Giorgio La Pira un Sindaco per la Solidarietà e la Pace

Della complessa e poliforme figura di Giorgio La Pira, caratterizzata dall’impegno scientifico-accademico, politico-sociale e religioso-ecclesiale, ricordiamo alcuni tratti della figura di Sindaco attento ai cittadini e ai popoli.

1934  La Messa dei poveri

La Pira stesso descrisse la nascita e le caratteristiche della Messa dei Poveri: Bisogna dirlo subito: la S. Messa dei poveri in S. Procolo e poi alla  Badia ebbe la sua radice in un desiderio profondo di «avventura» cristiana di fede e di carità che avvivava allora, ed avviva ancora, la nostra anima. Nacque da un bisogno di «sborghesimento» del nostro cristianesimo: e ci furono di sprone e di guida le parole misteriose di quella parabola misteriosa: Andate pei crocicchi delle strade e chiamate quanti trovate, poveri, ciechi, storpi, zoppi, e conduceteli qui affinché si riempia la mia casa. Prendemmo il Vangelo alla lettera: andammo al dormitorio pubblico,  ricordo le impressioni delle prime visite fra quella massa così strana di clienti del dormitorio, e negli altri «crocicchi» dove era possibile trovare gli amici che cercavamo: conventi nei quali al tòcco veniva distribuita la minestra, cucine popolari e così via.
Vinte le difficoltà immancabili di ogni cosa nuova, il nostro progetto divenne realtà: una domenica della primavera 1934 una quarantina di poveri – gli ultimi davvero: ciechi, zoppi! – erano radunati nella Chiesa di S. Procolo per partecipare alla S. Messa. Al Vangelo furono dette poche parole; poi, recitate alcune preghiere, la Messa finì. Fu portata all’Altare una cesta di pane fresco: quel pane fu benedetto, fu recitato insieme un Padre Nostro e fu fatta ordinatamente la distribuzione. Uscimmo contenti, desiderosi di ripetere l’esperimento la domenica successiva: da allora, fortemente ingrandita, quell’esperienza di fede e di carità cristiana costituisce l’attesa e la gioia domenicale di molti. Quei primi quaranta sono morti quasi tutti: ma al loro posto più di millecinquecento anime sono settimanalmente unite per celebrare insieme il Sacrificio dell’amore. Nelle S. Messe di S. Procolo e di Badia si ripete in qualche modo la prima esperienza cristiana: perché ricchi e poveri, abbienti e non abbienti formano una sola famiglia: sono come i primi cristiani, cor unum et anima una[1].

1944 Nominato dal CTLN Presidente dell’Ente Comunale di Assistenza – ECA di Firenze.

L’ECA era un organismo statale, creato appena prima della seconda guerra mondiale in sostituzione della Congregazione di carità, al quale era affidata l’assistenza sociale nel territorio comunale e l’amministrazione delle Opere Pie. A Firenze l’attività dell’ECA, nel clima resistenziale del dopoguerra, venne gestita da 22 capillari Commissioni assistenziali cui erano delegate l’erogazione dei sussidi,  composte, tra gli altri membri, dal medico di zona, dal parroco e da un’assistente sanitaria. L’amministrazione militare alleata, AMG, sostenne l’ECA sia finanziariamente che con forniture alimentari. La città era arrivata alla seconda guerra mondiale con un elevato numero di senza casa dovuto all’abbattimento di ampie parti del quartiere di Santa Croce da parte dell’amministrazione fascista che voleva espellere dal centro i ceti popolari e costruire la “via dell’Impero” (zona piazza dei Ciompi-via Verdi, distruzione narrata con dolore da Pratolini ne Il Quartiere). A questi si aggiunsero quelli che avevano perduto la casa per le mine tedesche, per la distruzione del centro operata dai nazifascisti, per i bombardamenti alleati e per gli sfollati  dalle linee del fronte. L’ECA fu così chiamata a soccorrere migliaia di sinistrati fiorentini rimasti senza casa e senza lavoro. Nell’immediato dopoguerra, sotto la guida di Giorgio la Pira – che ne fu presidente dal 1944 al 1957 – l’ECA dette un importante contributo alla ricostruzione morale e materiale della città, sostenendo con consistenti distribuzioni di indumenti, generi alimentari, pasti caldi e medicinali, il tenore di vita della popolazione. Furono istituiti i Centri sinistrati, mense per i lavoratori e ampliato l’Albergo popolare. Nel lavoro all’ECA La Pira moltiplicò l’attività di condivisione e aiuto ai poveri già iniziata con l’azione della Messa dei poveri alla Badia fiorentina e a San Procolo.  A differenza dei sindaci e degli amministratori comunali dell’epoca che svolgevano attività di sostegno sociale, ma non avevano i compiti diretti di organizzare l’assistenza sociale (i Comuni li avranno solo dagli anni ’70 inoltrati), La Pira ebbe modo sia di conoscere direttamente la grande problematicità delle situazioni popolari sia la possibilità di agire.  Legò questo suo agire sulle emergenze e sulle prime necessità, all’azione politica che lo vedeva costituente, poi parlamentare e infine sottosegretario al lavoro. Esperienze che gli fecero vedere la stretta connessione tra la dignità della persona e la tutela delle famiglie; tra il lavoro, la casa, l’assistenza e l’istruzione dei figli. Non si limitò a questo: la vita civile e la dignità individuale potevano svolgersi pienamente soltanto nella solidarietà con l’altro, con la condivisione con gli altri uomini visti tutti come figli di Dio che necessitavano finalmente della pace per realizzarsi.  Lo spazio nel quale potersi realizzare come popolo di Dio, lo individuò nella città: la città dell’uomo nella quale lavorare per il Regno.

1946 Eletto alla Costituente nella DC, si legò al piccolo gruppo creato da Dossetti, collaborò a scriverne i principi fondamentali (diede il suo apporto per: gli art 2 e 3 sulla dignità della persona, la solidarietà, l’intervento dello stato per rimuovere gli ostacoli allo sviluppo personale e la libertà di espressione; l’art.7 sul rapporto tra stato e chiesa; l’art.11 che sancisce il ripudio della guerra e il sostegno alle organizzazioni internazionali per promuovere la pace).

1948 Deputato DC.

1949-50 Sottosegretario al Lavoro (ministro Fanfani) nel V° governo De Gasperi. La sua azione tese a favorire il dialogo tra i Sindacati e la Confindustria e le altre organizzazioni padronali strette nella rigidità. Seguendo gli economisti inglesi Keynes e Beveridge, La Pira indicò, come obiettivo fondamentale dell’azione politica, la “piena occupazione”: dare lavoro a tutti non era un miraggio, ma un obiettivo possibile. La politica doveva rispondere, diceva La Pira, alle attese della povera gente: proprio questo fu il titolo di un suo famoso articolo, che suscitò un profondo dibattito: Quale è l’attesa della povera gente (disoccupati e bisognosi in genere?) La risposta è chiara: un Governo ad obiettivo, in certo modo, unico, strutturato organicamente in vista di esso, la lotta organica contro la disoccupazione e la miseria. … c’è, anzitutto, una premessa di natura squisitamente cristiana: è vano, per un Governo, parlare di valore della persona umana e di civiltà cristiana, se esso non scende organicamente in lotta al fine di sterminare la disoccupazione ed il bisogno, che sono i più temibili nemici esterni della persona. Il documento inequivocabile della presenza di Cristo in un’anima ed in una società è stato definito da Cristo medesimo: esso è costituito dalla intima ed efficace “propensione” di quell’anima e di quella società verso le creature bisognose! Vi sono disoccupati? Bisogna occuparli. Che significa, infatti, che tutta la legge ed i Profeti si riassumono nell’unico comandamento dell’amor di Dio e dell’amor del prossimo? Che significa ama il prossimo tuo come te stesso? Vorrei io essere disoccupato, affamato, senza casa, senza vestito, senza medicinali? No, certo: e, quindi, questo no io lo devo anche pronunziare per i miei fratelli.
Se io sono uomo di Stato il mio no alla disoccupazione ed al bisogno non può che significare questo:  che la mia politica economica deve essere finalizzata dallo scopo dell’occupazione operaia e della eliminazione della miseria: è chiaro![2]

1951 venne eletto Sindaco di una coalizione quadripartita di centro, (DC, PLI, PRI, PSDI). Si dimise da parlamentare per incompatibilità.

Proseguì la ricostruzione e lo sviluppo della città, iniziata con l’amministrazione social-comunista del sindaco Fabiani. Per ottenere sostegni nazionali e internazionali ai nuovi progetti, si collegò strettamente all’ala progressista della DC e ai suoi esponenti al Governo insieme ai referenti dei fondi  americani per lo sviluppo. La Pira diede vita a un progetto esemplare “Il piano latte”: realizzare una Centrale del latte pubblica con la funzione sociale di sviluppare il territorio e migliorare la nutrizione dei bambini e ragazzi. Questo significava assicurare lavoro agli allevatori e al mondo contadino, occupare operai nel trattamento e la distribuzione del latte, fornire alla popolazione un alimento poco diffuso nei consumi cittadini. Lo sostennero Amintore Fanfani, ministro dell’Agricoltura, e Lodovico Montini referente del programma degli aiuti americani.

Gli aiuti permisero la costruzione della Centrale in via Circondaria (ora distrutta dai lavori per la Tav) e la condivisione sociale del finanziamento ricevuto, fornendo il latte gratuitamente in ogni scuola per ogni alunno (materne ed elementari).

Il tema della casa era centrale in città, ma l’importante inaugurazione del nuovo quartiere satellite dell’Isolotto, una città nella città sviluppata con l’INA casa,  e il programma delle case minime, non si rivelarono sufficienti. La Pira si trovò a dover sostenere un numero crescente di senza casa, di profughi  e di sfrattati e di fronte al rifiuto delle grandi proprietà di mettere a disposizione del Comune le case necessarie, utilizzò l’arma della requisizione per grave necessità pubblica: dare casa ai senza tetto.  Il provvedimento si basò su una legge del 1865 del Regno d’Italia, che dava facoltà ai sindaci di requisire qualsiasi proprietà privata in situazioni di emergenza.

1952 Se per La Pira l’incontro tra gli uomini era fondamentale, altrettanto lo era l’incontro tra i popoli.

L’inizio della sua azione internazionale, fortemente radicata nella dimensione cittadina e nel  suo fermento religioso innovativo, aperto alle riflessioni dei cristiani francesi e di Jacques Maritain, avvenne con la convocazione dei Convegni per la pace e la civiltà cristiana. Nel clima di divisione esasperata est-ovest imposto dalla guerra fredda, cercò  una conciliazione e una apertura all’incontro ripartendo dal ruolo della città di Firenze che in pieno Umanesimo, nel 1439,  ospitò il Concilio per la riunione dei cattolici e degli ortodossi. Allora l’unione era cercata all’interno del mondo cristiano, La Pira si interrogava se il messaggio cristiano non potesse essere stimolo all’incontro con altre spiritualità e religioni e i non credenti.

Nei saluti del primo Convegno del 1952 La Pira lo sottolinea: Venite a Firenze, asilo di spiritualità, di bellezza, di pace. Qui i problemi più severi e più aspri acquistano una mitezza e una duttilità quasi impreveduta. Qui si rende chiara la ragione che con tanta rapidità provocò nel 1439 l’atto di unità e di pace fra la Chiesa di Oriente e quella di Occidente. Questa è veramente la città universale della pace. Qui i valori dell’uomo si spiegano in tutta la loro ampiezza ed in tutta la loro gerarchia. Qui si rende visibile nelle cose la definizione che fa dell’uomo il valore massimo e finale dell’intera creazione.[3]

La condivisione profonda del messaggio cristiano guida l’azione di sindaco di La Pira che non può accettare di rimanere chiuso in un solo campo, occidentale ed atlantico, ma cerca i contatti con tutto il mondo  non dimenticando le diverse fedi, i popoli afflitti dal colonialismo, i perseguitati e gli esclusi. Con queste parole rivolte al corpo diplomatico presente in Italia e presso la Santa Sede, promosse la grande stagione dei convegni internazionali fiorentini che divennero quasi un alter ego culturale e religioso delle assemblee delle Nazioni Unite: A nome della città di Firenze ho l’onore e la gioia di inviarLe, in quest’alba del nuovo anno ed in questa vigilia dell’Epifania, un Messaggio che è insieme un augurio e un invito. L’augurio è, naturalmente, un augurio di pace per tutte le Nazioni. Il 1952 veda il rapido svilupparsi di quelle premesse, centrate sul valore della persona umana, che sono le condizioni indispensabili per ricomporre ad unità le parti, ancora staccate, dell’unica solidale civiltà umana e cristiana. I grandi progressi tecnici e gli sviluppi a scala mondiale della vita economica, sociale, politica e culturale, riprovano ogni giorno più chiaramente la strutturale unità del genere umano: quella strutturale unità del genere umano; quella strutturale unità così luminosamente manifestata nel Messaggio Evangelico e già posta nel Medioevo a base dell’unico, solidale edificio politico del mondo. … Lavorare per ricomporre tale unità, per fare delle Nazioni, nel rispetto dei loro inconfondibili caratteri, un’unica famiglia umana in modo da assicurare a tutti gli uomini la gioia del lavoro, della casa, della fraterna assistenza e della ricchezza culturale, spirituale e religiosa. Ecco il compito davvero grandioso affidato agli uomini del nostro tempo.[4]

La Pira non era solo, il cardinale Dalla Costa condivideva in pieno le sue aspirazioni e l’intera città era percorsa da un profondo rinnovamento e fermento religioso, che gli forniva una solida base nell’affermare: Firenze ha titolo a farsi stimolatrice per lo sviluppo e il coronamento di quest’opera. Essa, infatti si onora di essere stata consacrata dai suoi grandi reggitori medioevali, il 9 febbraio 1527, al Divino Rilevatore e Creatore di questa unità degli uomini, a Cristo ‘Rex florentini popoli’.[5]

I Convegni internazionali per la pace e la civiltà cristiana furono un grande momento di speranza nel duro confronto della guerra fredda e investirono, dopo i cristiani, le altre religioni e, attraverso l’incontro delle città, il mondo comunista. Centrale in questo sviluppo dei contatti e dell’amicizia fu il ruolo della città elaborato da La Pira che vedeva Firenze appartenere: a tutte le nazioni, essendo, sotto certi aspetti, il centro artistico e culturale della civiltà cristiana ed umana. Proprio a questo fine la Città di Firenze si fa promotrice di un incontro fra insigni rappresentanti della cultura di vari paesi. Incontro destinato a uno scambio di idee sulle attuali condizioni della civiltà cristiana nel mondo e sulle permanenti capacità che essa possiede per essere valido strumento di pace e unificazione dei popoli.[6]

1954 Ginevra, La Pira pronunciò alla Croce Rossa Internazionale un discorso che teorizzò il ruolo delle città per la ri-costruzione di un mondo nuovo “L’epoca storica delle città”: La cultura e la metafisica della città sono diventate il centro nuovo di orientamento dì tutta la meditazione umana. Siamo ad una nuova ‘misura ‘ dei valori: la storia presente, ma ancora più quella futura, si serviranno sempre più di questo metro destinato a fornire la misura umana a tutta la scala dei valori. … Che sarebbe dell’umanità senza questi, centri essenziali del mondo civile e che diritto hanno gli Stati di distruggere queste ‘unità viventi’ in cui si concentrano ì valori essenziali della storia passata e futura?[7]

La città è quindi indispensabile per dare all’uomo un respiro di spiritualità e una salvaguardia di dignità: per questo il ruolo dei Sindaci deve assumere sempre di più, una caratteristica di grande spessore per tutelare la persona di fronte all’anonimato schiacciante della globalizzazione. Il diritto all’esistenza delle città nel loro, valore storico, artistico, culturale, politico e religioso si fa più grande a mano a mano che si chiarisce il significato profondo delle città stesse come orizzonte di riferimento della vita e delle esigenze primarie della persona e della famiglia.

