al suo lavoro riesce a pagarsi delle lezioni di greco e a ottenere la licenza di liceo classico da privatista. Con lo scoppio del conflitto, la vita di Anna viene stravolta: il padre, ufficiale di complemento, viene richiamato; non le è più possibile andare a Firenze per continuare la frequenza del corso universitario in Lettere moderne al quale si è iscritta e la casa di Pistoia viene danneggiata da un bombardamento, costringendo i Martini a sfollare dapprima a Cerreto, poi a Montemurlo, in provincia di Prato.

L’8 settembre Mario Martini riesce a far fuggire i suoi soldati e, sventata la cattura, si ricongiunge con i propri familiari; si lega al Partito d’Azione come esponente della corrente repubblicana clandestina. Tutta la famiglia inizia a collaborare con la Resistenza, soprattutto tenendo contatti con Radio CoRa e occupandosi dei messaggi cifrati di Radio Londra.

Questo coinvolgimento li espone a gravi rischi. Quando Radio CoRa viene scoperta il 7 giugno 1944, tutta la famiglia viene presa, ad eccezione di Piero che non si trova in casa. Mario riesce a fuggire, Marcello viene portato prima al carcere delle Murate a Firenze e successivamente deportato a Mauthausen, dal quale ritornerà dopo tredici mesi. Anna e Milena vengono detenute per un mese.

Anna Martini (©️Archivio Fondazione CDSE)

Durante la permanenza nel carcere di Santa Verdiana, viene aiutata da alcune suore e dialoga spesso con le altre prigioniere, o svolge “lavoretti” che le vengono commissionati, conosce anche le partigiane Tosca Martini e Tosca Bucarelli. Anna e la madre Milena sono due tra le quattordici prigioniere liberate dai gappisti di Bruno Fanciullacci il 9 luglio e si rifugiano da alcune parenti a Firenze.

Dopo la guerra si laurea in Lettere moderne e diventa insegnante. Svolgerà anche il mestiere di guida turistica, grazie al quale potrà viaggiare molto. Rimane nubile per aiutare il padre e i fratelli; si sposa poco prima dei quarant’anni e ha una figlia.

Non si affilia ad alcun partito né svolge attività politica. Riconosciuta partigiana, si iscrive all’ANPI, ma in seguito a disaccordi decide di lasciare la tessera; riprende a collaborare con l’ANPI in età avanzata, per parlare con gli studenti e raccontare la sua storia.

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I fratelli Anna, Piero e Marcello Martini al mare (1947-48) (Credits: L. Antonelli, A. Giaconi, “Una famiglia in lotta. I Martini tra fine Ottocento, Grande Guerra, Resistenza e Deportazione”, Museo Deportazione/Consiglio Regionale Toscana, 2017)

 

Mario Martini con i figli Anna, Piero e Marcello, 1930) (Credits: L. Antonelli, A. Giaconi, “Una famiglia in lotta. I Martini tra fine Ottocento, Grande Guerra, Resistenza e Deportazione”, Museo Deportazione/Consiglio Regionale Toscana, 2017)

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🟥 Stralcio di intervista ad Anna Martini in L. Antonelli, Voci dalla storia, Prato, Pentalinea, 2006,642-643

