“Inciampare” nel passato per capire il presente

Sono sempre inorridito ogni volta che incido i nomi, lettera dopo lettera. Ma questo fa parte del progetto, perché così ricordo a me stesso che dietro quel nome c’è un singolo individuo. [...] L’installazione di ogni Stolperstein è un processo doloroso ma anche positivo perché rappresenta un ritorno a casa, almeno della memoria di qualcuno. (Gunter Demnig)

Che l’arte abbia impressa nelle sue mille anime la sua brava dose di memoria, più o meno esplicita, più o meno varia e consapevole, è cosa palese per chi l’ama e la studia, anche da lontano. I tempi, le temperie culturali, la voglia di appartenere, o di distinguersi, di lasciare segni volti al futuro, che richiamino vissuti, esperienze, afflati o sofferenze singole e corali hanno contrassegnato la comunicazione artistica di tutti i tempi, di tutte le arti. Più espliciti e non scevri di retorica sono talvolta i molti monumenti che nelle piazze ricordano i caduti delle guerre, carichi anche di un’altra memoria forse più inconscia, ma non meno significativa, quella lasciata dalla mano di un artista imbevuto della cultura del suo tempo.

L'artista Gunter Demnig (foto di Karin Richert, tratta da www.stolpersteine.eu)

L’artista Gunter Demnig (foto di Karin Richert, tratta da www.stolpersteine.eu)

La riflessione di Gunter Demnig sulla memoria è intuizione geniale e azione artistica al tempo stesso. Ha scelto di fare della sua vita un’opera di memoria: dare un nome e una presenza a chi vide la propria vita tragicamente spezzata dalla deportazione, la propria identità depredata e negata, sostituita con un numero di matricola. Nel breve spazio di un sampietrino riluce l’ottone con un nome e una biografia sintetica. Inciampa la vista e accende la memoria, ma senza retorica, senza ricorrere a nessun stratagemma volto a commuovere o a commentare. È chi guarda a trovare la memoria e la storia come sua conquista personale, cercare e capire il senso di un vissuto, che è parte di un vastissimo mosaico, ad oggi comprendente 60.000 pietre d’inciampo sparse in tutta Europa ed in continuo incremento. Un’opera maestosa, quella di Gunter Demnig, forse mai realizzabile fino in fondo, e per questo coraggiosissima. E che si avvale necessariamente della collaborazione di altre persone nei paesi di origine per la ricostruzione delle biografie dei deportati razziali, politici, militari; una sorta di ritorno di chi in realtà non tornò mai alla sua casa, o vi tornò con la vita ormai segnata. Un ritorno dimesso, dignitoso, ma immenso e radicato nei tessuti delle città, nel selciato su cui il presente cammina.

Anche Grosseto il 13 di gennaio avrà le sue prime pietre d’inciampo e farà parte di questa opera incredibile: tre piccole pietre verranno poste nel cuore del centro storico a ricordare Albo Bellucci, Italo Ragni, Giuseppe Scopetani, tre deportati politici grossetani.

Questo è il simbolico atto in cui culmina un lavoro di ricerca didattico e divulgativo intrapreso ormai tre anni fa: “Cantieri della memoria. Dalle pietre al digitale”, un progetto realizzato con il contributo del CESVOT, che ha coinvolto 8 associazioni e 5 enti locali della Maremma: Provincia e Comune di Grosseto, Comuni di Manciano Magliano in Toscana e Roccastrada. In ogni Comune sono stati individuati segni della memoria: monumenti, toponomastica, tracce lasciate nei luoghi da eventi, che hanno contribuito a costruire la realtà sociale presente. L’obiettivo era quello di far dialogare memoria e storia, di porre segni di memoria del passato, di sollecitare nelle nuove generazioni un’elaborazione del passato e una consapevolezza delle responsabilità di lutti e violenze che hanno attraversato il Novecento. È stato fondamentale il coinvolgimento degli studenti, che, guidati dai ricercatori dell’Isgrec, hanno intrapreso in ogni comune un lavoro didattico sui segni di memoria, cercandone il profondo significato storico nell’ottica di un recupero e di una valorizzazione.

Il bassorilievo di Tolomeo Faccendi, commissionato da Tullio Mazzoncini, donato al Comune nel 2008 e oggi esposto nell'atrio del Municipio

Il bassorilievo di Tolomeo Faccendi, commissionato da Tullio Mazzoncini, donato al Comune nel 2008 e oggi esposto nell’atrio del Municipio

Significativo al riguardo è stato il lavoro dei ragazzi della IV B a.s. 2014-2015 del Liceo Artistico di Grosseto, indirizzo Arti figurative, che ha ricostruito la complessa vicenda del rilievo in gesso di Tolomeo Faccendi e della sua copia in Bronzo a Campospillo, di proprietà della famiglia Mazzoncini e donato alla città nel 2008, attualmente esposto nell’atrio del Municipio di Grosseto. Partendo dalla costruzione di laboratori sulle fonti storiche, i ragazzi hanno potuto ricostruire la genesi del monumento e la storia della deportazione politica grossetana da esso ricordata, collocando l’opera d’arte nel contesto storico e artistico della Maremma del Secondo Dopoguerra. Alla fine del percorso storico e critico hanno stilato i testi esplicativi confluiti nel sito Cantieri della memoria e richiamabili dal QR code posto nella targa recentemente collocata accanto al monumento.

In questo modo un tassello importante del rapporto arte-memoria è stato ricostruito e ricollocato scientificamente per una corretta fruizione storica sotto gli occhi della cittadinanza.

Ne è emersa la vitalità artistica di Tolomeo Faccendi, importante scultore attivo fino agli anni Settanta del Novecento in città, le sue relazioni di amicizia e condivisione con Tullio Mazzoncini, protagonista insieme a Scopetani e Bellucci della tragica vicenda che ne determinò la deportazione a Gusen e Mauthausen. Attraverso il potere evocativo del linguaggio artistico, che richiama classiche suggestioni, ricorrendo per certi versi addirittura alla maniera michelangiolesca nella rappresentazione del dolore in un lager, l’artista riesce a indurci ad una riflessione, a soffermarci per osservare, per capire. L’opera diventa quindi strumento di conoscenza e testimonianza storica, ma anche momento di crescita etica individuale.