 1955 Convegno dei Sindaci delle capitali. Arrivarono a Firenze i sindaci da tutto il mondo: dall’Occidente, dall’URSS e dai paesi dell’Est, dai nuovi paesi decolonizzati e anche dalla Cina. La Pira aprì così il convegno: La minaccia della guerra atomica ha appunto operato questo effetto: fece scoprire, a quanti ne hanno la responsabilità e l’amore, il valore misterioso ed in certo modo infinito della città umana. …come è stato felicemente detto, infatti, la crisi del tempo nostro può essere definita come sradicamento della persona dal contesto organico della città. Ebbene: questa crisi non potrà essere risolta che mediante un radicamento nuovo, più profondo, più organico, della persona nella città in cui essa è nata e nella cui storia e nella cui tradizione essa è organicamente inserita. … daremo vita, per così dire, ad uno strumento diplomatico nuovo: uno strumento che esprime la volontà di pace delle città del mondo intero e che tesse un patto di fraternità alla base stessa della vita delle Nazioni.[8]

Se la visione internazionale di La Pira era sostenuta da vari esponenti DC (Fanfani, Gronchi e Mattei), la sua spinta sociale e l’attenzione alla questione operaia insospettiva il mondo tradizionalista e capitalista. La crisi della fabbrica del Pignone, una fonderia di altissima qualità, nel 1953, vide il sindaco e la Chiesa fiorentina schierati contro il licenziamento di quasi duemila operai e impegnarsi fattivamente per il salvataggio dei lavoratori fiorentini insieme all’Eni di Mattei. Il successo ottenuto invece di mettere a tacere le critiche, moltiplicò gli attacchi alla sua azione.

Persino don Luigi Sturzo si fece interprete delle spinte liberiste, contrarie ad ogni intervento regolatore nell’economia, e criticò l’attività di sindaco di La Pira in un articolo dal titolo significativo: “Statalista La Pira?”

La Pira rispose, a colui che considerava una guida, con una lettera serena e esplicita nel motivare il suo impegno: Reverendo don Sturzo, bisognerebbe che lei facesse l’esperienza – ma quella vera! – che tocca fare al sindaco di una città di 400.000 abitanti, avente la seguente cartella clinica: 10.000 disoccupati (esattamente in marzo 9.740, di cui .5.686 di prima categoria, -cioè disoccupati, per effetto dei licenziamenti, e 2.971 di seconda categoria, cioè giovani in cerca di lavoro!): una glande azienda da quattro mesi crollata (Richard Ginori con 950 licenziamenti); non parliamo per fortuna della Pignone; altre aziende con licenziamenti in atto (Manetti e Roberts) o con ‘tentazioni’ di licenziamenti (non faccio nomi, per non turbare!), grosse crisi industriali nella periferia (tutto il Valdarno con migliaia di licenziati); 3.000 sfratti, (sfratti, autentici, sa!), 17.000 libretti di povertà con un totale di. 37.000 persone assistite dal Comune e dall’E.C.A. Scusi, davanti, a tutti questi ‘feriti ‘, buttati a terra dai ‘ladroni ‘ – come dice la parabola del Samaritano – cosa deve fare il sindaco, cioè il capo e in certo modo il padre ed il responsabile della comune famiglia cittadina? Può lavarsi le mani dicendo a tutti: scusate, non posso interessarmi dì voi perché non sono statalista ma un interclassista? La parabola del Samaritano, sola norma umana, non dice questo: dice anzi che il Samaritano scese da cavallo, prese il ferito (un nemico: giudeo), gli somministrò le prime cure, lo portò dal farmacista al quale disse: curalo, tornerò domani a pagare le spese.

Stia tranquillo: siamo stati ben vaccinati, lei è contro lo Stato totalitario soprattutto per persuasione; noi lo siamo in virtù di una persuasione autenticata da una terrificante esperienza che ci brucia ancora.

Non vorrei che con la scusa di non volere lo Stato totalitario non si voglia in realtà lo Stato che interviene per sanare le strutturali iniquità del sistema finanziario, economico e sociale, del cosiddetto ‘Stato liberista’ (che sta ‘a vedere’ con olimpica contemplazione la dolorosa zuffa che la privazione del pane quotidiano procura fra deboli e potenti).

Caro Don Sturzo, dovrebbe essere lei ad incitare noi più giovani alla meditazione più seria ed alla attuazione più decisa dei principi contenuti in una pagina poco letta ma molto luminosa della Quadragesima anno (paragrafo 37): ‘Principio direttivo dell’ economia’, dove è scritto: ‘Come l’unità della società umana non può fondarsi nella opposizione di classe, così il retto ordine dell’economia non può essere abbandonato alla libera concorrenza delle forze’.[9]

1956 venne rieletto nel Consiglio comunale con decine di migliaia di preferenze. È di nuovo sindaco, ma la giunta viene fatta cadere dai Liberali. Non si ritrovò una maggioranza e per Firenze sarà l’era del Commissario prefettizio.

 1961 venne nuovamente eletto sindaco di Firenze e formò una delle prime giunte di centro-sinistra. In questo terzo mandato la sua azione trovò forza dal rinnovato rapporto della Chiesa con la società e con la storia, sulla base delle novità che stavano affiorando nel pontificato di Giovanni XXIII e nel Concilio.

La visione internazionale si concentrò sul superamento dei conflitti coloniali e l’incontro delle diverse spiritualità religiose a partire dalle religioni di Abramo. Condivise lo spirito della conferenza di Bandung e della grande novità dei paesi Non allineati, pose centrale il sostegno all’azione delle Nazioni Unite, in una visione politica di neo-atlantismo e di riconoscimento delle nazioni emergenti.

“I Colloqui del Mediterraneo” (1958-1964) a cui diede vita, riuscirono persino a far incontrare francesi e algerini in guerra. I colloqui per la pace in Algeria si apriranno a Evian nello stesso giorno del terzo colloquio. Si stabilirono contatti tra israeliani, palestinesi e arabi e si stilarono patti di sviluppo culturale. Da quei colloqui, nonostante la morte mai chiarita di Mattei nel 1962, scaturirono importanti legami con i popoli del Nord Africa e fruttuosi rapporti commerciali.

Amministrativamente, con l’apporto dell’architetto Edoardo Detti, diede vita a un importante piano regolatore della città; sviluppò un nuovo quartiere a Sorgane e completò, seppur con prefabbricati, lo sviluppo dell’edilizia scolastica.

1962 Conferenza per la pace con padre Jean Daniéleou  s.j e padre Ernesto Balducci.

1963 Conferimento della cittadinanza onoraria al Segretario delle Nazioni Unite (ONU) U Thant.

1964 La Pira venne eletto come capolista DC nelle elezioni comunali, ma le divisioni interne al suo partito lo costrinsero a ritirare la candidatura a sindaco e a lasciare questa carica definitivamente.

1965 La missione per la pace non era certo esaurita. In collaborazione con il Ministero degli Esteri si fece promotore di una vasta azione diplomatica per una soluzione politica della guerra del Vietnam. Tenne a Firenze un incontro internazionale per la pace in Vietnam. La Pira si recò poi ad Hanoi, per incontrare Ho Chi Minh e Pham Van Dong, da dove formulò una articolata proposta di pace. La proposta di pace venne trasmessa al governo americano dal Presidente dell’Assemblea generale dell’ONU, l’italiano e amico Amintore Fanfani.

L’iniziativa, contestata da violenti quanto insulsi attacchi giornalistici, fallì.

La guerra in Vietnam proseguì per quasi un decennio infliggendo incredibili sofferenze e causando quasi 4 milioni di morti nella popolazione e quando finalmente si giunse a un accordo di pace questo riprese sostanzialmente le proposte formulate da La Pira.

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Convegni per la pace e la civiltà cristiana

1° Convegno: dal 23 al 28 giugno 1952, «Civiltà e Pace»

2° Convegno: dal 21 al 27 giugno 1953, «Preghiera e Poesia»

3° Convegno: dal 20 al 26 giugno 1954, «Cultura e Rivelazione»

4° Convegno: dal 19 al 25 giugno 1955, «Speranza teologale e

speranze umane»

5° Convegno: dal 21 al 27 giugno 1956, «Storia e Profezia»

Convegno a Firenze dei Sindaci delle capitali: 2-6 ottobre 1955

Colloqui del Mediterraneo

1° Colloquio:  dal 3 al 6 ottobre 1958

2° Colloquio:  dal 1 al 5 ottobre 1960

3° Colloquio:  dal 19 al 25 maggio 1961

4° Colloquio:  dal 19 al 24 giugno 1964

Conferenza per la pace 28 e 29 settembre 1962

Tra i relatori:  padre Jean Daniéleou  s.j. e padre Ernesto Balducci

Colloquio mediterraneo della cultura 21-25 giugno 1963

Tavola Rotonda Est-Ovest  IX Sessione a Firenze dal 4 al 7 Luglio 1964

 

[1] Vedi https://giorgiolapira.org/messa-di-san-procolo/
[2] G. La Pira, L’attesa della povera gente in «Cronache sociali», 15.04.1950   poi  Firenze, Libreria Editrice Fiorentina, 1951
[3]  Civiltà e pace, Atti del primo Convegno internazionale per la civiltà e la pace cristiana, Firenze 23-28 giugno 1952, Firenze, Tip. L’impronta, 1953
[4] ibidem
[5] ibidem
[6] ibidem
[7]  L’epoca storica delle città, discorso al Comitato della Croce Rossa, Ginevra 1954 in Giorgio La Pira Sindaco, I, Firenze, Cultura Nuova Editrice, 1988
[8] Vedi https://giorgiolapira.org/il-colloquio-dei-sindaci-delle-capitali-2/
[9] G. La Pira, Lettera a don Luigi Sturzo, 20 maggio 1954




Macchi e Gasparri: comunisti internazionalisti livornesi

Quinta parte della rassegna di profili biografici di militanti comunisti internazionalisti di Livorno e provincia, i quali contribuirono alla fondazione del Partito Comunista d’Italia, sezione della IIIª Internazionale, avvenuta a Livorno nel gennaio 1921.

GASPARRI  Menotti (Mela, Scipione, Astarotte)

(Livorno 18.12.1907- Madrid 21.11.1936)

 Nato a Livorno nel 1907 da Flaminio e Francesca Franceschi, orfano di padre, frequenta sino alle seconda elementare; di professione è vetraio. Iscritto giovanissimo alla Federazione giovanile del Partito Socialista, nel 1923 diviene militante attivo del Pcd’I. Nell’aprile del 1924 viene segnalato insieme ad altri giovani comunisti, come diffusore di manifesti e volantini per il 1 maggio, evita di essere malmenato dai fascisti poiché uno dei suoi compagni, Carlo Di Prato, li convince che essi erano andati a prendere lezioni di mandolino dal maestro Pìattoli. Nel 1926 viene fermato per strada perché cantava canzoni sovversive insieme ad altri compagni; per tali ragioni viene eseguita una perquisizione presso la sua abitazione dove vengono scoperte diverse copie del giornale comunista “L’Unità” che gli vengono sequestrate. In quel periodo e sino a tutto il 1927 risulta essere in corrispondenza con Astarotte Cantini, comunista livornese già anarchico, emigrato dapprima in Francia e in seguito in Unione Sovietica, il quale gli invia copia del giornale “Fronte Antifascista”, stampato a Parigi dagli esuli italiani; tale corrispondenza riprenderà nel 1929 e ancora negli anni seguenti. Nel novembre 1927 viene tratto in arresto a Livorno per ordine della Questura di Pisa per propaganda comunista; aveva infatti diffuso nella“ Cristalleria Torretta” fabbrica dov’è impiegato come vetraio, il giornale della gioventù comunista “Avanguardia”, ed in particolare aveva consegnato una copia del suddetto giornale al suo compagno di lavoro, Ugo Moretti il quale, a sua volta, aveva diffuso tale giornale a Putignano, paese in provincia di Pisa, del quale lo stesso Moretti è originario. Per questa attività di diffusione clandestina, viene deferito al Tribunale Speciale per la Difesa dello Stato e condannato ad un anno di reclusione che sconta interamente a Roma. Successivamente entra in corrispondenza epistolare con il livornese Osvaldo Bonsignori, soldato del 77° reggimento fanteria di stanza a Bergamo, anch’egli comunista, il quale lo aggiorna sul morale della truppe e sulle condizioni di vita dei soldati, ma la corrispondenza viene intercettata dalla polizia nel luglio 1930. In quegli anni diventa capo della cellula comunista della vetreria Rinaldi, dove lavora e al cui interno è tra coloro che organizzano la diffusione di giornali ed altri stampati comunisti per tutta la città di Livorno e per tali motivi viene denunciato insieme al comunista Carlo Di Prato, per associazione e propaganda sovversiva. Nel giugno del 1931 viene fermato insieme ad altri compagni nei pressi dell’isola della Gorgona (Livorno) e denunziato per tentativo di emigrazione clandestina e condannato nel luglio successivo a 10 mesi di reclusione, ridotti a 6 in appello. Uscito dal carcere nel dicembre 1931, pur venendo costantemente sorvegliato dalle autorità fasciste, riesce a rendersi irreperibile e nel marzo 1932, emigra clandestinamente in Francia con un passaporto falso spagnolo, stabilendosi dapprima a Marsiglia e successivamente in Belgio. In Francia assume, tra gli altri, gli pseudonimi di Alfredo Scipioni, Astarotte Puntoni, Mariur Frasuan e Alfredo Fiori; più tardi assumerà il nome di battaglia di Scipione. A Marsiglia lavora come scaricatore di porto presso la “Società Generale dei Trasporti Marittimi” ed è fiduciario del Pci, per il quale svolge attività politica pressoi marittimi con la diffusione di giornali ed altri stampati. Grazie a questa attività riesce, tramite i naviganti ad inviare stampa clandestina ed altro materiale di propaganda comunista in Italia; inoltre svolge il compito di emissario per il Pci in varie località, tra cui Bastia, Arles, Tolosa, Marsiglia e Parigi. Nel 1934 si trasferisce ad Arles, nel Sud della Francia, dove lavora nella miniera di Rochebelle e partecipa all’organizzazione della cellula comunista. Espulso dalla Francia si reca in Belgio per qualche mese, per poi tornare in Francia a Parigi, dove assume i consueti pseudonimi. Ai primi del 1936 è segnalato in Unione Sovietica, dove viene ricoverato, su sua esplicita richiesta,  in un sanatorio nel Caucaso per poter curare problemi di salute che lo affliggevano da tempo, causati da un’operazione subita in Francia per ulcera allo stomaco. Rientrato in Francia dopo pochi mesi, allo scoppio della guerra civile spagnola, accorre in Spagna nell’ottobre del 1936, inquadrandosi nel battaglione “Garibaldi”, successivamente divenuto XII Brigata Internazionale. Muore in combattimento il 21 novembre 1936 nella difesa di Madrid, nel settore della Città Universitaria, località Casa del Campo.