– Quando siete arrivati a Montemurlo come avete cominciato la collaborazione con la Resistenza?
– In realtà, con precisione non lo so, qual è stata la causa scatenante non lo so, il mio babbo è sempre stato antifascista, lui era il comandante militare, ma non era iscritto a nessun partito; a Montemurlo aveva cominciato un po’ il mio zio, il fratello, quello che era tipografo e quindi probabilmente fu lui che mise il babbo in contatto con altri.
Poi si entrò in contatto con Radio CoRa e tutta l’attività si svolse lì. I manifestini, quelli famosi dello sciopero io c’ho dormito sopra, il babbo li portò a casa per poi distribuirli e io ingenua li presi e li misi sotto il materasso e c’ho dormito una notte sopra per tenerli ben nascosti.
Noi s’era consapevoli, la mia mamma no, furono proprio i famosi manifestini che la mamma la mattina nel rifare il letto ce n’era rimasto uno, si accorse e allora disse: “Se i ragazzi devono correre un rischio allora lo corro anch’io insieme a tutti voi”. Allora cominciò anche lei.
Noi s’era cercato di tenere la mamma, sapendo quanto era apprensiva nei nostri riguardi, di tenerla un po’ estranea. Il babbo aveva chiesto a noi di collaborare, di sentire per esempio i famosi messaggi segreti quelli che venivano trasmessi da Radio Londra, quello era uno dei nostri compiti, noi si stava a sentire le notizie di Radio Londra proprio per sentire i famosi messaggi speciali. Il babbo poteva essere fuori mentre noi ragazzi invece si stava chiusi, intabarrati in casa proprio per sentire piano piano Radio Londra.
Io e Marcello si sentiva i messaggi speciali di Radio Londra, tu dirai i messaggi, se ti trovavano venivi fucilato. I messaggi erano tre, il “coccodrillo verde” era il primo, il secondo era “Beatrice ti saluta” e il terzo era “Martino non parte”, in quest’ordine. Il primo indicava che il messaggio era per il nostro gruppo, poi veniva mandato il secondo per tre volte e poi se veniva mandato una quarta volta voleva dire che avveniva il lancio, se invece mandavano “Martino non parte” il lancio era annullato. Noi si preparava il campo, mandavano viveri, si doveva spengere tutto, sotterrare i paracadute e quello era soprattutto compito di mio fratello Piero. I lanci venivano fatti nella zona della Collina. Di solito mandavano roba, poi fu lanciato i paracadutisti, i radiotrasmettitori, i paracadutisti furono paracadutati tutti insieme, dovevano essere cinque, misteriosamente furono sei, però il sesto misteriosamente l’ho rivisto vivo, gli altri cinque furono presi tutti (4 a Firenze, uno con noi) e furono tutti fucilati. […]
Siccome io avevo il terrore dei bombardamenti e le suore [del carcere femminile di Santa Verdiana] lo sapevano, la suora di questo primo reparto dove ero con le detenute comuni che si chiamava suor Rosina mi diceva: “Guarda che io non ti chiudo mai la cella, te la chiudo e poi te la riapro, però non andare a girare per i corridoi perché se le altre ti vedono a passeggiare…”. […] Poi veniva, mi nascondeva un pochino con il suo mantello nero e mi portava lì accanto in quella che chiamavano il cellone, dove c’erano le ebree, erano otto, dieci. Mi diceva: “Ti porto a parlare con delle persone per bene” e mi portava a parlare con le ebree. […] Dopo qualche giorno dal nostro arrivo, furono deportate tutte le ebree […]. Con le ebree misero in fila anche noi, eravamo prigioniere delle SS, fecero l’appello delle ebree, io, la mamma e l’Andreina Morandi con la sua mamma anche loro arrestate, rimanemmo lì, allora ci chiesero se eravamo ebree, gli dissi di no e ci ributtarono dentro.
L’Andreina Morandi la conoscevo già prima del carcere perché andavamo insieme all’Università, entrambe eravamo in prigione con la mamma e poi eravamo unite per Radio CoRa. Dopo eravamo unite perché cercavamo notizie io del mi’ fratello e lei del su’ babbo che era stato deportato e che non è tornato. S’andava insieme a cercare notizie. […]
Quando si fu liberate delle 57 donne prese dalle SS s’era rimaste solo io, la mamma e l’Andreina, ogni sera ne spariva una.
La mamma dell’Andreina invece l’avevano rilasciata di già perché soffriva tanto di dolori alla spina, non poteva stare a letto, non poteva stare a sedere, la lasciarono, tanto il marito glielo avevano deportato, il figliolo l’avevano ammazzato e la figlia era in carcere, che poteva fare? La mamma dell’Andreina era stata liberata qualche giorno prima.
Noi s’era capito che agli ebrei capitava qualcosa di brutto, gli davano ad intendere che riunivano le famiglie, che li portavano nei campi di lavoro, tante erano quasi contente di partire, ci credevano che le riunivano alle famiglie, ma noi s’era cominciato a capire che non era così, però si pensava a campi di prigionia normali, che non riunivano le famiglie, che pativano la fame, ma non si immaginava quello che era davvero, non si pensava ad uno sterminio, anche se c’era una caccia forte agli ebrei. […]
Anche mio fratello Marcello che era stato portato alle Murate quando noi eravamo state portate in Santa Verdiana perché aveva già compiuto da due mesi quattordici anni, fu deportato, noi l’abbiamo saputo da radio carcere che gli uomini erano già stati deportati.




Lea Cutini (1912-?)

Lea Cutini (L’ISRPT sostiene sia Lea Cutini, mentre sul sito del CDEC al posto di Lea Cutini viene indicata la partigiana Raffaella Ilva Ferretti)

 

Sono noti solo alcuni dati essenziali sulla vita di Lea prima della guerra: nata a Pistoia il 27 agosto 1912, la ritroviamo nel 1940 sposata e impiegata in una fabbrica di materiale plastico. Nei giorni precedenti l’8 settembre 1943 è contattata da un certo Fiorini, che le chiede di collaborare con il PCI clandestino distribuendo materiale a stampa. Entra in questo modo in contatto con Alberta Fantini la quale, in quanto dirigente del Gruppo di difesa della donna, le dà le prime nozioni relative all’attività clandestina e la mette in contatto con le altre donne della formazione.

