Giuseppe Piccinetti, un socialista “di carattere ardito”.

Nel centenario della sua drammatica uccisione, la popolare figura di Giuseppe Piccinetti appare di assoluto rilievo nella storia del socialismo livornese, anche se del tutto trascurata dalla storiografia locale[1].
Nato a Livorno il 12 febbraio 1876, figlio di Silvestro ed Eufemia Terzetti, la sua vita e la sua militanza risultano strettamente legate al quartiere di S. Jacopo, abitato soprattutto da operai e qualche pescatore, a ridosso del lungomare, dove all’epoca vi erano concentrate alcune vetrerie e una fonderia.
Dal fascicolo del Casellario Politico Centrale a lui intestato – da non confondersi con l’omonimo militante comunista, suo nipote[2] – è possibile desumere varie informazioni biografiche[3].
Dopo aver frequentato le prime classi elementari, iniziò a lavorare da muratore, venendo poi assunto come cantoniere comunale (stradino). «Anarchico di nascita, ma socialista fin da gioventù», assunse ruoli politici e sindacali di primo piano.
Nell’aprile del 1906 venne eletto, con il maggior numero dei voti (892, due più di Russardo Capocchi, segretario della FIOM), nella giunta esecutiva della Camera del Lavoro nonché nominato segretario della Camera stessa. Nel maggio seguente anno, «unico renitente al crumiraggio», fu punito con una sanzione disciplinare dall’Amministrazione municipale per essersi rifiutato di sostituire i netturbini comunali in sciopero[4]. Nel 1909, risultò confermato nella giunta camerale con 1040 voti, così come nel giugno 1919.
Inoltre, dal 1904 al 1910, fece parte del consiglio della Cooperativa di Consumo “Avanti” con sede presso la Vetreria Operaia Federale, in piazza delle Isole (dal 1903 p.za Brin), in S. Jacopo.
Già nel gennaio 1914, «accusato di reato ideologico, come impiegato comunale e dirigente sindacale», era stato oggetto di una denuncia per aver sostenuto lo sciopero dei dazieri, venendo difeso da un comitato d’agitazione, promosso dai socialisti in sua solidarietà («Corriere di Livorno», 30 gennaio 1914); ma risale all’ottobre seguente

Via dell’Eremo n. 1

la sua “schedatura” da parte degli organi di polizia, quale socialista, abitante in via dell’Eremo 1, coniugato con Maria Lubrano (1883-1967) e, dal 1906, padre di Bruno (futuro militante comunista[5]).
Nello stilarne il “profilo biografico”, vennero annotati i suoi “precedenti” giudiziari, per lo più legati a reati inerenti la stampa, in quanto oltre che collaboratore fu per diversi anni gerente responsabile de «La Parola dei Socialisti», il giornale della sezione livornese, fondato nel 1901.
Sempre secondo la polizia, inoltre, era in relazione con i socialisti livornesi Francesco Ulivelli, Umberto Cei, Riccardo Pierotti, Guido Tognetti, Italo Della Croce e, ovviamente, Giuseppe Emanuele Modigliani.
«Nel 1909, la sera del 12 ottobre fu Giuseppe Piccinetti che in sede di Consiglio dei Delegati delle Leghe adunate alla Camera del Lavoro chiese ed ottenne l’immediata proclamazione dello sciopero generale di protesta per l’assassinio di Francisco Ferrer. Si formarono le squadre e il Piccinetti fu tra i migliori organizzatori. La notizia dello sciopero venne subito portata dal Piccinetti stesso in Consiglio Comunale, adunato in sessione ordinaria e Modigliani Consigliere di minoranza dell’Amministrazione Malenchini prese la parola e commemorò in un religioso silenzio il fondatore della Scuola Moderna Francisco Ferrer. Il movimento riuscì in pieno e fiera fu la protesta della Livorno anticlericale».
Durante la Settimana rossa, il 10 giugno 1914, Piccinetti cercò «di fare opera pacificatrice, quando elementi facinorosi tentano con forza di invadere la Camera del Lavoro, devastandola, perché non soddisfatti dell’ordine di cessazione dello sciopero dato dalla Confederazione Generale del Lavoro».
Nonostante che nell’opinione questurina fosse ritenuto «di mediocre intelligenza» e «alcuna coltura», ebbe a dimostrarsi un efficace oratore, tenendo numerosi comizi e conferenze socialiste, partecipando anche al comizio anticlericale del 22 maggio 1913[6] e all’inaugurazione del Circolo di studi sociali l’8 dicembre dello stesso anno, assieme all’anarchico Virgilio Mazzoni di Pisa.
Ma fu soprattutto, fra il novembre 1914 e il maggio del 1915, che si mise in evidenza tenendo almeno una decina di conferenze contro la guerra, quasi tutte presso la sezione socialista di S. Jacopo, in p.za Benedetto Brin 2 (dal 1948 p.za G. E. Modigliani)[7].
Dalla relazione prefettizia riguardante la riunione svoltasi il pomeriggio del 9 maggio 1915, alla presenza di 150 persone, si apprende che Piccinetti, segretario della sezione, aveva aperto l’incontro, «annunziando che lo scopo della riunione era di discutere sulle eventualità molto prossime dell’intervento dell’Italia alla guerra Europea, che i socialisti non sono riusciti a scongiurare»; poi il socialista «si dilungò a dimostrare come l’intervento sia voluto più che altro dai capitalisti borghesi, che hanno interesse, e quindi premono sul governo come tentano di premere sulle masse per trascinarlo al macello. Disse che non spetta a loro difendere la sorella latina e che il proletariato risentirebbe gravissimo danno, se si lasciasse affascinare dagli interventisti al momento della mobilitazione. Concluse: “abbasso la guerra borghese – abbasso gli interventisti di ogni partito”»[8].
Pochi giorni dopo, con l’Italia ormai prossima ad entrare nel conflitto, il 14 maggio Piccinetti fu tra gli “antinterventisti” fermati per gli incidenti avvenuti in piazza Vittorio Emanuele[9] e l’indomani guidò in piazza Mazzini un’ultima manifestazione non autorizzata, subito sciolta dalle forze dell’ordine, di un centinaio di anarchici e socialisti[10]. In tale occasione Piccinetti venne indicato dalla polizia come socialista rivoluzionario ed arrestato, assieme ad altri sette antinterventisti, nonché incriminato per un grande cartello con «scritte sediziose» subito sequestrato.
A seguito della dichiarazione di guerra, venne subito richiamato alle armi e, dopo un primo ricovero presso l’Ospedale militare, fu inviato al fronte sul Piave, a Cavazuccherina (Ve), inquadrato quale caporale nel 199° Battaglione di Milizia territoriale, previa segnalazione alle autorità militari per vigilanza in quanto pericoloso antimilitarista.
Dopo un nuovo ricovero ospedaliero – per malattia venerea – di tre mesi in Sardegna, nel dicembre 1917 fu rinviato in zona di guerra, sempre a Cavazuccherina, venendo quasi subito denunciato al Tribunale militare di Venezia che lo condannò soltanto ad un anno e sette mesi di carcere militare (da scontare alla fine della guerra) e Lire 1000 di multa per «vilipendio dell’Esercito», grazie alla difesa assicurata dall’avvocato G. E. Modigliani, ma fu degradato ed assegnato ad una Compagnia di disciplina[11].
Tornato a Livorno a seguito dell’armistizio, Piccinetti continuò il suo impegno contro il militarismo e già il 29 dicembre 1918, quando «Mussolini venne a Livorno per un comizio al Politeama Livornese. Dopo il comizio inaugurò alla sede della Banca Commerciale una lapide e cogli applausi volarono anche i fischi. Piccinetti, presente alla cerimonia, coraggiosamente domandò la parola, ma un nugolo di poliziotti lo circondò e glielo impedì, facendolo immediatamente allontanare»[12].
Poche settimane dopo, il 2 febbraio 1919, Piccinetti potè invece intervenire in contraddittorio alla conferenza “Ai combattenti”