FONTI: Archivio Centrale dello Stato (Roma), Ministero dell’Interno, Direzione Generale di Pubblica Sicurezza, Divisione Affari Generali e Riservati, Casellario Politico Centrale, ad nomen; Comune di Livorno, Archivio di Stato Civile; F. Bucci, S. Carolini, C. Gragori, G. Piermaria, Il Rosso, Il Lupo e Lillo. Gli antifascisti livornesi nella Guerra civile spagnola, La ginestra, Follonica, 2009; G. Pajetta, I Livornesi oltre i Pirenei, i volontari livornesi nella guerra antifascista di Spagna 1936-1939,www.aicvas.org/livornesi/pirenei, 2012; Antifascisti  nel Casellario Politico Centrale, 18 voll., Roma 1988-1995, ad nomen; I. Cansella, F. Cecchetti (a cura di), I volontari antifascisti toscani nella guerra civile spagnola, le biografie, Isgrec, Arcidosso, 2011; I. Tognarini (a cura di), Livorno nel XX secolo. Gli anni cruciali di una città tra fascismo, resistenza e ricostruzione, Edizioni Polistampa, Firenze, 2006; M. Tredici, Gli altri e Ilio Barontini. Comunisti Livornesi in Unione Sovietica, ETS, Pisa, 2017, ad nomen; Livornesi alla guerra di Spagna 1936-1939, pubblicazione a cura dell’Archivio di Stato di Livorno e del Centro Filippo Buonarroti Toscana, Livorno, 2020, ad nomen.

MACCHI_MACCHIAVELLO_1892_004MACCHI Macchiavello Giuseppe Amaddio

(Collesalvetti (Livorno) 20.8.1892 – Collesalvetti (Livorno) 3.6.1960)

Nato a Colognole, frazione del Comune di Collesalvetti (Livorno) il 20 agosto 1892 da Adolfo (contadino piccolo possidente) e Merope Stagi o Stazzi (casalinga), possiede la licenza elementare e di professione è fabbro. Nel 1908 a soli diciassette anni aderisce alla federazione giovanile socialista e negli anni seguenti al Partito socialista. Nel corso delle Prima Guerra Mondiale, in quanto militante socialista ed internazionalista, svolge attiva propaganda antimilitarista, tanto che viene diffidato dall’Arma dei Carabinieri di Collesalvetti. Nel dicembre 1918 a guerra conclusa viene condannato a sei mesi di reclusione per diserzione, pena che sconta interamente in varie carceri d’Italia. Tornato a Collesalvetti, diviene segretario della sezione socialista di Colognole e nel 1920 viene eletto consigliere comunale sempre per il Psi al Comune di Collesalvetti. Nel 1921 diventa militante comunista ed è tra i fondatori a Colognole, insieme al fratello Mario, della sezione Spartacus del Partito Comunista d’Italia, della quale diviene immediatamente segretario. In questa sezione Macchi svolge opera di penetrazione politica tra i lavoratori agricoli del Comune di Collesalvetti, per cui in quegli anni la sezione da lui diretta arriva a contare oltre quaranta iscritti. Sempre nel 1921 viene nominato assessore nell’amministrazione comunale di Collesalvetti, il cui sindaco è il comunista Alessandro Panicucci e dietro sua proposta viene approvata all’unanimità dalla Giunta comunale la rimozione dei busti di Vittorio Emanuele III e di Umberto I. Nel corso del 1922 sciolta la Giunta comunale di Collesalvetti ad opera del governo fascista, si trasferisce con la famiglia a Roma, dove trova lavoro presso l’officina meccanica Piperno. Nel maggio 1928 a Roma viene arrestato e deferito al Tribunale Speciale per la Difesa dello Stato in quanto membro dell’organizzazione comunista clandestina romana, diretta da Giuseppe Amoretti e per tale attività viene condannato a quattro anni di reclusione. Infatti Macchi è responsabile della diffusione della stampa di partito non soltanto nel Lazio ma anche in Toscana, e per tali motivi, grazie alla sua particolare abilità, riservatezza e dedizione al lavoro clandestino svolto, è tenuto in grande considerazione dal Centro del partito, che ripone in lui massima fiducia. Nel corso del 1928 e del 1929 la moglie Gina Gambaccini, madre delle sue tre figlie piccole, inoltra più volte domanda di grazia per il marito, a cause delle precarie condizioni di vita in cui erano ridotta la famiglia dovute al suo arresto, inoltra anche la domanda per ottenere un sussidio sociale. Tuttavia la moglie ottiene dal governo soltanto una sussidio mensile di ottanta lire per soli quattro mesi e la domanda di grazie viene inoltre respinta poiché in sede giudiziale viene dimostrato che la famiglia Macchi ottiene costantemente dei sussidi dal Partito comunista in clandestinità. Macchi una volta liberato nel maggio 1932 per aver scontato l’intera pena detentiva, viene sottoposto per alcuni mesi a libertà vigilata, dalla quale viene poi esentato per intervenuta amnistia, ma viene tuttavia costantemente vigilato dalla polizia politica. Nell’aprile 1933, rimasto vedovo e con tre figlie a carico, si trasferisce a Livorno, dove svolge il mestiere di fabbro ferraio in proprio e per il suo passato politico viene inserito nell’elenco delle persone da arrestare in determinate circostanze perché ritenuto capace di compiere atti sovversivi. Nel 1938 si risposa con Giuseppina Gragnani dalla quale avrà il figlio Marxino (Marzino), nato nel 1940. Nel maggio 1938 viene sottoposto ad ammonizione poiché la sera del 24 maggio al Teatro Lazzeri di Livorno, unico tra gli astanti, non si era alzato quando l’orchestra aveva suonato gli inni nazionali, la Marcia Reale e Giovinezza. Nel giugno 1943 viene arrestato nuovamente in quanto, dopo una perquisizione domiciliare vengono rinvenuti ritagli di giornale, manoscritti vari e corrispondenza a sfondo sovversivo, corrispondenza che egli teneva in particolare con Athos Aringhieri, un contadino di Castell’Anselmo, frazione di Collesalvetti, in passato appartenente alle organizzazioni sindacali rosse. Trasferito per sfollamento nel carcere di Perugia, viene proposto all’ammonizione dalla quale viene tuttavia sospeso nell’agosto del 1943 a causa della caduta del Fascismo. Dopo l’armistizio del settembre del 1943 diventa comandante partigiano. Nel 1944, al momento della Liberazione è nominato dal CLN sindaco del Comune di Collesalvetti per il PCI carica che mantiene sino al 1951. In occasione della Rivoluzione Ungherese dell’ottobre/novembre 1956 è tra coloro che deplorano e condannano l’intervento sovietico a Budapest, venendo per questo motivo emarginato dalla dirigenza togliattiano del PCI. Muore a Collesalvetti il 3 giugno 1960.

FONTI: Archivio Centrale dello Stato (Roma), Ministero dell’Interno, Direzione Generale di Pubblica Sicurezza, Divisione Affari Generali e Riservati, Casellario Politico Centrale, ad nomen. Antifascisti nel Casellario Politico Centrale, 18 voll., Roma 1988-1995, ad nomen; F. Bertini, Con il cuore alla Democrazia, Debatte editore, Livorno, 2007; I. Tognarini (a cura di), Livorno nel XX secolo. Gli anni cruciali di una città tra fascismo, resistenza e ricostruzione, Edizioni Polistampa, Firenze 2006.




“Altri muri sono sorti…”

Virginio Monti (Lucca, 1947) negli anni ’60 milita nel movimento studentesco lucchese e nelle file della sinistra extraparlamentare marxista-leninista; dopo la militanza in Democrazia proletaria si iscrive a Rifondazione comunista, dalla quale esce per aderire al Movimento per la confederazione dei comunisti. Studioso della storia della Resistenza e del movimento operaio, argomenti ai quali ha dedicato numerose pubblicazioni per la casa editrice lucchese Tra Le Righe; il suo ultimo libro è “La questione ebraica in provincia di Lucca e il campo di concentramento di Bagni di Lucca” (2021).

Quali sono state le tue prime esperienze di militanza politica?

Quando ti sei avvicinato a Democrazia proletaria? E perché proprio DP e non il PCI?

Cosa significava la scelta comunista in un territorio tradizionalmente conservatore come la Lucchesia?

con la politica del PCI e della CGIL, scivolata verso strade concertative con il sistema capitalistico e i suoi tradizionali referenti politici.

della sinistra extraparlamentare e anarchica). Ambienti dove il cuore almeno si rifocillava.

perché la precarizzazione è aumentata e alla scadenza del contratto la storia lavorativa si conclude quasi sempre e senza bisogno di giustificazioni particolari.

DP si è sempre dichiarata contraria al modello di socialismo proposto dall’Unione Sovietica. Il 9 novembre 1989 cade il muro di Berlino, e due anni dopo l’URSS si scioglie: il tuo pensiero su questi eventi?

Negli stessi anni il Partito comunista italiano avvia quel processo di trasformazione che nel 1991 porterà alla fondazione del PDS (Partito democratico della sinistra). Come studioso e militante di una formazione marxista ma critica nei confronti del PCI, qual è il tuo pensiero sulla svolta della Bolognina?

[1] A titolo di approfondimento si rimanda al volume AA. VV., E la vita cambiò. Il ’68 a Lucca (Carmignani, Pisa 2018), che raccoglie numerosi scritti di militanti del ’68 lucchese; la testimonianza di Virginio Monti, allora giovane studente dell’ITIS, si trova alle pagine 139-148, ed è tratta dal libro scritto da Monti stesso Il futuro passato. Gli anni ’60 e l’imperdibile ’68 (Tra Le Righe, Lucca 2018).




Cafiero Lucchesi e Dino Amilcare Alajeff Meoni

Sono presentati in due articoli 4 profili biografici di altrettanti comunisti dell’area di Firenze e Prato che subirono le persecuzioni del fascismo; tre di loro furono anche vittima dello stalinismo mentre Meoni che viene qui ricordato avrà comunque un percorso di distacco critico dal PCI nel dopoguerra.

LUCCHESI Cafiero

(Prato 7.1.1897 – Butovo, Mosca (Russia) 4.6.1938)

