Cordara Machetti “Lucciola” (1922-2002)

Cordara Machetti

Nasce a Pienza il 14 giugno del 1922 in una famiglia composta da padre, madre e una sorella. Il padre fa lo stradino, la madre lavora come donna di servizio presso una famiglia dell’alta borghesia pientina, la sorella Zuara, più grande di pochi anni, è sposata e madre di un bambino piccolo e segue con trepidazione la scelta di Cordara di partecipare alla lotta partigiana. Cordara è una donna vivace, creativa e dai modi un po’ spicci, fa la sarta ed è bravissima a costruire pupazzi di stoffa e lana.

Fin dagli inizi del 1944 è un aiuto fidato per la soluzione di problemi logistici legati all’organizzazione dei gruppi partigiani che si stanno formando nel territorio sotto la guida di Walter Ottaviani “Scipione”, un militare di orientamento monarchico che raduna intorno a sé uomini di varia estrazione politica ma uniti nell’affrontare la lotta senza cedere all’attesismo1 del Raggruppamento Monte Amiata, di cui il gruppo formalmente fa parte.

Cordara, nome di battaglia “Lucciola”, si sposta per reperire cibo, vestiario, medicinali e sovente sceglie di fermarsi a dormire nel podere abitato dai parenti non lontano da Monticchiello, per evitare di tornare a casa troppo tardi e destare sospetti sulla sua attività clandestina.

Il 6 aprile 1944, durante l’importante episodio di Monticchiello, in cui si fronteggiano partigiani e militi fascisti, insieme a Norma Fabbrini e Anelida Chietti riesce ad aggirare le linee nemiche e raggiungere la collina da dove il grosso della formazione sta combattendo. Le tre donne curano i feriti e apprendono che, se i combattimenti dovessero prolungarsi, i partigiani si troverebbero senza munizioni perché il punto più vicino per i rifornimenti è nella direzione del fuoco nemico. Cordara decide allora di andare a prendere le munizioni nel nascondiglio più lontano e, con Norma e Anelida, riesce nell’impresa, anche se la battaglia si conclude di lì a poco con la sconfitta dei repubblichini.

Successivamente viene catturata dai fascisti e trattenuta prigioniera nella sede della Polizia politica, la famigerata Casermetta di Siena, dove viene più volte interrogata, non parla e attende la sua liberazione che avviene dopo oltre venti giorni di prigionia.

Alla fine della guerra si sposa con Walter Ottaviani e vanno a vivere a Roma. Sarà riconosciuta partigiana combattente.

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🟥 Le storie in cinque minuti dell’ISRSEC “V. Meoni”. Podcast su LA BATTAGLIA DI MONTICCHIELLO

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🟪 Testimonianza riportata in Vittorio Meoni, “Ora e sempre Resistenza. Scritti e testimonianze su Montemaggio, Monticchiello e la Resistenza in terra di Siena“, Arcidosso, Effigi, 2014, pp. 74-5.