San Jacopo

tenuta dal tenente vicentino Michelangelo Zimolo (di lì a poco promotore del movimento fascista e in seguito gerarca di regime) sempre al Politeama, obbiettando che «la guerra ha ribadito le catene» tanto da essere interrotto dal funzionario di PS presente, a cui fecero seguito l’accompagnamento in Questura e relativa ammonizione.
Il 12 marzo seguente, secondo rapporto di polizia, Piccinetti avrebbe costituito a S. Jacopo il Circolo ricreativo socialista “Carlo Liebknecht” e, nel giugno successivo, venne ancora eletto nella giunta esecutiva della Camera del Lavoro. Nello stesso periodo, faceva parte anche del direttivo della sezione livornese della Lega proletaria MIROV (Mutilati Invalidi Reduci Orfani Vedove di guerra) e ne fu anche segretario[13].
Con tale ruolo nella Lega proletaria degli ex-combattenti di sinistra contribuì alla formazione delle strutture di difesa proletaria. La costituzione delle Guardie rosse fece infatti seguito alla decisione di organizzare una quarantina di aderenti alla Lega proletaria, scelti fra i circa duemila iscritti, per sostenere gli scioperi e difendere le agitazioni proletarie, così come era stato concordato dal socialista Piccinetti e dall’anarchico Augusto Consani che rappresentavano le rispettive componenti all’interno della Lega stessa[14].
Piccinetti partecipò quindi ai lavori del cruciale XVII Congresso socialista come componente di commissione, confermando la propria adesione al Partito socialista.
Per contrastare lo squadrismo fascista, nell’estate dello stesso anno, dopo la costituzione anche a Livorno degli Arditi del popolo, Piccinetti nel suo quartiere «ne fu l’animatore. Lo vedemmo sempre in testa indrappellato per le vie di S. Jacopo con la borraccia e il tascapane a tracolla contro le invadenti orde fasciste […] pronto a tutto»; infatti, le cronache confermano che nel rione operò una combattiva struttura ardito-popolare.
Il 27 ottobre 1925, attorno alle 13.30, in via del Camposanto (l’attuale via F. Pera), mentre Piccinetti si avviava al lavoro leggendo l’«Avanti!», gli furono esplose cinque rivoltellate, delle quali due andate a segno.
Ricoverato all’Ospedale civile in condizioni disperate, l’indomani fu operato da una equipe medica che gli estrasse un proiettile conficcato nella regione lombo sacrale – evidentemente sparato alle spalle – ma cessò di vivere nella stessa giornata, assistito da familiari e compagni, dopo aver confermato la fedeltà ai propri ideali. Il 28 ottobre ricorreva il terzo anniversario della Marcia su Roma e sulla stampa locale la sua uccisione fu derubricata come un delitto compiuto da un collega di lavoro – tale Ivo Spagnoli – ritenuto squilibrato di mente («Il Telegrafo», 29 e 30 ottobre 1925). Sconcertante la conclusione delle autorità di polizia secondo cui era deceduto: «non per motivi politici, ma perché fanatico seguace delle idee socialiste, e fu uno dei maggiori esponenti del partito in questa città». Tra i socialisti rimase infatti il dubbio che le ragioni dell’omicidio non fossero soltanto private (questioni di lavoro o gelosia, secondo le insinuazioni giornalistiche) e «profondo fu lo sdegno particolarmente contro i sicari più che per la persona scelta per il delitto».
Dopo il funerale con rito civile e la cremazione, i suoi resti furono accolti presso il Tempio cinerario del Cimitero della Cigna, ma vennero poi traslati nella tomba della moglie, deceduta nel 1967, presso lo stesso Cimitero (Blocco 1, gruppo 11).
Dopo la Liberazione, l’8 luglio 1945, era stato commemorato da socialisti e comunisti presso la Sezione socialista di S. Jacopo («Il Tirreno», 8 luglio 1945) che però sarebbe stata intitolata a R. Capocchi – F. Turati, e su «La Parola dei Socialisti» del 3 novembre 1946 fu ricordato con un articolo scritto da Gino Mannucci, suo compagno dai tempi dell’opposizione alla guerra[15].