Il 9 settembre alcuni partigiani attaccano a Pistoia la caserma della Milizia volontaria per la sicurezza nazionale in piazza dello Spirito Santo; a seguito dello scontro un partigiano ferito è portato in casa di Lea per ricevere assistenza. Nonostante il timore per la sicurezza della sua famiglia, Lea mette sempre a disposizione la sua abitazione per ospitare le riunioni del CLN clandestino e come deposito di armi; l’abitazione si trova infatti nel centro di Pistoia e, avendo due entrate, presenta una rapida via di fuga in caso di pericolo.

Oltre a distribuire propaganda antifascista, a Lea è affidata, insieme alla partigiana Tina Bovani e ad altri compagni, un’operazione di recupero di armi dalla casa di Cesare Andreini, addetto militare del CLN, che è stata occupata da un comando tedesco nella primavera del 1944. Lea e Oliviero Maestripieri, fingendosi una coppia tornata a recuperare dei materiali personali, riescono a portare a termine la pericolosa operazione.

Si trasferisce poi nella frazione di Ramini insieme a Guerrando Olmi, detto “Nando”, e ad alcuni membri del PCI clandestino. La sera del 30 agosto 1944 un soldato tedesco è ucciso e seppellito dietro la chiesa di Ramini e per rappresaglia sono arrestati Nando, il parroco don Leonello Venturini ed altre persone poi subito rilasciate. Lea si presenta al comando tedesco fingendosi la moglie di Olmi; è rilasciata dopo un interrogatorio con la promessa che entro 24 ore porti notizie sul soldato ucciso, pena la fucilazione degli arrestati. I militari la conducono quindi vicino Bonelle, lasciandola cadere nel torrente Ombrone da sopra l’argine. Tornata in città, contatta Liliana Cecchi, partigiana infiltrata nel comando tedesco situato in piazza San Francesco; le due donne, dopo aver informato il CLN, si offrono di tornare al comando e riescono a convincere i militari germanici che il soldato è stato ucciso da una pattuglia alleata in esplorazione.

Nel dopoguerra a Lea sarà riconosciuta la qualifica di partigiana combattente col grado di sergente.

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🟩 STORIA DI UNA FOTO

Per gentile concessione della Fondazione CDEC, Milano, © Press Association, Inc. 

Lo scatto fu eseguito da un reporter della Press Association a Pistoia, all’incrocio tra via Abbi Pazienza e via Curtatone e Montanara, durante la Liberazione della città avvenuta l’8 settembre 1944. Da sinistra Israele (Lele) Bemporad, Liliana Cecchi, Bumeliana Ferretti Pisaneschi, Enzo Giorgetti (in secondo piano e con il volto parzialmente coperto dal fucile), Marino Gabbani, Lina Cecchi, un uomo russo non identificato e Lea Cutini (o Ilva Raffaella Ferretti). La fotografia è conservata anche presso l’Archivio ISRECPT, che ha riconosciuto in Lea Cutini la prima donna a destra, mentre il CDEC l’ha identificata come Ilva (Raffaella) Ferretti.

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🟪 Relazione firmata dal responsabile militare provinciale del PCI Cesare Andreini e da Lea Cutini come responsabile dei GDD, conservata in Archivio ISRT, Fondo Marchesini, f. “Gruppi difesa della donna”.

[…] A Ramini dove era allora il Comando provinciale del movimento clandestino, negli ultimi giorni di dominazione nazifascista precisamente il 30 Agosto 1944, fu ucciso un soldato tedesco e per rappresaglia furono arrestati per ostaggi il responsabile politico Guerrando Olmi e il parroco del paese Lionello Venturini.
La Cutini Lea, responsabile delle staffette, allo scopo di tentare la liberazione dei due prigionieri si presentò spontaneamente alla soldataglia, spacciandosi per la moglie dell’Olmi; fu accompagna al comando e tanto riuscì ad adoperarsi da farsi rilasciare, dando promessa di ritornare entro le 24 ore col soldato tedesco che mancava all’appello.
La Cutini dopo aver subito oltraggi e maltrattamenti fu accompagnata alla linea del fronte costituita dal fiume Ombrone dove fu letteralmente gettata. Appena lasciata dai soldati tedeschi, la compagna Cutini si apprestò a risalire l’Ombrone e a prendere contatto con il responsabile di zona Oscar Nesti in sostituzione di Maestripieri Oliviero assente per servizio, prendendo da questi le informazioni precise sulla situazione dei due prigionieri e del paese, portandole poi al Comitato di liberazione della città.
Nonostante il divieto del presidente del CLN si presentò agli altri comandi assieme alla compagna Cecchi Liliana per testimoniare di aver visto il soldato tedesco catturato da una pattuglia avanzata inglese e di poter fornire i connotati del medesimo. […]
La Cutini e la Cecchi furono sempre adoperate per i trasporti di armi. La Cutini fu anche inviata dal Comando di Pistoia a Firenze per portarvi messaggi segreti nonostante che la città stessa fosse in stato d’assedio.
Altre donne furono incaricate nella confezione di bracciali per partigiani alla ricerca di viveri e medicinali.
Le case delle compagne Cutini Lea ed Alberta Fantini furono sempre adibite a depositi di armi e stampa. […]




Rossana Modesti (1921-2015)

Rossana Modesti (©️Archivio familiare)

Nasce a Volterra nel 1921 da famiglia benestante: i genitori hanno una bottega in centro e sono proprietari di un palazzo nella centralissima Piazza dei Priori.