La sera del 5 sapemmo in paese da uno dei nostri di ritorno da Siena che la mattina seguente sarebbero venuti in rastrellamento alcune centinaia di militi. Furono avvisati i nostri ragazzi che ebbero così il tempo di prepararsi e piazzare le armi. Io trascorsi la notte in bianco. La mattina, verso le sette, mi ero assopita, quando sento alcune raffiche di mitraglia. […] Uscii, ma avevo il cuore straziato ad ogni colpo, e dovevo fare l’indifferente per quei due o tre disgraziati repubblichini del mio paese, già elettrizzati dalla gioia. Andai in fondo al paese, dove ora si vedeva tutto. I fascisti erano molti, li vidi bene con i binocoli. Fin verso le dieci e mezza assistetti, e non posso descrivere quello che soffrii. Poi non ne potei più e decisamente dissi a Norma: “Io vado, non posso più assistere da lontano”. Essa cercò di farmi comprendere i pericoli a cui mi esponevo, passare fra i fascisti per raggiungere gli amici. Ma io non volli nulla sentire. Passai da mia cugina Adelinda a mettermi gli scarponi. Anch’essa non ci lasciò partire sole. Per la strada si può immaginare quello che provammo. Da tutte le parti sparavano, ma riuscimmo a nasconderci ai fascisti, e per i campi arrivammo dopo due ore alla zona che volevamo raggiungere. Giunte abbastanza vicino sapemmo da una sentinella nostra che nessuno era morto né ferito. Io volli andare proprio dove si combatteva e rimasi meravigliata. I ragazzi scherzavano e mi accolsero come sempre, rumorosamente. Walter poi mi disse che immaginava che sarei andata da loro. Tutti i timori svanirono di fronte al buon umore incredibile di quei ragazzi. Intanto i proiettili fischiavano, a volte molto vicini. Fu tenuto consiglio. Poi decisero di mandare squadre più in basso per attaccare i fascisti alle spalle mentre salivano a Monticchiello. Erano già alle scuole, non c’era tempo da perdere. Io mi informai delle munizioni e seppi che c’erano, ma a seconda di quanto fosse durata la sparatoria. Senza dire nulla a Walter, altrimenti non mi avrebbe mandata, partii. Le mie amiche mi seguirono. C’era all’incirca un’ora e più di strada e bisognava correre. Attraverso i campi giunsi io per prima. Non volevano darci le munizioni, perché non ci conoscevano. Capitò per fortuna una contadina che conosceva me. Mentre le dissotterravamo, mi volto e da una stradina alle nostre spalle giungono una decina di armati in borghese. Immaginai che fossero dei nostri ma per prudenza gli andai incontro e dissi alcuni nomi di battaglia. I ragazzi capirono. Mi chiesero notizie ma io, senza perder tempo, li caricai di munizioni e via. Eravamo vicini, quando si sente gridare: “Scappano tutti! Venite! Correte!” Io grido: “Chi?” “I fascisti!” Per poco non caddi dalla gioia. E allora piangendo (non avevo fatto lacrima durante il giorno, piangevo di gioia) corsi con gli altri ancora di più. Trovammo i ragazzi in festa.

 




Messina Batazzi (1914-2004)

Messina Batazzi

Nasce a Tocchi, nel Comune di Monticiano, il 17 maggio del 1914 in una famiglia composta da madre casalinga, padre operaio della locale fattoria, una sorella, un fratello e il nonno paterno. Cresce frequentando assiduamente le cugine Griseide e Intima, figlie dello zio materno perseguitato dal regime fascista, in più occasioni picchiato e condotto in carcere, che avrà un ruolo non secondario nella sua formazione.

Ancora ragazza, si oppone alla richiesta del podestà di Monticiano di consegnare beni alimentari sollecitando le altre donne del paese a seguire il suo esempio. Dopo l’8 settembre aiuta i renitenti alla leva a nascondersi nei boschi. Partecipa ai primi incontri degli antifascisti del senese decisi a concertare la lotta armata nascondendosi sul Monte Quoio, nel Comune di Monticiano, dove possono disporre degli essiccatoi per ripararsi e affrontare l’inverno. Da questo primo periodo Messina è la staffetta che prende contatto con le famiglie dei partigiani e incontra elementi del CLN per conoscere le parole d’ordine necessarie per ammettere gli uomini nella nascente Brigata Garibaldi “Spartaco Lavagnini”. Non si sottrae ai viaggi notturni, percorre a piedi e in bicicletta strade e viottoli, accompagna il dottore a curare i feriti, porta informazioni e ordini dei comandanti per i diversi gruppi partigiani dislocati in un territorio che con il passare dei giorni diviene sempre più ampio.

Il suo impegno si volge al reperimento di indumenti, scarpe e cibo che insieme alle cugine porta ai partigiani. In una occasione alcune vedette tedesche individuano le tre donne e aprono il fuoco, per fortuna senza colpirle; consegnato il cibo decidono di percorrere una strada diversa e di fermarsi da alcune parenti per farsi prestare dei vestiti, sperando di non rendersi riconoscibili qualora incontrino dei nemici lungo la strada del ritorno. Nella primavera del 1944 i partigiani, con l’aiuto della popolazione di Tocchi, ammassano nella scuola le armi ricevute da uno degli aviolanci effettuati dagli alleati, ma la notizia dell’arrivo imminente di una colonna di mezzi tedeschi costringe i combattenti a rifugiarsi nei boschi portando con sé solo una parte della fornitura. Messina, con l’aiuto di alcune donne, carica armi e munizioni su un carro e le nasconde nella cappella del cimitero. I tedeschi arrivano, occupano il paese ma non si accorgono di niente.

