Il caso “Facio”, il comandante partigiano ucciso dai suoi compagni

E’ l’alba del 22 luglio 1944: ad Adelano di Zeri una scarica di colpi di fucile rompe il silenzio di queste vallate dell’alta Lunigiana fra Toscana, Liguria ed Emilia. Dante Castellucci, il comandante partigiano «Facio», comunista e garibaldino, è morto: ha solo 24 anni ma è già un eroe della lotta contro tedeschi e fascisti. Eppure a fucilarlo non sono i soldati nemici, ma un gruppetto di partigiani della IV Brigata Garibaldi della Spezia. Il suo accusatore è Antonio Cabrelli «Salvatore», di oltre vent’anni più anziano, che ha imbastito contro «Facio» un processo-farsa dalla condanna già scritta, portandolo davanti a un improvvisato tribunale di guerra per i reati di tradimento e sabotaggio.

Quella di «Facio» è una storia di vita, per quanto breve, capace di attraversare e vivere da protagonista grandi temi ed eventi del Novecento italiano. Calabrese, nato nel 1920 a Sant’Agata di Esaro, con la famiglia emigra ancora bambino nel Nord-Pas de Calais, nella stessa città in cui vivono grandi antifascisti italiani come Ermindo Andreoli e i fratelli Gino ed Eusebio Ferrari. I Castellucci rientrano in patria all’alba della Seconda Guerra mondiale e Dante viene chiamato alle armi nell’esercito italiano: spedito sul fronte prima in Francia e poi in Unione Sovietica, il 25 luglio del 1943 si trovava in permesso per convalescenza. Da intellettuale autodidatta scrive, dipinge, suona il violino. Entra in contatto con le famiglie antifasciste emiliane dei Sarzi e dei Cervi, organizzando con esse le prime forme di Resistenza. Divenuto il braccio destro di Aldo Cervi, nel dicembre del 1943 viene arrestato assieme ai sette fratelli ma, fingendosi un soldato straniero, viene rinchiuso nel carcere parmense della Cittadella dal quale riesce ad evadere pochi giorni prima della fucilazione dei compagni a Reggio Emilia. I sospetti del Pci reggiano, che emette una circolare di arresto nei confronti di Castellucci, lo spingono a entrare in contatto col Cln di Parma, dove il dirigente comunista Luigi Porcari lo manda alle dipendenze del Battaglione garibaldino «Picelli» comandato da Fermo Ognibene «Alberto». In Lunigiana, «Facio» si rende protagonista di ripetuti attacchi alle postazioni nemiche, guadagnandosi in breve tempo la fiducia dei compagni e la stima delle popolazioni civili ancora oggi riscontrabile presso i testimoni dell’epoca, fino a divenire Comandante del battaglione dopo la morte di Ognibene. Il 17 marzo 1944 «Facio» fa il suo ingresso nel mito resistenziale con la battaglia del Lago Santo: chiuso in un rifugio con otto uomini male armati, resiste oltre ventiquattr’ore, senza perdite, all’accerchiamento di oltre cento soldati nazifascisti; alla fine i nemici contano decine di morti e feriti e sono costretti alla ritirata ordinata. La battaglia di Lago Santo ricopre il «Picelli» di un alone di leggenda e «Facio», con Fermo Ognibene caduto in battaglia due giorni prima, ne diventa il comandante.

Dante Castellucci Facio in un'immagine di scena nel periodo in cui recita col teatro dei Sarzi

Dante Castellucci in un’immagine di scena nel periodo in cui recita col teatro dei Sarzi

Il battaglione interpreta benissimo le tattiche della guerriglia, compiendo attacchi fulminei e spostando continuamente la propria posizione. Disorienta i comandi nazifascisti, convinti di trovarsi di fronte a una formazione composta da centinaia di uomini. Tutela l’incolumità della popolazione civile, perché senza fornire un punto di riferimento territoriale, non concede la possibilità della rappresaglia nazista. Il «Picelli» è anche un esperimento politico e sociale, come nei dettami della lotta partigiana che ha il fine di rovesciare ruoli e costumi della società fascista. Il comandante vive e agisce alla pari dei suoi uomini, li guida in azione, siede a mensa con loro e si serve sempre per ultimo, rinunciando spesso alla propria razione, ed è l’ultimo a usufruire del vestiario ricevuto da un lancio o sottratto al nemico. Quando Laura Seghettini, pontremolese appena uscita dal carcere fascista, entra a far parte del battaglione, non viene destinata al ruolo di staffetta o di aiutante, ma diventa partigiana combattente fino ad assumere il ruolo di vice-comandante. Per poche settimane, Laura sarà anche la compagna di «Facio»: i due già progettano una sorta di «matrimonio in brigata», ma la vita in quei mesi corre troppo veloce.

foto segnaletica di antonio cabrelli_da Archivio centrle dello Stato_Casellario politico centraleAntonio Cabrelli «Salvatore», nominato da «Facio» commissario politico di un distaccamento del «Picelli», intende proseguire la sua scalata ai vertici del movimento partigiano spezzino: ha progettato la costituzione di una brigata garibaldina che faccia capo alla federazione comunista della Spezia e ai comandi liguri, ma il «Picelli» dipende ancora da Parma, cui «Facio» deve tutto. «Salvatore», così, sottrae il distaccamento «Gramsci» dalle dipendenze del «Picelli», lo trasforma in brigata e se ne autoproclama commissario politico. Per portare a termine il suo piano, deve sbarazzarsi dell’ostacolo più grande, rappresentato dal «brigante calabrese», come lo chiama lui: tra i due corrono lettere infuocate con accuse e minacce reciproche; Dante Castellucci sfugge a un agguato tesogli a tradimento; «Salvatore», allora, agisce con l’inganno.

La mattina del 21 luglio 1944 «Facio» viene chiamato al comando della brigata appena fondata da «Salvatore», con la scusa di chiarire la questione di alcuni materiali sottratti a un aviolancio. Convinto di dover affrontare solo un’accesa discussione, si fa accompagnare da due uomini fidati. Appena giunto nella sede del comando, il comandante del «Picelli» viene disarmato, aggradito e picchiato da Cabrelli, che ha imbastito un tribunale di guerra nel quale è, al contempo, accusatore e giudice. Poche ore dopo «Facio» viene condannato a morte per i reati di furto, sabotaggio e tradimento.

L’ultima notte la passa con «Laura», che nel frattempo lo ha raggiunto, sorvegliato da uomini della IV Brigata che a un certo momento gli offrono la via di fuga: «non sono scappato dai fascisti, non scapperò dai compagni» sono le parole di Dante Castellucci. Verga alcune lettere alla famiglia e agli amici emiliani. Scherza, com’è nel suo carattere, racconta qualche barzelletta e riesce pure a dormire un poco, come racconta «Laura».