 Nato a Prato nel 1897 da Al(a)dino e da Laudomia Lumini, famiglia imbevuta di ideali anarchici e socialisti. Frequentati i primi anni delle elementari, lavora come operaio nell’industria pratese degli stracci. Membro della gioventù socialista nel 1912, nel 1916 è denunziato, insieme ad altri, per propaganda contro la guerra in occasione della chiamata alle armi della classe 1897; soldato durante la guerra mondiale, diserta e nel 1918 è arrestato e condannato. Tornato in libertà riprende il suo lavoro. Ardito del popolo e iscritto al PCd’I dal 1921, nel novembre dello stesso anno è coinvolto in scontri con i fascisti, che hanno un seguito nel gennaio successivo, in data 11, quando, in risposta all’ennesima provocazione da parte del comandante delle squadre d’azione pratesi, tenente Federico Guglielmo Florio, spara alcuni colpi di rivoltella, ferendo a morte il suo persecutore, che muore 6 giorni dopo, ed altre persone per coprirsi la fuga. Un telegramma del 12 gennaio inviato dalla Prefettura di Firenze al Ministero dell’Interno, Direzione Generale di Pubblica Sicurezza, così descrive l’accaduto: «pomeriggio oggi, mentre ex Tenente Florio dirigente quel Fascio (di Prato, n.d.r.) accompagnato alcuni fascisti, sostava Porta Serraglio, imbattevasi nel comunista Lucchesi Cafiero, già condannato grave pena per diserzione, che lo fermava per parlargli. Tenente Florio allontanavasi da compagni, ma mentre sembrava che egli parlasse tranquillamente col Lucchesi, questi estratta rivoltella che teneva abusivamente, sparò tre colpi contro il Florio che riportava ferita all’addome per la quale versa in gravissime condizioni …». La Prefettura omette di riferire come, già in precedenza più volte, l’incontro con Florio era costato a Cafiero Lucchesi bastonate, frustate, calci, sputi e umiliazioni soprattutto quando era colto in compagnia della fidanzata Giulia Giacomelli. Leonetto Tintori, famoso pittore pratese, all’epoca dei fatti non ancora quattordicenne, è testimone oculare della sparatoria e in una sua memoria narra come anche in quella circostanza il giovane comunista sia stato provocato per l’ennesima volta dal capo squadrista. La posizione di Cafiero è aggravata dal contenuto della scheda personale del 5 dicembre precedente redatta per il Casellario Politico Centrale: in essa è descritto con «espressione fisionomica truce», gode di «pessima fama» ed è «acerrimo nemico del fascismo». Dopo lo scontro con Florio, colpito da mandato di cattura il 22 gennaio, egli si rende introvabile, nonostante che le ricerche della polizia si svolgano anche all’estero. Questa vicenda fa precipitare la situazione in città, dando luogo ad una settimana di terrore e alle dimissioni della giunta comunale socialista. Infatti la reazione fascista alla morte dello squadrista in ospedale provoca la devastazione e l’incendio della Camera del Lavoro e della sede della Lega Laniera, il danneggiamento della tipografia dove si stampa il settimanale socialista “Il Lavoro”, il tentativo di incendio della casa di Cafiero e la distruzione di sedi di cooperative ed associazioni operaie. Inoltre, al di là di ogni evidenza sull’identità dello sparatore, le autorità di polizia, in sintonia con la propaganda fascista, riescono a costruire un castello di false testimonianze per avallare la tesi di un complotto comunista sulla base del quale sono processati e condannati a pene pesantissime molti oppositori locali. Intanto Cafiero, rifugiatosi in un  primo tempo a Trieste, secondo la testimonianza di Egidio Bellandi, raggiunge poi l’URSS come emigrato politico.  Trova lavoro in una fabbrica tessile di Mosca, sposa poco dopo un’operaia russa, che gli dà presto un figlio. Nel 1924, con sentenza del 3 febbraio, è condannato in contumacia all’ergastolo e successivamente, il 26 gennaio 1933, inserito nella rubrica di frontiera e nel Bollettino delle ricerche. La caccia scatenata a suo carico dalla polizia infatti si è estesa anche all’estero, finché il 29 agosto 1932, da un’informazione di un fuoruscito pratese, Mario Imprudenti, rifugiatosi a Mosca, risulta che «Cafiero Lucchesi […] originario di Prato, dove avrebbe abitato in via Giudea, alto, magro, dai capelli bianchi, di circa 32-33 anni, risiede a Mosca da circa 5 anni. Dirige attualmente un reparto in una fabbrica di stoffe …». Il 21 novembre 1935 l’Ambasciata italiana a Mosca comunica che in Russia egli svolge attività politica e probabilmente aderisce alla sezione italiana del soccorso rosso, aiutando alcuni comunisti detenuti nelle carceri fasciste. Intanto la corrispondenza del fratello Primomaggio e del padre Aladino è strettamente controllata, ma non emerge niente di utile per le ricerche. Il 14 febbraio 1938 l’Ambasciata riferisce che è possibile che Cafiero Lucchesi sia stato accusato di trotzkismo ed arrestato: l’accusa che gli viene rivolta è di avere legami con circoli di emigranti sospettati di spionaggio. Al club internazionale degli emigrati, sia pure in posizione defilata, è membro della minoranza di sinistra che, composta da una mezza dozzina di elementi, fa capo a Virgilio Verdaro. Nel 1929 tutta l’opposizione all’interno della dirigenza del club degli emigrati italiani viene epurata e, 6 anni più tardi, viene chiuso lo stesso club, giudicato covo di spie dalla polizia politica. Secondo gli informatori della polizia italiana nel 1936 è inviato in Spagna: infatti la polizia avanza l’ipotesi che «il pericolosissimo comunista Lucchesi Cafiero, assassino del Martire Fascista Florio» si trovi a Madrid, da dove fa pervenire «ai compagni di Prato ingenti somme di denaro» e nel 1938 è segnalato a Barcellona come «il maggiore Lucchesi»; ma del fatto non ci sono conferme.  Già segnalato come bordighista dai dirigenti del PCd’I della sezione quadri del Komintern, è arrestato nel marzo del 1938 a Mosca con l’accusa di attività spionistica a favore dell’Italia, condannato alla pena di morte e fucilato nel poligono di Butovo, nei pressi di Mosca, nel giugno successivo. Riabilitato il 31.12.1959.

 FONTI: Archivio Centrale dello Stato (Roma), Ministero dell’Interno, Direzione Generale di Pubblica Sicurezza, Divisione affari generali e riservati, Casellario Politico Centrale, ad nomen; Archivio generale del Comune di Prato, carte Egidio Bellandi; Corneli Dante, Lo stalinismo in Italia e nell’emigrazione antifascista, Elenco delle vittime italiane dello stalinismo (A-L), quinto libro, Tivoli, Edito in proprio, 1981; R. Daghini, Da Prato a Mosca solo andata. La sorte di cafiero Lucchesi dopo l’omicidio di Federico Guglielmo Florio, in “Microstoria”, IX (2007); M. Di Sabato, Storia del fascismo e dell’antifascismo nel Pratese, Roma, Ediesse, 2013; Dundovich Elena, Gori Francesca, Guercetti Emanuela (acd), Reflections on the Gulag. With a Documentary Appendix on the Italian Victims of Repression in the USSR, Milano, Feltrinelli, Annali, XXXVII, 2001; M. Palla (a cura di), Storia dell’antifascismo pratese, Pisa, Pacini Editore, 2012; D. Saccenti, Memorie, Firenze, Istituto Gramsci, sezione toscana – CLUSF, 1981; F. Venuti, Ricordo di un combattente. Dino Alajeff Meoni, Prato, Pentalinea, 2017; www.fondazionebordiga.org; www.memorialitalia.it; www.pratoreporter.it; httpp://archive.is.

Meoni001MEONI Dino Amilcare Alajeff

(Prato, 03.05.06 – Prato, 21 marzo 1979)

 Figlio dell’anarchico Leonello, nasce a Prato il 3 maggio del 1906. Dopo la sua nascita la famiglia emigra in Francia per evitare persecuzioni politiche e già all’età di otto anni partecipa col padre a manifestazioni sindacali e pacifiste. Nel 1921 ritorna a Prato ed entra immediatamente in conflitto con i fascisti locali quando definisce il capo degli squadristi pratesi, Federico Guglielmo Florio, “un pagliaccio”; sebbene un appunto del Commissariato di PS lo presenti come dedito alla vita randagia, ma senza precedenti né pendenze penali, egli tuttavia ben presto aderisce al movimento giovanile comunista impegnandosi a diffondere materiale di propaganda del partito. Il 29 gennaio del 1929 la Pretura di Prato lo condanna a sei mesi di reclusione, alle spese di giudizio e a cinque anni di condizionale per oltraggio a un brigadiere dei RR CC e a un milite della MVSN per avere detto: “Fate pure, per ora avete ragione, ma anche per voialtri finirà, ed allora faremo i conti“.

Nel 1931, prima della scadenza della condizionale, è nuovamente arrestato come aderente all’organizzazione comunista e il 18 febbraio dell’anno successivo, dopo l’arresto del 31 gennaio, è denunciato al TS dalla Questura di Firenze. Dalla sentenza istruttoria n°65 del 29 aprile 1932 si apprende che, nonostante la sua dichiarazione di non avere mai svolto attività politica, da tempo era frequentatore della bottega del sarto Zola Settesoldi, insieme a molti giovani comunisti della città. Alla presenza dello stesso Giudice Istruttore, Meoni dà prova dei suoi sentimenti sovversivi dichiarando che non teme l’autorità di PS e tanto meno il TS e che non gli importa di riportare una condanna.

L’11 novembre del 1932 è scarcerato in occasione del decennale fascista e da quel momento riprende la sua attività politica clandestina per finire di nuovo arrestato il 27 febbraio 1934 con l’accusa di aver costituito, organizzato e diretto il partito comunista, facendo di esso parte e svolgendo propaganda a favore del medesimo: nel corso del 1933 infatti aveva intrapreso l’opera di ricostruzione dei quadri del partito dopo le retate del 1930 e del 1932, raccogliendo intorno a sé militanti come Armando Bardazzi, Egidio Tommaso Bellandi, Valentino Bianchi, Assuero Martino Vanni, che costituiranno il nucleo più resistente all’attività repressiva delle autorità di polizia. Egli stabilisce contatti col gruppo comunista di Sesto Fiorentino e di Firenze e organizza il Soccorso rosso, almeno finché non viene sospeso dal comitato per contrasti con Egidio Bellandi e Fernando Pacetti. Con sentenza n°1 del 28 gennaio 1935 il TS lo condanna a dieci anni di reclusione, al pagamento delle spese processuali,a quelle della propria custodia preventiva e alla libertà vigilata con due anni di condono condizionale.

Trasferito dal penitenziario di Regina Coeli, arriva il 5 marzo a quello di Civitavecchia (RM) per essere recluso nelle celle “separate”, dove conosce fra gli altri Mauro Scoccimarro, Giancarlo Pajetta e Umberto Terracini. Il Regio Decreto del 15 febbraio 1937 n°77, emanato per la nascita del principe di Napoli Vittorio Emanuele di Savoia, che prevedeva un’amnistia piena per le pene non superiori a tre anni e una riduzione di alcuni anni per le altre, permette la sua scarcerazione nel 1938: da quel momento è sottoposto ad una asfissiante sorveglianza. Ritornato a Prato, viene a sapere che anche il padre Leonello e il fratello Paleario sono stati arrestati: per aiutare la madre, si impiega presso il lanificio Campolmi, dove riprende a creare, con pazienza e determinazione, un embrione di organizzazione comunista, contribuendo a mantenere i collegamenti col direttivo del partito e riuscendo a sfuggire alla vasta retata dell’OVRA attuata nel Pratese nel mese di giugno del 1941.

Pochi giorni dopo la caduta di Mussolini è arrestato insieme al fratello e a numerosi comunisti per istigazione all’astensione dal lavoro, secondo quanto riferisce una prefettizia del 5 agosto, ma subito dopo il rilascio, si attiva per ricostruire il gruppo dirigente comunista pratese e un embrione di sindacato: il 24 agosto, insieme ad Assuero Vanni e ad Alberto Torricini, come rappresentante dei tessili pratesi, sigla a Firenze un accordo con la parte padronale che concede a tutti i dipendenti delle aziende tessili pratesi la somma di £ 500 a titolo di conguaglio salariale. Nel mese di settembre entra a far parte del CLN pratese e alla fine di febbraio del 1944 collabora con Bogardo Buricchi per l’organizzazione dello sciopero generale del marzo successivo nelle fabbriche cittadine. Quando i carabinieri si presentano nel lanificio dove lavora per arrestare i dipendenti che avevano scioperato e consegnarli ai nazisti per la deportazione, riesce a sfuggire alla cattura e da quel momento entra nella Resistenza armata.

Dal 1° marzo al 25 ottobre del 1944 milita nella brigata garibaldina “Gino Bozzi”, che opera sull’Appennino pistoiese-emiliano ed in Garfagnana. A lui è affidato il compito di stabilire i collegamenti della brigata con l’organizzazione comunista di Pistoia e il comando militare del CLN provinciale ed è anche il responsabile dell’approvvigionamento di generi alimentari a favore delle popolazioni delle zone liberate dai garibaldini. Infine la sua attività si estende alla ricerca di contatti con altre formazioni operanti sull’Appennino.

Nel dopoguerra è rappresentante delle maestranze tessili pratesi nella nuova Camera del Lavoro, è redattore del periodico del PCI “Il Proletario”, fa parte per un certo periodo della Commissione annonaria del Comune e sul piano politico caldeggia il patto di unità d’azione tra i partiti antifascisti, nonostante la deriva premonitrice del clima della guerra fredda della situazione politica nazionale, allo scopo di dare, come egli stesso scrisse, “un fattivo contributo all’opera grandiosa che dovrà essere compiuta per la resurrezione e il benessere della nostra città. Successivamente si allontana dal Pci imputando alla direzione del partito una serie di errori compiuti nel quadro del clima della guerra fredda e dell’offensiva padronale succeduta alla rottura dell’unità antifascista, collocandosi in un’area della sinistra critica.

 FONTI: Testimonianza raccolta da Giovanni Verni (archivio privato); Archivio di Stato di Prato, Commissariato di PS, 1923, busta 24; Archivio Istituto Storico della Resistenza in Toscana, CLN di Prato, Relazione sulla Resistenza pratese; Archivio Istituto Storico della Resistenza in Toscana, fondo Boniforti; Istituto Culturale e di Documentazione “Alessandro Lazzerini”, Prato, “Il Proletario”, LA 29 Palch. 1.01., Misc. Pratese 25; AA.VV., Aula IV. Tutti i processi del Tribunale Speciale fascista, Roma, ANPPIA, 1961; R. Daghini, Il cammino per la libertà. Podestà, Commissari, Resistenza. Liberazione e CLN nei comuni della provincia di Pistoia (1926-1946), Pistoia, Tipografia GF Press, 2013; M. Di Sabato, Dalla diffida alla pena di morte, Prato, Pentalinea, 2003; M. Di Sabato, Prato dalla guerra alla ricostruzione, Prato, Pentalinea, 2006; C. Ferri, La Valle rossa, Prato, Viridiana, 1975; A. Menicacci, Pagine della Resistenza nel Pratese, Prato, Viridiana, 1970; G. Tagliaferri, Comunista non professionale, Milano, La Pietra, 1977; F. Venuti, Ricordo di un combattente: Dino Alajeff Meoni, Prato, Pentalinea, 2017; G. Verni, La Brigata Bozzi, Milano, La Pietra, 1975; G. Verni, Pericolosi all’ordine nazionale dello Stato, Milano, La Pietra, 1980.




Gualtiero Vittori: un militante della base comunista

Gualtiero Vittori nasce a Livorno da una famiglia di piccoli commercianti nel 1926.[1] Il fascismo è da poco tempo al potere ma l’educazione che riceve dal padre, antifascista, e dagli stessi nonni, lo conducono sin da ragazzino a immedesimarsi con gli oppositori al regime. Del resto l’ambiente di bottega, un bar vicino ad alcune zone operaie della città, come quella del Cantiere e quella del porto, fanno sì che i suoi contatti siano sempre contrassegnati dalla cifra indiscussa dei “sovversivi”, anarchici, socialisti, comunisti e ancora qualche repubblicano. Una indiscussa congerie politica che connotava la città labronica già da diversi decenni e dove i comunisti, gli ultimi arrivati, si faranno strada a poco a poco soprattutto grazie ad alcune figure carismatiche che li rappresentano, come Ilio Barontini, Vasco Iacoponi, ma anche Emilio Valesini, Otello Frangioni, Garibaldo Benifei e decine di altri che nella sua memoria, conservata all’Istoreco, Gualtiero ricorda con affetto e sollecitudine.