Nel novembre 1943 il fratello minore Vinicio, insegnante presso la Scuola d’arte, si dà alla macchia per unirsi alle formazioni partigiane che si sono costituite nell’area boschiva delle Colline metallifere, al confine tra le province di Grosseto, Livorno e Pisa, poi riunite nella 23a Brigata “Guido Boscaglia”. Rossana organizza con altre donne volterrane una struttura clandestina per sostenere la lotta partigiana. Il 2 marzo 1944, in casa di Niccolò Mezzetti in Borgo San Giusto, insieme a Lola Bardini detta Klara, Silvana Simoncini, Ornella Cascinelli e Bianca Bartolini, costituisce il Comitato femminile, con il compito di confezionare e raccogliere indumenti, soldi e viveri da inviare ai partigiani che vivono alla macchia e per le famiglie più in difficoltà. A queste prime componenti si uniscono a fine marzo Marcella Melani detta Nina, Milena Pineschi e Alma Magnano.

Le donne del Comitato si impegnano anche nella propaganda: riescono a comporre e a dare alle stampe quello che è considerato come l’unico volantino clandestino prodotto a Volterra in quel periodo, superando le difficoltà che avevano impedito al locale CLN di stampare ciclostilati e manifesti. Sotto il titolo Alle donne d’Italia viene lanciato un appello di genere alla mobilitazione: “Dobbiamo dimostrare che il sesso gentile non è solo ornamento della casa, dobbiamo rigettare tutte quelle espressioni in nostro carico ed essere in linea sul fronte della liberazione. Noi donne possiamo far molto […] Dunque al lavoro o donne; in gara con gli uomini perché si veda presto la fine di questo martirio”.

Individuata come sorella di un partigiano, Rossana viene poi arrestata per rappresaglia dai carabinieri e portata al Carcere Don Bosco di Pisa. Qui rimane fino alla seconda metà di giugno 1944 quando, con l’intensificarsi dei bombardamenti alleati e la fuga dei fascisti locali, la gran parte dei prigionieri riesce a scappare. In carcere entra in contatto con Elvezio Cerboni, il capo partigiano più importante dell’area tra Volterra e Massa Marittima, arrestato nell’aprile e poi fucilato dai tedeschi proprio il 21 giugno 1944. Sarà riconosciuta patriota e poi, in seguito a un suo ricorso, partigiana combattente.

E’ scomparsa il 6 settembre 2015

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🟪Volantino – Testo riportato in Emilio Ottanelli, “Antifascismo e Resistenza a Volterra”, dattiloscritto, pp. 24-6, in Archivio ISRT, Fondo Resistenza armata in Toscana, b. “PI SI Toscana”, f. “Pisa”.

ALLE DONNE D’ITALIA
In quest’ora tragica che la patria attraversa, mentre tutte le energie di quasi tutto il popolo italiano sono tese nella lotta decisiva per la liberazione della nostra Italia, noi donne non possiamo non renderci attive ed utili. […]
Dunque al lavoro o donne; in gara con gli uomini perché si veda presto la fine di questo martirio. La cosiddetta Repubblica ci chiama a collaborare con i tedeschi e per la salvezza della “loro” patria, ci chiama per servire una causa persa per la sua nefandezza, ci chiama a collaborare con i pirati e con gli affamatori ai quali va la responsabilità delle nostre sofferenze […].
Tutta la nostra simpatia vada verso i veri difensori della patria della vera libertà, i quali vivono sulle montagne e nei boschi. […] Ai partigiani della Brigata Garibaldi vada il nostro plauso, il nostro amore, la nostra fiducia; ad essi solo, continuatori della eroica tradizione dell’eroe dei due mondi, vada tutto il nostro muliebre sacrificio.
Donne di ogni fede, di ogni religione, senza alcun partito uniamoci! Stringiamoci attorno al CLN affinché, unite in quella compattezza che solo la nostra patria morente può infonderci, siano scacciati dal nostro sacro suolo i tiranni stranieri ed i briganti nostri: i fascisti.
Donne di tutta Italia! Donne di ogni ceto raccogliete pro partigiani; formate dei comitati e date, date amore e denaro, indumenti e cibo. Tutto dobbiamo dare perché i nostri eroi diano pace al mondo, libertà all’Italia che per vent’anni ha navigato in un mare di menzogne e di lordure.
Pace all’Italia!!! Pace alla nostra terra!!!
W i nostri Partigiani
W l’Eroica Brigata Garibaldi
W il Comitato di Liberazione Nazionale