Conclusa la guerra si iscrive al PCI, è attiva nell’UDI e nel sindacato. Sarà riconosciuta partigiana combattente.

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Intervista in “Noi, partigiani. Memoriale della Resistenza Italiana



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🟪Intervista realizzata nel 1992, in Silvia Folchi, Anna Maria Frau, La memoria e l’ascolto. Racconti di donne senesi su fascismo, Resistenza e Liberazione, Siena, Nuova immagine, 1996, pp. 97-9.

In questo periodo io svolgevo il ruolo di staffetta. […] noi si prendeva ordini e si portavano ordini dalla città al raggruppamento fino al bosco. Gli incontri si facevano di nottetempo nei boschi. […] Non c’era da fare tanti discorsi lunghi, bisognava far svelti, ognuno tagliava corto.
Tutti questi spostamenti, Siena-Monticiano, si facevano in bicicletta. Poi in casa delle mie cugine ci si fissò, ci stava un dottore di Castelfiorentino e stava sempre lì, e noi la sera nottetempo sempre in bicicletta insieme al dottore per non mandarlo solo per non presta’ dubbi trovando i carabinieri, i fascisti, si viaggiava sempre in coppia: una donna e lui. Quando c’erano i feriti, quando c’erano i malati nei capanni, nei seccatoi dove vivevano i partigiani, s’andava, ci s’accompagnava il dottore e poi si ritornava. Questo dava meno nell’occhio. Una sera trovai il mi’ babbo che tornava dal lavoro, perché tutte le cose al mi’ babbo non gliele dicevo io, mica perché avevo paura. Ma lui aveva paura che io cascassi in qualche tranello, capito? Allora una sera si trovò, noi s’andava a Monticiano, che c’era stato dei partigiani feriti, e lui ritornava dal lavoro e ci trovò in bicicletta col dottore e la mi’ cugina. Mi disse “Dove vai disgraziata?” “O babbo stai tranquillo. Vai a casa, stai tranquillo. Io tomo. Presto torno. Prima che tu vada a letto io so’ già a casa”. E invece non fu cosi: si pernottò a Monticiano perché c’era già un bollore… Il dottore si nascose dietro il cimitero di Monticiano a aspetta’ che venissero quelli a pigliarlo, quelli che ci avevano i feriti, e noi s’andò a bussare a un’altra famiglia che era nelle nostre condizioni e si albergò lì. […]
Anche lui [il padre di Messina] accondiscendeva perché sapeva di avere un figlio in guerra e era tredici mesi che non si sapeva dov’era, sicché sapere che qualcuno faceva, allora anche lui si metteva nell’animo: “Può darsi che qualcuno faccia anche qualcosa per il mi’ figliolo”. Questo spirito a me anche mi ha portato proprio a fare di più, a rischiare di più di quello che dovevo rischia’, a pensare che il mi’ fratello […] aveva trovato persone come me che l’avevano aiutato e gli avevano dato da mangiare e era arrivato a sopravvivere e ritornare dalla Jugoslavia. Lui andò coi partigiani. Era con l’esercito, ma quando si fasciò l’esercito lui s’arruolò coi partigiani e allora non si poteva sape’ più notizie.
Noi s’aveva in casa, ci s’aveva, s’ammazzava tutti gli anni il maiale. S’ammazzò il maiale nelle feste di Natale e a marzo non s’aveva più niente da mangiare: né pane, né maiale. S’era bell’e dato via tutto per sfamare i partigiani. Loro piccinini si lavavano male, ce li portavano dei panni, poi s’erano riempiti d’animali.3 Erano sempre a dormi’ nei pagliericci, sicché si facevano bollì’ i panni poi gli si ridavano. Ma questo non era niente: stavano sempre coi soliti brandelli, le scarpe rotte, camminavano con i calcagni fori dalle scarpe. Un giorno ci si incontrò in un bosco con un gruppo e c’era anche i comandanti. C’era uno che mi fece tanta compassione piccinino: era scalzo e gli sanguinava tutti i piedi: “Se domani ci si ritrova ancora qui te le porto io le scarpe” dissi. “Allora –dissi – dove le trovo le scarpe?” Allora mi venne subito in mente. Dissi si va dal prete. Sicché andai dal prete e dissi: “Senta signor curato – dissi – mi deve dare un paio di scarpe nove”. “Ma per chi le voi ’ste scarpe?” Disse lui. “Non mi faccia domande, lei mi dia le scarpe e basta”. E me le dette, eh.
[…] Gli aiuti c’erano, o glieli davano o andavano anche loro stessi a cercarli, perché andavano alle fattorie e si facevano dare dei vitelli per la carne, si facevano dare del pane. […] Quando noi si incontrava qualche persona, che noi si partiva con questa roba, e ci chiedevano “Dove andate?” Eh, nei paesi sono curiosi! Gli si diceva: “Non ci siamo visti. Mi raccomando – ci si chiamava tutti a nome – fate conto di non averci visti perché altrimenti ci va di mezzo la nostra vita”, gli si diceva. Allora tutti tenevano, quelli più coscienti, tenevano il segreto insomma. Certo che quattro anni di guerra erano stati lunghi e la gente era stufa, e [se] aveva anche il minimo dubbio che qualcuno faceva qualcosa per veder di alleviare, di farla finita, stavano tutti nel cuore suo nel silenzio e tiravano avanti sperando, spendo che poi venisse una fine un po’ migliore. Certo, poi venne la solidarietà. Anche lì, per esempio, il fattore entrò anche lui nel nostro rango:4 ci faceva andare in fattoria ad ascoltare le radio. Perché poi quando noi si entrò in contatto con gli americani e con gli inglesi, francesi, la roba non ci mancò più. Ci portavano tutto loro: mangiare, vestiari, armi, tutto, e questo bisognava mettersi in contatto con chi aveva la radio,5 queste robe qui – allora la televisione non c’era – e noi si stava, le più volte, quando si sapeva che ci facevano i lanci, bisognava stare lì all’orecchio della radio per sapere la parola d’ordine che ci arrivava pe’ il lancio.