La stesura della memoria di Vittori si colloca nel periodo successivo alla Bolognina quando il Partito comunista si è trasformato in altro da sé e per questo vecchio militante che si autodefinisce “un soldato” di quell’ideale, probabilmente molte cose cominciano a scricchiolare. Ma non possiamo addentrarci in ipotesi poiché il testo non ne fa cenno, è la malizia del lettore che intravede questa lettura come possibile.

Russardo Capocchi

Russardo Capocchi

La memoria fu portata all’Istoreco dal nipote, Vittorio Vittori, già molti anni or sono e purtroppo non c’è stata fino a questo momento possibilità di valorizzarla. In occasione del centenario del Pci, mi è parso opportuno tirarla fuori dal cassetto e non potendo ancora stamparla in qualche modo, perlomeno proporne qualche considerazione sul sito Toscananovecento.it. Il testo è diviso in tre parti, la prima comincia subito dopo la liberazione di Livorno quando Vittori viene assunto nella base degli americani come facchino, autista e per altri lavoretti, e si conclude verso la fine degli anni Cinquanta, periodo durissimo per la sua famiglia presa di mira dalla polizia di Scelba che gli stava sempre addosso in modo vessatorio. La famiglia che era già stata segnata dalla morte del padre durante la guerra, poi sarà colpita anche dalla invalidità del fratello che per fortuna verrà in seguito assunto in Comune come invalido e quella assunzione permise una schiarita nella loro condizione generale.

La seconda parte va a ritroso e come scrive Gualtiero, “è un diario alla rovescia”.[2] Sicuramente è la parte più interessante perché è quella dove si dispiegano meglio le ragioni del suo “essere comunista”. Comincia con il coinvolgimento nella pedagogia del padre che, quando, bambino, lo porta al cimitero a visitare i defunti della famiglia, non dimentica mai di portarlo davanti alla tomba di Russardo Capocchi, grande figura del socialismo e del sindacalismo livornese[3]. Abitudine questa così tanto acquisita che ancora in tarda età, Gualtiero si ritrova a compiere lo stesso rito.

Ma influiscono molto nella sua preparazione e nelle sue inclinazioni anche alcuni suoi compagni di giochi e quelli un po’ più adulti del fratello, come Alfio Pensabene, lavoratore del porto, arrestato dai repubblichini e morto poi a Mauthausen.[4]

Aver assistito più di una volta per la ricorrenza del 1 maggio alle aggressioni gratuite, allorquando qualche avventore si presentava al bar con una cravatta che aveva qualcosa di rosso e il fascistello di turno andava a tagliargliela, sicuro di rimanere impunito, Gualtiero era rimasto disgustato per quelle esibizioni di tracotanza. Umiliazioni fini a sé stesse, ma umiliazioni ingiustificate e prevaricatrici che rimasero impresse in un adolescente abituato a veder suo padre ritingere i muri del suo locale ogni qualvolta vi comparivano scritte tipo: W il fascio, W il Duce.

Emergono anche altri nomi di importanti oppositori scomparsi nella smemoratezza della storia come Dino Rebuzzi, frequentatore del suo bar, antifascista di tempra, combattente nelle Brigate Garibaldi in Spagna, ferito e successivamente condannato al confino a Ventotene. Il padre avvertito da un questurino si recò con la moglie, il figlio ed un amico, alla stazione dove avrebbe transitato e riuscì a porgergli: “dopo aver chiesto il permesso ai carabinieri di scorta, una bottiglia di ponci e assieme al Manzani altri piccoli aiuti vedi pure oggetti di vestiario.”[5] Ed insieme a lui decine di altri, sconosciuti ai più e raramente passati anche attraverso il filtro della storia ufficiale.

Il teatro Avvalorati a Livorno (Archivio Istoreco)

Il teatro Avvalorati a Livorno (Archivio Istoreco)

Il nostro autore è un militante di base si potrebbe dire, di quelli che sicuramente non hanno neppure mai aspirato a salire nella gerarchia interna, sicuramente un militante appassionato e fedele. Uno tra le tante migliaia e migliaia di iscritti a quel partito, partito che riuscì a stringere a sé, e non solo con la speranza, che sicuramente c’era, di un mondo migliore e più giusto, ma anche con l’esempio dei propri dirigenti. Alla componente popolare della sua base i responsabili della federazione, quelli a capo di settori importanti della vita amministrativa, economica e politica, si presentavano in quegli anni, a quegli uomini e a quelle donne del popolo, come: “compagni di strada”, portatori di una moralità anche rigida ma irreprensibile e di una coerenza di comportamento indiscutibile. La memoria dà conto di diverse testimonianze in questo senso. La più cocente e la più intensa è sicuramente quella legata a Dosolino Bendinelli, comunista e perseguitato politico. Si reca al bar da Gualtiero che rievoca: “chiede di Dino Frangioni, le dico che non si è ancora visto, mi consegna del denaro pregandomi di darlo a Dino per pagare la tessera dell’ANPPIA[6] dovendole riferire che era pari, prese la sua consumazione, mi salutò e non lo rividi più perché all’indomani si sparò una rivolverata (sic!). Gualtiero scrive ancora: “Può anche sembrare banale questo appunto, ma… pensateci un momentino su come erano fatte certe persone”[7].

E non è il solo episodio che vada in questa direzione. Quello che aveva sempre colpito la sensibilità di Gualtiero era sicuramente non tanto la profondità politica delle analisi, o la ricchezza culturale dei dirigenti, l’aveva impressionato soprattutto la loro onestà, la loro coerenza di uomini prima ancora che di dirigenti. Il milieu sociale nel quale era cresciuto si prestava ad una emancipazione politica contrassegnata da queste cifre. Nato in una famiglia composta da un nonno di fede repubblicana e da un padre socialista che aderì al Pci sin dalla scissione del 1921, si trovò collocato naturalmente dentro una tradizione laica e sovversiva, considerate anche le peculiarità politiche della storia della città[8]. Oltre alla passione politica il padre trasmise ai due figli, Gualtiero e Pietro, la passione per la lirica, anche questa passione assai radicata nella città di Mascagni. Uno dei bar da loro gestiti si chiamava, non a caso, Il lirico. Pietro, il fratello più grande e più riflessivo fu indirizzato allo studio della musica e del violino mentre Gualtiero più insofferente alla disciplina fu indirizzato alla scherma. Due passioni queste: la lirica e la scherma tipicamente labroniche.

I diversi esercizi commerciali (Bar del Teatro, Bar Vittori, Bar Moderno) che la famiglia gestì nel tempo, furono tutti collocati nelle zone del centro. Luogo deputato delle manifestazioni di protesta dove spesso, soprattutto nel dopoguerra, Gualtiero venne coinvolto. Il bar era ed è un luogo di ritrovo, dove si faceva colazione la mattina prima di andare a lavoro, dove si passava dopo la fine del turno e dove ci si recava per giocare a carte e discutere con gli amici. Assidui frequentatori erano i portuali, gli avventizi del porto, i dirigenti della Compagnia Portuale ma anche gli uomini più esposti durante il ventennio dell’antifascismo locale, come Barontini[9] o Vasco Jacoponi[10] e altri come Sergio Manetti[11], futuro segretario della locale Camera del Lavoro, Garibaldo Benifei[12] antifascista di lungo corso, Danilo Conti segretario della Fiom e tantissimi altri ancora che sono ancora oggi vivi nella memoria democratica della città.

Il giovane Gualtiero li ascoltava ragionare, coglieva le mezze parole che si dicevano a bassa voce a causa delle lunghe orecchie della polizia di regime prima e poi della polizia politica dell’era di Scelba. Durante l’ultimo periodo della guerra, quando con la famiglia per colpa dei bombardamenti che colpirono la città[13], si rifugiarono tutti a Montenero, si mise ad ascoltare radio Londra e a portare di nascosto qualche arma ai rappresentanti del comando tappa del distaccamento Oberdan Chiesa.[14]

Azioni adatte alla sua giovane età (aveva tra i 16 e i 17 anni), sicuramente pericolose ma svolte con piglio guascone, sicuro e sfottente nei confronti delle autorità repubblichine. Con la fine della guerra però non ci fu un vero e proprio ingresso nella libertà democratica. Dopo la caduta del primo governo De Gasperi si entra a tutti gli effetti nel clima duro della guerra fredda. Sia Gualtiero che i suoi sono tenuti d’occhio. Troppi comunisti frequentano il loro bar ed allora a parte i continui cambiamenti di lavoro per tirare a campare, quando Gualtiero entra in pianta stabile nella gestione dell’esercizio commerciale, spesso si trova costretto a rispondere a vere e proprie vessazioni da parte delle forze dell’ordine, fino all’episodio più grave quando trascorrerà in prigione diversi giorni in carcere. Durante la lotta del Cantiere, nei primi anni Cinquanta, si vede sequestrare un radiogrammofono con l’accusa che si trattava di una radiotrasmittente e  alla punizione di 20 giorni di chiusura![15] Scrive amareggiato:

Eravamo rientrati in quella sorveglianza asfissiante che non ci dava modo di lavorare con sufficiente tranquillità, quando le guardie non entravano si mettevano di faccia a osservare. Arrivammo così alla famosa legge truffa…la sera dopo una comitiva di compagni dopo essere stati a festeggiare passò sotto i portici di Via Grande dall’altra parte della strada rispetto a dove era il Bar. Era circa la mezzanotte e cantavano tutti assieme “Malafemmina” – neanche un motivo politico – entrano in bottega le guardie e, ti pareva, mi intimano di farli smettere. Faccio presente che non sono nel mio negozio e tantomeno vicino e che non stava a me intervenire per farli tacere. Bene: invito a presentarsi al Commissariato di Forte San Pietro all’indomani mattina e là ci fu comunicato la chiusura immediata a tempo indeterminato…[16]

Il Caffè Bettinetti a Livorno (Archivio Istoreco)

Il Caffè Bettinetti a Livorno (Archivio Istoreco)

Nel 1955, alla televisione danno la famosa trasmissione: Lascia o raddoppia? che si poteva vedere anche nella sala Tv nel bar dei Vittori che furono tra i primi esercizi ad avere l’apparecchio. Avevano collocato un’insegna luminosa per segnalarlo e avevano svolto le pratiche obbligate al Comune e si ritenevano a posto. Ma “una mattina arriva un poliziotto che mi conosceva bene e malgrado questo quando all’una di notte chiudevo il bar per andare a casa mi chiedeva i documenti”[17]. Poiché il poliziotto aveva un’ordinanza del Commissariato che intimava di togliere immediatamente l’insegna, il nostro autore perde il controllo e spacca alcuni mobili dell’arredo del bar, per l’esasperazione alla quale era arrivato. Si giunge in questo clima al 1958 quando in città viene organizzata una manifestazione per la Pace in Libano. Gualtiero aveva un appuntamento ma non riesce ad arrivare sul luogo a causa della presenza della celere. Prova e rientrare al bar ma “niente sull’angolo arriva un’altra mandata di poliziotti, scendono dal camion e cominciano a spintonare tutti coloro che si trovavano là, io mi fermo ma arrivano anche a me, spintoni, io non ci stò (sic!) e reagisco e giù manganellate io non sto neanche a queste, mi rompono gli occhiali da sole sul viso con taglio al sopracciglio, smanaccio un po’; poi uno di essi disse: ‘portatelo via!’, mi presero per le braccia, mi liberai dicendo: ‘Ci vengo da me’, mi caricarono sul camion (c’erano altri) e da lì in questura”[18]. Da lì ai Domenicani, all’epoca il carcere di Livorno. Dopo alcuni cambi di cella lo mettono con altri due, dei quali uno giovanissimo che verrà presto rilasciato, ed un altro, Mario Corucci. Alcuni giorni dopo arriva un pacco da Piombino e poi da Eddo Paolini[19] della Federazione di Livorno e dai portuali arrivano anche dei soldi. In sostanza si era attivato un “Soccorso rosso” che era riuscito a realizzare 5.000 £, una cifra non indifferente per l’epoca.[20] Il nostro autore commenta:

“le cifre non contano è importante sapere che qualcuno ti ricorda”[21].

Ma la solidarietà si espresse anche con la maggiore frequentazione più assidua del bar da parte dei clienti abituali. Interessante ricordare che dalla biblioteca del carcere si fa portare due libri già letti, I Miserabili di Victor Hugo e Martin Eden di London, due classici della biblioteca del buon comunista a partire dagli anni Trenta e Quaranta e come evidenzia questa memoria ancora centrali alla fine degli anni Cinquanta.

Ogni volta che lui, come altri, si trovano al cospetto del potere poliziesco, si rivolgono alla deputata eletta nella circoscrizione di Livorno, sorella del primo sindaco della città: Laura Diaz[22]. É una figura fondamentale che sta accanto a lui e a tutti quelli che si trovano nelle stesse situazioni. Con lei si sentono a casa. Alla fine al processo tutti gli imputati vengono condannati a 8 mesi, oltre al mese già trascorso agli arresti ma poiché anche un poliziotto testimonia a loro favore, la pena fu sospesa per cinque anni e il nostro venne scarcerato. Soltanto il suo compagno di cella, Corucci e una donna Giuseppina Santini,[23] rimasero in galera perché recidivi.

Subito dopo la liberazione gli viene notificata dalla Questura la diffida della durata di due anni e poiché capitava che la sera alla chiusura ci fossero discussioni con qualche cliente che aveva alzato il gomito e che Gualtiero non era proprio il tipo da contenersi, per non peggiorare la sua situazione, decide con la moglie e la madre, di vendere il bar. Comprano un negozio di alimentari e si procura una giardinetta per le consegne ma poi scopre che la diffida gli rende impossibile guidare l’auto e così se ne deve disfare. Intanto siamo arrivati al 1960 e ci sono i famosi fatti dei parà[24]. Prima la città è invasa dai militari e poi dalla polizia. Il nostro viene fermato e portato di nuovo in Questura. Il testo prosegue con i ricordi delle prepotenze subite e del calore della solidarietà ricevuta.