NOTE

1 Basti dire che nel fondamentale testo di Nicola Badaloni e Franca Pieroni Bortolotti, Movimento operaio e lotta politica a Livorno 1900-1926 (Roma, Editori Riuniti, 1977); Piccinetti appare citato soltanto per la sua morte violenta. La figura e il ruolo di Piccinetti emergono invece nel saggio collettaneo Le voci del lavoro. 90 anni di organizzazione e di lotta della Camera del Lavoro di Livorno, Napoli-Roma, Edizioni Scientifiche Italiane, 1990.
2 Giuseppe Vito Egisto Piccinetti, di Antonio e Corinna Celati, nato a Livorno il 2 settembre 1902, trapanista meccanico presso il Cantiere navale Orlando, abitante in via S. Jacopo Acquaviva 38. Nel 1935 fu denunciato al Tribunale Speciale per associazione comunista e poi condannato ad un anno di carcere, scontato in attesa di giudizio (Sentenza n. 23 del 1936). Si veda Mario Tredici, L’inchiesta, la spia, il compromesso. Livorno 1935: processo ai comunisti, Livorno, Media Print, 2020, passim.
3 Archivio Centrale dello Stato, Casellario Politico Centrale, Busta 3941.
4 «Prima di tutto io ritenni, e ritengo ancora, di non essere obbligato ad assumere, sia pure in via straordinaria, il servizio di nettezza urbana […] al secondo ordine di ragioni […] ho rifiutato perché era mio diritto rifiutare, e mi sono valso di questo diritto per una manifestazione di solidarietà operaia» (Lettera di Piccinetti al Sindaco del 18 maggio 1906, Archivio storico del Comune di Livorno).
5 Bruno Piccinetti nato a Livorno il 28 agosto 1906, occupato come cameriere e scalpellino, abitante in via dell’Eremo 2, fu arrestato nel novembre 1926 per organizzazione comunista a Venezia mentre prestava servizio militare in Marina, poi prosciolto dal Tribunale Speciale ma confinato a Ponza e Lipari per 3 anni, dove venne ripetutamente condannato per agitazioni collettive. Liberato nel gennaio 1932, subì un nuovo arresto, assieme al cugino Giuseppe, sempre per organizzazione comunista, nel gennaio 1935 e condannato dal Tribunale Speciale a 3 anni di reclusione a Civitavecchia. Liberato per amnistia nel marzo 1937, era ancora vigilato nel 1941 (CPC). Cfr. M. Tredici, L’inchiesta, la spia, il compromesso…, cit., passim.
6 Il comizio, promosso dal circolo “F. Ferrer”, si svolse in p.za B. Brin, in contrapposizione con la processione del Corpus Domini, e vi intervennero come oratori, oltre a Piccinetti, l’anarchico Virgilio Mazzoni e l’on. socialista G. E. Modigliani («Gazzetta livornese», 23-24 maggio 1913).
7 Si rimanda a Marco Rossi, Livorno antimilitarista. Cronache dell’opposizione alla guerra (1911-19119), Ghezzano, BFS, 2025.
Comunicazione del Prefetto di Livorno al Ministero dell’Interno del 10 maggio 1915 (Archivio Centrale di Stato, Ministero dell’Interno, Direzione Generale di Pubblica Sicurezza, Divisione Affari Generali Riservati, B. 101, F. 219, Sf. 1 “Livorno. Comizi e conferenze varie pro e contro la guerra”).
8 Complessivamente, vennero eseguiti 38 fermi di polizia. Secondo il rapporto del Prefetto, «fu dato ordine di arrestare, senz’altro, quelli già noti come pericolosi per l’ordine pubblico»: ben nove erano facchini ed almeno sei risultavano anarchici schedati (Armando Campolmi, Alfredo Cozzi, Gino Moretti, Natale Moretti, Oreste Piazzi e il diciassettenne Maceo Del Guerra).
9 Nella piazza si stava radunando un centinaio di dimostranti, per lo più anarchici e socialisti rivoluzionari, appoggiati da «un gran numero di donne», con alcuni cartelli quando l’assembramento fu sciolto con la forza; furono arrestate 8 persone che, secondo l’autorità di polizia, avevano reagito con una violenta sassaiola. Tra i fermati, rilasciati l’indomani, vi erano gli anarchici Ezio Guantini e Dino Bartolini, i socialisti Giovanni Cerri, Giulio Lucarelli ed ancora Giuseppe Piccinetti quale principale organizzatore. («Gazzetta livornese», 16-17, maggio 1915).
11 La circostanza è ricordata da Giuseppe Funaro nell’articolo Vita livornese di G. E. Modigliani, pubblicato su «La Rivista di Livorno», n. 5, sett.- ott.. 1952 (poi in «CN – Comune Notizie», n. 82 gen – mar. 2013).
12 Alla manifestazione, promossa dalla Associazioni patriottiche e tenutasi presso il Politeama, il discorso di Mussolini fu improntato all’antisocialismo e all’antibolscevismo, contrapposti alla «aristocrazia delle trincee» e di nuovo questi intervenne al momento dello scoprimento della lapide posta sulla facciata esterna della Banca Commerciale in p.za Cavour (il testo completo del discorso di Mussolini e la cronaca della commemorazione si trovano sulla «Gazzetta livornese» del 30-31 dicembre 1918).
13 La sezione livornese della Lega MIROV aveva sede presso la Camera del Lavoro, in via Vittorio Emanuele (ora via Grande), nei pressi di piazza Colonnella, e vi erano associati ex combattenti socialisti, repubblicani di sinistra e anarchici. Nel 1922, oltre a Piccinetti, del consiglio facevano parte Corrado Pagliai (segretario); il repubblicano Ezio Pini (cassiere); Virgilio, Angelo, Volpi; Guglielmo Bartolini; Werner Carlo Marquardt; Angelo Pagani; Dante Quaglierini; Antonio Ramacciotti ed Armando Tellini, mentre Giuseppe Barontini, Omero Catarsi e Sante Mattei erano incaricati per la Commissione per l’ammissione dei soci («La Parola dei Socialisti», 5 gennaio 1922; «Avanti!», 8 febbraio 1922). Cfr. Gianni Isola, Guerra al regno della guerra! Storia della Lega proletaria mutilati, invalidi, reduci, orfani e vedove di guerra (1918-1924), Firenze Lettere, 1990.
14 Successivamente, le Guardie rosse si sarebbero attivate nel settembre 1920 durante l’Occupazione delle fabbriche, poi nel gennaio del 1921 assicurando la protezione antifascista del XVII Congresso nazionale del Partito socialista e, sei mesi dopo, sarebbero in gran parte confluite negli Arditi del popolo.
15 Gino Mannucci, nato nel 1895, tipografo, era stato un attivo militante della Federazione giovanile socialista e suoi interventi risultano segnalati in vari rapporti della Questura che lo riteneva un socialista rivoluzionario. Il 23 dicembre 1914, in occasione di una riunione presso il Circolo repubblicano “Italo Possenti” in via Provinciale pisana, intervenne, in contraddittorio, sostenendo le ragioni della neutralità e l’11 aprile 1915 fu arrestato per aver distribuito volantini riproducenti le vignette antibelliciste di Scalarini pubblicate sull’«Avanti!». Nell’importante riunione della Federazione socialista livornese del 15 settembre 1917, appoggiò la mozione maggioritaria presentata da Russardo Capocchi, a favore dello sciopero generale rivoluzionario; mentre, il 23 febbraio 1918, parlò alla riunione di una trentina di giovani socialisti di S. Jacopo, ospitata presso il Circolo socialista d’Ardenza, «sull’attuale momento politico e la rivoluzione russa».




Costanzo Ciano e il controverso affondamento della “Viribus unitis” (1° novembre 1918)

Tra le numerose onorificenze conferite a Costanzo Ciano (Livorno 1875 – Ponte a Moriano 1939), “eroe navale” nonché ricchissimo armatore e gerarca ministeriale del regime fascista, è annoverata quella di Commendatore dell’Ordine Militare di Savoia, attribuitagli il 19 gennaio 1919; tale riconoscimento rimane però il più controverso ed anche il meno conosciuto fra quelli ricordati nelle biografie – sia agiografiche che critiche – del noto esponente militare, politico e imprenditoriale livornese.
L’attribuzione onorifica della “commenda” era infatti legata ad un episodio bellico, costato la vita a circa trecento marinai (le stime a riguardo oscillano fra 250 e 350) quando ormai il conflitto si era virtualmente concluso; inoltre, poneva non poche ombre sull’atteggiamento morale e la fama dell’intrepido “violatore” di porti nemici[1].
L’azione di guerra in questione avvenne nella notte fra il 31 ottobre e il 1° novembre 1918, nel porto adriatico di Pola (Pula), base strategica della Marina austro-ungarica, dove furono affondate la corazzata “Viribus unitis” e la nave passeggeri “Wien” del Lloyd Austriaco ad opera di due ufficiali della Regia Marina italiana, mentre a Padova erano in corso i negoziati per stipulare l’armistizio fra Italia e Austria-Ungheria, poi formalizzato il 3 novembre con la firma delle rispettive delegazioni che, il giorno seguente, mise fine alle ostilità.
L’imperatore Karl I d’Asburgo, fin dal 16 ottobre 1918, aveva emanato un proclama che offriva la trasformazione della Duplice Monarchia in uno stato federale. Tra i provvedimenti connessi, era prevista la cessione della flotta imperial-regia alla nuova, ipotetica, federazione jugoslava, ossia dei Croati e degli Sloveni.
Di fatto, dunque, fin dal 17 ottobre era da ritenersi conclusa per l’Austria la guerra sul fronte navale.
Il 29 ottobre, il Comando supremo delle forze armate austriache aveva quindi accettato le condizioni per la resa imposte dalle forze alleate, fra cui la consegna dell’intera flotta alle nazioni vincitrici e il 30 ottobre, venerdì, l’imperatore Karl I aveva preventivamente disposto la consegna della flotta al Consiglio nazionale degli Sloveni, Croati e Serbi[2].
Infatti, fin dal pomeriggio del 30, sulle unità navali ancorate nel porto di Pola erano state ammainate le bandiere austriache, per essere sostituite da quelle croato-slovene. Sulla “Viribus unitis”, prontamente ribattezzata “Jugoslavija”, la bandiera imperiale venne ammainata alle ore 16.45 del 31 ottobre e, poco dopo, furono issate le bandiere croato-slovene sui due alberi principali della nave, così come altrettante bandiere rosse, salutate da 21 salve di cannone. Molti marinai avevano già cucito sui berretti i distintivi jugoslavi, mentre il comando della flotta era stato trasferito, su decisione del Consiglio nazionale jugoslavo, al capitano di fregata, croato, Janko Vukovič von Podkapelski che sarebbe perito nell’affondamento.
A terra, come a bordo delle navi ormeggiate, marinai, soldati e operai dell’Arsenale militare, oltre a festeggiare la fine della guerra, avevano formato comitati dei soldati e dei marinai, alla stregua di soviet, secondo le rispettive nazionalità (austriaci, boemi, cecoslovacchi, polacchi, ucraini, ungheresi e romeni), reclamando l’immediato congedo ed issando bandiere coi colori nazionali ma anche rosse. Anche la città era in tumulto e ovunque erano apparse bandiere italiane.
L’equipaggio effettivo della corazzata – 1.087 uomini tra marinai, sottufficiali e ufficiali – era assolutamente composito: 47% slavi (croati, sloveni, serbi…), 20% ungheresi, 16% austriaci, 15% italiani. Alcuni marinai di nazionalità austriaca ed ungherese erano già sbarcati, altri (inclusi gli italiani) sarebbero partiti l’indomani; il restante equipaggio era formato solo da sloveni e croati. Nessuno avrebbe più obbedito e combattuto e, nell’illusione della pace ormai venuta, sia in città che sulle navi, si era rinunciato alle misure d’oscuramento e la vigilanza era stata allentata.
L’obiettivo dell’incursione subacquea, la “Viribus unitis”, varata il 24 giugno 1911 a Trieste ed entrata in servizio nel 1912, assumeva una valenza simbolica in quanto ammiraglia della flotta imperiale. Inoltre, a fine giugno 1914 aveva riportato a Trieste le salme dell’erede al trono Franz Ferdinand e della consorte Sofia, uccisi nel fatidico attentato di Sarajevo e, il 24 maggio 1915, aveva partecipato al bombardamento navale di Ancona. Costata 67 milioni di corone, dal punto di vista militare, era risultata inadatta alla guerra marittima nell’Adriatico ed infatti, nel corso del conflitto, la “dreadnought” rimase quasi sempre alla fonda nel porto di Pola.