Altro segno artistico legato alla memoria della deportazione nel grossetano è il monumento ai Martiri dell’Antifascismo e della Resistenza, posto nello spicchio di verde all’incrocio di via Giuseppe Scopetani e via Albo Bellucci alla Cittadella dello Studente. Il monumento si presentava mutilo della targhetta esplicativa della data e dell’autore. Anche le guide della città più informate non ne attribuivano la paternità. Un’appassionata ricerca dell’Isgrec, che, ancora una volta e non a caso, ha coinvolto il mondo della scuola, ha dapprima individuato i protagonisti del progetto della costruzione della Cittadella dello Studente, concepita come piccolo campus, luogo di studio e di lavoro, che rende omaggio alla Resistenza e ricorda i martiri dell’antifascismo finanche nella toponomastica, diventando essa stessa luogo di memoria. Si è potuti quindi giungere alla rievocazione della genesi del monumento, simbolicamente affidato alle nuove generazioni.

Costruzione del monumento (Archivio privato Maria Paola Mugnaini)

Costruzione del monumento (Archivio privato Maria Paola Mugnaini)

Fu infatti l’allora studentessa del Liceo Artistico Maria Paola Mugnaini, vincitrice di un concorso tra i suoi coetanei indetto dall’Amministrazione Provinciale, a progettare la struttura con l’aiuto dei suoi insegnanti nel 1984. Il risultato è una struttura architettonica aperta a forma di piccolo tempietto moderno, struttura inclusiva che nell’alternanza di linee orizzontali e verticali spezzate utilizzate simbolicamente insieme alle linee curve, invita ad entrare sedersi e meditare in silenzio. L’uso dei materiali quali metallo e cemento nella libertà della composizione immersa nel verde ne sottolineano il ripudio della retorica a favore di una ricerca di un’intima e personale meditazione, ribadita dalla lettura del testo conservato su un’epigrafe all’interno del tempietto su cui si riporta una lettera di un condannato a morte della Resistenza.

Il confronto con i documenti fotografici dell’inaugurazione, la generosa testimonianza dell’autrice che abbiamo incontrato e intervistato, hanno contribuito ancora una volta alla comprensione di un pezzo di storia recente della città, nell’ottica delle diverse politiche della memoria, tutte oggetto imprescindibile di un doveroso studio critico.

In questa prospettiva si giunge coerentemente all’oggi, alla sensibilità nuova ed europea che pervade l’opera di Demning, in coerenza con le nuove visuali dettate dalla sensibilità contemporanea, nel rispetto della tendenza a ricostruire e a annoverare una per una, tutte le esperienze individuali; in questo solco si colloca la recente storiografia della deportazione, cifra che contraddistingue tante delle più recenti esperienze di ricerca storica (si pensi agli ultimi libri dei deportati o all’Atlante delle stragi nazifasciste in Italia), nella consapevolezza che la storia è fatta di tante infinite piccole storie personali, nell’intento di non dimenticare e di non lasciare nell’ombra nessuna vita, nessuna voce.

Questo spirito è lo stesso che chiede di cercare ancora, di indagare tra le carte e nelle memorie dei testimoni, come si è fatto per i nostri tre deportati grossetani, e che ha condotto a nuove interviste, nuove interpretazioni, nuovi scenari, perché la storia non è cosa morta, scritta una volta per tutte e poi dimenticata, ma essa vive e continua a pulsare in coloro che ogni giorno le sanno rivolgere ancora nuove domande, alla luce del presente, grazie anche al bagliore breve di un piccolo sampietrino.

Articolo pubblicato nel gennaio del 2017.




Gli Internati Militari Italiani di Cinigiano. La storia di una scelta

Un’altra Resistenza venne combattuta da oltre seicentomila Italiani. Fu quella amara e difficile degli Internati Militari Italiani. Fu una Resistenza senza gloria, dimenticata, lontana, nella Germania dei lager, combattuta tra freddo, fame, stenti, malattie. Li hanno definiti “Schiavi di Hitler” perché lavoravano nelle fabbriche della guerra senza salario, senza cibo a sufficienza, lavoravano nelle officine, nelle campagne e a sera tornavano nei campi di concentramento per dormire. A guerra finita ebbero un lungo e difficile ritorno. Non raccontarono allora, perché preferirono costruirsi una vita, nella consapevolezza che nessuno forse avrebbe creduto e capito. Perché la loro era stata una scelta, una scelta in piena regola.

Ma chi erano gli schiavi di Hitler? Erano giovani italiani, che dopo l’armistizio dell’8 settembre del ’43 si trovarono con una divisa addosso e che nella dissoluzione dell’esercito vennero inghiottiti dagli ingranaggi dalla follia nazista e fatti prigionieri.

Allora erano ragazzi Pasquale Cherubini, Zeno Aluigi e Aladino Dari, i testimoni che hanno accettato di ricordare quei momenti drammatici della loro vita. È per salvare questo tesoro di memorie, infatti, che l’Amministrazione comunale di Cinigiano ha voluto finanziare un’iniziativa importantissima di raccolta e conservazione delle testimonianze orali, commissionando all’Istituto storico grossetano della Resistenza e dell’Età contemporanea una serie di videointerviste ai protagonisti della seconda guerra mondiale presenti sul territorio. Così, è stato realizzato un lavoro di ricognizione dei testimoni cinigianesi, scaturito dall’esigenza di consegnare al futuro tutto un patrimonio di esperienze individuali e di vissuti che si sono legati alle sorti della grande storia europea.

ultimato_1589I testimoni hanno raccontato le storie di giovani di campagna, forti lavoratori leali ai valori della tradizione, della terra, della famiglia e della comunità, che si trovarono scaraventati in un panorama agghiacciante di guerra, persecuzioni, distruzioni, deportazioni, nel cuore della Germania nazista.

Furono privati dei loro diritti, furono umiliati e sfruttati come schiavi nelle fabbriche di armi, nell’agricoltura e nei servizi tedeschi, sotto la minaccia dei continui bombardamenti alleati, ma non vennero mai meno alla loro dignità di uomini, non si piegarono alla follia e alla barbarie, affermando con coraggio un chiaro e forte “no” alla guerra. Si tratta di tre vivaci signori che hanno acconsentito a mettere i loro ricordi a disposizione di tutti: sia di chi tenta una difficile ricostruzione della storia, che tenga conto dell’incrocio delle fonti orali e documentarie, sia di chi non sa niente e che vuole sapere, come le giovani generazioni, sempre sensibili alle voci calde e dirette di chi narra cose vissute e sofferte, più che alle pagine stampate un po’ lontane e difficili dei libri di storia.