Immagine Barontini da diap

Ilio Barontini

Al termine, a giudicare dalla narrazione, si può pensare ad un vero e proprio pezzo aggiunto, nella cosiddetta III Parte, Vittori racconta episodi scollegati ma ai quali evidentemente teneva molto: la morte di Ilio Barontini, il XX° Congresso del Pcus e alcuni ricordi privati di serate passate con Sergio Manetti, con Fantolini e Paolini a cantare e a suonare la chitarra. L’immagine più forte e più bella di questa parte è quella riservata al funerale di Barontini e di Frangioni e Leonardi morti nello stesso incidente stradale, quando Vittori scrive:

La notizia della morte di Barontini, Frangioni e Leonardi ci giunse nel Bar (all’epoca in Piazza Mazzini), dapprima non chiara, si parlava di feriti, poi la verità dilagò come un’esplosione, non si parlava d’altro e posso dire che la totalità dei livornesi ne fù (sic) coinvolta compreso gli avversari politici. In migliaia ci recammo ad incontrare le salme, pioveva, era sera, e questa moltitudine si ritrovò a Stagno per darle il primo saluto, poi i funerali a Porta S. Marco.[25]

Credo che l’espressione “la verità dilagò come un’esplosione” sia la dimostrazione più forte della adesione a quel lutto e a quella storia che il nostro ci abbia lasciato.

Livorno, 12 maggio 2021

[1] Purtroppo in mancanza di familiari viventi non possiamo indicare la data della scomparsa.

[2] Gualtiero Vittori, Memorie, testo dattiloscritto e non datato, p. 22, conservato presso l’archivio Istoreco.

[3] C. Sonetti, Una morte irriverente. La Società di Cremazione e l’anticlericalismo a Livorno, Il Mulino, Bologna, 2007, pp. 160-163, il cui funerale fu una vera e propria manifestazione di antifascismo insieme a quella di Mario Camici. Cfr. a questo proposito anche Massimo Sanacore, Il percorso interrotto. Il pluralismo etnico, religioso e politico nel sistema industriale livornese. La storia e le immagini (1865-1940), Annuario Sibel, Livorno, Sibel, 2003. La notizia comparve anche su «l’Unità» del 22 aprile 1933.

[4] G. Vittori, Memorie, cit., pag. 11. Può darsi che il nome fosse Angelo e non Alfio perché con quel cognome si trova inserito nel sito, ademol-org/progetto-ocr/deportati-mauthausen. Cfr, Vincenzo Pappalettera, Tu passerai per il camino, Mursia, Milano, 1965.

[5] Ibidem, p. 13.

[6] Associazione nazionale perseguitati politici.

[7] Ibidem, p. 9.

[8] Cfr. gli ormai classici: Nicola Badaloni, Democratici socialisti e livornesi nell’Ottocento, La Nuova Fortezza, Livorno, 1987, Movimento operaio e lotta politica a Livorno 1900-1926, Editori Riuniti, Roma, 1977 e di Franca Pieroni Bortolotti, Socialismo e questione femminile 1892-1922, Mazzotta, Milano, 1974 e Nota sul primo antifascismo livornese, Olschki, Firenze, 1971.

[9] Cfr. Era Barontini, Vittorio Marchi, Dario. Ilio Barontini, Editrice Nuova Fortezza, Livorno, 1988, Fabio Baldassari, Ilio Barontini. Fuoriuscito, internazionalista e partigiano, Robin, Roma, 2013, e Mario Tredici, Gli altri e Ilio Barontini. Comunisti in Unione Sovietica, Ets, Pisa, 2017.

[10] Natale Vasco Jacoponi (1901-1963), eletto deputato nella I-II-III legislatura. Console dei Portuali nel secondo dopoguerra; storia.camera.it/archivio storico e wikipedia.it.

[11] Cfr. scheda su: consiglio.regione.toscana.it/consiglieri, e «Il Tirreno» del 27 gennaio 1999.

[12] Cfr. Garibaldo Benifei, Per la libertà: trent’anni di memoria fra antifascismo, Resistenza, cooperazione (1920-1950), Debatte, Livorno, 1996, Margherita Paoletti, Garibaldo Benifei. 100 anni di un antifascista tra Resistenza e bella politica, Comune di Livorno, 2012, anppia.it/antifacsiti/benifei-garibaldo.

[13] Laura Fedi, Bombardamenti a Livorno, in Aa.Vv. 28.05.1943. “Era di maggio.” Notte e giorno le sirene annunciavano i bombardamenti, Comune di Livorno, Livorno, 2013. Scrive Vittori a pagina 16: erano da poco passate le undici e si alza il lugubre ululato delle sirene, gli operai del Cantiere lasciano il posto di lavoro e si precipitano fuori dello stabilimento, io inforco la bicicletta e corro come un dannato verso la bottega, sul ponte nuovo tra gli schianti della contraerea cominciano a piovere le prime bombe, mi fermo in un portone ed un pescatore napoletano puntando una mano verso il cielo mi grida: eccoli accà, seguo l’indicazione e vedo questi apparecchi che sembrano giocattoli tanto era la loro distanza, al tempo stesso un aereo italiano vola a bassissima quota e si dirige forse verso il vicino aeroporto di Pisa, una torpediniera in bacino spara con le mitragliere accennando un inutile (data la distanza) fuoco di sbarramento; le bombe cadono a grappoli… ricordo in Piazza Roma un cavallo sventrato: la fila delle persone che abbandonavano la città era enorme..

[14] Bruno Bernini, Livorno dall’antifascismo alla Resistenza: il 10. Distaccamento partigiano e la liberazione della città, Comune di Livorno, 2001.

[15] G. Vittori, Memorie, cit., p.2.

[16] Ivi p.4.

[17] Ivi. p. 5.

[18] Ivi.

[19] Eddo Paolini è stato un importante quadro del Partito comunista, autore anche di un volume, E fu subito festa, Tipografia Benvenuti & Cavaciocchi, Livorno,1984.

[20] Ibidem, p. 6.

[21] Ivi.

[22] Cfr. Tiziana Noce, La città degli uomini: donne e pratica della politica a Livorno fra guerra e ricostruzione, Rubbettino, Soveria Mannelli, 2004 e storia.camera.it/archivio storico e wikipedia.it.

[23] Purtroppo non possiamo scrivere nulla di questi due personaggi.

[24] Cesare Bermani, Il nemico interno. Guerra civile e lotta di classe in Italia (1943-1976), Odradek, Roma, 1999.

[25] G. Vittori, Memorie, cit., p.22.




Danilo Mannucci

All’interno della rassegna di alcuni profili biografici di militanti comunisti internazionalisti di Livorno e provincia, i quali contribuirono alla fondazione del Partito Comunista d’Italia, sezione della IIIª Internazionale, avvenuta a Livorno nel gennaio 1921, presentiamo quello di Danilo Mannucci, arricchito in allegato da un ricordo commosso del figlio Giuseppe.

MANNUCCI Danilo (Livorno 28.8.1899 – Gardanne (Bocche del Rodano, Marsiglia, Francia) 21.3.1971)

Danilo Mannucci nasce a Livorno nel 1899 da Gastone ed Anna Peruzzi; il padre, soprannominato Libeccino, dal vento Libeccio che soffia a Livorno, è un repubblicano dirigente dell’associazionismo mazziniano e anticlericale. Di professione è rappresentante di commercio.

Il giovane Mannucci cresce in seno a un’umile famiglia proletaria nella quale, grazie all’influsso educativo paterno, ma anche a quello del nonno Giuseppe, si leggono giornali e libri, si studia e si discute di diritti sociali e civili e della difesa della libertà del proletariato.

A l’età di 16 anni, dopo aver appreso della morte di Amedeo Catanesi (1890-1915), segretario generale della Federazione Giovanile Socialista Italiana, avvenuta il 17 luglio 1915 nelle trincee d’Andraz sul Col di Lana, poi ribattezzato Col di Sangue aderisce alla detta Federazione.

Chiamato alle armi non ancora diciottenne nel maggio 1917, Danilo Mannucci fu un Ragazzo ’99, e viene inviato in zona di operazioni nell’estate del medesimo anno, dove partecipa ai rastrellamenti dei reparti dispersi e sbandati dopo la sconfitta di Caporetto (ottobre 1917). Nel gennaio 1918 viene inviato sul Monte Grappa dove prende parte alla battaglia del Solstizio (giugno 1918) e alla controffensiva di Vittorio Veneto (ottobre 1918), restando al fronte anche dopo l’armistizio del 4 novembre 1918, venendo nominato caporale nel gennaio 1919. Ha seguito col commando gruppo i differenti spostamenti dalla zona del fronte fino a Cittadella (Padova) dove è rimasto fino all’invio in congedo illimitato nel febbraio del 1920.

Immediatamente, partecipa attivamente al biennio rosso nelle file della Lega Proletaria dei Combattenti Livornesi, prima formazione di autodifesa armata operaia nella città portuale toscana.

Il 21 gennaio del 1921 è presente al Teatro San Marco di Livorno, (pur non essendo tra i 58 delegati della Frazione Astensionista) dove assiste alla nascita del Pcd’i, al quale aderisce immediatamente contribuendo a fondare il 29 gennaio 1921 la Federazione livornese della quale ricopre ruoli direttivi a partire dal marzo successivo.

Tra i fondatori degli Arditi del Popolo a Livorno, fa parte del suo Esecutivo Segreto, diventa comandante di una compagnia formata da comunisti e grazie alla sua esperienza al fronte viene nominato insieme ad Athos Freschi, comandante in seconda degli Arditi del Popolo livornesi, diretti dal socialista Dante Quaglierini, ex ufficiale di fanteria. Nel luglio del 1922 è costretto, con suo sommo dispiacere, a lasciare gli Arditi del Popolo dietro ordine esplicito della direzione del Pcd’I.

Attivo oppositore dello squadrismo, a causa delle sue idee comuniste e anche per aver diffuso il Manifesto della iii Internazionale Ai Lavoratori d’Italia, viene arrestato ed imprigionato più volte dalle forze dell’ordine oltre ad essere aggredito e bastonato in più di una occasione dalle camicie nere.

Mannucci CPC (1)Nel febbraio 1923 venne arrestato nel corso della famosa operazione di polizia, voluta dal primo governo Mussolini appena insidiatosi, che colpì la maggior parte dei dirigenti (a incominciare da Bordiga), quadri e militanti del Pcd’I, con l’accusa di Complotto contro la sicurezza dello Stato tuttavia nell’aprile 1923 viene rilasciato in seguito all’intervento dei dirigenti della Camera del Lavoro, tra i quali Augusto Consani.

Ricercato ancora dai fascisti per aver partecipato ai funerali di un anarchico, dove aveva presenziato insieme alla sua vecchia compagnia degli Arditi del Popolo, nel maggio 1923, grazie all’aiuto di alcuni compagni liguri, emigra clandestinamente in Francia, dove chiede l’asilo politico.

Stabilitosi a Marsiglia entra da subito nelle file del Pcf, venendo chiamato alla segreteria del partito per il cantone di Gardanne (nel circondario di Marsiglia); inoltre diventa il comandante di una formazione comunista, una compagnia della centuria proletaria Luigi Gadda.

Per più di 10 anni dirige il Sindacato Unitario dei Lavoratori del Sottosuolo nelle Miniere di Carbone di Provenza (Cgtu) di orientamento comunista. Come si può leggere nel verbale dell’interrogatorio di polizia a Livorno nel gennaio del 1936, svolge anche attività clandestina a Lione, Cannes, Beziers e in Alsazia.

Nel corso del 1935, in qualità di segretario regionale dirige gli scioperi delle miniere che coinvolgono circa ottomila lavoratori per circa 50 giorni, attività che gli frutta un’espulsione dalla Francia il 4 gennaio 1936.

Riconsegnato a Ventimiglia nelle mani della polizia fascista italiana, viene processato dal Tribunale Speciale e condannato a cinque anni di confino, con una prolunga di due anni alla scadenza, che sconta dapprima ad Amantea e Fuscaldo in Calabria, successivamente a Ponza e Ventotene, a Pisticci (Matera) e infine a Baronissi (Salerno). In quest’ultima località lavora alla stesura di manifesti di propaganda per il partito che i compagni Matteo Romano e Luigi Rarita si incaricano di portare a Salerno.

Dopo lo sbarco delle truppe americane a Salerno, in una situazione piuttosto caotica, da subito presta la sua opera per l’organizzazione del Fronte di Liberazione Nazionale, della CGdL e della Federazione Salernitana del PCd’I.

Il 21 dicembre 1943 è sancita la nascita della Camera del Lavoro affiliata alla  CGdL, di cui diventa il primo segretario nel dopoguerra, dimettendosi però nel settembre 1944 rifiutando l’adesione alla Cgil imposta dal tripartito, in seguito al patto di Roma firmato il 9 giugno 1944 da Giuseppe Di Vittorio per il PCI, Achille Grandi per la DC e da Emilio Canevari per la componente socialista.

Il 10 gennaio 1944 si svolge a Salerno il I Congresso della Federazione Salernitana del Pci, che lo vede tra i relatori e che elegge segretario l’avvocato Ippolito Ceriello, comunista legato ad Amadeo Bordiga. Questo congresso ancora oggi non è riconosciuto dagli stalinisti-togliattiani, i quali individuano come primo congresso solo quello del 27-28 agosto 1944.

La federazione salernitana del Pci inizia la pubblicazione del suo organo Il Soviet, senza l’autorizzazione del Psychological Warfare Branch e per questo sia Mannucci che Ceriello sono condannati ad un mese di carcere. Il Soviet proibito dalle autorità alleate su pressione della dirigenza nazionale del Pci, esce quindi come numero unico, poiché in esso sono contenute le linee politiche che Ceriello e Mannucci intendono portare avanti.

Infatti in contrasto della Svolta di Salerno, voluta da Togliatti su ordine di Stalin, Mannucci e Ceriello si oppongono anche alla concezione togliattiana di Partito Nuovo, ragion per cui Mannucci, insieme a Mario Ferrante e Bernardina Sernaglia, viene espulso dal Pci dal Comitato di Riorganizzazione composto di stalinisti nelle prima decade di luglio 1944 per corruzione e indegnità. Mannucci ne vene a conoscenza solo il 14 luglio dal giornale locale Il Corriere. Mannucci reagisse immediatamente con una lettera pubblicata nel stesso giornale Il Corriere del 15 luglio, affermando che la sua espulsione arriva un poco in ritardo «poiché io ero già non solo spiritualmente, ma anche materialmente molto lontano dal partito, che mi sta sempre nel cuore, ma dalla cricca dei suoi dirigenti che con la loro azione hanno falsato e sovvertito tutto il suo programma.» Circa la motivazione dell’espulsione, Mannucci averte che si accinge «a dare querela a chi di dovere con la più ampia facoltà di prove.» La lettera è firmata «Danilo Mannucci, comunista della vecchia Guardia, ex confinato politico.» Ippolito Ceriello invece ne viene espulso per ‟acclamazione” al Congresso della Federazione di Salerno del 27-28 agosto successivo.