LA MISSIONE IN EXTREMIS

La missione di guerra subacquea, a lungo progettata, divenne operativa il 29 ottobre quando giunse a Venezia il telegramma con l’ordine di esecuzione immediata, da parte dell’ammiraglio Paolo Thaon di Revel, Capo di Stato maggiore della Marina italiana, impartito al capitano Costanzo Ciano, capo dell’Ispettorato dei Motoscafi Antisommergibili[3].
Alle due pomeridiane del 31 ottobre 1918, due torpediniere (65-PN e 66-PN) e due Mas (94 e 95), a traino di queste, lasciarono dunque il porto di Venezia, al comando di Ciano, imbarcato sulla torpediniera 65-PN[4].
Verso sera, secondo il piano prestabilito, il Mas 95, su cui prese posto Ciano, fu “mollato” dalla torpediniera e fece rotta verso Pola, trasportando a bordo la “mignatta” S2, ossia un siluro modificato e munito, a prua, di due cariche esplosive magnetiche con 175 kg di tritolo ciascuna. Giunto nei pressi delle Isole Brioni, a circa tre miglia da Pola, il Mas 95, alle 22.13, mollò la “mignatta” lasciandola alla guida dei due “incursori” subacquei che, dopo circa quattro ore di navigazione semi-sommersa, riuscirono a superare gli ultimi sbarramenti del porto e raggiungere l’obiettivo. Non senza difficoltà, una delle due cariche fu

Mignatta (Museo navale La Spezia)

assicurata allo scafo della ex “Viribus unitis”, mentre l’altra, innescata e trasportata dalla “mignatta” abbandonata alla deriva, sarebbe finita nei pressi del piroscafo “Wien” affondandolo, senza causare altre vittime. I due «motonauti», scoperti e condotti a bordo della corazzata, avvisarono il comandante che la nave stava per saltare in aria, ma a causa di un ritardo del meccanismo ad orologeria, l’equipaggio tornato a bordo, dopo un primo abbandono, fu tragicamente coinvolto dell’esplosione e nel rapido naufragio della nave da battaglia, ormai non più “belligerante”.
Le ragioni di tale affondamento restano controverse; se forse i due “incursori” erano all’oscuro che ormai la “Viribus unitis” non poteva più essere ritenuta un’unità nemica, gli alti Comandi italiani ne erano verosimilmente al corrente. Innanzi tutto, a Pola, oltre al Consiglio nazionale degli jugoslavi si era costituito anche un Consiglio nazionale degli italiani in contatto con l’Italia così come, sicuramente, in città operavano agenti dell’intelligence militare italiana. Inoltre i servizi di informazione della Marina italiana sin dalla mattina del 31 ottobre avevano intercettato messaggi che riferivano dell’avvenuto passaggio di poteri. La notizia della cessione della flotta era peraltro già di dominio pubblico ed aveva raggiunto le redazioni dei giornali.
Nonostante ciò, alle torpediniere in navigazione non fu trasmesso via radio alcun contrordine da parte dell’Ammiragliato e su tale circostanza si possono fare almeno due ipotesi: i vertici della Marina italiana intendevano concludere il conflitto con una propria clamorosa affermazione, volta a bilanciare l’ultima “gloriosa” offensiva dell’Esercito italiano a Vittorio Veneto, oppure gli stessi comandi – d’intesa con il Ministero della guerra – miravano a indebolire la flotta del nascente stato jugoslavo, per assicurarsi il controllo navale dell’Adriatico nel dopoguerra[5].
Di fatto, circa trecento marinai di varie nazionalità morirono, assurdamente, ormai convinti d’essere sopravvissuti a quattro anni di guerra.
I due ufficiali italiani, protagonisti dell’incursione, rimasero prigionieri a bordo di due unità sino al 5 novembre quando vennero liberati all’arrivo della navi italiane che presero possesso del porto di Pola; i due ardimentosi, decorati entrambi con Medaglia d’oro al valor militare e promossi di grado, erano il maggiore Raffaele Rossetti[6] e il sottotenente Raffaele Paolucci[7].
La tragica vicenda però non si concluse con tali riconoscimenti; come ha scritto Pietro Spirito: «dall’oscuro fondo del mare, in quel remoto punto dell’Adriatico, dal relitto capovolto e silenzioso della corazzata adagiata nel fango, escono un po’ alla volta i fantasmi dei marinai morti nel naufragio, e chiedono conto».