La Storia, poi, quella ufficiale, non ha reso giustizia agli Internati Militari Italiani. Non tutti si ricordano degli 800mila catturati dopo l’8 settembre del 1943, di cui 650mila rifiutarono la fedeltà ad un’alleanza scellerata ed autodistruttiva (mentre 186mila per motivazioni diverse che vanno dall’ideologia alla sopravvivenza si arruolarono nella milizia della Repubblica sociale o nelle SS): ufficiali e soldati furono rinchiusi nei campi di concentramento, ed i soldati semplici trasformati in lavoratori coatti. Non si rispettò per gli italiani la convenzione di Ginevra del 1929 perché considerati traditori, disprezzati e umiliati, non ultimi solo ai russi, e indegni di essere trattati da prigionieri di guerra. Gli italiani erano piuttosto da considerarsi un “bottino”, utili per mandare avanti le fabbriche o per curare campi e bestiame. Così da metà dicembre del ‘43 furono messi a lavorare duramente e nel rigore dell’inverno nordico; malvestiti e peggio nutriti, molti morirono di freddo e di epidemie. Era martellante la propaganda fascista: se si fossero arruolati ed avessero continuato la guerra per la Repubblica sociale o per i nazisti, avrebbero rivisto la patria, avrebbero avuto vesti adeguate e cibo, ma la maggior parte di loro disse no, non cedette.

Ce lo conferma Pasquale Cherubini che ci ha parlato delle continue richieste di arruolamento nei reparti tedeschi:

Un soldato vestito da alpino ci domandava se eravamo fascisti dicendo “l’Italia è stata invasa dalle truppe a colori, sono molto pericolose per le nostre donne” ..ma nessuno si mosse, “allora, da questo momento, siete considerati come prigionieri” allora fecero le squadre, cinquanta per cinquanta ci mandarono a lavoro

 E Zeno Aluigi motiva il suo rifiuto a quei tedeschi che con un interprete italiano, gli chiedevano di arruolarsi:

…devo andà a ammazzà i miei paesani e gli italiani, io, dissi, non ci vengo. Loro insistevano“siete stati sempre legati a noi, perché non ci volete ritornare?” Saremo stati tre o quattrocento: non ce ne fu uno che avesse firmato per andare con loro… e allora ci tartassavano.

 Hanno descritto la durezza della vita da prigionieri, in Germania le braccia da lavoro servivano: la guerra aveva più bisogno di schiavi che di un improbabile esercito. L’unica cosa concreta che riuscì a fare a quel punto la Repubblica sociale italiana fu promuovere la trasformazione degli Internati Militari Italiani in lavoratori civili, nell’estate del ‘44. Ma non sembra che la situazione cambiasse molto per i nostri testimoni.

Aladino Dari ha raccontato:

So’ stato 17 mesi senza sapere niente dei mieisi portava il carbone alle famiglie, ho lavorato così  per 19 mesierano balle da 50 chili di carbone e si portavano nelle case anche al 4° e 5° piano: si rimediava la vita per andare avanti. Poi bisognava sta’ zitti e non parla’ mai perché avevano paura si parlasse male di loro… Io ero 47 chili… In capannoni lunghi 50 per 15 si stava in 50 persone.

 E ancora racconta di continui bombardamenti tutte le notti, addirittura 280, e dove era, ha visto moltissimi prigionieri con la divisa a strisce, gli ebrei.

Anche Zeno Aluigi ha parlato della sua vita nelle baracche di legno “coi castelli uno sotto e uno sopra”, riscaldate da “una stufettina…” e della fatica:

…si faceva 13 ore di lavoro dalla mattina avanti giorno alla sera… venivano 2 guardie ci prendevano e ci portavano a lavoro nelle fabbriche

Pasquale, Zeno e Aladino raccontano episodi drammatici, scene di vita vissuta, affetti, amicizie e poi di un ritorno reso difficile dalla complessità degli accordi tra i liberatori, dalla mancanza di mezzi di trasporto. Ritorno in una terra tutta da ricostruire con la salute minata dagli stenti e dalle fatiche.

Sono stati tre incontri pieni di verità che per il loro intrinseco valore hanno contribuito a ricostruire una parte del grande affresco della storia del rapporto tra la seconda guerra mondiale e il territorio, che ha potuto confluire in un documentario, Fu la loro scelta, fruibile da chiunque sia interessato a non dimenticare.

Articolo pubblicato nell’agosto del 2016.




Parlare di Norma, settant’anni dopo

Può stupire che siano occorsi settant’anni prima del tentativo di ricostruire compiutamente un episodio eclatante, come l’ uccisione di una donna medaglia d’oro al valor militare della Resistenza, il 23 giugno 1944 a Massa Marittima, alla vigilia della Liberazione. Ma non più di tanto, in ragione di un contesto complicato da capire e narrare, e di una lotta resistenziale tra le più aspre del territorio.

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Norma Parenti con il marito, Mario Pratelli, s.d.

Era una giovane donna di ventitre anni Norma Parenti, nata a Monterotondo Marittimo, presso Massa Marittima. Fu “prelevata” dalla trattoria di famiglia insieme alla madre, trascinata via, lei sola trattenuta e barbaramente uccisa. L’arresto fu opera di soldati tedeschi, le sevizie e l’uccisione videro con certezza la partecipazione di fascisti. Le ragioni dell’arresto e della condanna a morte: l’aiuto offerto alle bande partigiane, l’audacia, percepita come sfrontata provocazione dalle autorità della Repubblica Sociale.

Ma non è stata scritta una biografia di Norma, né quando si cominciarono a scrivere storie di Resistenza, meno che mai quando le ondate revisioniste tesero a ribaltare stereotipi, sminuirla o reinterpretarla. Il primo e a lungo unico testo pubblico in memoria di Norma è un opuscolo dell’UDI, in cui è “giovane sposa e madre”, “avviata al suo doloroso calvario”. La richiesta della medaglia d’oro al valor militare indirizzata al Ministro della guerra il 12 gennaio 1945 dalla “Commissione dell’UDI per la Guerra” e le carte allegate danno conto di un impegno forte dell’UDI, del Partito Comunista massetano e del Comune fino a quella data. C’è tra i documenti una scarna relazione del comandante della banda Camicia rossa, Mario Chirici; null’altro finora è emerso dalle carte del Comitato di Liberazione Nazionale.