Alle prime luci del 22 luglio viene prelevato e portato davanti al plotone d’esecuzione: è lui stesso a esortare i partigiani che non trovano il coraggio di sparargli addosso. Con «Facio» muore una delle più interessanti ed efficienti espressioni che il movimento partigiano aveva espresso fino ad allora.

Luca Madrignani (Carrara, 1977), dottore di ricerca presso l’Università di Siena, assegnista presso l’Insmli, collabora con l’Istituto Storico per la Resistenza e l’Età Contemporanea Apuana; si occupa di Didattica della Storia nella scuola. Ha pubblicato saggi e articoli sul primo dopoguerra italiano e le origini del fascismo; l’ordine pubblico e la violenza politica; la Storia della Resistenza e il movimento partigiano. E’ in corso di stampa per Il Mulino il volume Il Caso-Facio. Eroi e traditori della Resistenza.

Articolo pubblicato nel luglio 2014.




I fratelli Melauri e la famiglia Soffici

YADVASHEMQuella dei Soffici è una famiglia contadina che vive lavorando la terra nel Valdarno fiorentino. La loro storia si incrocia con due giovani ebrei Tullio e Aldo Melauri  a cui fra il dicembre del 1943 ed il luglio del 1944 Dante e Giulia, Oreste e Marianna Soffici scelsero, nonostante i pericoli, di dare rifugio e accoglienza.

La loro storia inizia a Trieste il 15 febbraio del 1925. Paolo e Lea Melauri danno alla luce il loro primo figlio: Tullio. Sedici mesi dopo sarà seguito dal fratello Aldo.
La loro è una famiglia relativamente benestante. Pur vivendo a Trieste, in realtà la loro non è una famiglia triestina. Il padre infatti proviene da Leopoli nell’odierna ucraina. Hanno origini ebraiche. Ma sono e si sentono completamente integrati. Anche per questo hanno prima rinunciato al cognome originario di Goldfrucht per cambiarlo nell’italiano Melauri e poi ottenuto la cittadinanza italiana nel 1920.
Tullio e Aldo hanno un’infanzia serena ed osservante delle proprie tradizioni religiose, ma tutt’altro che isolata dai compagni. Frequentano delle scuole elementari ebraiche, ma poi proseguono i loro studi nelle scuole pubbliche e sono in amicizia con molti altri adolescenti italiani di famiglia cattolica.

Le leggi razziali dell’autunno 1938 sconvolgono però le loro vite. Per fortuna il padre non subisce conseguenze immediate nel proprio lavoro, anche se perderà ben presto la cittadinanza italiana divenendo apolide. Sono proprio loro due Tullio e Aldo a subire all’inizio le ripercussioni più pesanti della discriminazione. Devono abbandonare la scuola pubblica per re-iscriversi in una scuola ebraica.

Ben presto le leggi razziali sono foriere di altre conseguenze molto più pesanti. Quella che fino ad allora era stata una discriminazione diventa chiaramente una persecuzione. I Melauri non si sentono più al sicuro a Trieste. Nel 1940 avevano acquistato un appezzamento di terreno al Brollo nel comune di Figline Valdarno (FI). A coltivarlo è una famiglia di contadini composta da Oreste e Marianna Soffici e i loro 5 figli. Ma quello fra i Melauri e i Soffici non è solo un rapporto di lavoro. È un’amicizia. I Melauri, insieme alla nonna paterna, si trasferiscono così in casa loro nell’estate del 1943. Partecipano alla vita, al lavoro e alle feste della piccola comunità di contadini del Brollo.

Oreste ha un fratello, Dante, che vive con la moglie Giulia in una casa isolata in località Scandelaia, sopra al Ponte agli Stolli. Così nascosta quell’abitazione può tornare utile in caso di pericolo e Oreste la mostra ai Melauri. Purtroppo tutti i segnali lasciano intendere che il pericolo potrebbe giungere presto. Nell’ottobre del 1943 infatti era arrivato in Italia uno dei più fedeli collaboratori dell’organizzatore della soluzione finale al problema ebraico: il capitano delle SS Theodor Dannecker, esperto nella caccia agli ebrei. Agisce con  poche decine di uomini, ma sa perfettamente come muoversi.

Vengono organizzate  retate in tutte le città d’Italia. il 6 novembre 1943 verrà rastrellata la comunità ebraica di Firenze. Gli ebrei vengono trasferiti in prigioni o nei campi di raccolta come Fossoli, Bolzano o la Risiera di San Sabba e da qui smistati verso Auschwitz o altri campi di concentramento. Presto si  uniscono alla caccia  anche  le autorità della Repubblica sociale italiana. Il 30 novembre il ministro degli interni della RSI emana precise direttive ai prefetti per l’arresto di tutti gli ebrei. Dall’Ottobre del ‘43 fino al Marzo del ‘45 verranno deportati quasi 8000 dei circa 32000 ebrei italiani. Di questi se ne salveranno poco più di 600 soltanto.

In questo clima di terrore è difficile mantenere la speranza e la fiducia. E i Melauri non si fanno illusioni: sanno benissimo cosa li attende quando l’antivigilia di Natale, il 23 dicembre 1943, vedono arrivare sotto casa loro una camionetta dei carabinieri.
Paolo Melauri, dopo aver perso la cittadinanza italiana è un apolide. È costretto a comunicare i propri spostamenti alle autorità. Crede di avere instaurato un rapporto di amicizia con il maresciallo dei carabinieri di Figline e crede che questa amicizia possa fornirgli protezione. Ma quando fa il  nome del maresciallo ai carabinieri scesi dalla camionetta nessuno di loro torna sui suoi passi. Lui e la sua famiglia devono seguirli. Gli viene concesso solo il tempo di tornare in casa a preparare le valigie.

Ma la sorveglianza non è ferrea. Così prende piede un’idea. I figli Tullio e Aldo di 18 e 17 anni possono scappare sul retro della casa attraverso i campi verso quella casa isolata di Dante Soffici che gli era stata mostrata. Il piano ha successo. Tullio e Aldo riescono a fuggire fino a Scandelaia e lì vengono accolti da Dante e Giulia Soffici. Ma non possono essere sempre tenuti in casa. È  troppo rischioso. Così per loro dopo il periodo invernale viene costruita una baracca nascosta nei campi. Tutti i giorni Dante o Giulia vanno a portargli da mangiare. In quelle giornate di isolamento il tempo è lunghissimo per i due ragazzi. A fargli visita e portargli dei libri viene anche la famiglia dei Banchetti che avevano conosciuto durante il periodo al Brollo. A Tullio e Aldo arrivano anche delle lettere dei genitori e della nonna. La madre e la nonna sono rinchiuse nel carcere fiorentino di Santa Verdiana, il padre in quello delle Murate. Ma Tullio e Aldo non si fanno illusioni. Mesi prima hanno ascoltato Radio Londra. Sanno qual’è la sorte scelta dai nazisti per gli ebrei. Purtroppo sia la madre che la nonna verranno deportate ad Auschwitz e lì verranno uccise il 6 febbraio del 1944; il padre sopravviverà poco oltre e morirà nel dicembre del 1944.