 




Bruna Talluri (1923-2006)

Bruna Talluri (a destra) con la sorella Maria (©️Archivio della famiglia di Bruna Talluri)

Nasce a Siena il 12 giugno 1923, prima di tre sorelle e un fratello, da Amalia Barborini e Luigi Talluri. La famiglia Talluri appartiene alla piccola borghesia cittadina, aperta e liberale tra le mura domestiche, fascista rispettabile all’esterno. L’iscrizione al PNF permette a Luigi di mantenere il posto di ragioniere del Monte dei Paschi, a Bruna di frequentare la scuola elementare privata dalle Suore di Santa Caterina e sfuggire così ai rigidi dettami della scuola fascista e agli obblighi della socialità di regime che mal sopporta fin da bambina. La passione e lo studio della storia e della filosofia al Liceo classico Enea Silvio Piccolomini le fanno percepire tutta la distanza fra il libero pensiero e le restrizioni imposte dalla dittatura. Nel 1941 Luigi è condannato a due anni di confino con l’accusa di aver pronunciato parole ingiuriose nei confronti del duce. Bruna, che frequenta l’ultimo anno di liceo, è costretta a abbandonare gli studi e a prendere il posto di lavoro del padre per mantenere la famiglia; riuscirà comunque a sostenere l’esame di maturità e ad iscriversi alla Facoltà di Lettere e filosofia all’Università di Siena. Negli anni del liceo ha stretto un sodalizio intellettuale con un suo professore, Luigi Bettalli, di idee liberalsocialiste, con il quale resta in contatto anche negli anni successivi.

Agli inizi del 1943 si reca a Torino a trovare l’amica e compagna di studi Ida Levi e incontra l’avvocato Fortini, che le consegna un pacchetto di stampa clandestina da recapitare ad alcuni referenti senesi del Partito d’Azione. Avendo già consolidato questi legami, dopo l’8 settembre si attiva subito per nascondere i soldati sbandati e collabora alla costruzione di una rete segreta di militari e civili intenzionati a resistere all’occupazione.