Di Norma in un intenso, breve richiamo parla Wanda Parracciani, staffetta sull’Amiata, fra le fondatrici dell’UDI, alla Conferenza organizzativa del PCI a Grosseto nell’agosto del 1944. Quella di Wanda è una relazione tutta politica sul ruolo delle donne nella ricostruzione; della loro Resistenza parla per legittimarne il ruolo in tempo di pace, perché, sostiene, “la donna non intende fermarsi a quello che ha fatto in circostanze eccezionali”. Norma è definita martire, eroina e “compagna”. In realtà è il marito a comparire nei documenti “rappresentante del P.C.I. nella Commissione epurazione” di Massa Marittima.

Frammenti della vicenda e qualche tratto della personalità si leggono negli anni Settanta, nel volume Donne e Resistenza in Toscana e nello studio di Marcella Vignali Clero e Resistenza nella Provincia di Grosseto. Si devono attendere i Duemila per trovare nella letteratura locale dati, testimonianze, ma non un organico studio. È così che si arriva a un risveglio di interesse nei dintorni di un appuntamento imposto dal calendario civile: il settantesimo. Il 2014 è l’anno della pubblicazione di un volume di testimonianze inedite, della produzione di un documentario, di due spettacoli teatrali. Si racconta del fortunoso ritrovamento di una scatola di fotografie di Norma, ora in mostra nel Palazzo del Comune, fonti per gli scritti e le rappresentazioni.

Un progetto in attesa di essere realizzato dall’Istituto storico grossetano della Resistenza e dell’età contemporanea e dal Comune di Massa Marittima – Norma e le altre – pone domande su questa e altre figure femminili, per scavare nel tessuto della cultura civile e politica locale. Qui la tradizione mazziniana si era radicata nell’Ottocento con esiti importanti: un forte partito repubblicano, la nascita precoce del movimento sindacale, una presenza che attraversa un secolo di quella particolarissima cultura operaia, patrimonio dei lavoratori delle miniere. Ma Massa Marittima è anche luogo di lacerazioni forti: allo scontro consumatosi tra fascismo e antifascismo si sommerà già durante la Resistenza e nel dopoguerra il conflitto tra le due anime dell’antifascismo, la repubblicana e la comunista. Le donne danno prova di una maturità politica che le inserisce nella vita dei partiti e nelle istituzioni: consigliere, assessori nel tempo della ricostruzione. Ma anche testimoni dolenti e vittime di lutti – enorme quello della strage di Niccioleta, seguito da un processo che squassò le famiglie del villaggio minerario, ma con echi profondi nella stessa vicinissima Massa Marittima. Furono condannati non gli esecutori del massacro degli 83 minatori e i responsabili tedeschi della strategia del terrore, ma i fascisti, accusati di aver sollecitato e indirizzato i carnefici. Testimonianze raccolte in tempi diversi restituiscono una narrazione toccante, che disegna il clima di quello che doveva essere il tempo del superamento delle devastazioni della guerra totale, mentre più che altrove ne conservava profonde ferite.

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Norma Parenti con il marito, Mario Pratelli, s.d.

È stata scritta la storia della strage della Niccioleta e tuttora si continua a scavare. Della Resistenza, con una certa continuità si è parlato, anche polemicamente, e si è scritto. Su Norma il tempo dei silenzi è stato più lungo delle fasi di memoria. La distanza ha accresciuto la difficoltà di raggiungere un’interpretazione. Rigida e ferma nel suo essersi schierata a fianco delle bande partigiane e contro i fascisti e i loro alleati occupanti, quanto indefinibile rispetto alle categorie delle appartenenze politiche. Cattolica fervente, moglie di un comunista, sempre presente dove c’era da aiutare, nutrire, nascondere, convincere gli indecisi a raggiungere le bande alla macchia, seppellire morti partigiani. Scrisse Marcella Vignali che Norma era attiva nel Circolo Giovanna d’Arco dell’Azione Cattolica, distribuiva volantini con la falce e il martello e dopo la Liberazione “una delle più belle e attendibili testimonianze sulla personalità di Norma” fu offerta al Teatro Mazzini dal Vescovo di Massa Marittima.

La memoria recente di una massetana, bambina all’epoca, trasmette il pensiero della madre: “era un po’ impulsiva, la sua era una scelta dettata da una vitalità estrema, non una scelta politica”. Il suo racconto dei giorni dell’uccisione, del ritrovamento del cadavere e del funerale, raccolti dalla madre e dalle altre tocca i contorni umani: la disobbedienza di Norma al divieto di dare sepoltura al corpo del partigiano Guido Radi evoca l’archetipo femminile della legge del cuore – il sacrificio di Antigone. Tuttavia quella pietas è al confine tra pubblico e privato: la trasgressione all’ordine imposto dal potere nazifascista invia un messaggio che è anche politico a chi assiste al suo gesto.

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Norma Parenti con un bambino, probabilmente il figlio Alberto, s.d.

Così, dall’incerta definizione delle ragioni dell’agire di Norma emerge uno dei nodi più difficili da sciogliere per la Resistenza, sempre, a maggior ragione per la Resistenza femminile: la scelta. Gli scatti che la ritraggono descrivono una ragazza vivace, forse trasgressiva, certo molto bella. La retorica della “sposa e madre” e di una “eroina del secondo Risorgimento” – il linguaggio delle prime celebrazioni – si confonde con un’immagine di modernità che vediamo oggi, ma in tutta evidenza era presente anche allora. Forse è stato così che, passato il momento della compassione e dell’esaltazione del sacrificio necessario per la rinascita politica del paese, non è stato facile per nessuna delle parti assumersi, dandole una appartenenza, la memoria di Norma. C’è poi l’atrocità di quell’uccisione, delle sevizie che il corpo rivelò. La domanda sulla scelta di Norma è insieme domanda sulla scelta di lei come vittima, capro espiatorio, il più adatto a imporre uno sfregio tanto profondo da essere insopportabile a una città che aveva espresso un’opposizione tenacissima al nazifascismo: una ragione in più per spiegare la difficoltà a cimentarsi con una ricostruzione storica puntuale.