Raffaele Rossetti

Nel marzo-aprile 1919, Raffaele Rossetti scoprì casualmente i provvedimenti che la Marina italiana aveva decretato a tutto favore di Costanzo Ciano, al quale era attribuito il merito principale dell’impresa di Pola e persino dell’invenzione della “mignatta”, ossia della “Torpedine semovente Rossetti”, per cui a Ciano veniva assegnato anche un terzo del premio in denaro previsto per l’affondamento, «in ragione del tipo della nave distrutta di L. 1.300.000, secondo la percentuale del 2 per cento sul costo della nave stessa»[8] che, teoricamente, doveva spettare ai soli Rossetti e Paolucci, secondo quanto previsto dal Decreto luogotenenziale n. 615 del 21 aprile 1918.
Di fronte a quella che riteneva un’ingiustizia si rivoltò Rossetti che, a tutti gli effetti, era stato l’ideatore, il sostenitore, il progettista, il collaudatore ed infine il pilota dell’ordigno subacqueo, mentre Ciano era intervenuto quale “supervisore” solo nella fase sperimentale con alcuni suggerimenti tecnici (qualcuno accolto e qualcuno errato). Le rimostranze di Rossetti peraltro si collegavano all’analoga partecipazione di altri 14, fra ufficiali e marinai, imbarcati sui due Mas dell’impresa di Pola, che potevano avere simili diritti[9].
Rossetti, dopo aver dato le proprie dimissioni dalla Marina, intraprese ricorsi legali, proteste e rimostranze di vario genere, comprese due lettere dirette a Ciano, il quale – pur riconoscendo in privato – il diritto reclamato da Rossetti, non si sarebbe attivato conseguentemente presso i vertici della Marina, dando adito al sospetto che fosse stato proprio Ciano ad avanzare la pretesa “tripartizione”. Il dubbio si rafforzò dopo che Rossetti apprese dall’ammiraglio Eugenio Cento che nel dicembre 1918 Ciano era andato a Parigi, in occasione delle consultazioni per il Trattato di Versailles, per incontrare l’ammiraglio Thaon di Revel allo scopo di esigere una parte del premio d’affondamento tanto che, in effetti, l’ammiraglio, accogliendo l’istanza di Ciano, inoltrò al ministro della Marina, Alberto del Bono, e al Consiglio superiore della Marina l’indicazione di dividere il compenso fra Rossetti, Paolucci ed appunto Ciano.
La vertenza aperta da Rossetti durò un anno, concludendosi con un parziale riconoscimento delle sue motivazioni; mentre a Ciano, al quale era stato negato pure l’avanzamento di grado, venne concessa la “commenda”, a titolo di consolazione. Per sottolineare la sua rivendicazione, nel 1924 Rossetti ritenne opportuno dare alle stampe un documentato quanto polemico libro sull’intera vicenda. Il libro, intitolato Contro la “Viribus Unitis” (sottotitolo: Le vicende di un’invenzione di guerra), fu edito all’inizio del 1925 dalla Libreria Politica Moderna di Roma, ma, appena stampato, un’incursione fascista incendiò la tipografia e quasi tutte le copie. Fortunatamente, il piombo dei caratteri e parte dei clichés delle fotografie si erano salvati permettendo una seconda edizione, stampata presso la Società anonima poligrafica italiana, nel settembre 1925[10].
Significativamente, il libro era dedicato alla memoria di Janko Vukovič, il capitano della “Viribus unitis”, «avversario di guerra che mi lasciò, morendo, esempio indimenticabile di generosa umanità».
A dimostrazione del suo disinteresse economico, Rossetti nel 1919 devolse l’intero importo del premio e, in particolare, destinò centinaia di migliaia di lire alla vedova e al figlio undicenne del capitano Vukovič, a favore dei quali s’aggiunse un analogo ingente contributo da parte di Paolucci.
Successivamente, le strade dei due protagonisti dell’impresa si sarebbero divise, anche politicamente.

SU OPPOSTI FRONTI

Terminato il conflitto, con decreto dell’11 novembre 1919 Rossetti fu dispensato, su sua richiesta, dal servizio attivo permanente e inserito nel ruolo degli ufficiali di complemento; l’anno successivo rinunciò al grado e venne posto in congedo a decorrere dal 1° settembre 1920. Rossetti, dopo aver appoggiato l’impresa dannunziana di Fiume di Gabriele D’Annunzio, con l’ascesa del fascismo si iscrisse al Partito repubblicano italiano, entrando in rotta di collisione col regime, in conseguenza anche dello sdegno suscitato dal comportamento di Ciano che nel 1921 era stato eletto deputato per i Fasci di combattimento (del cui Consiglio nazionale era membro) nella lista del Blocco nazionale e poi, nel primo governo Mussolini, divenuto sottosegretario di Stato per la Regia Marina, nonché commissario per la Marina Mercantile.
Sin dal 1922, Rossetti fu invece posto sotto sorveglianza poliziesca e schedato, come sovversivo repubblicano, nel Casellario politico centrale[11]. Nel marzo del 1923, riteneva governo e partito fascista «entrambi ripugnanti», soprattutto per i metodi violenti e corrotti. Il 4 aprile 1923, a Santa Margherita Ligure subì quindi un’aggressione squadristica per aver gridato «Viva la libertà, abbasso il fascismo, viva l’Italia libera!» durante un comizio fascista e, dopo essere stato oggetto di un pestaggio, fu arrestato e tradotto a Genova, prima in Questura e poi in una caserma dei carabinieri.
Nel giugno del 1923 fu tra i fondatori del movimento Italia Libera che raccoglieva ex-combattenti di tendenza repubblicana ed ex-legionari fiumani su posizioni antifasciste e, proprio il grido di Rossetti, fu assunto come nome dell’organizzazione, divenendone una sorta di “padre spirituale”.
Il 13 giugno 1925, mentre era impegnato a testimoniare solidarietà nei confronti di Gaetano Salvemini, arrestato per reati d’opinione, fu nuovamente aggredito da alcuni fascisti dovendo essere ricoverato in ospedale per le lesioni subite. Dopo questo episodio lasciò l’Italia stabilendosi a Parigi, dove trovò lavoro come tipografo. Nel 1930 aderì prima al movimento antifascista Giustizia e Libertà. Nel 1932, su posizioni di sinistra, fu eletto segretario del Partito repubblicano, carica passando, successivamente, a quello de La Giovine Italia. che mantenne sino al 1933 quando venne soppiantato da Randolfo Pacciardi. Nel gennaio 1935, assieme all’ex legionario fiumano Silvio Bettini, fondò, su posizioni antifasciste, l’Association franco-italien des Ancient combattants.

Durante la guerra di Spagna partecipò ad alcune trasmissioni di Radio Barcellona lanciando proclami antifascisti e, per questo “tradimento” il regime fascista annullò la sua Medaglia d’oro al valor militare (confermata dopo la Liberazione) ma, soprattutto, la sua figura fu emarginata dalla storia ufficiale[12].
Nel 1939, in occasione della morte di Costanzo Ciano, si giunse a sostenere che «a lui, al suo inesauribile talento, si dovettero poi i sagaci studi e il perfezionamento degli ordigni necessari per forzare i porti di Trieste e Pola e colpire le grandi unità austriache; geniali fatiche che nell’ottobre 1918 si conclusero con l’affondamento della Viribus Unitis»[13].
Dopo lo scoppio della Seconda guerra mondiale, nel dicembre del 1939 Rossetti fu espulso dalle autorità francesi e a Modane consegnato alla polizia italiana che gli concesse di ritirarsi nella sua residenza a Rapallo. Nella primavera del 1941 trovò lavoro come linotipista presso l’editore Pirola di Milano; in tale periodo, pur vivendo in modeste condizioni economiche, accettò una somma di denaro dalla Marina, a patto però che fosse versata sul conto corrente di un orfanotrofio.
Dopo la Liberazione divenne membro del Consiglio comunale di Santa Margherita Ligure come consigliere indipendente in una lista comunista e capo dell’opposizione e, alle elezioni del 18 aprile 1948, fu candidato del Fronte popolare al Senato nella circoscrizione di Lucca.

Raffaele Paolucci

Al contrario, una volta tornato alla vita civile, l’ex-capitano Paolucci intraprese una rilevante attività medico-scientifica unitamente alla carriera accademica e politica all’ombra della monarchia e del regime fascista[14]. Nel 1921, assunse la guida dello squadrismo nazionalista quale comandante generale dei “Sempre Pronti per la Patria e per il Re” e fu eletto deputato al Parlamento per il Blocco Nazionale e poi del PNF, carica mantenuta sino al 1943. Nel 1935 era tornato ad indossare l’uniforme durante la guerra d’Etiopia, quando fu richiamato alle armi alla direzione di una Ambulanza Speciale Chirurgica della C.R.I. raggiungendo il grado di Maggiore generale medico. Dopo l’entrata in guerra dell’Italia fascista, fu richiamato in servizio dal 5 settembre 1940, anno nel quale venne nominato dal re conte di Valmaggiore, una località nei pressi di Pola. Destinato a Roma presso il Ministero della Marina, il 22 marzo 1943 fu promosso tenente generale, per poi essere esonerato dal richiamo in servizio dal 5 agosto 1944. Nel secondo dopoguerra, Paolucci sarebbe tornato in Parlamento (1953) come presidente e senatore del Partito Nazionale Monarchico, in rappresentanza dell’Abruzzo e Molise.
Ben diverso il percorso di Costanzo Ciano, figura di primo piano del sistema di potere fascista, legato a Mussolini anche dall’acquisita parentela a seguito delle nozze fra il figlio Galeazzo e Edda Mussolini, nonché “padrone” di Livorno.
Nel 1925, nell’ambito della tendenza invalsa dopo il conflitto e incrementata durante il fascismo di creare una nuova nobiltà per meriti guerreschi, Ciano venne anche insignito, in onore dell’episodio del novembre 1917[15], del titolo nobiliare di conte di Cortellazzo che, di certo, a Livorno deve essere stato motivo di popolaresca ironia.