Walkiria Pelliccia (1914-2012)

Walchiria Pelliccia (©️Archivio ISRECLU)

Nasce a Viareggio il 9 aprile 1914 da Adiuto e Edvige Codecasa. Adiuto è figlio di Giuseppe, giunto da Assisi a Viareggio nella seconda metà dell’Ottocento per lavorare al dazio dopo aver abbandonato una carriera da cantante lirico. Giuseppe ha avuto nove figli, tra i quali Absido, destinato ad una brillante carriera musicale di violinista e collaboratore di Giacomo Puccini, e appunto Adiuto, che, da amante della musica, chiama le proprie figlie con nomi delle eroine delle opere liriche: Iris (1911), Walkiria e Leonia Cleopatra (1921).

Giornalista e collaboratore dell’“Avanti”, socialista e poi delegato a Livorno è fra i fondatori del Partito comunista, Adiuto è titolare di un forno e diviene capo sindacalista dei panettieri di Viareggio. Con l’avvento del fascismo arrivano tempi difficili, perché davanti al suo rifiuto di iscriversi al partito il forno diviene oggetto di boicottaggio e in pochi anni l’attività deve chiudere. La famiglia è costretta a lavori saltuari e alloggi di fortuna e le figlie devono interrompere gli studi.

Walchiria con il padre Adiuto Pelliccia (©️Archivio Famiglia Tomei)

Walkiria condivide presto l’antifascismo del padre, tanto che nelle memorie familiari è tramandato un suo clamoroso gesto di sfida (la difesa di un anziano signore che si era rifiutato di rendere omaggio al gagliardetto fascista), che ha come conseguenza un suo trasferimento a Genova presso una zia per tre anni.

Nel 1937 decide però di tornare a Viareggio per aiutare economicamente la famiglia e trova un impiego presso la rinomata Profumeria Di Ciolo; diventa ben presto una figura essenziale, aiutando nei giorni dello sfollamento i proprietari a mettere al sicuro il pregiato mobilio.

Walchiria con il marito Angelo Tomei (©️Archivio Famiglia Tomei)

Dopo l’8 settembre 1943 Walkiria decide di aderire alla Resistenza come staffetta tra Camaiore e Viareggio. Per caso la giovane si salva da una retata nazista sul tram che è solita utilizzare per i suoi spostamenti tra le due città versiliesi. Anche in seguito all’ordine di evacuazione di Viareggio del 17 aprile 1944 e al suo sfollamento sulle montagne di Camaiore conserva il ruolo di staffetta, che svolge fino alla Liberazione. Avendo in precedenza imparato la lingua inglese con delle lezioni private, è oltretutto una delle poche persone capaci di comprendere i messaggi alleati emessi da Radio Londra. Le sarà riconosciuta la qualifica di patriota, facente parte della formazione “Marcello Garosi”.

Sposatasi con Angelo Tomei nel 1949 e iscritta al PCI, nell’immediato dopoguerra è tra le animatrici della locale Croce verde e tra le fondatrici della sezione viareggina dell’UDI. Ma soprattutto torna al negozio di cui sarebbe diventata direttrice e infine proprietaria, cambiandone il nome in Profumeria Walkiria, oggi uno dei negozi storici di Viareggio. Si spegne alle soglie dei cento anni nel 2012.

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🟥 Il direttore dell’ISREC di Lucca, Andrea Ventura, propone una breve storia della formazione “Marcello Garosi”, operativa in Versilia nell’agosto-settembre del 1944.




Erminia Cremoni (1905-1956)

Erminia Cremoni

Erminia nasce a Livorno l’8 gennaio 1905 da una famiglia di modeste condizioni; si iscrive fin da piccola all’Azione cattolica, dedicandosi all’apostolato ed alle opere assistenziali.

Nel corso degli anni Trenta è esponente di un associazionismo cattolico che guarda con diffidenza al regime e che cerca di salvaguardare un’autonomia rispetto ai tentativi di controllo “totalitario” dell’educazione dei giovani. Partecipa all’Unione femminile cattolica, fondata dalla curia livornese nel 1932, così come ad altri gruppi, quali l’Unione donne cattoliche e la Gioventù femminile di Azione cattolica. Di quest’ultima associazione Erminia viene nominata presidente nel 1943, a fianco del sacerdote don Roberto Angeli. Si occupa tra l’altro della formazione delle operaie che lavorano nelle fabbriche livornesi e nei maggiori cantieri della città, come la Oto e la Motofides.