Nei mesi successivi Mannucci, Ceriello e insieme al liberatorio Ettore Bielli, costituiscono la Frazione della sinistra salernitana che in qualche modo si ricollega alla Frazione di sinistra dei comunisti e dei socialisti, già presente nel variopinto quadro alla sinistra del Pci togliattiano e riconducibile all’altrettanto variegata tradizione bordighista.

L’unico giornale della frazione salernitana che ottiene l’autorizzazione, il 3 maggio 1945, è il quindicinale L’Avanguardia, il cui direttore responsabile è proprio Ippolito Ceriello, tuttavia l’autorizzazione alla pubblicazione del giornale viene revocata poco dopo e anche in questo caso del giornale ne esce solo un numero.

In quei primi mesi del 1945 Mannucci stringe una feconda collaborazione politica con il vasto movimento anarchico meridionale, scrivendo una serie di articoli per il giornale anarchico Umanità Nova, con lo pseudonimo di Spiritus Asper e intrattenendo (secondo alcune fonti di polizia) rapporti politici con il vecchio anarchico siciliano Paolo Schicchi e il suo “gruppo insurrezionale”.

A Napoli il 29 luglio del 1945 la maggioranza della Frazione decide lo scioglimento e di confluire quindi nel Partito Comunista Internazionalista, per cui anche Ceriello e Mannucci aderiscono al Pc.int.

Anche in questo caso tuttavia i contrasti con la direzione del Partito sono così aspri da costringere il Mannucci ad uscire dallo stesso partito, soprattutto a causa sia dell’adesione di Mannucci, Bielli ed altri all’associazione vi Braccio, organizzazione malvista dal PC.int. perché considerata interclassista e apartitica, che della decisione di Ippolito Ceriello di candidarsi alle elezioni amministrative nel Comune di Laviano.

In seguito ciò Mannucci aderisce al Psiup negli anni 1947-1948, entrando in contatto con Lelio Basso e Alfonso Di Stasio e ricoprendo un doppio incarico, sia come funzionario di partito che come funzionario sindacale in zone difficili del Meridione, segnato dalle lotte contadine per l’occupazione delle terre in Calabria, Puglia e Basilicata.

Si stabilisce in Puglia per un anno e mezzo, dove partecipa e dirige le lotte dei braccianti del Tavoliere ed entra in contatto con Natino La Camera a Cosenza, tuttavia il nuovo percorso politico da lui intrapreso risulta assai illusorio, in quanto è costretto ad affrontare nuove e più forti difficoltà burocratiche spesso capziose per cui tutte le promesse che gli furono fatte si riveleranno assai vane.

Nel 1949 compiuti i 50 anni, dei quali più di trenta passati fra lotte politiche e sindacali e aver subito anche sette anni di confino, ora ha anche la responsabilità di una famiglia con moglie e tre figli piccoli, decide lasciare l’Italia e trasferirsi definitivamente in Francia, permettendo così ai suoi cari un’altra e migliore opportunità di vita.

Qui continua ad interessarsi di politica, legge Le Monde, La Marseillaise (giornale locale del Pcf) e L’Humanitè e spesso ogni domenica mattina si reca al mercato di Gardanne, per diffondere L’Humanitè-Dimanche.

Dei giornali italiani trova a Gardanne solo La Stampa, La Domenica del Corriere, e la Gazzetta dello Sport, tuttavia riceve dall’Italia anche altra stampa: Umanità nova, l’Avanti, l’Antifascista e forse altri. Una certa attenzione ai problemi e alla politica italiana e francese nel corso di quegli anni c’è stata, lo testimoniano la presenza alla Conferenza di Gardanne sul tema del sindacalismo e della storia italiana e due articoli scritti su Umanità Nova nel 1957, sempre con lo pseudonimo di Spiritus Asper.

Durante gli avvenimenti del 1968 prende posizione in favore degli studenti in sciopero e in particolare di Daniel Cohn-Bendit, Jacques Sauvageot e Alain Krivine.

Muore il 21 marzo 1971 a Gardanne, dove viene sepolto accompagnato dal canto dell’Internazionale durante funerali civili a cui partecipano esponenti del Pcf e della Cgt.

FONTI ARCHIVISTICHE E DOCUMENTARIE: Archivio Centrale dello Stato (Roma), Ministero dell’Interno, Direzione Generale di Pubblica Sicurezza, Divisione Affari Generali e Riservati, Casellario Politico Centrale, ad nomen; Archivio Fondazione Istituto Gramsci (Torino), Archivio Partito Comunista, Fondo Mosca; Archivio Giuseppe Mannucci (Banon, Francia); Archivio Nazionale Francese, Fascicolo Danilo Mannucci 8383; Battaglia Sindacale, 29 agosto 1944; Libertà, a. ii, n. 2, 6 gennaio 1944; Libertà, a. ii, n. 3, 13 gennaio 1944. Il nome di Mannucci, come quello di Ceriello, Bielli e Vincenzo Nastri, appare in una lettera della Regia Questura di Roma del 14/4/1945, con la menzione attività insurrezionale attribuita a Paolo Schicchi.




Ferdinando Targetti amministratore, antifascista, padre costituente

Nella serata di lunedì 22 marzo, con la collaborazione della Biblioteca Roncioniana di Prato e nell’ambito della Festa della Toscana, si è tenuto su piattaforma meet l’incontro “Ferdinando Targetti amministratore, antifascista e padre costituente“, dedicato al primo sindaco socialista di Prato (1912-1914). In quell’occasione Andrea Giaconi (vicepresidente del Coordinamento toscano dei Comitati per la promozione dei valori risorgimentali) ha intervistato Alessandro Affortunati (membro dell’omonimo Comitato pratese ed autore di vari contributi su Targetti, di cui ha redatto anche la voce relativa del Dizionario biografico degli italiani). L’intervista ha inteso ripercorrere i passi salienti della vita e dell’opera del politico socialista. Ne proponiamo il testo ai lettori di ToscanaNovecento.

Targetti proviene da una famiglia dell’alto ceto industriale pratese. Però aderì giovanissimo al Partito socialista. È possibile spiegare questa scelta ed in che misura essa può essere considerata anche più coerente di tante altre?

Sì, suo padre, Lodovico, era un grosso industriale laniero, uno dei fratelli, Raimondo, sarà sindaco liberale di Prato all’epoca del regicidio e, fra il 1922 ed il 1923, presidente della Confindustria. Ferdinando, invece, mostrò subito di non condividere i valori tipici dell’alta borghesia e si iscrisse al Partito socialista nel 1899, a diciotto anni, subito dopo i fatti di Milano. È probabile che le cannonate di Bava Beccaris non fossero estranee alla sua maturazione politica, ma le ragioni precise della sua scelta non si conoscono.

Forse, come talora accade, giocarono un ruolo anche fattori psicologici (il sottoscritto, ad esempio, si è orientato precocemente a sinistra anche perché, da bambino, il nonno paterno gli aveva raccontato della “domenica di sangue” di San Pietroburgo, nel 1905, delle povera gente presa a fucilate dalla truppa).

Certo è che Targetti fu davvero coerente con la  decisione presa: ne è prova il fatto che cedette la sua quota in ditta al fratello Gino, vivendo solo con i proventi della  professione di avvocato.

Targetti fu il primo sindaco socialista di Prato nel 1912, in un clima che, a livello di storia amministrativa era fatto (ce lo insegna Guido Melis) di revisione dei conti degli enti locali, di storno dei contributi per le spese degli organi centrali, di accantonamento delle opere di beneficenza e di delega alle associazioni di volontariato. In tal contesto, quali furono i suoi principali provvedimenti?

Targetti seguì un principio molto chiaro: ciò che gli premeva – ebbe a dire – era difendere gli interessi delle classi più deboli, nella convinzione che ciò equivalesse a fare del socialismo. Alla luce di questo principio-guida, la sua giunta fornì un ottimo esempio di amministrazione rossa.

Fra i provvedimenti varati, sono da ricordare almeno l’apertura di uno spaccio comunale, dove si vendeva il pane a prezzo calmierato, l’istituzione di un ufficio che, tra l’altro, esercitava anche funzioni di sorveglianza sui prezzi dei generi di prima necessità e l’approvazione di un progetto per la costruzione di blocchi di case popolari.

L’amministrazione Targetti termina alle soglie della prima guerra mondiale. Nel 1919 Targetti è eletto alla Camera dei deputati e nel 1920 diviene assessore nel Comune di cui era stato sindaco. Sono però anni in cui la violenza politica di matrice fascista sconvolge la quotidianità della vita civile (basti ricordare che nella sola Toscana sono concentrati un quinto di tutti gli atti di brutalità squadrista prima della Marcia: l’omicidio Lavagnini, i fatti di Roccastrada, la spedizione su Prato e Vaiano) Come reagì Targetti a questi tristi eventi?

Targetti fu risolutamente antifascista e non si fece intimorire dalle minacce: basti pensare che nel 1922 rifiutò di dare le dimissioni dalla carica di assessore nella giunta socialista presieduta da Giocondo Papi.

I fascisti lo odiavano e nel 1925 scampò alla “notte di San Bartolomeo” fiorentina (3-4 ottobre 1925) solo perché fuori città: non avendolo trovato in casa, gli squadristi spararono ai suoi vestiti appesi nell’armadio, in segno di macabra rappresaglia.

Trasferitosi a Milano si impegnò nell’attività clandestina entrando a far parte del Gruppo Erba, che era in contatto col Centro socialista interno. Difese inoltre numerosi antifascisti e, nel processo contro gli assassini di Matteotti, rappresentò la famiglia come avvocato di parte civile.

Dopo l’8 settembre, dovette riparare in Svizzera, dove raccolse fondi a sostegno dell’opposizione in Italia, tenne conferenze e collaborò a varie testate antifasciste (la Libera stampa, del Partito socialista ticinese, e la Voce socialista, giornale clandestino dei socialisti italiani nella Confederazione).

Targetti appartenne ad un partito, quello socialista, che qualche storico ha definito “inquieto”, soggetto ad una dialettica aspra e profonda sino alle vicendevoli fratture. Lo stesso Targetti attraversò durante la sua carriera politica le esperienze del PSU e dello PSIUP. Esperienze che visse come conseguenza di momenti drammatici per il socialismo. La prima si colloca nel periodo della salita al potere del fascismo. Quale fu la sua posizione all’interno del PSU?

Targetti si schierò subito a fianco di Matteotti, sostenendo la necessità della più recisa opposizione al fascismo, mentre un gruppo che faceva capo ai leader confederali riteneva possibile una “costituzionalizzazione” del fascismo stesso ed era quindi disposto ad una qualche forma di collaborazione col regime. Targetti, invece, non si fece mai nessuna illusione al riguardo.

Prima di passare al ruolo svolto nello PSIUP, è bene ricordare che Targetti fu anche un membro importante dell’Assemblea costituente e, per lungo tempo, vicepresidente della Camera dei deputati. Quali furono i suoi interventi più importanti alla Costituente?

In estrema sintesi, si può dire che Targetti sostenne la necessità di una costituzione “breve” (che fissasse cioè solo alcuni principi generali da attuarsi poi con leggi ordinarie), fu a favore delle regioni (memore dei guasti prodotti dal centralismo in Italia) e di una larga indipendenza del potere giudiziario dagli altri poteri dello stato.

Voglio poi ricordare che nel 1953 si dimise clamorosamente dalla carica di vicepresidente della Camera in segno di protesta contro la “legge truffa”, che violava il principio costituzionale dell’uguaglianza del voto, attribuendo di fatto un “peso” maggiore ai voti degli elettori delle liste apparentate.

Infine, perché decise di entrare nello PSIUP? E qual è la sua eredità come socialista?

Negli anni della seconda guerra mondiale Targetti aveva maturato il convincimento che la borghesia era pronta a tutto pur di non rinunciare ai suoi privilegi e che l’unità proletaria, cioè la più stretta unità d’azione fra socialisti e comunisti, fosse la condizione indispensabile per la difesa della democrazia, degli interessi dei lavoratori e per la realizzazione di riforme di struttura che facessero avanzare il Paese verso il socialismo.

L’alleanza del PSI con la DC, che comportava ovviamente la divisione a sinistra, la rottura con i comunisti, gli parve quindi inaccettabile, gli sembrò un passo che avrebbe finito con lo snaturare il PSI, riducendolo al ruolo di caudatario della DC al pari degli altri partiti di centro. Le ragioni della sua opposizione all’ingresso dei socialisti in un governo di centrosinistra organico e, quindi, della sua adesione allo PSIUP nel 1964 furono queste.

Quanto all’ultima parte della tua domanda, direi che la risposta ce la fornisce la biografia di Targetti stesso, cioè la biografia di uomo che ha lottato contro la dittatura, difendendo sempre la democrazia e gli interessi dei lavoratori nel segno di un socialismo non edulcorato.