 

 

 

NOTE

  1. La motivazione venne riportata, con scarso rilievo, su «Il Telegrafo» del 6 marzo 1919: «Con regio decreto al capitano di vascello Costanzo Ciano, di Livorno, è stata conferita la commenda dell’ordine militare di Savoia, perché ispettore dei M.A.S. con intelligenza e perizia attendeva sino all’inizio al loro miglioramento, mentre nello stesso tempo preparava con grande fede ed amore i comandanti che dovevano portare alla vittoria le piccole unità. Nell’ultima spedizione di Pola studiò dapprima il congegno con il quale due eroi riuscirono ad affondare la nave ammiraglia della flotta nemica e accompagnò la spedizione sino sotto la diga di Pola, attendendo fino all’alba il ritorno».
  2. Il 6 ottobre 1918, a Zagabria, era stato fondato il Consiglio Nazionale degli Sloveni, dei Croati e dei Serbi (della Croazia). Il 29 ottobre il Consiglio interruppe tutte le relazioni politiche e diplomatiche tra Croazia e Austria, e tra Croazia e Ungheria. In seguito, Croazia, Slovenia e Bosnia si unirono nello Stato di Slovenia, Croazia a Serbia (SHS), poi Regno di Jugoslavia.
  3. Dopo essere entrato all’Accademia Navale di Livorno nel 1891, Ciano era stato nominato guardiamarina nel 1896, sottotenente di vascello nel 1898, tenente di vascello nel 1901. Partecipò alla guerra di Libia (1911-’12), ricevendo nel 1913 un encomio solenne per aver compiuto missioni speciali di polizia coloniale al comando del piroscafo Siracusa, requisito durante le azioni di guerra. All’entrata in guerra dell’Italia, nel 1915, venne destinato alla direzione del silurificio di Venezia della Regia Marina, ottenendo il grado di Capitano di corvetta nell’agosto del 1915 e nel 1916 sostituì il fratello Arturo al comando del cacciatorpediniere “Zeffiro”. Nel giugno 1917 venne promosso capitano di fregata e, dal luglio 1917 al maggio 1919, quale comandante di unità siluranti di superficie (Mas e torpediniere), venendo decorato con medaglia d’oro al valor militare per la famosa “beffa di Buccari” (febbraio 1918), operazione militarmente fallimentare ma che ebbe grande risonanza propagandistica grazie alla partecipazione di D’Annunzio. Nell’agosto del 1918, era stato quindi promosso capitano di vascello per meriti di guerra.
  4.  Entrambi i Mas (94 e 95) erano stati costruiti a Livorno, presso il Cantiere Navale “F.lli Orlando”, e consegnati alla Marina italiana nel 1917.
  5. L’ordine impartito era, secondo quanto riportato dallo storico Giacomo Scotti, di entrare in azione «prima che fosse inalberata la bandiera jugoslava sulla nave ammiraglia ex austriaca, per impedire che ciò avvenisse. Se fossero arrivati dopo, avrebbero dovuto distruggere la bandiera insieme alla nave».
  6. Raffaele Rossetti (Genova 1881 – Milano 1951). Laureato in ingegneria industriale nel 1904; dopo aver ha frequentato la regia Accademia Navale di Livorno, divenne tenente del Genio navale;. Nel dicembre del 1906 dopo aver conseguito la laurea in ingegneria navale e meccanica presso il politecnico di Milano fu destinato presso la Direzione delle Costruzioni Navali dell’Arsenale Militare marittimo di Taranto quale capitano del Genio navale. Nel 1912, imbarcato sull’incrociatore “Pisa” prese parte alla Guerra di Libia. Dall’aprile del 1915 al maggio del 1917 prestò servizio presso l’Ufficio Tecnico della Regia Marina a Genova, passando poi alla Direzione delle Costruzioni Navali dell’Arsenale di La Spezia col grado di maggiore del Genio navale, impegnandosi nella realizzazione di “mezzi insidiosi” per incursioni nei porti nemici. Promosso al grado superiore per merito di guerra, il 16 novembre 1919, a domanda, venne posto in congedo e promosso Tenente colonnello nella Riserva Navale.
  7. Giovanni Raffaele Paolucci (Roma 1892 – 1958). Dopo il servizio militare nel 1913 nella 10ª compagnia di sanità militare dell’Esercito, col grado di caporale e poi di sergente, allo scoppio della guerra venne richiamato e assegnato ad un lazzaretto per colerosi sul Carso. Laureatosi in medicina nel luglio del 1916, fu promosso sottotenente medico di complemento in forza all’8° Rgt. bersaglieri in Cadore. Successivamente divenne tenente e, su sua richiesta, passò in Marina, prestando servizio presso l’ospedale militare marittimo di Piedigrotta e successivamente presso il Forte San Felice a Chioggia (Ve). Imbarcato sulla “Emanuele Filiberto” come secondo medico di bordo, aveva iniziato ad interessarsi alle armi subacquee per colpire unità nemiche, entrando in contatto nel luglio del 1918 col capitano Rossetti.
  8. Il valore della “Viribus unitis” era stato stimato in Lire 65.000.000. Secondo il contatore de «Il Sole-24 Ore», l’importo di Lire 1.300.000 nel 1919 corrisponderebbero attualmente a quasi 2 miliardi di Euro (1.959.778,19).
  9.  Infatti, un ricorso in tal senso venne presentato anche dal capitano di fregata Giovanni Battista Scapin che, a bordo del Mas 95, era stato il comandante di entrambi i Mas impegnati nella missione.
  10.  Una copia originale della seconda edizione del libro è conservata presso al Biblioteca “F. Serantini” di Pisa ed è possibile riscontrarvi la mancanza di buona parte dell’apparato fotografico andato distrutto. Il libro è stato riedito dall’Associazione Culturale Sarasota (Massa, 2014).
  11. Secondo Sergio Benvenuti avrebbe invece militato nelle file del Partito Socialista Unitario (Il fascismo nella Venezia Tridentina (1919-1924), Trento, Società di studi trentini di scienze storiche, 1976, p. 114); tale affermazione appare però derivare dal fatto che nel 1922 Rossetti sostenne economicamente e collaborò, con alcuni suoi articoli contro il fascismo, a «La Giustizia», organo del Partito Socialista Unitario, oltre ad intrattenere rapporti di stima ed amicizia con Turati, Kuliscioff e Treves.
  12. Già nel 1934, nel capitolo L’affondamento della «Viribus Unitis», nel libro di Corrado Rossi Corrado, Gli Arditi del Mare, l’autore aveva preferito utilizzare le memorie di Paolucci, piuttosto che quelle scomode di Rossetti, dando rilievo alla partecipazione di Ciano e definendo «grottesca favola» e «ignobili calunnie» ad opera degli ex-alleati le obiezioni in merito all’opportunità dell’affondamento.
  13.  La risibile affermazione citata era all’interno di un articolo commemorativo pubblicato su «Il Legionario», riproposto nella raccolta di scritti necrologici (Costanzo Ciano, Roma, Pinciana, 1939), curata da Angelo Chiarini, avente come prefazione il discorso celebrativo pronunciato alla Camera da Raffaele Paolucci il 15 luglio 1939.
  14. Libero Docente di Patologia Chirurgica nel 1924, meritò la fama quale “chirurgo dei poveri” fin dal 1925, quando diresse l’Ospedale di Lanciano. Fu incaricato di Patologia Chirurgica all’Università di Bari dal 1926 al 1930, direttore della Clinica Chirurgica a Parma dal 1930 al 1932, a Bologna dal 1933 al 1938 e a Roma dal 1939 in poi come direttore dell’Istituto di Chirurgia Generale dell’Università degli Studi di Roma ”La Sapienza”. Dopo un anno di “epurazione”, nel 1946 riprese l’insegnamento all’Ateneo di Roma. Nel campo medico fu un pioniere della chirurgia polmonare, pubblicando numerosi lavori scientifici oltre a diversi volumi di tecnica chirurgica.
  15.  Il 16 novembre 1917, due corazzate austriache, scortate da 14 unità minori, bombardarono per circa quattro ore la batteria costiera della Marina italiana a Cortellazzo (Ve), venendo invano attaccate da due Mas, uno dei quali comandato da Ciano.