Nel periodo della Resistenza aderisce al movimento dei cristiano-sociali, fondato da don Angeli, che coniuga valori cattolici e idealità socialiste; esso entra a far parte del Comitato toscano di liberazione nazionale in collegamento col Partito d’Azione.

Erminia Cremoni e Emilio Angeli (©️Archivio Centro Studi Roberto Angeli)

Partecipa all’attività di assistenza a un gruppo di soldati italiani scampati alla cattura tedesca e rifugiati nei sotterranei dell’ospedale di Livorno. Collabora inoltre alla rete di soccorso ai perseguitati di origine ebraica: percorre una o due volte a settimana circa venti chilometri a piedi da Montenero, anche nel corso di allarmi e bombardamenti, per fornire rifornimenti ad un gruppo di ebrei nascosti in una palazzina di via Micali nella città labronica. Svolge un lavoro di sostegno materiale e spirituale ai partigiani cristiani, trasportando viveri, armi, medicine, materiali di propaganda. Sarà riconosciuta partigiana combattente nel servizio “I” (Informazioni) della Divisione “Giustizia e Libertà”.

Dopo la fine del conflitto Erminia prende l’abilitazione all’insegnamento della religione nelle scuole medie; continua a dedicarsi ad opere assistenziali e nel 1944 fonda e presiede la sezione livornese del Centro italiano femminile (CIF), organizzazione politica e ricreativa delle donne cattoliche. È successivamente eletta come consigliera di minoranza nelle liste della Democrazia cristiana in Consiglio comunale. Muore nel 1956.

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🟪Archivio ISRT, Fondo Clero toscano nella Resistenza, b. 6, f. Livorno, testimonianza dattiloscritta di Erminia Cremoni, s.d. ma fine anni Quaranta – primi anni Cinquanta.

Nel 1943, quando cominciarono a delinearsi a Livorno i primi movimenti antifascisti, collaborai alla diffusione di idee cristiane sociali.
Dopo l’8 settembre aiutai diversi soldati italiani nel loro tentativo di sottrarsi alla cattura da parte dei tedeschi. Si nascosero nei sotterranei dell’ospedale civile di Livorno con rifornimento di viveri, denari e abiti civili ed un gruppo di marinai catturati nell’isola d’Elba. Lavoro difficile perché si doveva agire sotto la sorveglianza delle sentinelle tedesche ed uscire insieme – magari a braccetto – per accompagnarli oltre la città. Possono essere testimone di questo Amalia ed alcune infermiere dell’ospedale.

Venuto l’ordine di evacuazione della città rimasero senza casa un gruppo di circa 15 ebrei poveri, malati, vecchi e bambini dell’ospedale israelitico. Insieme a don Angeli e don Spaggiari procurammo di venire il loro soccorso moralmente e materialmente – con visite periodiche – fino al giugno 1944. Il pericolo cui andavo incontro era grave perché si sapeva quanto gli ebrei erano sorvegliati. Le visite si facevano uno o due volte la settimana e si andava in città – via Micali – da Montenero quasi sempre a piedi andare e venire. Circa 20 km con allarmi continui e più volte sono stata presa dai bombardamenti. In questo tempo si era nascosto anche un medico di Modena – straniero ed ebreo – al sanatorio Villa Corridi, ed anche per lui si faceva tutto quello che era possibile. Dopo l’arresto di don Angeli che guidava questo lavoro – fu arrestato 17 maggio 1944 – fui costretta a non venire più in città perché mi avevano segretamente avvertito che avevo pronto il mandato di cattura. Per questo chiedere informazioni all’avvocato Funaro di Livorno. Contemporaneamente ero in stretta collaborazione con il gruppo della resistenza cristiana […] e mi prestavo ospitando in casa alcuni dei capi della resistenza[:] Benetti, Pagani, alcuni sacerdoti Enriquez medaglia d’oro […],1 Don Angeli, il “nonnino” Angeli Emilio,2 medaglia di argento, Orlandini, Merlini, Figara, il capitano Pini, ed altri dei quali non si poteva sapere il nome. Mi prestavo per il trasporto dei medicinali, viveri, armi, proiettili, lettere, diffusioni giornali, documenti falsi, carte di identità false con relative tessere del pane. La famiglia Pagani può testimoniare.