Le sorelle Lina e Rina Guerrini, anche loro legate al Partito d’azione, nascondono nella loro abitazione nel vicolo del Bargello un ciclostile che usano insieme a Bruna per scrivere e diffondere volantini e un bollettino titolato “Liberalsocialismo”. Trasmette ai giovani le parole d’ordine necessarie per raggiungere i primi gruppi partigiani sparsi nelle campagne, raccoglie soldi, medicine, sollecita le donne a guastare gli indumenti per adattarli ai giovani alla macchia, inventa espedienti per ricoverare partigiani e soldati alleati bisognosi di cure nell’ospedale di Siena. In questo lavoro si fa aiutare dalla sorella Maria e dal giovane fratello Marcello.

Verso la fine dell’inverno 1943-44 il gruppo azionista senese subisce un duro colpo: il professor Bettalli, le sorelle Guerrini e alcuni ufficiali che collaborano con il “Raggruppamento Monte Amiata” vengono arrestati. Bruna non viene coinvolta e continua ad operare con le poche forze attive in città. Tuttavia a metà giugno viene condotta alla Casermetta, sede della polizia politica, e messa a confronto con un giovane trovato in possesso di volantini; resiste ad un lungo interrogatorio ed è lasciata libera dal famigerato comandante Luigi Zolese, ma ritiene necessario allontanarsi con la famiglia da Siena, ospitata da amici alla fattoria di Celsa.

Dopo la Liberazione torna a casa e insieme a Renata Gradi, Tina Meucci e Annunziata Pieri fonda i Gruppi di difesa della donna. Riconosciuta partigiana combattente, l’impegno culturale e politico rimane il filo conduttore della sua vita: apprezzata saggista, docente di storia e filosofia del Liceo scientifico Galilei, infaticabile testimone della Resistenza. Insieme a Vittorio Meoni è fondatrice dell’Istituto storico della Resistenza senese e sua prima direttrice. Muore il 21 novembre 2006.

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🟩 Testimonianza di Bruna Talluri su “Noi Partigiani. Memoriale della Resistenza italiana”

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🟪 Bruna Talluri tenne dal 1939 al 1945 un diario, conservato alla Fondazione Archivio diaristico nazionale di Pieve Santo Stefano. I brani citati sono tratti da Patrizia Gabrielli, Scenari di guerra, parole di donne. Diari e memorie nell’Italia della seconda guerra mondiale, Bologna, Il Mulino, 2007, pp. 262-3, 266.

13 ottobre 1944

Mi hanno offerto un posto alla redazione della “Libertà”. Non so cosa fare. Devo decidere tra politica e… cultura.

Non dimentico, d’altra parte, di essere una donna. Mi manca la sicurezza e la fiducia in me stessa. Poi non vedo chiara la situazione del Partito d’Azione. Non capisco il significato delle Associazioni femminili o dei movimenti femminili nell’ambito dei Partiti.

Bruna Talluri (©️Archivio della famiglia di Bruna Talluri)

Che senso hanno? Non siamo tutti cittadini, uomini e donne, con uguali diritti?2 Bisogna puntare su questa effettiva uguaglianza. Come studiosa mi considero una dilettante, ma potrei dedicarmi all’insegnamento… Sono come color che son sospesi… Non ho voglia di decidere… Sono abbastanza matura, purtroppo, per sapere che a ventun anni una donna che vuole fare “carriera” politica deve accettare l’aiuto e la protezione di un uomo: è tollerata nella misura in cui lavora su commissione.

Rifuggo per natura da intrighi e compromessi e non potrei rinunciare a pensare e ad agire secondo le mie convinzioni. Stasera sono quasi sicura che sceglierò di insegnare. […]

2 novembre 1944

Quando il pericolo di un “arresto” mi teneva in allarme, mio padre più volte mi aveva detto che avrebbe preso il mio posto e si sarebbe accusato di tutto, se io fossi stata interrogata. Il timore di questo intervento mi impacciava. Allora ricorsi ad uno stratagemma. Dissi a mio padre di aver nascosto nella fodera del mio cappotto un documento compromettente e che lo avrei tirato fuori per confermare le mie responsabilità, se avesse tentato di intervenire. La strisciolina di carta la cucii davvero, in sua presenza, nel bavero del mio cappotto invernale. L’ho ritrovata oggi e l’ho ripiegata con cura. Mi sono intenerita. Naturalmente non era un documento importante: soltanto un piccolo espediente per ingannare mio padre; un rotolino di carta, in cui avevo scritto in microscopica calligrafia un inno ingenuo, e per di più bruttino, al sacro ideale della libertà:

Schiera esigua

in stretta fila

alza al vento

la bandiera

che promette

LIBERTÀ ecc. ecc.