UNA COSPIRAZIONE IN MARE APERTO.

Fra le diverse ricorrenze dell’Undici settembre (Strage nel carcere di Attica, 1971; Golpe in Cile, 1973; Attacco alle Twin Towers, 2001), ve ne è una che appartiene alla storia dell’antifascismo in Italia, ossia l’attentato politico compiuto da Gino Lucetti contro Benito Mussolini, appunto l’11 settembre 1926. «Della serie di attentati che punteggiarono la soppressione delle libertà italiane – come sottolineò lo storico “azionista” Aldo Garosci – esso fu quello in cui si espresse la più lucida e chiara volontà politica».

Il mancato tirannicida, una volta catturato, davanti agli inquirenti si era proclamato «anarchico individualista», onde evitare conseguenze per altri; ma, in contrasto con l’interpretazione in chiave solipsistica del suo gesto, risulta ormai appurata l’esistenza di una rete cospirativa con condivise finalità che vedeva il coinvolgimento, a diversi livelli, di anarchici di differente tendenza, ex-arditi del popolo e antifascisti “d’azione”. Meno conosciuta ed indagata rimane invece la decisiva riunione tenutasi segretamente un anno prima dell’attentato a Livorno dove, come le autorità non ignoravano, erano attivi imbarchi e collegamenti clandestini.

Infatti, secondo la testimonianza dell’anarchico carrarino – poi comandante partigiano – Ugo Mazzucchelli (1903-1997), avvalorata dallo storico Gino Cerrito, nell’estate del 1925 a Livorno vi era stata una riunione clandestina, a bordo di un barcone in mare aperto, a cui presero parte, oltre a Lucetti e a Mazzucchelli, gli anarchici livornesi Augusto Consani e Virgilio Recchi, già organizzatori del Battaglione degli Arditi del popolo, nonchè due minatori anarchici di San Giovanni Valdarno e qualche altro militante non identificato[1]. Lucetti era infatti rientrato clandestinamente da Marsiglia, dove era espatriato alla fine del 1922 intessendo rapporti con gli ambienti più risoluti del “fuoriuscitismo” antifascista. Da quanto si può dedurre e come confermato dal militante anarchico Piero Di Pietro, in questa riunione, preceduta da altri incontri nel carrarese, era stato deciso e delineato un piano operativo per l’eliminazione fisica di Mussolini, oltre a concertare conseguenti sollevazioni contro il regime. Infatti, dopo la mancata insurrezione a seguito del delitto Matteotti e il fallimento della politica aventiniana, «ogni transazione [era] divenuta impossibile».
Lucetti, anarchico d’azione, era eticamente determinato ad attentare alla vita del duce sin dal dicembre 1922, a seguito della strage operaia di Torino, e già nel gennaio-febbraio 1923 si era recato a Roma per verificarne l’attuazione- Il progetto dovette però essere rinviato in quanto Lucetti rimase coinvolto e ferito in una sparatoria con i fascisti ad Avenza, presso il caffè Napoleone in piazza Rivellino, avvenuta nella notte fra il 25 e il 26 settembre 1925. Ricercato dai fascisti e dalla polizia, dovette quindi nascondersi e l’11 ottobre imbarcarsi come “clandestino” su un naviglio per il trasporto di marmo diretto a Marsiglia[2].

L’ANARCHICO ARDITO

Gino Lucetti era nato ad Avenza, frazione del comune di Carrara (MS), il 31 agosto 1900, da Filippo e Adele Crudeli[3]. Dopo aver studiato sino alla VI classe elementare, aveva iniziato a lavorare in cava, divenendo un lizzatore, ossia addetto al faticoso e pericoloso spostamento dei blocchi di marmo. In gioventù era stato vicino agli ideali repubblicani, peraltro non in contraddizione con quelli libertari[4].
Secondo quanto si può dedurre dal confuso Foglio matricolare n. 17822, il 24 marzo 1918 era stato chiamato sotto le armi e, al 2 luglio seguente, risultava «giunto in territorio dichiarato in stato di guerra» ed assegnato come autiere al 2° Reparto d’Assalto di Marcia che, alla vigilia della battaglia finale di Vittorio Veneto, si trovava dislocato nel trevigiano, fra Pederobba e Palazzon. Probabilmente non aveva preso parte a combattimenti, ma dopo l’attentato a Mussolini, la circostanza d’aver comunque fatto parte degli Arditi venne omessa nelle cronache, eccetto che in un articolo sfuggito alla censura, pubblicato su «La Nazione» del 14 settembre 1926, mentre su altri giornali, come la «Gazzetta livornese» del 13 settembre, fu indicato quale ex artigliere[5].
Dopo essere stato posto in congedo provvisorio il 28 febbraio 1919, il 1° dicembre 1919 venne richiamato in servizio presso diversi reggimenti di fanteria (90°, 65°, 25°), venendo impiegato anche nella bonifica dei residuati bellici. Ancora in grigioverde, nel 1921 per un’assenza di quattro giorni fu denunciato per diserzione e per aver sottratto «oggetti d’armamento» (un fucile 91 con relativa baionetta), venendo però assolto, condonato e finalmente congedato nel novembre 1921.
Tornato ad Avenza, alla fine del 1922 decideva di lasciare illegalmente l’Italia a seguito di scontri avuti con fascisti nella zona di Carrara; aiutato dal fratello Andrea, s’imbarcava su un navicello carico di marmo, approdando a Nizza e poi a Marsiglia dove gli fu sempre possibile trovare lavoro come scalpellino presso laboratori del marmo gestiti da italiani di simpatie libertarie o antifasciste.
In Francia era entrato in relazione con esponenti di primo piano dell’anarchismo, dall’antiorganizzatore Paolo Schicchi al federalista Camillo Berneri, e nel 1924, aveva aderito alle Legioni garibaldine della Libertà che, velleitariamente, avrebbero dovuto penetrare in Italia e rovesciare con le armi il regime mussoliniano.
Nello stesso anno risultava essere abbonato alla rivista anarchica «Pensiero e volontà», di cui erano promotori Errico Malatesta e Luigi Fabbri, collaborando saltuariamente al settimanale «Fede!», diretto da Luigi Damiani; due testate non riconducibili all’anarchismo di tendenza individualista.
Dopo l’infausto epilogo garibaldino, apparve evidente che, contro il totalitarismo fascista, altre strade andavano percorse e, superando le diverse impostazioni teoriche, gli anarchici raggiunsero una sostanziale unità d’azione.
Lucetti, come si è visto, sarebbe rientrato in Italia nell’estate del 1925 per uccidere il duce, nella prospettiva d’innescare sommosse, scioperi e attentati; ma in ottobre dovette precipitosamente ripartire alla volta della Francia.
Ritornato furtivamente in Versilia alla fine del maggio 1926, su un barcone da Marsiglia al porto di Marina di Carrara (secondo diversa fonte, nascosto in un vagone merci al confine di Ventimiglia), s’entrò nella fase operativa del piano: in giugno, Lucetti soggiornò almeno una settimana a Roma, ospite di Caterina Diordi, cercandovi anche un lavoro come scalpellino, e forse ancora un giorno o due a metà luglio.
Fra una “trasferta” e l’altra, trovò ospitalità presso compagni compiacenti a Montignoso e soprattutto a Viareggio, con qualche fugace visita familiare ad Avenza.
Con ogni probabilità in questo periodo, furono reperite le armi, una pistola automatica Browning procuratagli dal repubblicano romano Vincenzo Baldazzi (1898-1982), detto “Cencio”, già dirigente nazionale degli Arditi del popolo, e due bombe a mano SIPE, a frammentazione, che l’anarchico avenzino Gino Bibbi (1899-1999), suo cugino, aveva recuperato a Trieste dall’anarchico Umberto Tommasini (1896-1980), così come confermato da entrambi. Dell’attentato in preparazione appare accertato che furono messi al corrente o vi ebbero una qualche parte gli anarchici Malatesta, peraltro in stretti rapporti sia politici che amicali col Baldazzi, Temistocle Monticelli e Luigi Damiani, esponenti di primo piano dell’Unione anarchica italiana già costretta all’attività clandestina[6].