Finora, è l’intuito dell’artista – la regista e attrice Irene Paoletti – quello che forse ha saputo meglio restituire il clima cupo di terrore che fu preludio dell’orribile morte di Norma e la rabbiosa e meditata offesa con cui, ormai alla vigilia della rotta, il fascismo volle imprimere un marchio duraturo sulla città. È un caso, non unico, in cui l’arte aiuta la storia.

Articolo pubblicato nel dicembre del 2014.




Mariella Gori (1923-2010)

Mariella Gori balla con Leto Morvidi primo sindaco di Manciano, 1 maggio 1945  (©️Archivio Bellezzi)

Nasce a Manciano il 29 maggio 1923 da Giuseppe Gori, antifascista, e Aminta Balestrelli. Nella casa di suo padre, in via del Ponticino, viene fondata una delle primissime bande della Maremma grossetana. Mariella, appena sedicenne, partecipa alle molte riunioni fatte fra l’8 settembre e l’ottobre 1943 e giura in nome della democrazia e della libertà insieme al futuro comandante della formazione della zona, Sante Arancio, e agli altri partigiani.

Da qualche giorno prima del Natale 1943 a fine marzo 1944 Mariella è alla macchia proprio con la banda guidata da Arancio: la giovane passa tre mesi alla Capriola, sotto Montauto dove è il comando, insieme alla moglie del comandante, Virginia Cerquetti, e poi è a Macchia Sugherona, al Podere Crociani.

Per la banda svolge la funzione di staffetta. Gira armata di una pistola Beretta che porta sempre con sé, anche quando deve rientrare di nascosto in paese per prendere i vestiti per i partigiani che vengono raccolti da Maria Pascucci, per conto della San Vincenzo, un’associazione cattolica. Insieme ai vestiti, Mariella riceve informazioni che riporta all’accampamento. Inoltre, è proprio lei a contattare, per conto del capobanda, i medici di Manciano affinché si rendano disponibili per le esigenze della formazione.

Mariella Gori, 1 maggio 2007 (©️Archivio Bellezzi)

Dopo la guerra è riconosciuta partigiana combattente dalla Commissione regionale Toscana nel Raggruppamento Amiata, VII gruppo bande, settore B per la Banda armata maremmana comandata da Sergio Salvetti. Nella relazione che è invece presentata alla Commissione del Lazio da Sante Arancio per la Banda Arancio Montauto, viene descritta in maniera paternalistica come “fedele ancella della moglie del capobanda”, con cui sa dividere le ansie e i pericoli della lotta, ma anche come “informatrice instancabile, [che] seppe arrischiare più volte la galera perché la sua missione fosse quanto mai più precisa”; e ancora, il comandante Arancio di lei vuole ricordare che “nessun lavoro le è mai sembrato duro quando poteva essere di sollievo a tutti”.

Nel dopoguerra è sempre attiva nella comunità di Manciano da cui è molto apprezzata. In un’intervista, però, dichiarerà che al contrario, durante il periodo della Resistenza, “alla macchia c’era una grandissimo rispetto per noi donne, mentre in paese ci consideravano delle poco di buono”. Muore il 13 maggio del 2010, all’età di 87 anni, dopo aver a lungo testimoniato la sua vita da partigiana.

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🟧Le madri del futuro libero

Episodio della serie podcast dell’Isgrec “Racconti Resistenti: le vite di partigiani e partigiane della Maremma” dedicato a Mariella Gori, nata a Manciano (GR) il 29 maggio 1923. Dopo l’8 settembre 1943, nella casa di suo padre nacque la Banda Armata Maremmana, guidata dal Comandante Sante Arancio. Tra i membri spicca un gruppo di donne coraggiose, tra cui Virginia Cerquetti. Racconto basato su documenti Isgrec, scritto da Silvia Meconcelli, interpretato da Irene Paoletti.



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🟥Intervista realizzata da Franco Dominici il 26 aprile 2005, pubblicata in Giulietto Betti, Franco Dominici, “Banda Armata Maremmana 1943-1944. La Resistenza, la guerra e la persecuzione degli ebrei a sud di Grosseto“, Arcidosso, Effigi 2014, pp. 250-2.

– Cosa ricorda delle riunioni tenute a casa di suo padre Giuseppe nel settembre del 1943 da cui nacque la prima formazione partigiana della Maremma?
– In casa di mio padre, in via del Ponticino, sono siate fatte più riunioni, fra settembre e ottobre, dalle quali nacque la banda partigiana. Ricordo che vi parteciparono Arancio, Aldo Ricci, Clito Pratesi, Leo Sbrulli e la sera del giuramento c’erano anche i tenenti Gino e Antonio. Giurammo tutti in nome della democrazia e della libertà.
– Cosa ricorda di Gaspare Arancio?
– Abitava a Manciano e la moglie era romana, conosciuta quando lei era in collegio. Si chiamava Virginia Cerquetti e il figlio di Arancio, Mario, non era suo. Alla macchia, alla fine di febbraio del 1944, nacque la loro figlia Annabella. Arancio era una specie di avventuriero, aveva un bel carisma, un po’ autoritario, ma era una persona molto decisa. Quando partivano per qualche azione io e la moglie pregavamo, avevo imparato a dire i rosari con Virginia Cerquetti, una donna fine, intelligente e molto religiosa. Già da tempo Arancio era un amico di famiglia perché mi aveva guarito le mani. Mi si erano ammalate e lui con sapone fatto con il grasso di maiale, alcune pomate prese in farmacia e della carta con cui mi isolò le dita, riuscì a guarirmi.
– Quanti erano i partigiani e gli stranieri a Montauto?
– All’inizio una cinquantina di partigiani, ricordo poi 2 indiani, un tenente francese e lo spagnolo Juan. Alla macchia c’era un grandissimo rispetto per noi donne, mentre in paese ci consideravano delle poco di buono. […]
– Quanto tempo è stata con i partigiani?
– Più di 3 mesi, da dicembre del 1943, qualche giorno prima di Natale, alla fine di marzo del 1944. Sono stata alla Capriola, sotto Montauto, dove era il comando, a Macchia Sugherona, al podere del Crociani, in prossimità del quale un gruppo di russi aggregati ai partigiani uccise il loro connazionale Ivan, un violento che non obbediva a nessuno. Poi sono stata ai magazzini di Secondo Bianchini, al suo podere, e non seppi altro della banda fino alla Liberazione. Quando tornai a Manciano fui subito chiamata dalla segretaria del fascio femminile […] perché sapeva che ero stata coi partigiani.
– Lei girava armata?
– Sì, il periodo che ero alla macchia avevo una pistola Beretta che portavo sempre con me, anche quando di nascosto mi trovavo a Manciano, per prendere i vestiti raccolti da Maria Pascucci per conto della San Vincenzo, un’associazione cattolica. I vestiti li portavo alla macchia io. A volte andavo a Manciano anche per ricevere qualche informazione. Svolgevo il lavoro di staffetta. […]
– E per le armi e le munizioni come facevate?
– Per le armi e le munizioni venivano assaltate le caserme da carabinieri, anche se spesso ce le davano loro.
– Cosa mangiavate alla macchia?
– Ci aiutavano i contadini che facevano il pane anche per noi. Quando sono arrivata alla Capriola non c’era nemmeno il sale e si mangiava il bollito di pecora. Le amministrazioni, cioè i proprietari terrieri, davano quello che potevano.