Con l’arrivo del fronte bellico in prossimità del Valdarno nel luglio del ‘44 un giorno Dante gli suggerisce di scappare. Sta diventando troppo rischioso per loro rimanere lì. Devono fuggire verso gli alleati. Così Tullio e Aldo scappano nella direzione che gli ha indicato Dante. Nella loro fuga incrociano anche una truppa tedesca, ma riescono a non farsi vedere. Infine dopo quarantotto ore senza bere e senza mangiare si imbattono in dei soldati inglesi.

Tullio e Aldo nel dopoguerra sono stati privati della famiglia, ma per fortuna non sono allo sbando. Con l’aiuto economico di alcuni amici di famiglia riescono a riprendere gli studi e a diplomarsi a Roma. Verranno a Firenze da una zia, poi rientrano a Trieste nel 1947. Ma la loro prospettiva come per  molti altri ragazzi ebrei europei scampati allo sterminio è una sola: Israele. Si iscrivono ad una scuola preparatoria poi dopo un anno si trasferiscono definitivamente in Israele lavorando nei kibbutz.

Nei primi anni ’50 le vite di Tullio e Aldo dopo tutto il tempo passato insieme si separano. Tullio durante una vacanza dalla zia di Firenze conosce quella che diventerà sua moglie. Nel 1957 Tullio si sposa e rientra definitivamente in Italia. Succede anche altro. Sta trascorrendo le proprie vacanze all’Impruneta quando re-incontra Oreste Soffici che proprio lì si è trasferito e allacciano rapporti di fraterna amicizia.

Con gli anni in Tullio matura un’idea. Ha sentito parlare dell’onorificenza di “Giusto fra le nazioni” che lo stato di Israele, attraverso l’ente apposito, lo Yad Vashem, concede ai non ebrei che durante la seconda guerra mondiale hanno contribuito a salvare la vita degli ebrei. Si sente in dovere di far assegnare il titolo alle persone cui deve la propria vita. Chiede aiuto al fratello che vive ancora in Israele e insieme inviano la richiesta.

Il 14 novembre 1988 lo Yad Vashem, con il dossier 2604, riconosce Dante, Giulia, Oreste e Marianna Soffici come “Giusti fra le nazioni”. Il loro nome viene aggiunto al Giardino dei giusti presso il museo dello Yad Vashem a Gerusalemme dove per primo nel 1961 era stato invitato a piantare un albero Oscar Schindler.

Articolo pubblicato nel luglio 2014.




Vittorio Locchi

Vittorio_Locchi_Toscana_NovecentoQuella di Vittorio Locchi è stata una figura di rilievo nel panorama della poesia italiana di inizio Novecento. Poeta ben più che promettente scomparse però, a soli 28 anni, a causa di un sommergibile tedesco durante la prima guerra mondiale.

Locchi era nato a Figline Valdarno l’8 marzo 1889. Aveva ricevuto il medesimo nome del padre ucciso solo tre mesi prima mentre cercava di separare due contendenti in una rissa. La sua adolescenza è quella di un ragazzino esuberante, uno scapestrato. I giochi all’aria aperta e i cavalli lo attirano più dei libri. Uno dei suoi due biografi, Vittorio Franchini, racconta un episodio di una lite con un compagno. In un impeto d’ira il giovane Vittorio afferra un calamaio e glielo scaglia addosso. Il maestro si infuria e gli pone un ultimatum «O mettete giudizio, o coi cavalli di ‘Zio Pasqualone’». Vittorio resta appartato tutta la mattina, poi con fare sicuro va verso il maestro e lo informa della decisione «voglio studiare», gli dice.
Si fa chiudere in un collegio a Firenze. Studia ardentemente e in un anno recupera il tempo perduto prendendo la licenza tecnica. Prosegue gli studi all’Istituto tecnico, ramo Ragioneria. E qui ha il primo incontro fondamentale della sua carriera: quello con il suo professore, il poeta di scuola carducciana Diego Garoglio. È questi il primo ad accorgersi del talento del giovane. Allora Vittorio è ideatore e direttore del giornalino “L’Idea studentesca” un foglio portatore di idee patriottiche e nazionalistiche.

Tornando a Figline Valdarno Vittorio dà vita con alcuni amici ad una brigata in cui si compongono e si leggono poesie. I luoghi di raduno sono le sponde del fiume Resco e un bar nella piazza del paese. La loro diventa la “Brigata del Giacchio”. È lo stesso Vittorio Locchi a raccontare l’origine del singolare nome:
«Una sera che il vento soffiava più forte, nacque d’improvviso il nome della brigata. Uno di noi, il più sciammanato e allegro […] portava sempre […] una giacca ampia e prolissa che non finiva mai. A vederlo, così lungo e magro com’è, camminare […] sventolando le braccia con le falde di quella sua giacchettina sempre al vento come ali, pareva proprio un uccellaccio. Quella sera il vento era più forte e a veder venire l’amico verso di noi come portato dalla giacchetta, mi venne fatto di dire: ‘Ecco il giacchio’. In lingua ‘giacchio’ è una rete, ma io gli avevo dato un significato tutto mio di giacchettine, tutti lo capirono subito e sul momento fu stabilito di chiamare la nostra compagnia ‘La Brigata del giacchio.’».

Nella brigata viene composto il nucleo di quelle poesie che, pochi anni dopo, verranno pubblicate come “Le canzoni del Giacchio.” Intanto Vittorio diplomatosi ragioniere ha necessità di un impiego. È il 1909, ha vent’anni, e trova lavoro come contabile in un’azienda fiorentina. È un lavoratore scrupoloso, per quanto di fronte alle  non riesca a non distrarsi e così alcuni clienti alle lettere contabili trovano allegati fogli di poesie. Vince poi un concorso per impiegato postale. Deve lasciare familiari e amici e partire per Venezia.

È il 1910. Il periodo veneziano, che per Vittorio durerà fino alla sua chiamata al fronte, si dimostrerà il più importante e fecondo. Fonda una nuova compagnia poetica che chiama “Tempestissima”. Si fa strada nel giornalismo e collabora con il giornale “L’Adriatico”. Grazie all’interessamento del suo vecchio professore Diego Garoglio riesce a pubblicare nella collana “Scrittori nostri” una scelta di liriche del poeta veneziano del XV secolo Giustinian da lui commentate. Si consolida poi in lui una fiorente vena drammaturgica e compone “La Notte di Natale”, “La Tempesta” e soprattutto “L’Uragano”.