Erminia Cremoni

Nel novembre del 1943, per incarico del “nonnino” Emilio Angeli […andai] a Castagneto nel Mugello per la ricerca di prigionieri inglesi e per fornire collegamenti a nuclei partigiani della Resistenza che abitavano in quella zona. Andai a Vicchio, Dicomano e nei pressi del Monte Falterona con il pericolo di essere arrestata dai tedeschi che si trovavano ovunque e fermavano le persone chiedendo spiegazioni e documenti. Viaggiavo con dei libri di propaganda dell’Azione cattolica perché sarei in quel caso stata la “propagandista”. Quando dovevo passare davanti ai posti di blocco tedeschi, il cuore mi sembrava che si fermasse. In queste occasioni scrivevo nomi e dati in carta velina che nascondevo in mezzo all’ovatta della giacca. A Castagno fui ospite in casa del mugnaio che aveva una figlia che faceva da collegamento tra la montagna ed il paese. Anche questo dopo poco [fu] arrestato. Seppi dopo, e a Livorno e fuori, di aver avuto contatto con [persone] formidabili, specialmente donne.
Nel giugno [1944], si avvicinavano gli americani, cominciarono le razzie di uomini da parte dei tedeschi nella zona di Montenero dove abitavo, Villa Todda, e ad Antignano dove mi ricavo ogni giorno perché mi ero impiegata. Mi riuscì a nascondere alcuni uomini e fornire a loro e ad altre ville vicine un serrato servizio di informazioni sui movimenti delle SS. Mi chiamavano “il Gazzettino” – alcuni riuscirono a fuggire –. Il cerchio si stringeva sempre di più, il mio ufficio, il consorzio agrario, chiuse e così iniziò quel terribile periodo di terrore per l’avanzata [americana?] che tartassava la zona di proiettili a pioggia continua e per la caccia all’uomo delle SS. Fu in uno di questi terribili giorni, non riuscivo a stare chiusa in casa, che stando distesa dietro un muretto del giardino per non essere colpita alla testa sentii un [latrato?]. Mi dirigevo verso quel punto ma un tedesco mi aveva veduta e la mitragliatrice intensificò la sua mira, avanzando strisciando a zig-zag per terra arrivai al punto dove sentivo il latrato e trovai un giovane ferito gravemente al basso ventre. Andai a chiamare il medico che si rifiutò di venire, allora presi una cassetta di medicinali e come potei disinfettai tutta la zona, era in un lago di sangue, lo fasciai stretto, poi lo trascinai sempre strisciando per terra dietro un pagliaio. Ma eravamo di nuovo presi di mira e le pallottole piovevano e ripassavano sopra le nostre teste. Non abbandonai il ferito finché non lo misi in una boscaglia, indicandogli una casa dove poteva nascondersi. Seppi che fu poi portato all’ospedale, fu operato e salvato.
Offrii per qualche mese ospitalità a don Angeli finché fu arrestato e deportato nei campi di concentramento della Germania.
Questo è ciò che ricordo.




Mariella Gori (1923-2010)

Mariella Gori balla con Leto Morvidi primo sindaco di Manciano, 1 maggio 1945  (©️Archivio Bellezzi)

Nasce a Manciano il 29 maggio 1923 da Giuseppe Gori, antifascista, e Aminta Balestrelli. Nella casa di suo padre, in via del Ponticino, viene fondata una delle primissime bande della Maremma grossetana. Mariella, appena sedicenne, partecipa alle molte riunioni fatte fra l’8 settembre e l’ottobre 1943 e giura in nome della democrazia e della libertà insieme al futuro comandante della formazione della zona, Sante Arancio, e agli altri partigiani.

Da qualche giorno prima del Natale 1943 a fine marzo 1944 Mariella è alla macchia proprio con la banda guidata da Arancio: la giovane passa tre mesi alla Capriola, sotto Montauto dove è il comando, insieme alla moglie del comandante, Virginia Cerquetti, e poi è a Macchia Sugherona, al Podere Crociani.

Per la banda svolge la funzione di staffetta. Gira armata di una pistola Beretta che porta sempre con sé, anche quando deve rientrare di nascosto in paese per prendere i vestiti per i partigiani che vengono raccolti da Maria Pascucci, per conto della San Vincenzo, un’associazione cattolica. Insieme ai vestiti, Mariella riceve informazioni che riporta all’accampamento. Inoltre, è proprio lei a contattare, per conto del capobanda, i medici di Manciano affinché si rendano disponibili per le esigenze della formazione.

Mariella Gori, 1 maggio 2007 (©️Archivio Bellezzi)

Dopo la guerra è riconosciuta partigiana combattente dalla Commissione regionale Toscana nel Raggruppamento Amiata, VII gruppo bande, settore B per la Banda armata maremmana comandata da Sergio Salvetti. Nella relazione che è invece presentata alla Commissione del Lazio da Sante Arancio per la Banda Arancio Montauto, viene descritta in maniera paternalistica come “fedele ancella della moglie del capobanda”, con cui sa dividere le ansie e i pericoli della lotta, ma anche come “informatrice instancabile, [che] seppe arrischiare più volte la galera perché la sua missione fosse quanto mai più precisa”; e ancora, il comandante Arancio di lei vuole ricordare che “nessun lavoro le è mai sembrato duro quando poteva essere di sollievo a tutti”.