Virginia Cerquetti (1917-?)

 

Virginia Cerquetti con la figlia Annabella, il marito Sante Gaspare Arancio e Mario, figlio di Sante (©️Archivio ISGREC)

 

Nasce il 17 dicembre 1917 a Rosario, nei pressi di Santa Fé in Argentina, da Pietro ed Emilia Cerquetti. Impossibile stabilire a quando risale il suo trasferimento in Italia, ma dalle testimonianze risulta che la famiglia di Virginia è originaria del Lazio e che lei conosce il futuro marito, con cui si trasferirà a Manciano, durante la permanenza in un collegio romano. Verrà descritta dalle altre partigiane come “una donna fine, intelligente e molto religiosa”.

Dall’8 settembre 1943 partecipa alle riunioni clandestine che si tengono in casa di Giuseppe Gori a Manciano insieme al marito Sante Gaspare Arancio e ad altri partigiani della futura formazione di zona e in cui tutti giurano sulla democrazia e sulla libertà, come ricordato dalla testimonianza di un’altra donna coinvolta, Mariella Gori, figlia sedicenne di Giuseppe. A guidare il gruppo è proprio il marito di Virginia, da cui la banda che sta nascendo prenderà il nome: si chiamerà infatti Banda Arancio Montauto, spesso identificata con l’acronimo BAM.1

Secondo il rapporto compilato dagli ufficiali della BAM, la sera del 25 dicembre 1943, Virginia, dedita alla propaganda e al reclutamento, è “costretta a fuggire da Manciano con la famiglia, perché preavvisata del loro arresto deciso dalle autorità repubblichine del luogo”. Resta alla macchia con la formazione insieme al primo figlio di Arancio, Mario, di soli 8 anni, e nonostante il suo stato di avanzata maternità: “pur consigliata a raggiungere il sicuro e comodo rifugio approntatole, rifiutò sdegnosamente l’offerta, preferendo alla comoda vita da sola, quella movimentata dell’azione abbracciata dal marito”. Giunta al parto senza assistenza ostetrica, il 28 febbraio all’accampamento dà alla luce una bambina, cui, per espressa volontà dei partigiani, viene dato il nome di Annabella. Una foto ricorda quel momento, immortalandola con la bambina in braccio davanti alla capanna del comando della formazione.

Retro della foto di Virginia Cerquetti con la famiglia alla macchia (©️Archivio ISGREC)

Di Virginia, proposta per una medaglia di bronzo probabilmente mai conferitale, sono noti gli spostamenti nelle macchie maremmane a causa delle necessità militari della formazione. I toni paternalistici della relazione della banda ne esaltano le doti paragonandola alle donne del Risorgimento, ma fra le altre cose vi si legge che “nei momenti più cruciali, passati per i tentativi di rastrellamenti, non esitò ad imbracciare anch’ella il mitragliatore come il più modesto gregario della Banda” e che “al fianco del consorte volle partecipare ad alcuni atti di sabotaggio dei ponti”.

Solo la mattina del 20 maggio 1944, appena viene sferrato un massiccio attacco contro la banda che la porterà al completo sbandamento, Virginia accetta di allontanarsi con i figli per nascondersi in un rifugio sicuro. Nell’immediato dopoguerra la famiglia si trasferisce: l’ultimo luogo di residenza noto di Virginia e del marito è Istria di Castro (Viterbo), dove sicuramente si trovano ancora nel 1948 quando le viene comunicato il riconoscimento dell’attività di partigiana combattente.

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🟧Le madri del futuro libero

Episodio della serie podcast dell’Isgrec “Racconti Resistenti: le vite di partigiani e partigiane della Maremma” dedicato a Mariella Gori, nata a Manciano (GR) il 29 maggio 1923. Dopo l’8 settembre 1943, nella casa di suo padre nacque la Banda Armata Maremmana, guidata dal Comandante Sante Arancio. Tra i membri spicca un gruppo di donne coraggiose, tra cui Virginia Cerquetti. Racconto basato su documenti Isgrec, scritto da Silvia Meconcelli, interpretato da Irene Paoletti.



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🟦Volontarie per la libertà – Il 25 aprile 2024 a Rai Radio 3, a cura di Laura Zanacchi. Ilaria Cansella, direttrice dell’Istituto storico grossetano della Resistenza e dell’età contemporanea, racconta Virginia Cerquetti. 



 




Aida Borghigiani (1913-1996)

Aida Borghigiani (©️Archivio Isgrec)

Nasce a Massa Marittima il 21 marzo 1913 da Enrico Borghigiani e Brunetta Mencacci. Dopo la seconda elementare è accolta presso la foresteria della famiglia Bini dove impara anche a leggere e a scrivere; a 15 anni cerca lavoro e s’impiega in un emporio. Con la morte per silicosi del padre minatore, la famiglia si trasferisce a Niccioleta e la madre e le due figlie sono impiegate nella miniera; Aida si occupa anche qui della foresteria.