Negli anni veneziani avverrà anche l’incontro che lo consacrerà come uno dei più promettenti giovani poeti italiani: quello con l’editore spezzino Ettore Cozzani. Questi pubblica una collana di poesia denominata “l’Eroica”, a celebrare la poesia che eroicamente resiste nonostante i tempi ostili. Il critico Sam Benelli gli fa avere alcune poesie del giovane Vittorio e Cozzani ne rimane entusiasta e decide di pubblicarle nel 1914 ne “L’Eroica” con il titolo “Le canzoni del Giacchio”.

Intanto, sempre nel 1914, quando Gabriele D’Annunzio pronuncia a Quarto la famosa orazione per l’intervento italiano nella prima guerra mondiale Vittorio ascolta entusiasta. Rientrato a Venezia, una sera balza sui tavoli di un caffè in Piazza San Marco e arringa la folla.
Frontespizio Santa GoriziaCon l’ingresso dell’Italia in guerra il 24 maggio 1915, Vittorio parte immediatamente per il fronte come tenente della XII divisione di fanteria. Al fronte scrive articoli per il Giornale d’Italia e compone “Il Testamento”. Si ammala, ma riesce a rientrare in tempo per partecipare il 9 agosto 1916 alla presa di Gorizia. Il generale Laderchi ha per Vittorio un incarico diverso dal suo ruolo abituale: comporre un poema per celebrare il successo. Obietta timidamente che forse non è la persona più adatta. Ma non può discutere l’ordine e completa l’opera prima del Natale di quell’anno. Ne nascerà la sua opera più famosa, “La Sagra di Santa Gorizia”, che pubblicata postuma per iniziativa del Cozzani verrà ristampata continuamente  fino al 1968.

Poco prima, nonostante le condizioni di salute non ottimali, Locchi aveva scritto ai superiori chiedendo di “tenerlo presente nell’eventualità di una spedizione all’estero: essendo scapolo, giovane ed entusiasta della nostra guerra, sarà tanto più lieto quanto più si tratterà di andare lontano e d’incontrare rischi e disagi”.
All’inizio del 1917 il comando italiano decide di inviare un corpo di spedizione in Palestina. Vittorio Locchi viene prescelto per partecipare. Deve imbarcarsi per Napoli il 13 febbraio. Sono cinque le navi che salpano da quel porto. A Vittorio, che è ufficiale, sarebbe destinata una nave più agiata. Sceglie invece di imbarcarsi su una nave stracolma di soldati semplici: il Minas. La scelta gli sarà fatale. Il Minas viene affondato da un sommergibile tedesco a largo delle coste greche il 15 febbraio 1917.
Per alcuni giorni la famiglia di Vittorio spera. Poi la testimonianza del tenente Luigi Trevale scampato al naufragio fa piazza pulita di ogni dubbio. Vittorio ha scelto di andare incontro al suo destino, senza accapigliarsi con il resto della folla per un posto sulle scialuppe insufficienti. La testimonianza del Trevali è riportata da Cozzani nella sua appassionatissima biografia Come visse e come morì Vittorio Locchi. «È morto eroicamente cercando di calmare l’equipaggio in preda al panico. Il primo siluro, urla con tutta la sua forza il giovane Vittorio, non ha colpito gravemente, la nave non sta affondando. Poi un secondo sicuro e la nave si inclina verticalmente scomparendo in pochi minuti.».

Articolo pubblicato nel luglio 2014.




Gino Bartali e i Giusti toscani che salvarono gli ebrei

Tenere la memoria viva. A questo serve principalmente l’istituzione dell’onorificenza di “Giusto tra le nazioni” voluta dallo stato d’Israele che ad oggi riconosce questo status a quasi 25.000 persone. Il termine “Giusto tra le nazioni” è utilizzato per indicare i non-ebrei che hanno agito in modo eroico a rischio della propria vita per salvare quella anche di un solo ebreo dal genocidio nazista conosciuto come Shoah.

Nel mio lavoro ho voluto parlare soprattutto di quattro toscani che sono stati insigniti del riconoscimento da Yad Vashem, il museo-archivio con sede a Gerusalemme che oltre ad essere il memoriale ufficiale delle vittime ebree dell’Olocausto, è l’unica istituzione a riconoscere il titolo di “Giusto tra le nazioni”: presso il museo si trova, infatti, il Giardino dei Giusti, dove vengono onorati coloro che a rischio della propria vita salvarono degli ebrei dallo sterminio. In totale sono 107 i toscani riconosciuti, su un totale di 563 italiani.

Tra i più importanti, perché conosciuto, ma anche perché la storia del suo impegno nella salvezza di molti ebrei rivela il rischio per la sua carriera e per la sua stessa vita, è Gino Bartali. Su sollecitazione dell’arcivescovo fiorentino Elia Dalla Costa, che fu molto attivo durante la fine della Seconda Guerra Mondiale nell’aiutare profughi ebrei, il campione di ciclismo diventò una delle staffette in bicicletta che portavano ordini, documenti falsi, informazioni per permettere di spostare o nascondere gli ebrei in difficoltà. Nel 2005 il Presidente della Repubblica Carlo Azeglio Ciampi gli conferì la medaglia d’oro al merito civile per aver salvato «circa 800 cittadini ebrei».

Un altro toscano che si distinse per evitare violenze fu l’avvocato livornese Giovanni Gelati che si ritrovò podestà del piccolo comune vicino Lucca dove era sfollato con la famiglia, Coreglia Antelminelli. Con il “vero” podestà rapito dai partigiani e i tedeschi che incalzavano, nell’estate del ’44, l’antifascista Gelati fu costretto ad accettare la realtà: il paese era allo sbando, e lui era l’unico che poteva prendere in mano la situazione. Con saggezza e umiltà si assunse il compito difficilissimo di mediare tra le varie forze in campo, e tra mille peripezie e pericoli riuscì a tenere a bada gli animi, a riempire i granai, evitare la sorte atroce e sempre in agguato, a portare in salvo il paese oltre la liberazione, per poi tornarsene infine alla vita privata.

Don Arturo Paoli, invece, è un prete lucchese, responsabile della casa degli Oblati del Volto Santo, che usò quell’edificio come luogo per nascondere poco meno di un migliaio di ebrei. Dopo partì per il Sudamerica, dove è stato per oltre 45 anni missionario in Brasile e si è interessato alla teologia della liberazione. Oggi vive sulle colline a pochi chilometri da Lucca. E’ una figura molto importante tra i Giusti toscani per la sua alta dignità etica e la sua sincera testimonianza religiosa. Oltre ad essere celebrato nel 1999 Giusto tra le nazioni è stato insignito dell’onorificenza al valore civile da Carlo Azeglio Ciampi, nel 2006.

Tra i Giusti toscani c’è inoltre anche Vittoria Valacchi, una signora fiorentina, che insieme alla zia Elena Cecchini, salvò alcune famiglie di ebrei nascondendole in un podere nella campagna intorno a Firenze. E’ l’ultima toscana insignita dell’onorificenza di Giusta tra le nazioni, e vive oggi a Firenze a poche decine di metri da una delle figlie della famiglia che salvò, i Salmon.