[…]

22 gennaio 1945

Sono stata a Colle Val d’Elsa ad una riunione dell’UDI. Ho dovuto esibirmi con un breve discorso al saloncino comunale. Parlare in pubblico mi imbarazza: non ne sono capace.

25 aprile 1945

Abbiamo ritrovato il gusto di raccontare. Per tanti anni abbiamo vissuto in attesa del nemico: “Taci, il nemico ti ascolta”. Rivedo il dito teso e minaccioso che spunta dal manifesto appiccicato sui muri. Per alcuni anni abbiamo evitato di parlare, di scrivere, imparando soltanto a tacere. Anche oggi se mi sorprendo a parlare di politica con un amico in mezzo alla strada, mi volto in giro preoccupata. Devo ritrovare tutti i ricordi sepolti o accantonati nella memoria per paura del “nemico”…

“L’Italia libera” clandestina, organo del Partito d’Azione, è uscita il 14 aprile con questo titolo: “La Germania crolla. Pronti per l’insurrezione. L’unificazione di tutte le forze partigiane”. Il foglio è arrivato oggi a Siena per canali misteriosi.

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Lina Tozzi (1915-2002)

Lina Tozzi nel 1940

Nasce nel 1915 in una famiglia mezzadrile del Comune di Radicondoli; il padre, socialista e iscritto alla Lega contadina, è avverso al fascismo fin dalle sue origini. All’età di 23 anni Lina si sposa con Primo Radi e vanno a vivere nel podere La Brezza non lontano da Gerfalco, in un territorio posto fra le provincie di Siena, Grosseto e Pisa. Primo viene richiamato in guerra: inviato a combattere sul fronte albanese, otterrà l’esonero solo nella primavera del 1943. Nel frattempo Lina alleva tre figli, coltiva il podere e accudisce gli animali.

Con l’occupazione tedesca diventa col marito un riferimento per il coordinamento e la trasmissione di informazioni tra i primi gruppi di partigiani che si vanno organizzando nella zona e che da lì a pochi mesi daranno vita alla 23a Brigata Garibaldi “Guido Boscaglia”. Fornisce aiuto e solidarietà sfamando i soldati sbandati che bussano alla porta del podere nei giorni successivi all’8 settembre 1943. Con l’organizzarsi della lotta il marito fa la staffetta di notte, Lina prepara da mangiare, lava, cuce gli indumenti ai partigiani, affronta frequenti spostamenti anche in presenza di pattuglie armate e tiene i contatti con gli esponenti del CLN di Gerfalco, da cui si reca per richiedere i rifornimenti di medicinali da consegnare alle bande.

Lina Tozzi

Cura lei stessa i partigiani che arrivano malati e feriti a La Brezza. Così accade anche nei primi giorni di maggio del 1944, quando dà ricovero ad Alvaro Betti e Dario Cellesi. Alvaro, nome di battaglia “Ciocco”, non sopravvive nonostante Lina sia riuscita a contattare di notte il dottore della brigata e condurlo al suo capezzale; Dario (“Luigi”) invece è in condizioni meno gravi e viene curato. Nello stesso scontro ha perso la vita il partigiano Guido Radi “Boscaglia”, alla cui memoria viene dedicato il nome dell’intera brigata.

Durante il passaggio del fronte ospita diversi sfollati in cerca di rifugio a causa dei bombardamenti che colpiscono soprattutto i centri abitati.