A 14 anni incontra Michele Lolini, detto Italo, e a 16 si fidanza con lui. Compiuti i 18 anni Italo va volontario in Marina e nel 1939 i due giovani si sposano per procura. Due anni dopo durante la campagna d’Africa Italo rimane ferito, è catturato ed internato in un campo per prigionieri militari a Massaua, mentre la Croce rossa italiana lo dà per disperso. Nel frattempo Aida cerca notizie sull’andamento della guerra da Radio Londra, il cui ascolto è proibito dal regime.

A Massa Marittima l’avvicinarsi del fronte porta a una situazione di crescente incertezza per la popolazione. Tra il 13 e il 14 giugno 1944 si verifica la strage di Niccioleta, con l’uccisione di 83 minatori fra il piccolo borgo minerario e Castelnuovo Valdicecina, località poco distante, dove 77 fra loro sono trasferiti e poi fucilati. La strage si inserisce in una precisa strategia dei comandi tedeschi, indirizzata a scoraggiare l’appoggio dei civili ai partigiani; è il primo eccidio di quella che è stata definita per la Toscana come “la lunga estate di sangue del 1944”.1

Il 22 giugno sono rastrellati a Massa Marittima altri 26 ostaggi, tutti maschi; sono trasferiti nella caserma di Niccioleta all’insaputa delle famiglie e tenuti giorni interi senza cibo. Una sera Aida e la vicina, Reanda Basarri, saputo dell’arresto degli uomini, passando sotto le finestre della caserma sentono delle invocazioni dall’interno. Le due donne si attivano per preparare un pasto col poco che hanno; i prigionieri chiedono anche di poter avvisare le proprie famiglie e dato che Reanda, rimasta orfana dopo la strage dei giorni precedenti, non ha dal fratello il permesso di muoversi da casa, Aida parte da sola per Massa Marittima.

Aida Borghigiani (©️Archivio Isgrec)

Sceglie di passare attraverso il bosco, dato che le strade sono pericolose perché percorse dalle truppe in ritirata, e riesce ad arrivare in città dove avvisa il podestà e gli chiede che si adoperi per liberare i prigionieri. Il suo rientro a Niccioleta coincide però con il bombardamento, ormai quotidiano, da parte delle forze alleate: Aida è colpita da una scheggia di granata e rimane gravemente ferita a una gamba. I prigionieri, che sono stati fatti uscire per raggiungere un rifugio antiaereo, la soccorrono, ma fino al giorno successivo, quando gli americani entrano a Niccioleta (26 giugno), Aida non può essere trasportata in ospedale; vi rimarrà per sei mesi. Nel 1945, finalmente dimessa, e dopo essersi ricongiunta con il marito Italo, si trasferisce a Livorno. Muore a Massa Marittima nel 1996.

Nel dopoguerra è riconosciuta come partigiana combattente della banda “Camicia rossa” di Massa Marittima e proposta per una Medaglia d’argento al valor militare. Nonostante le testimonianze degli uomini rastrellati, solo nel 1967 le è conferita la Medaglia di bronzo.

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🟥Dichiarazione autografa, 10 dicembre 1978 (Archivio ISGREC)

Io sottoscritta Aida Borghigiani in Lolini nata a Massa Marittima il 21.3.1913 residente a Livorno in via dei Cavalieri n. 18 decorata con medaglia di bronzo al valor militare dichiaro quanto segue:
Il giorno 22 giugno 1944 durante il passaggio delle truppe tedesche in ritirata, giunse in località Niccioleta (Grosseto) un gruppo di ostaggi catturati dai tedeschi a Massa Marittima. Faceva parte del gruppo Montemaggi Giorgio di Massa Marittima allora diciottenne. Giunti a Niccioleta gli ostaggi vennero rinchiusi nella locale caserma dei carabinieri, in mano alle truppe tedesche, e privati di cibo ed assistenza.
Giorni dopo, alcuni di essi chiesero a me se potessi, attraversando il fronte per un tragitto di sette chilometri, raggiungere Massa Marittima onde recapitare una loro lettera al Comitato di Liberazione affinché il Comitato si facesse promotore presso il Comando Americano, in procinto di entrare in Massa Marittima, di un patteggiamento tra i Comandi Americano e Tedesco, tramite la Curia Vescovile, al fine di ottenere il rilascio degli ostaggi; come infatti avvenne a Castelnuovo Val di Cecina (Pisa) alcuni giorni dopo.
Il giorno 24 giugno 1944 dopo aver portato a compimento la missione assegnatami, al ritorno, venivo colpita da una scheggia di granata alla gamba sinistra. Per il mio gesto ebbi come riconoscimento la medaglia di bronzo al valor militare, della cui motivazione allego fotocopia.
Gli ostaggi, tra cui Montemaggi Giorgio, corsero serio pericolo di vita, poiché 10 giorni prima, i tedeschi, dando inizio ad una dura rappresaglia, avevano crudelmente nella stessa località di Niccioleta e Castelnuovo Val di Cecina, trucidato 83 minatori.
In fede
Aida Borghigiani in Lolini




Norma Parenti (1921-1944)

Norma Parenti

Figlia di Estewan e Roma Camerini, Norma Silvana Nara Parenti nasce il 1° giugno 1921 al podere Zuccantine di Sopra, allora nel Comune di Massa Marittima, oggi nel Comune di Monterotondo Marittimo. Sposa Mario Pratelli con cui ha un figlio, Alberto Maria, nato appena sei mesi prima che la madre fosse trucidata dai tedeschi il 23 giugno 1944. Negli otto mesi precedenti Norma è attiva come collaboratrice delle bande partigiane di Massa Marittima, anche se di lei si ritrovano oggi poche tracce corrispondenti al ruolo che effettivamente svolse e che le è stato riconosciuto.

Dai rapporti della III Brigata Garibaldi, scritti dopo il passaggio del fronte di guerra, insieme ad altri documenti prodotti post mortem, si delinea il suo coinvolgimento nell’opposizione al fascismo durante tutta l’occupazione tedesca. Aiuti materiali, conforto ai partigiani, diffusione di manifestini antifascisti: Norma assume compiti pericolosi fin da subito, appena i primi gruppi di giovani, rifugiatisi nelle macchie, cominciano a raccogliere armi, preparare azioni di sabotaggio e scontri armati. Coraggiosamente sfrutta i frequenti contatti con i prigionieri tedeschi nel ristorante di famiglia per indurli alla diserzione. La temerarietà è evidente anche nella decisione di dare sepoltura, nonostante il divieto delle autorità, al corpo del giovane partigiano Guido Radi, torturato e ucciso l’8 maggio 1944 dai nazifascisti dopo un’imboscata e lasciato nella piazza principale come monito per la popolazione. In spregio al divieto di sepoltura, Norma Parenti e altre donne massetane ricompongono il corpo del giovane e ne organizzano il funerale. Tutti a Massa sanno chi è Norma e quali attività svolge e molti, col senno di poi, imputano a questo gesto di aperta sfida all’autorità la sua successiva cattura e uccisione.