Questo lavoro di ricerca offre poi una lunga serie di schede su tutti i toscani insigniti dell’onorificenza di “Giusto tra le nazioni” che corrisponde al detto del Talmud: “Chi salva una vita, salva il mondo intero”.

 

Alfredo De Girolamo manager pubblico, presidente di Confservizi Cispel Toscana; pubblicista e scrittore, collaboratore delle principali testate giornalistiche nazionali e regionali, nella sua attività divulgativa ha pubblicato i libri Gerusalemme, ultimo viaggio (Ets, 2009), Kibbutz 3000 (Ets, 2011), Acqua in mente (Ets, 2012), Israele 2013 (Ets, 2013), Servizi Pubblici Locali (Donzelli, 2013), Gino Bartali e i Giusti toscani (Ets, 2014), Francesco in Terra Santa (Ets, 2014).

Articolo pubblicato nel luglio 2014.




Teresa Mattei, la “ragazza di Montecitorio”

2 giugno 1946, le cronache del voto descrivono lunghe file di donne in attesa alle urne per votare. E’ la prima volta che sono chiamate ad esercitare il proprio diritto di voto. Si chiede loro un atto di grande responsabilità, poiché con quelle elezioni si edifica la Repubblica italiana che deve dotarsi di uno degli strumenti atti a preservare la democrazia, la Costituzione. Ma è anche la prima volta che le donne hanno la possibilità di essere elette. Sono 21 le madri costituenti che il 25 giugno 1946 entrano per la prima volta alla Camera dei deputati insieme agli altri politici (556 in totale). Generi e generazioni a confronto, impegnati nella costruzione della democrazia italiana. Tra loro anche la giovane toscana Teresa Mattei.

teresa mattei a vent'anniNata a Quarto (Genova) il 1 febbraio 1921 da Ugo Mattei, industriale, attivo in Giustizia e Libertà, e da Clara Friedmann, Teresa cresce in una famiglia di ispirazione antifascista. Dopo l’infanzia passata a Milano, dove la famiglia si era stabilita per il lavoro del padre, i Mattei si spostano a Bagno a Ripoli nel 1933, dove la casa è frequentata da intellettuali e da quelle che sarebbero divenute personalità di spicco dell’antifascismo prima, della resistenza poi e infine della vita politica italiana del dopoguerra, come per esempio Piero Calamandrei, Giorgio La Pira, Natalia Ginzburg, Carlo Levi. L’apprendistato alla politica avviene quindi per Teresa in famiglia, partecipando ai dibattiti e anche ad alcune azioni concrete che il padre le affida. Appena sedicenne, nel 1937, accetta per esempio di portare a Nizza una colletta raccolta da alcuni compagni in sostegno dei fratelli Carlo e Nello Rosselli. Al ritorno da questa prima azione incontra don Primo Mazzolari a Mantova per portargli alcuni messaggi, ma in questa circostanza incorre nel fermo da parte della polizia fascista. Scagionata dall’intervento del padre e tornata a Firenze, manifesta in più occasioni apertamente le proprie convinzioni, soprattutto a scuola, discutendo e disobbedendo ad alcuni regolamenti, fino a che nel 1938, interrompendo un professore che sta esaltando in classe le leggi razziali, viene espulsa da tutte le scuole del Regno.

Nel 1942 si iscrive, insieme al fratello Gianfranco, al Partito comunista italiano e successivamente, in seguito alla destituzione di Mussolini, alla firma dell’armistizio e all’occupazione tedesca, fa parte della resistenza col nome di battaglia Chicchi. All’interno dei Gruppi di difesa della donna e dei GAP si occupa di tenere i collegamenti tra i diversi gruppi e i componenti delle brigate partigiane, ma è protagonista anche di azioni più impegnative. È questo il periodo in cui incontra Bruno Sanguinetti, poi suo futuro marito, del quale diventa stretta collaboratrice. Nel febbraio 1944 la famiglia Mattei è segnata da un tragico avvenimento. Il fratello Gianfranco, trasferitosi a Roma, dove fa parte dei GAP, viene catturato dai tedeschi, imprigionato e torturato in via Tasso. Per non rischiare di tradire i suoi compagni e rivelare informazioni sul movimento partigiano, si suicida in cella con la cintura dei pantaloni. Teresa parte subito per Roma, anche per dare conforto ai genitori, e porta con sé le matrici dell’Unità. Durante il tragitto è anche lei fermata da soldati tedeschi, interrogata, percossa e, come ha rivelato solo cinquant’anni dopo in un’intervista a Gianni Minà, stuprata.

La violenza subita non la fa desistere dal suo impegno e, tornata in Toscana, organizza e prende parte agli scioperi del marzo 1944 a Firenze e a Empoli, e più tardi è in prima fila, guidando una squadra di una cinquantina di partigiani, nella battaglia per la liberazione della città nel settembre del 1944.

Dopo la fine della guerra l’impegno attivo politico e sociale di Teresa continua: lavora nella Federazione fiorentina del PCI, soprattutto nell’ambito femminile e nell’UDI. E’ infatti proprio durante il primo congresso nazionale dell’UDI, tenutosi a Firenze tra il 20 e il 23 ottobre 1945, che Palmiro Togliatti rimane colpito dalla personalità della Mattei, che viene quindi chiamata a lavorare a Roma, alla direzione del partito.

In vista delle elezioni per la Costituente viene candidata per la circoscrizione Firenze-Pistoia. Ottiene 5299 preferenze, poche in confronto alle 15384 dell’altra candidata fiorentina, la socialista Bianca Bianchi, ma quante bastano per essere una delle 21 donne che entrano a far parte dell’Assemblea.

19471222-presentazione-costituzione-al-presidente-de-nicola-4In seno ai lavori della Costituente sono da ricordare in particolare la battaglia di Teresa Mattei affinché al comma secondo dell’art. 3, relativo alla “completa uguaglianza di tutti i cittadini di fronte alla legge”, venisse aggiunta l’espressione “di fatto”; l’impegno, disatteso, per ottenere che il testo costituzionale riconoscesse esplicita­mente il diritto delle donne ad entrare in magistratura; la discussione  per l’articolo 37, laddove, con riferimento al lavoro femminile, si fissava l’obiettivo di assicurare “alla madre e al bambino una speciale adeguata protezione” (articolo che ha destato aspre polemiche, per quella espressione, che identificava “l’essenziale” funzione di madre delle donne).

Il 27 dicembre 1947 viene conferito a Teresa l’incarico, in qualità di costituente più giovane, di consegnare nelle mani del presidente Enrico De Nicola il testo costitutivo della neonata Repubblica Italiana.

In seguito Teresa Mattei ha alcune divergenze con Togliatti, già avviate in seno alla discussione per l’art. 7, in quanto sostenitrice della laicità dello Stato, proseguite per la sua gravidanza, frutto della relazione extraconiugale con Sanguinetti, e culminate nel 1955 quando, per la sua opposizione alla linea antidemocratica del partito, viene espulsa.