Nel dopoguerra si impegna nella campagna per il diritto di voto alle donne; è attiva nella Lega contadina, motivo per cui subisce ben due sfratti dai poderi dove va ad abitare dopo aver lasciato La Brezza. Con la fine dei patti di mezzadria nei primi anni ’60, Lina si sposta con la famiglia a Poggibonsi; qui si iscrive all’UDI partecipando attivamente alle iniziative dell’organizzazione. Non fa invece domanda di riconoscimento dell’attività partigiana. Muore a Poggibonsi il 7 ottobre 2002.

Lina Tozzi col marito Primo Radi

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🟦Stralcio da un’intervista realizzata nel 1992, in Folchi, Frau, La memoria e l’ascolto, pp. 113-4.

Il mi’ marito andava da casa. La notte, lui girava sempre la notte. Faceva la staffetta. A volte si sapeva che erano in qualche posto in un capanno, allora andavo io a portargli da mangiare. Poi tante volte andavo a Travale, non è molto vicino. Io ero a Gerfalco, Travale resta così, più lontano su, tutto per il bosco. Andavo a Travale perché c’era un certo Cioni che aveva il collegamento con dei dottori dell’ospedale di Massa Marittima. Allora procurava un po’ di medicine. Io andavo a prenderle e poi quell’altri venivano a prenderle lì. Insomma è stato un inverno proprio di tragedia più che altro. Anche di miseria, perché ’un s’aveva nulla. […] Quando poi cominciarono questi partigiani allora facevano in modo di farci avere qualche sacco di farina, gli facevo il pane. Poi qui nel libro parla, mi pare Stoppa, che parla: “facevamo delle gallette”.1 Dico: sì, queste gallette le facevo io. Si faceva il pane, no? Poi il pane quando era un pochino mezzo cotto si tagliava a fette e poi si ricuoceva, bello secco. E poi si portava nel bosco, ci s’aveva una botte nel bosco, tutta coperta. Lì bisognava andarci la notte e senza lume. Ora non ci andrei di certo […].

Insomma, la mattina dell’8 di maggio alle 4 sono arrivati lì. C’era il mi’ cugino di Colle, che è anche decorato, Tozzi Nello, decorato a Medaglia di bronzo al valore partigiano che aveva portato questi feriti, due. Uno era Alvaro, che è morto la mattina dopo. […]. Mi ha detto: “C’è Primo?” Il mi’ marito. “Si”. Dice: “Scendete giù”. Siamo scesi giù. Alvaro stava lì in terra disteso perché non ce la faceva a stare in piedi, e così che si fa? Si mette a letto, senza nemmeno pensare. Lo vidi che ci aveva sangue. Senza nemmeno pensare a mettere un incerato nel letto, nulla. Si mette nel mi’ letto. Meno male ci avevo du’ camere. Si mette nel mi’ letto e poi ritorno giù, e questo mi stava lì. Dico: “O che fai?” Lo conoscevo, veniva tante volte. “Eh dice sai, sono ferito”. E difatti era Cellesi Dario che è morto nemmeno du’ anni fa. È morto di malattia, insomma, era anziano che aveva preso una pallottola qui. Allora che si fa? Dice: “Bisogna andare al Comitato di liberazione nazionale”. Il mi’ marito: “Via, vo io”.

Lina Tozzi

Io: “No”. Perché io l’avevo avuto tre anni alla guerra il mi’ marito, era tornato per combinazione con l’esonero. Ne aveva il diritto perché il podere era abbastanza grande, non lo lavorava nessuno, e poi perché durante la guerra fu in Albania, e allora fu malato. Fu malato e se l’è portata una vita: prese una bronchite cronica. Hai visto, a quel tempo le medicine… E allora era inabile ai servizi di guerra, e insomma glielo dettero questo esonero. E invece so’ andata io a cercare soccorso, perché avevo paura, però era la mattina, non era ancora giorno. So’ arrivata a entrare in paese, a Gerfalco, era una stradellina così, erano già arrivati da Massa i fascisti e i tedeschi. Ma su nelle Carline, nel monte, non ci andavano. Per quanto avevano paura. Avevano piazzato le mitragliatrici, schianti… Perché le Cornate è un monte di sassi, tutto di sassi. E sparavano. Gli sono passata molto vicino, però nessuno mi ha detto nulla, e sono andata a cercare quelli del Comitato di liberazione nazionale.