Norma con il figlio Alberto

La documentazione ufficiale attesta un crescendo delle attività partigiane nel territorio massetano tra la metà di maggio e la fine di giugno del 1944, anche in conseguenza dell’avvicinarsi del fronte e delle speranze crescenti legate alla fine della guerra. Alto, però, è in quest’ultimo mese anche il tributo di sangue, non solo dei partigiani ma della popolazione intera, nell’ambito della cosiddetta ritirata aggressiva dell’esercito tedesco. In questo contesto di violenza s’inscrive l’uccisione di Norma, prelevata dalla sua casa la sera del 23 giugno da militari tedeschi, con la collaborazione attiva di militi fascisti, trascinata in località Podere coste Botrelli e trucidata. A guerra ormai perduta, con gli alleati alle porte (le truppe della V Armata americana entreranno a Massa Marittima il giorno successivo), con le alte cariche fasciste già fuggite al Nord e le ultime unità tedesche in ritirata, l’uccisione di Norma è un gesto gratuito, un ultimo spregio alla comunità massetana, già duramente provata dopo la strage di Niccioleta. Riconosciuta partigiana combattente, su iniziale e precoce sollecitazione da parte dell’UDI, alla memoria di Norma è attribuita la Medaglia d’oro al valor militare.

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🟦Deposizione della madre, 20 ottobre 1944 (Archivio dell’Ufficio storico dello Stato maggiore dell’esercito, Roma)

La sottoscritta Camerini Roma, nei Parenti, domiciliata a Massa Marittima, dichiara quanto segue:

Verso le ore 22 del 23 giugno 1944, mi trovavo nella mia abitazione situata in via Roma (Massa Marittima) quando sentii bussare insistentemente alla porta. Andai ad aprire e mi trovai di fronte una diecina di militari tedeschi i quali mi domandarono subito dove era mia figlia Norma Parenti di anni 23. Quest’ultima che aveva udito i tedeschi pronunciare il suo nome discese dalla sua camera da letto al piano terreno ove si gestiva una trattoria.

Tanto io che mia figlia Norma venivamo catturate e portate via dai militari in parola i quali prima di allontanarsi tirarono diverse bombe a mano nella bottega. Ci condussero alla periferia della città. Ad un certo momento io venni rilasciata mentre mia figlia fu condotta nei pressi del podere Moschini e fucilata.

Non sono in grado di sapere per quale motivo la detta mia figlia sia stata fucilata.

In fede mi sottoscrivo

Massa Marittima, lì 20 ottobre 1944

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A Massa Marittima si racconta [Testimonianza di Uliana Marliani e Bruna Cerboni] di un episodio che sembra sia stato decisivo per l’inizio dell’attività partigiana della Parenti: Norma e il marito si trovavano su un pullman, della linea Follonica-Massa Marittima diretto a Massa, che venne fermato dai fascisti per un controllo. Mario Pratelli, che aveva con sé documenti compromettenti, scappò ed i fascisti lo inseguirono sparando… Tutti a Massa sapevano chi era Norma e cosa faceva; e non solo per le sue aperte manifestazioni di antifascismo.

Luciana Batoni, 1978

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Sia cattolici che comunisti si sono appropriati dopo la Liberazione di questa figura… È molto difficile poter affermare… che la sua attività partigiana si può nettamente qualificare come cattolica: troppo breve fu la sua vita per poter dimostrare che anche la sua intensa partecipazione alla vita dell’Azione Cattolica fosse da ascriversi ad una matura consapevolezza cristiana e non solo ad entusiasmo adolescenziale. La sua fu attività di propaganda innanzi tutto: e non solo attraverso quei volantini che distribuiva di notte, ma anche attraverso contatti personali: nel momento in cui era ormai evidente la disfatta del nazifascismo si recò spesso dagli impiegati della DICAT, prossima alla sua casa, incitandoli a disertare e ad andare alla macchia… Fu di conforto e di aiuto a quanti erano perseguitati; incoraggiava la diserzione di quanti erano prigionieri dei tedeschi.

Marcella Vignali, 1975

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🟧Intervento di Wanda Parracciani alla conferenza di organizzazione del PCI a Grosseto nell’estate del 1944, Archivio ISGREC, Fondo Nencini

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Francobollo commemorativo

Avevo conosciuto la nostra compagna Norma Parenti, attiva patriota, durante un incontro tra lei e il comandante Chirici, in una notte non lontana, in una casa periferica di Massa. C’erano anche, in quella occasione, altri rappresentanti del Comitato di Liberazione, con i quali Norma Parenti teneva il collegamento.

Luigi Tartagli, 1996

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Io conoscevo bene Norma Parenti perché lei veniva a portarci il latte. Ogni tanto arrivava in volata la mia mamma diceva: stai attenta, stai attenta!… Norma era iscritta all’Azione Cattolica e dal punto di vista strettamente politico non eravamo vicini, però c’era la guerra, e contro i fascisti e i nazisti c’era un fronte comune.

Intervista di Luciana Rocchi a Gabriela Cerchiai, 1999

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Tessera dell’UDI del 1954, ©️Archivio ISGREC, Fondo Bruna Ziviani

Norma urlava: “Capitano, c’ho un figlio al petto”! e lì c’era uno che parlava italiano, sicché non erano tutti tedeschi, poi gli s’attaccò al collo piangendo, gli s’attaccò al collo e gli gridò “Moschini c’ammazzano” in quella via gli spararono. Norma cascò in terra bocconi e rimase di traverso, con il capo verso una vetrina incassata nella parete e le gambe alla porta d’ingresso. Il mio babbo si buttò a morto dietro la parete, fece il morto… Era buio, sentiva Norma lamentarsi, lamentarsi, poi venne il silenzio.

Testimonianza di Italo Moschini, s.d.