Negli anni seguenti l’impegno di Teresa Mattei, dopo la fase pisana di partecipazione al fermento della fine degli anni ’60 e inizio degli anni ’70, si rivolge prevalentemente alle tematiche dell’ educazione e dei diritti dell’infanzia e nella fase finale della sua vita, si  dedica alla testimonianza e all’impegno civile nell’ANPI, sul terreno dei diritti e della difesa della Costituzione, mostrando fino alla più tarda età la fierezza, la determinazione e il coraggio delle proprie idee.

Articolo pubblicato nel giugno 2014.




Oriano Niccolai, il creativo rosso

Racconta Oriano Niccolai, classe 1930, di essersi fatto tutta la Sardegna a dorso di mulo per girare documentari, in 16 mm, per la propaganda politica del Partito comunista. Era il 1968 e grazie al benestare di Enrico Berlinguer, conosciuto negli anni Cinquanta a Livorno, Niccolai organizzò quello che fu probabilmente l’esordio di una campagna elettorale multimediale nella storia del Pci. Con Berlinguer, allora non ancora segretario nazionale, passò una nottata girovagando tra le strade di Cagliari per esporgli la sua idea innovativa di comunicazione politica. E quell’anno, per le elezioni regionali sull’isola, non furono solo comizi e manifesti: per la prima volta vennero utilizzati musica, report e documentari.

Oltre 2000 manifesti
Non è da molto che la storiografia ha cominciato ad occuparsi delle forme della comunicazione politica dei partiti di massa del dopoguerra. Un contributo originale e significativo è arrivato di recente proprio dalla riscoperta dell’opera di Niccolai, grazie al progetto che gli ha dedicato l’Istituto Storico della Resistenza e della Società Contemporanea nella provincia di Livorno (Istoreco). Selezionando tra gli oltre 2mila manifesti presenti nel suo archivio (di cui quasi due terzi realizzati da Niccolai dagli anni Cinquanta ad oggi), l’Istoreco ha allestito una mostra a lui dedicata Rosso creativo. Oriano Niccolai 50 anni di manifesti, da cui è scaturito poi un catalogo curato da Margherita Paoletti e Valentina Sorbi (vedi a fianco).

Il creativo rosso
Difficile definire con categorie standard il profilo biografico di Niccolai: non certo un intellettuale, né un semplice creatore di manifesti. La penna del giornalista del “Tirreno” Luciano De Majo, in occasione dei suoi ottant’anni, gli trovò una definizione originale: «il creativo rosso». Creativo perché non solo funzionario addetto allo stampa e propaganda, non solo grafico e impaginatore, ma anche disegnatore, autore, giornalista. Un creativo a tutto tondo, che è stato in grado di anticipare i tempi ideando per la Federazione di Livorno, e poi in diverse parti d’Italia, delle moderne campagne di comunicazione, capaci di utilizzare strumenti nuovi e diversi registri per veicolare il messaggio politico.

Manifesto per la Festa dell’Unità di Livorno (1965) (Archivio Istoreco Livorno)

Manifesto per la Festa dell’Unità di Livorno (1965) (Archivio Istoreco Livorno)

Spicca il volo dal “Nido delle Aquile”
D’altra parte la formazione di Niccolai è imbevuta di pittura e cinema. A Livorno, sua città natale, giovanissimo frequenta gli ambienti di pittura cittadini, per poi grazie a Nelusko Giachini e, soprattutto, Silvano Filippelli, appassionarsi al cinema francese e all’arte del far manifesti. Alla fine degli anni ’40 comincia dunque a frequentare “il Nido delle Aquile”, cioè l’Ufficio propaganda della Federazione comunista livornese, un gruppo effervescente composto da intellettuali, giornalisti, disegnatori e critici d’arte. In questa fucina Niccolai impara ad andare oltre l’idea del grafico tout court, diviene un comunicatore: testo e immagine cooperano in pari grado alla comunicazione del messaggio. Da qui la grande attenzione alle tecniche giornalistiche di impaginazione e la sperimentazione di nuove forme di comunicazione, come la striscia luminosa lunga più di 350 metri, costruita per la Festa dell’Unità di Livorno del 1979.

L’uomo delle isole
Di lui si accorgono i vertici nazionali, che da Livorno lo inviano in giro per l’Italia a mettere la sua esperienza nella comunicazione al servizio delle Federazioni più deboli. Nel 1968 in Sardegna, poi nel 1971, a seguito di un gemellaggio delle Federazioni di Livorno e Pisa con quella di Caltanissetta, cominciano i suoi pellegrinaggi in Sicilia. Fino al 1984 saranno undici i suoi viaggi in terra siciliana (in particolare per le elezioni regionali del 1976). E poi la Calabria nel 1978 per tenere corsi sulla propaganda e le tecniche di comunicazione. Privilegiato poi il rapporto con l’Isola d’Elba in cui lavora moltissimo fino alla fine degli anni Ottanta.

Da Rodari a Steiner, passando per Zancanaro
Quello con Berlinguer non è il solo incontro importante nella vita di Niccolai, tutto il suo percorso è costellato di incontri e amicizie di rilievo: con Gianni Rodari, nel 1949 a Reggio Emilia (con cui lavorò poi fianco a fianco nella campagna elettorale nazionale del 1958), con Albe Steiner negli anni Sessanta a Bologna, con Tono Zancanaro con cui lavorò negli anni siciliani. Niccolai è curioso e innovativo, gli incontri ne forgiano l’estro e la personalità, ma è capace di rielaborare un suo percorso autonomo, lontano dalle esagerazioni retoriche della lotta politica tra blocchi. Nei manifesti di Oriano, scrive Sergio Staino nel catalogo della mostra, «tutto si muove nella ricerca di un giusto equilibrio tra l’informazione del messaggio e la sottolineatura espressiva dello stesso».