Nel dopoguerra è sempre attiva nella comunità di Manciano da cui è molto apprezzata. In un’intervista, però, dichiarerà che al contrario, durante il periodo della Resistenza, “alla macchia c’era una grandissimo rispetto per noi donne, mentre in paese ci consideravano delle poco di buono”. Muore il 13 maggio del 2010, all’età di 87 anni, dopo aver a lungo testimoniato la sua vita da partigiana.

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🟧Le madri del futuro libero

Episodio della serie podcast dell’Isgrec “Racconti Resistenti: le vite di partigiani e partigiane della Maremma” dedicato a Mariella Gori, nata a Manciano (GR) il 29 maggio 1923. Dopo l’8 settembre 1943, nella casa di suo padre nacque la Banda Armata Maremmana, guidata dal Comandante Sante Arancio. Tra i membri spicca un gruppo di donne coraggiose, tra cui Virginia Cerquetti. Racconto basato su documenti Isgrec, scritto da Silvia Meconcelli, interpretato da Irene Paoletti.



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🟥Intervista realizzata da Franco Dominici il 26 aprile 2005, pubblicata in Giulietto Betti, Franco Dominici, “Banda Armata Maremmana 1943-1944. La Resistenza, la guerra e la persecuzione degli ebrei a sud di Grosseto“, Arcidosso, Effigi 2014, pp. 250-2.

– Cosa ricorda delle riunioni tenute a casa di suo padre Giuseppe nel settembre del 1943 da cui nacque la prima formazione partigiana della Maremma?
– In casa di mio padre, in via del Ponticino, sono siate fatte più riunioni, fra settembre e ottobre, dalle quali nacque la banda partigiana. Ricordo che vi parteciparono Arancio, Aldo Ricci, Clito Pratesi, Leo Sbrulli e la sera del giuramento c’erano anche i tenenti Gino e Antonio. Giurammo tutti in nome della democrazia e della libertà.
– Cosa ricorda di Gaspare Arancio?
– Abitava a Manciano e la moglie era romana, conosciuta quando lei era in collegio. Si chiamava Virginia Cerquetti e il figlio di Arancio, Mario, non era suo. Alla macchia, alla fine di febbraio del 1944, nacque la loro figlia Annabella. Arancio era una specie di avventuriero, aveva un bel carisma, un po’ autoritario, ma era una persona molto decisa. Quando partivano per qualche azione io e la moglie pregavamo, avevo imparato a dire i rosari con Virginia Cerquetti, una donna fine, intelligente e molto religiosa. Già da tempo Arancio era un amico di famiglia perché mi aveva guarito le mani. Mi si erano ammalate e lui con sapone fatto con il grasso di maiale, alcune pomate prese in farmacia e della carta con cui mi isolò le dita, riuscì a guarirmi.
– Quanti erano i partigiani e gli stranieri a Montauto?
– All’inizio una cinquantina di partigiani, ricordo poi 2 indiani, un tenente francese e lo spagnolo Juan. Alla macchia c’era un grandissimo rispetto per noi donne, mentre in paese ci consideravano delle poco di buono. […]
– Quanto tempo è stata con i partigiani?
– Più di 3 mesi, da dicembre del 1943, qualche giorno prima di Natale, alla fine di marzo del 1944. Sono stata alla Capriola, sotto Montauto, dove era il comando, a Macchia Sugherona, al podere del Crociani, in prossimità del quale un gruppo di russi aggregati ai partigiani uccise il loro connazionale Ivan, un violento che non obbediva a nessuno. Poi sono stata ai magazzini di Secondo Bianchini, al suo podere, e non seppi altro della banda fino alla Liberazione. Quando tornai a Manciano fui subito chiamata dalla segretaria del fascio femminile […] perché sapeva che ero stata coi partigiani.
– Lei girava armata?
– Sì, il periodo che ero alla macchia avevo una pistola Beretta che portavo sempre con me, anche quando di nascosto mi trovavo a Manciano, per prendere i vestiti raccolti da Maria Pascucci per conto della San Vincenzo, un’associazione cattolica. I vestiti li portavo alla macchia io. A volte andavo a Manciano anche per ricevere qualche informazione. Svolgevo il lavoro di staffetta. […]
– E per le armi e le munizioni come facevate?
– Per le armi e le munizioni venivano assaltate le caserme da carabinieri, anche se spesso ce le davano loro.
– Cosa mangiavate alla macchia?
– Ci aiutavano i contadini che facevano il pane anche per noi. Quando sono arrivata alla Capriola non c’era nemmeno il sale e si mangiava il bollito di pecora. Le amministrazioni, cioè i proprietari terrieri, davano quello che potevano.