1Si riferisce al libro di Pier Giuseppe Martufi, La tavola del pane. Storia della 23a Brigata Garibaldi “Guido Boscaglia”, Siena, ANPI, 1980, e al medico Giorgio Stoppa, la cui formazione confluì nella Brigata Garibaldi “Guido Boscaglia”.

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🟧Il ricordo di Alfredo Merlo sull’inserto di Patria indipendente del 2003 – “Lina Tozzi Radi valorosa staffetta

Il 7 ottobre scorso cessava di vivere, all’Ospedale Alta Val d’Elsa per una grave e improvvisa malattia, Lina Tozzi Radi, valorosa staffetta partigiana che operò durante la guerra di Liberazione nella zona dei monti delle “Carline” dove conduceva la lotta contro i nazifascisti la 23ª Brigata Garibaldi “G. Boscaglia”. Ho conosciuto Lina nel febbraio del ’44 agli inizi della mia attività partigiana. Dopo l’8 settembre ’43, firma dell’armistizio, fui chiamato alle armi dai fascisti “repubblichini” ma non mi presentai anche a rischio della morte. Scelsi come altri giovani la clandestinità e successivamente mi aggregai ad uno dei primi gruppi partigiani che avevano stabilito la propria base sui monti delle “Carline” dove Lina abitava con la famiglia al podere “Brezza” – comune di Montieri – lavorando la terra. Fu verso la metà di febbraio, di un inverno rigidissimo, che fui mandato dal comando partigiano al podere “Brezza”, già importante punto di riferimento dell’attività clandestina, per ritirare scarpe ed indumenti mandatici dal CLN di Travale. Dovevo chiedere di Lina dicendo che mi mandava il “dottore”. Mi avvicinai con cautela alla modesta abitazione; lì una donna stava raccogliendo legna. Mi fece cenno di avvicinarmi… Era lei. «Tu sei il “Biondo”, ero stata avvistata che saresti venuto». Mi consegnò un voluminoso pacco, poi mi domandò quanti anni avevo. «Diciotto», dissi. «Sei molto giovane, però ai fatto una scelta giusta; noi lottiamo per la pace e un mondo migliore», mi volle dare un pezzo di pane e del formaggio poi mi sollecitò a ripartire: faceva buio e stava nevicando. Così conobbi Lina, una meravigliosa donna che con il suo coraggio e la sua solidarietà ci fu di grandissimo aiuto per tutto il periodo della lotta di Liberazione. Il podere “Brezza”, Lina e il suo compagno Primo, che nel frattempo era tornato dal fronte albanese perché ammalato, assunsero sempre maggiore importanza, con l’intensificarsi della lotta, trovandosi in un punto strategico del versante grossetano delle “Carline”. Fino alla Liberazione saranno il punto di raccordo fra le forze partigiane e il CLN di Travale, Montieri, Gerfalco e Castelnuovo Val di Cecina per l’invio e il ricevimento di messaggi, informazioni, materiale tra i partigiani operanti nei paesi della zona. Lina, insieme ad altre donne, raccolse cibo, medicinali, indumenti, nascose nella propria casa partigiani e quanti sfuggivano alla rappresaglia nazifascista. Nella notte dell’8 maggio ’44 una squadra partigiana, nel corso di un trasferimento per compiere un sabotaggio, ha un violento scontro a fuoco con militari fascisti al Ponte del Pavone (Montieri) nel corso del quale muore il partigiano Guido Radi “Boscaglia”; da quel giorno la Brigata prenderà il suo nome. Nello scontro rimangono feriti altri due partigiani – Dario Cellesi “Luigi” e Alvaro Betti “Ciocco”, che poi morirà – sarà proprio nella casa di Lina che troveranno ospitalità e cure. Dopo la Liberazione Lina è attiva, insieme al marito, nella Lega dei contadini della zona e per ben due volte sarà cacciata dal podere. Poi, quando la vita in campagna diviene più difficile ed inizia l’esodo dei lavoratori della terra verso le città, Lina con la famiglia si trasferisce a Poggibonsi. Anche nella nuova “vita” Lina rimane la donna ricca di interessi e iniziative che tendono a migliorare le condizioni di vita dei lavoratori e della società. Così ha fatto fino alla fine dei suoi giorni. (Alfredo Merlo)