var cpm_language = {"lng":"it"};var cpm_api_key = 'AIzaSyAHjg5suc3vfzhzld7higm6YGueAwyhGZc'; var cpm_global = cpm_global || {}; cpm_global['cpm_aBJaBl'] = {}; cpm_global['cpm_aBJaBl']['zoom'] = 10; cpm_global['cpm_aBJaBl']['dynamic_zoom'] = true; cpm_global['cpm_aBJaBl']['markers'] = new Array(); cpm_global['cpm_aBJaBl']['shapes'] = {}; cpm_global['cpm_aBJaBl']['display'] = 'map'; cpm_global['cpm_aBJaBl']['drag_map'] = true; cpm_global['cpm_aBJaBl']['route'] = false; cpm_global['cpm_aBJaBl']['polyline'] = false; cpm_global['cpm_aBJaBl']['show_window'] = true; cpm_global['cpm_aBJaBl']['show_default'] = true; cpm_global['cpm_aBJaBl']['MarkerClusterer'] = false; cpm_global['cpm_aBJaBl']['marker_title'] = 'title'; cpm_global['cpm_aBJaBl']['mode'] = 'DRIVING'; cpm_global['cpm_aBJaBl']['highlight_class'] = ''; cpm_global['cpm_aBJaBl']['legend'] = false; cpm_global['cpm_aBJaBl']['legend_title'] = ''; cpm_global['cpm_aBJaBl']['legend_class'] = ''; cpm_global['cpm_aBJaBl']['search_box'] = false; cpm_global['cpm_aBJaBl']['kml'] = ''; cpm_global['cpm_aBJaBl']['highlight'] = true; cpm_global['cpm_aBJaBl']['type'] = 'ROADMAP'; cpm_global['cpm_aBJaBl']['mousewheel'] = true; cpm_global['cpm_aBJaBl']['zoompancontrol'] = true; cpm_global['cpm_aBJaBl']['fullscreencontrol'] = false; cpm_global['cpm_aBJaBl']['typecontrol'] = true; cpm_global['cpm_aBJaBl']['streetviewcontrol'] = false; cpm_global['cpm_aBJaBl']['trafficlayer'] = false; codepeople-post-map require JavaScript

Articolo pubblicato nel marzo 2014.




Suor Cecilia Maria Vannucchi, nata Olga Vannucchi (1901-1990)

Suor Cecilia Maria Vannucchi

Nata a Capalle (Campi Bisenzio) nel 1901 da una famiglia benestante, si trasferisce a Prato dove frequenta come educanda il convento di San Niccolò. Dopo aver conseguito la laurea, inizia a insegnare nel 1928 proprio presso la scuola del convento dove è stata allieva. In questi anni chiede di entrare a far parte della comunità domenicana di San Niccolò.

Durante il periodo universitario si è avvicinata molto agli ambienti domenicani di Santa Maria Novella a Firenze e questa esperienza, unita alla frequentazione di San Niccolò, la porta a maturare una profonda vocazione spirituale. Decide così di prendere i voti con il nome di suor Maria Cecilia Vannucchi. Nel 1933 diviene preside e direttrice del convitto; dal 1938 al 1941 ricopre il ruolo di sottopriora, dal 1941 al 1980 è priora del convento. Dal 1945 al 1961 è anche priora generale dell’Ordine domenicano toscano.

Nei mesi dell’occupazione nazista della città, suor Maria Cecilia riveste un ruolo chiave: come madre superiora del convento, si adopera affinché le porte della comunità domenicana siano aperte a tutti gli sfollati dei numerosi bombardamenti. Offre insieme alle consorelle asilo e sostegno, riuscendo inoltre a evitare perquisizioni e rastrellamenti.

Tra la fine di giugno e l’inizio di luglio 1944, Pietro Gini, membro del CLN di Prato in quota DC, si reca a San Niccolò chiedendo a suor Maria Cecilia di accogliere i membri direttivi del comitato. La madre superiora, dopo aver chiesto l’autorizzazione formale a monsignor Eugenio Fantaccini, vicario generale della città di Prato, li accoglie nel convento.

Suor Cecilia ricorderà le relazioni cordiali instaurate coi membri del CLN, che si muovono con discrezione ma liberamente tra gli altri sfollati nel convento. Oltre a Pietro Gini, a San Niccolò si nascondono anche Cesare Grassi e il comandante militare della resistenza pratese Mario Martini. La famiglia Martini è particolarmente legata a Suor Cecilia in quanto la moglie Milena è stata sua compagna di scuola.

Il coraggio dimostrato in questa fase vale a Suor Maria Cecilia un riconoscimento importante: nel ventesimo anniversario della Liberazione della città, il Comune di Prato le conferisce una medaglia d’oro. Suor Maria Cecilia rimane preside della scuola fino al 1966 e vicepreside fino al 1974. Dopo il 1980 lascia anche il ruolo di priora, ma resta a San Niccolò, dove trascorre gli ultimi anni della sua vita. Muore il 24 luglio 1990, all’età di 88 anni.

Suor Maria Cecilia Vannucchi

__________

🟧 Intervista realizzata da Michele Di Sabato il 9 agosto 1982, in “Ultime Voci. Memorie dei combattenti della Federazione provinciale di Prato dell’Associazione nazionale combattenti“, vol. 10, Prato, Casa delle memorie di guerra e di pace, 2017, pp. 45-8

– Mi può dire come e quando ebbe il primo contatto con gli esponenti della Resistenza?

– […] Venne qui il signor Gini, Pietro Gini, che era della Democrazia cristiana, e mi disse: “Madre, lei bisogna che mi faccia un piacere… lei deve… si sente di ospitare il Comitato di liberazione nazionale?”. Io dissi: “Senza il consiglio dell’autorità ecclesiastica, no. Allora, ritorni”. Mi ricordo che furono i primi di luglio, questo, o fine giugno. Andai dal monsignor Fantaccini e lui mi disse: “Non solo quello, ma tutti; apra le braccia a tutti. Bisogna aiutare tutti”. Non lo posso dimenticare quest’atto pastorale, quasi d’abbraccio in quel periodo doloroso che si doveva attraversare e che lui prevedeva come tale. Allora venne Gini e gli dissi di sì, ho avuto il permesso, così il Comitato di liberazione si installò […] dove una volta era l’infermeria dell’educandato, libero, vero. Aveva una porta per contro proprio, un orto dove poter scendere, diverse stanzette, c’era tutto completo il Comitato di liberazione. Vennero Pietro Gini e qualcun altro, tre o quattro ci stavano stabilmente. Venne poi anche il capitano Martini, che è ancora vivo. Era stato… si faceva su e giù con il treno quando io studiavo, era marito di una mia amica e lo conoscevo bene. Più tardi venne, molto più tardi, dopo l’eccidio sul monte a Figline, però sua moglie con i figlioli, con uno dei figlioli, era già qui, perché l’altro i tedeschi lo presero e lo portarono via. […] Poi a poco a poco cominciò a venire gente e io, dico la verità, non rifiutai nessuno. Di qualunque condizione fossero, questo io me lo sentivo in coscienza. Non in questo locale, ma in questo che le farò vedere in biblioteca, c’era la gente più paurosa, e vorrei dire più povera, non nel senso spregiativo: quella che aveva più paura. Le farò vedere, in quella neoclassica laggiù c’era molta mobilia. Portarono i mobili anche i Martini, quella mia amica, insomma c’era un monte di roba, si poté fare, come si può dire… delle camerette disimpegnate e nelle prime due stanze, per poter essere libere e fare un corridoio, c’erano le tende del teatro e io le misi con delle funi e il filo di ferro. M’aiutavano gli uomini che c’erano, tutti desiderosi di aiutarmi, e poi dormivano anche lì. Nelle sale su, dove c’erano le educande, c’erano tutte le famiglie di ex alunne, e così pure qui nelle scuole. Io non so mica quante erano, non l’ho mai contate. C’erano alcuni giovanotti che dormivano nel corridoio con una materassa che tiravano giù; parecchi giovanotti c’erano, di tutte le età, dai diciotto ai trenta, sicché, quando poi suonava l’allarme, quasi tutti scendevano giù dove c’era parecchio posto, perché è una cantina lunga quanto il chiostro. […]

– Come facevate a dare sostentamento a tanta gente?