“Caro Ilio…”. Barontini nelle lettere di “raccomandazione” dei “compagni”

Nella carte dell’ex Federazione del Partito comunista di Livorno, custodite presso l’archivio dell’Istituto storico della Resistenza e della società contemporanea (Istoreco), c’è un fascicolo pieno di lettere scritte da comuni cittadini a Ilio Barontini (qui un profilo biografico). E’ un fascicolo di una certa consistenza. Si tratta infatti di settantatre lettere inviate all’attenzione di Ilio. Sin dall’incipit compaiono delle differenze tra gli scriventi. Ci sono quelli che iniziano la lettera, appellandosi all’ ”Onorevole” o “all’Onorevole senatore”; ci sono quelli che si appellano al “caro compagno”; ce ne sono alcuni che scrivono semplicemente: “Caro Ilio”. Talvolta incontriamo chi gli pone con molta  bonomia e ingenuità, se vogliamo, il problema che scrivendo si è posto: “Come bisogna interpellare Ilio Barontini, senatore della Repubblica, con il tu perché lo conosciamo e perché siamo compagni uniti dallo stesso ideale, con il lei o con il voi?”[1]

Cosa chiedono e cosa raccontano queste lettere? Perché sono due cose diverse: una problematica è collegata a ciò che chiedono, e un’altra è ciò che raccontano a noi che siamo lontani da quel periodo, oltre 70 anni, poiché le lettere partono dal 1944 e arrivano al 1950, cioè alla vigilia della morte dello stesso Barontini, avvenuta per un incidente stradale a Scandicci nel gennaio 1951.[2]

Immagine Barontini da diap

Ilio Barontini

Per prima cosa proviamo  a guardare in modo analitico a questo carteggio. I diversi mittenti che in maggioranza sono uomini anche se non mancano le donne, presenti in tredici casi, scrivono più spesso a penna che con una macchina da scrivere. Essere compilate a mano è una scelta ovvia: la macchina da scrivere era un lusso di pochi, pochissimi, e ancora più piccolo era il numero di coloro che sapevano utilizzarla.  Non solo per ragioni di reddito ma anche per problemi legati al livello, assai scarso di alfabetizzazione. Sono spesso vergate su carta non deputata, fogli di quaderno e poco più. Erano nella stragrande maggioranza persone semplici che scrivevano con testi profondamente sgrammaticati, con calligrafie improbabili, tipiche di chi non era abituato a tenere la penna in mano. La prosa, l’espressione comunicativa era comunque una prosa diretta, senza giri di parole, immediata.

Scrivevano per chiedere sostegno per le più diverse cause, anche se poi tutte le motivazioni sono raggruppabili ad uno stato di bisogno profondo. Lo scopo di aiuto invece che predomina è quello relativo al riconoscimento di una pensione. Si ragiona intorno a richieste inevase per pensioni di guerra (padre o marito morto ucciso dai tedeschi, figlio o marito invalido a causa di una bomba e simili) già inoltrate da molto tempo, talvolta da oltre due anni, tre, e non ancora arrivate in porto. Tutti gli scriventi denunciano una grandissima difficoltà economica e spesso anche la mancanza di un tetto sul capo. Talvolta sono richieste di consiglio e di aiuto per ottenere pensioni da lavoro, soprattutto pensioni per le attività lavorative svolte in Francia, soprattutto in Corsica e a Marsiglia, luoghi dove Barontini era stato a lungo presente come fuoriuscito, e chi domanda è evidentemente convinto che Barontini possa intervenire con efficacia. Sicuramente Ilio aveva conosciuto direttamente la realtà di quei contesti, e la durezza del lavoro in terra straniera come emigrante, poiché anche se la sua emigrazione fu sempre e solo politica, con incarichi speciali dalla direzione del Partito comunista, certo non poteva essergli sfuggita la dura realtà di tutti quegli emigrati che univano nella loro condizione, sia la difficoltà dell’emigrato sospetto alla forze dell’ordine, che quella del disoccupato, che cercava di entrare nel mercato del lavoro per sopravvivere.

Spesso l’aiuto per lavorare, guarda alla città labronica, ma talvolta la domanda rinvia anche ad altri centri della regione. Sono abbastanza presenti i comuni dell’isola d’Elba, ma compaiono anche luoghi lontani da Livorno come: Giulianuova, Sondalo, Bologna, Firenze, Roma, Modena, Volterra, Reggello, Cecina, Montescudaio etc. In quel lontano e pesantissimo secondo dopoguerra, a causa delle immani distruzioni belliche molti non hanno più trovato la possibilità di rientrare là dove lavoravano prima del 1940 e adesso cercano in Barontini un appoggio. Le richieste che si avanzano sono quasi tutte modeste. Si domanda lavoro come operai, come boscaioli nei cantieri di rimboschimento, come edili e poco più. Solo in alcuni casi, adducendo la maggiore istruzione che si può mettere in gioco, si chiede di fare l’impiegato, talvolta l’impiegato bancario e,  solo in un caso, questa richiesta è avanzata con un tono di aperta arroganza.

Ma ci sono anche domande di aiuto per ottenere la liquidazione di un credito da parte degli Americani che hanno prelevato da un magazzino–deposito, diverse tonnellate di carbone e poi hanno lasciato il debito insoluto. Un altro piccolo gruppo di missive riguarda un gruppo di militanti malati e ricoverati in un ospedale ortopedico di Bologna, il Putti, dove Barontini ogni tanto si recava in visita perché era diventato un istituto di assistenza per molti ex partigiani.

Lettera

Una delle lettere a Barontini conservate nell’Archivio Istoreco

Ci sono anche alune lettere di ex combattenti che desiderano il riconoscimento di una pensione, e poi incontriamo la richiesta di una donna, Simoncini Silvana, che desidera l’attribuzione della qualifica di partigiana combattente[3]. Una lettera importante anche per la sua eccezionalità. Come sappiamo dalla storiografia e dalle memorie, furono pochissime le donne che, pur avendo combattutto nei gruppi combattenti, chiesero poi di veder riconosciuto il loro impegno.

Un altro gruppo riguarda alcuni disoccupati delle Ferrovie dello Stato, licenziati per motivi politici per gli scioperi del 1920 e del 1921, che chiedono il reintegro o l’adeguamento della pensione[4]. Come possiamo comprendere una varietà significativa di contenuti, tutti contrassegnati però da un bisogno materiale che è anche la testimonianza di una ingiustizia sociale.

Al di là dell’oggetto della lettera è evidente la minore presenza di richieste provenienti dalla città labronica. Questo significa soltanto che i livornesi preferivano avere un colloquio diretto con Barontini poiché il senatore era spesso in città e non era difficile raggiungerlo in Federazione dove svolgeva con assiduità e autorità il compito di segretario. Egli era sì un grandissimo personaggio, che fra i militanti del suo partito emanava certamente ammirazione, rispetto, qualche volta anche timore, ma non agiva sui suoi interlocutori con la forza del mito. Era percepito, soprattutto dagli uomini e dalle donne della sinistra di Livorno, come “uno dei loro”, burbero quanto si voglia, ma diretto e senza atteggiamenti altezzosi.

Fra le altre c’è una lettera particolarmente commovente nella sua ingenuità. È stata scritta da una donna, De Santis Anna che, dal sanatorio di Villa Corridi a nome suo e anche dell’amica, Gina Freschi, scrive chiedendo del denaro:

[…] Siamo due ragazze molto giovani, che ci ha condotto in questo sanatorio di Livorno che ci ha colpito un male che non perdona, siamo orfane di padre e di madre e non abbiamo nessuno che ci aiuti… abbiamo tanto bisogno, che siamo veramente scalze di tutto, specialmente ora che siamo giunte all’inverno non abbiamo niente da coprirci…. Che siamo anche noi compagne. Il numero della tessera è 1064929. [5]

L’amica è di Roma anche lei è tesserata  al Pci ma ha lasciato a casa la tessera e la scrivente non può quindi indicare il numero a riprova della sua fede politica.

Accanto ad una missiva così diretta e semplice, la più semplice dell’intero deposito, ce n’è una che possiamo definire curiosa. Il mittente chiede al senatore comunista di parlare con Scelba perché vorrebbe entrare in Polizia.[6] Forse gli era sfuggito il clima della guerra fredda o riteneva Barontini capace di fare miracoli!

Ma cosa ci raccontano sulla vita, l’esistenza dei singoli, le condizioni di lavoro queste lettere? Molto anche senza darlo ad intendere, direi come un effetto secondario e quasi superfluo per il mittente e il destinatario di allora che condividevano lo stesso contesto di riferimento, ma non per noi, lettori di oggi, che, attraverso queste scritture, veniamo avvolti dalla durezza degli anni postbellici.

Il primo dato che emerge, forse anche un po’ scontato per chi si occupa regolarmente di storia, è la condizione di grande precarietà che attanagliava le famiglie italiane, sia sul piano delle abitazioni, ancora in gran parte distrutte, che su quello della possibilità di trovare un salario anche solo per la mera sopravvivenza fisica dentro quel presente. A riprova, ricordiamo che da una di queste missive, proveniente da Firenze, datata 1950, nella quale prende la parola un livornese. Costui, costretto per ordine dei tedeschi, allo sfollamento dal 13 novembre 1943, si trova ancora, dopo 7 anni, lontano da Livorno e non sa dove sbattere il capo. Dichiara fra l’altro che gli è terminata l’erogazione del sussidio per gli sfollati pari a £ 125, e senza quel piccolo aiuto, adesso è caduto in una condizione di prastrazione gravissima, senza casa, senza lavoro, senza sostegno alcuno.[7]

Questa lettera e molte altre simili, del deposito archivistico sul quale ragioniamo, ci racconta anche la farraginosità della macchina burocratica nazionale. Ricordiamoci che si trattava di una macchina organizzata dal fascismo – che ancora a distanza di 5 anni dalla fine del conflitto, così come non era riuscita ad attribuire la sacrosanta pensione alle vittime della guerra, aveva cominciato solo da poco una ricostruzione lenta e a macchia di leopardo e dal punto di vista complessivo si carretterizzava per una continuità significativa con il passato regime.[8]

Cantina Togliatti2

Ilio Barontini (al centro in piedi, con la cravata e le mani in tasca) in una foto di gruppo con Togliatti e Nilde Iotti (Archivio Istoreco, Livorno)

Ma ci raccontano ancora di più e meglio. Ci raccontano la pesantezza del clima della ricostruzione dove accanto alla gioia per la fine del conflitto, la fine dei bombardamenti, va accostata la disperazione per la perdita della casa, la ricerca di un impiego là dove non si intravedevano possibilità a portata di mano perché non solo il tessuto urbano era andato distrutto ma anche le fabbriche, le officine, i porti, erano saltati in aria e, noi che scriviamo adesso, sappiamo che molte di queste attività lavorative mai più riprenderanno.

Ecco allora ecco la reiterata richiesta di partecipare ai cantieri di rimboschimento che furono un modo neppure troppo larvatamente assistenziale, ma assolutamente giustificato, di togliere disoccupati dalle strade. Ricordo che lo stesso Piano del Lavoro della Cgil[9] che voleva indicare verso quali attività indirizzare la ricostruzione, e che sottointendeva un progetto ponderato ed articolato, dall’altra parte però cercava e, in parte riuscì, a far partire una serie di attività lavorative – oggi si direbbero lavori socialmente utili – che tamponavano la disoccupazione dilagante, appesantita fra l’altro dal blocco dei salari. Così come il Piano Casa, cosiddetto Piano Fanfani[10], aveva come primo scopo esplicito la lotta alla disoccupazione.

Ma queste lettere ci dicono qualcosa di più soprattutto sull’etica di quelli che scrivevano. Queste persone, uomini e donne cercavano una risposta, una solidarietà, più che un appoggio clientelare rivolgendosi al proprio rappresentante politico di più alto grado, a quel politico che era così diverso da loro, inviato a rappresentarli in Parlamento e nell’Assemblea Costituente, ma così vicino alla loro comunità di appartenenza da potergli scrivere e “aprirgli il cuore”. Non si facevano richieste illegittime, non si chiedevano privilegi. Chiedevano di lavorare e lo facevano tramite il rappresentante locale del Partito più importante del mondo del lavoro di allora, il primo partito della città di Livorno, il Partito comunista italiano. Scrivevano sicuri che Ilio avrebbe preso nota, che avrebbe fatto direttamente o indirettamente qualcosa, e questo era anche confermato dalle stesse missive perché spesso i mittenti ritornavano sulla loro richiesta per ringraziare, per informare Barontini che qualcosa si era mosso, qualcosa si era risolto. Barontini veniva visto, cosa che oggi pare davvero lontana anni luce dalla realtà odierna – un politico non solo vicino alle persone, ma lui stesso persona in mezzo ad una massa di uomini che si ritenevano solidali per idee, per obiettivi, per percorsi di vita. Barontini era il loro migliore rappresentante, quello che si era evidenziato di più, che era salito più in alto, ma per coerenza, per coraggio, per intelligenza, senza camarille di potere, senza giochi di corrente, a  testa alta, e spesso anche controcorrente tra i suoi, e questo lo rendeva ancora più forte e più autorevole agli occhi dei militanti di base. Questi testi ci documentano anche come Barontini ebbe effettivamente una capacità di ascolto adatta a quei singoli ed umili mittenti, così come seppe ascoltare, in altri contesti, altri leaders, anche internazionali, rimanendo fedele a sé stesso e alla sua storia.

E in questo nostro presente, ci raccontano che un altro rapporto con la politica è possibile, sia dalla parte dei rappresentanti che dalla parte dei rappresentati. La storia non si ripete mai e neppure è abituata a progredire, ma è anche vero che potremmo provare con modalità diverse, adatte ai nostri tempi, a ricostruire perlomeno qualcosa di simile, ad avere fiducia negli eletti, a pretendere una selezione adeguata dei medesimi. Occorre però il coinvolgimento di tutti, che tutti si ritorni ad essere più soggetti partecipi e meno telespettatori.

 [1] Archivio Istoreco, Fondo Pci, Busta 39, Sottofascicolo di “Barontini Pci”: Raccomandazioni Lettera di Alberto De Pasquale dell’8 febbraio 1950, dal Cavo (Elba)

[2] Ilio Barontini (Cecina 1890-Scandicci 1950).

[3]Archivio Istoreco, Fondo Pci, Busta 39, Fascicolo Lettere a Barontini. Lettera del 29 maggio 1949 di Simoncini Bigongiari Silvana da Pisa.

[4] Ibidem. Si tratta di Ciurli Gino, Vaselli, Scappini di Empoli, il padre di Mario Piselli da Roma, Stefani Oreste, Luigi Guarnelfi da Roma, Modesti Arno di Montescudaio. Tutte lettere collocate tra il maggio 1948 e il luglio 1950.

[5] Ibidem. Lettera scritta a Livorno il 5 dicembre 1950. Scritta a mano e appellandosi a Barontini con: “all’onorevole”

[6] Ibidem. Lettera del 27 giugno 1950, da Giulianuova a firma di Santucci Vincenzo.

[7] Ibidem. Lettera del 28 maggio 1950 di Oscar Benedetti.

[8] Cfr. Claudio Pavone, Alle origini della Repubblica. Scritti su fascismo, antifascismo e continuità dello Stato, Bollati Boringhieri, Torino, 1995.

[9] Fabrizio Loreto, Storia della Cgil. Dalle origini ad oggi, Ediesse, Roma, 2009.

[10] La grande ricostruzione. Il piano Ina-Casa el’Italia degli anni ’50 ( a cura di Paola Di Biagi), Donzelli, Roma, 2001