– C’era qualcuno che portava qualcosa. Questa gente modesta si faceva da mangiare qui sotto, nei chiostri. Vede questi archi: uno per ciascuno […] e poi, vede, c’era una suora… – le suore sono state impagabili, straordinarie: hanno dato la medaglia d’oro a me, ma è il convento che rappresentavo […]




Natalina Marrocchesi (1920-2000)

Natalina Marrocchesi

Nasce il 26 marzo 1920 in una famiglia contadina che vive nei pressi di Torri, un paese nel Comune di Sovicille. Il padre non si piega alla richiesta di iscriversi al partito fascista, con la conseguenza di non riuscire ad avere un lavoro stabile né a trovare opportunità saltuarie. La famiglia, dopo alcuni anni di miseria, trova ospitalità dal prete del vicino paese di Rosia, sempre nel Comune di Sovicille. Qui Natalina frequenta la scuola e svolge le mansioni domestiche, impegnandosi con grande sacrificio nel rifornimento di acqua per il fabbisogno quotidiano della casa. Sa che il padre è stato in più occasioni prelevato e picchiato, ma gli adulti non ne parlano per paura che i “tetti bassi”, i bambini, possano raccontare fuori o fare domande aggravando una situazione già penosa. Una notte, agli inizi del 1944, un contingente di fascisti entra in casa con l’intenzione di prelevare il padre che riesce fortunosamente a mettersi in salvo, ma le minacce di morte e di incendio della casa, la distruzione operata negli ambienti domestici convincono ancor di più la giovane Natalina, che ormai è diventata sarta, ad essere parte attiva nella lotta di liberazione.

L’area di Sovicille è uno dei luoghi nevralgici per l’organizzazione della Brigata Garibaldi “Spartaco Lavagnini”, snodo strategico per le comunicazioni che il servizio delle staffette garantisce ai vari distaccamenti partigiani dislocati tra più territori limitrofi.

Della brigata entrano a far parte il fratello Giorgio, nome di battaglia “Scorretto”, e, dopo l’incursione subita, anche il padre Remigio. Natalina diviene una fidata staffetta: usa strategicamente la sua macchina da cucire per servire al meglio le richieste vere o

Matrimonio di Natalina Marrocchesi

presunte delle donne che abitano la fitta rete poderale della zona. Si muove tra le case sia in paese che nelle campagne, raccoglie per i combattenti vestiario, calze e maglie di lana, si sposta fino ai poderi più prossimi ai rifugi per cucire e rammendare gli indumenti dei partigiani e porta loro informazioni e messaggi celati ad arte in mezzo agli strumenti del mestiere. In diverse occasioni queste uscite sono concordate con una o due amiche; insieme si fermano per più giorni ad aiutare le massaie a fare il pane e rifornire i partigiani nei luoghi convenuti.

Con l’approssimarsi del fronte di guerra Natalina si trova nei pressi di Molli, teatro dell’ultimo scontro cruento tra partigiani e forze naziste prima della Liberazione di Siena: sta cucinando per la banda quando all’improvviso inizia la sparatoria ed è costretta ad allontanarsi per non perire sotto i colpi dell’artiglieria nemica. Subito dopo la Liberazione sarà attiva nel PCI e nell’UDI; otterrà la qualifica di patriota.

__________

🟪Stralcio da un’intervista realizzata nel 1992, in Folchi, Frau, “La memoria e l’ascolto”, pp. 102-103. L’episodio si riferisce allo scontro nella zona di Molli avvenuto il 24 giugno 1944.

Come si fu buio noi si prese i nostri fagotti, ecco. Sicché e fu tutto un giorno un combattimento che ogni pochino chi sparava di qui chi sparava di là, le pallottole ci fischiava tra le gambe mentre si veniva via, c’era un marroneto: via senza sape’ da che parte venivano e dove andavano. Sicché piano piano ci si ritrovò a Meleto. Quando s’arrivò a Meleto ma noi donne così, poi c’era arrivato anche il mi’ babbo, ecco, in quel momento poi ritornò […] anche la mi’ povera mamma e c’erano tutti, allora dissi: “Ora noi si muore tutti, si muore tutti insieme, siamo tutti per qui”. Quando s’arrivò a Meleto c’era solo due vecchi in casa: uno era di qua e una era di là. Litigavano questi poveri vecchi, mi pare di vederli ora. Lui le diceva: “Maria ti do una bastonata”. E noi s’era lì di fori: “Aprite Nicchino! – si chiamava Nicchino quest’omo – o Nicchino apriteci, e so’ Remigio!” Diceva il babbo. E questi niente ’unn’apriva nessuno e ’un c’era nessuno, la chiave nell’uscio ’un c’era, erano spariti tutti perché con quella battaglia che c’era dicevano che venivano a brucia’ Meleto: erano scappati e avevano lasciato in casa questi du’ vecchi. Allora, uno di qua uno di là litigavano parevan diavoli, allora poi da ultimo aprirono, ma noi ’un se ne poteva più, e si rimase lì. Dopo un po’ arrivò Aldo il Minacci, eramo a casa sua, venne su a vede’ che faceva ’sti du’ vecchi e ci ritrovò tutti a quel modo e dice: “Guardate, noi siamo scappati, hanno detto che vengono a brucia’”. Ci si affacciò a una finestra e bruciava Tegoia, gli avevan dato fuoco. “Noi non si viene”. Noi non se ne poteva più e si rimase tutti lì […]. Ad ogni modo si fece giorno. Ecco, ora poi questi partigiani, questi partigiani che c’erano rimasti erano laggiù a questo fosso e noi si stette lì, poi c’era da fargli anche il pane e allora si fece anche il pane. Si misero in du’ forni, si accese il forno di Meleto e quello di Meletino. Si fece il pane di qua e si portò di là, poi a mezzogiorno con un caldo che ’un se ne poteva più si mise questo pane dentro un sacco e via a corsa si arrivò qua alle Reniere. Poi qualche giorno noi siamo stati anche lì alle Reniere, però quando si arrivò a fare il pane c’era il guardia, non si sapeva come fa’ perché veniva sempre a vede’, era sempre intorno i’ forno. Il pane, capirai, eran tanti, eramo in tanti anche noi per là, fra quelli di Meleto e quelli che arrivavano. Capirai, con quelli che c’era si capiva, si vedeva che era tanto, era troppo il pane, ma insomma giù, in ogni modo s’ebbe fortuna: non disse niente.