L’ATTENTATO SENZA FORTUNA

Dopo l’attentato, sia sulla stampa che nell’inchiesta giudiziaria, venne dato molto risalto ai collegamenti dell’anarchico con «le centrali dell’antifascismo» in Francia e lo stesso Mussolini additò «certe tolleranze colpevoli e inaudite di oltre frontiera», ma in realtà Lucetti si era mosso in modo autonomo, facendo piuttosto affidamento sui compagni in Italia. Infatti, ai compagni di Marsiglia tenne nascosto l’imminente partenza per l’Italia e chiese i soldi necessari per il viaggio ad un’ignara compaesana. Considerato che il “fuoriuscitismo” era pesantemente infiltrato dalla polizia politica fascista, tale scelta gli permise di muoversi con relativa sicurezza, cogliendo di sorpresa l’apparato poliziesco, tanto che in conseguenza dell’attentato, Mussolini dimissionò il capo della polizia Crispo Moncada, sostituito dal “superpoliziotto” Arturo Bocchini.
Giunto a Roma, il 2 settembre 1926, Lucetti trovò alloggio, sotto falso nome, presso l’albergo “Trento e Trieste”, grazie all’amico e compagno Leandro Sorio che vi lavorava come cameriere, e la mattina dell’11 settembre 1926 entrò in azione nei pressi del piazzale di Porta Pia, eludendo la vigilanza di una cinquantina di agenti in divisa e in borghese dislocati lungo il percorso “presidenziale”.
Al passaggio dell’auto, una nera “limousine” Fiat 519, che conduceva Mussolini dalla sua residenza estiva di Villa Torlonia al Ministero degli Esteri a Palazzo Chigi[7], Lucetti lanciava, dopo averne accesa la miccia, una SIPE fidando che questa (pesante circa mezzo chilo) sfondasse il vetro dello sportello posteriore laterale destro ed esplodesse all’interno della vettura, dove era seduto il duce. Purtroppo, a causa del sobbalzo dell’auto per un avvallamento della strada, la granata colpì la cornice superiore della portiera, pochi centimetri sopra il vetro, rimbalzando e deflagrando sul selciato, col ferimento di otto passanti raggiunti da schegge[8].
Particolari poco conosciuti dell’azione armata sono stati rivelati da “Cencio” Baldazzi in un’intervista del 1976, che confermano il carattere tutt’altro che “individuale” dell’attentato: «c’entravo io, Malatesta, [Attilio] Paolinelli, c’entravamo tutti, tutto il cerchio nostro della resistenza romana. Noi avevamo preparato due attentati a Mussolini, uno al Tritone, ed uno a Porta Pia […] dopo aver organizzato una certa convergenza intorno Porta Pia»[9].
Lucetti, fu quasi subito catturato dal maresciallo capo Dottarelli e dal vice brigadiere Motta che, assieme all’ispettore di PS Bodini responsabile del servizio di scorta, si trovavano sull’Alfa Romeo che seguiva dappresso l’auto di Mussolini. Lucetti disponeva di un’altra SIPE e della pistola Browning, presumibilmente cal. 7,65, con proiettili artigianalmente modificati per renderli più efficaci, che non potè usare. Condotto in Questura in piazza del Collegio Romano (attualmente commissariato di PS Trevi-Campo Marzio), subì i primi interrogatori e pestaggi, mentre all’esterno fascisti facinorosi provocavano incidenti.
Già mezz’ora dopo l’attentato veniva arrestato Malatesta presso la propria abitazione e a distanza di poche ore la sua compagna, l’anarchica Elena Melli (1899-1946); a Roma, nella retata anti-anarchica finivano militanti noti quali i tre fratelli Turci, Aldo Eluisi, Francesco Porcelli, Carlo Monticelli, Eolo Varagnoli, Adelmo Preziosi ma anche semplici simpatizzanti oppure non anarchici, fra cui i comunisti Umberto Terracini e, a Milano, Ottorino Perrone. Non mancarono le spedizioni punitive, come quella contro l’onorevole socialista Attilio Susi a Santa Marinella.
A Livorno, col pretesto che fra i passanti feriti vi era il cappellaio Garibaldo Paoletti, originario di Livorno, i fascisti assaltarono il consolato francese. Sempre nella città labronica, innumerevoli furono i messaggi di felicitazione ed esecrazione, fra cui quello del Maestro Pietro Mascagni a cui Mussolini rispose personalmente. Nella chiesa di S, Giulia, invece, «venne cantato un solenne “Te Deum” di ringraziamento per lo scampato pericolo del Primo Ministro Benito Mussolini».
Nell’arco di pochi giorni furono effettuati almeno 500 arresti e 600 perquisizioni, soprattutto nella capitale ma anche altrove; ad esempio, tra minatori di S. Giovanni Valdarno. Tra i circa sessanta arrestati fra Carrara ed Avenza, vi erano gli amici, i familiari e i parenti di Lucetti ed anche la sua fidanzata, Nella Menconi (1899-1975). A Roma, furono subito tratti in arresto Baldazzi, Leandro Sorio (1899-1975) e Stefano Vatteroni (1897-1965). Quest’ultimi due vennero condannati dal Tribunale Speciale per la Difesa dello Stato, rispettivamente a 20 e 18 anni di carcere, «complicità non necessaria»[10]. Baldazzi, invece, ebbe una condanna a cinque anni di carcere per la complicità nell’attentato e ad altri cinque per aver poi fornito aiuto finanziario alla madre di Lucetti[11]. I familiari, fra cui il cugino Gino Bibbi e la madre, furono assolti «per il reato di concorso in mancato omicidio di S.E. il primo ministro» nel giugno del 1927. Nelle settimane seguenti, numerose furono pure le sentenze per «apologia di attentato» nei confronti di persone che avevano espresso, magari in un’osteria, il proprio rammarico per il tentativo non andato a buon fine. Accadde anche a Livorno, dove nei pressi di Piazza dei Mille tre «giovanotti» furono arrestati e denunciati per aver parlato «a voce alta dell’attentato contro la persona di S.E. Mussolini, esaltando l’attentatore, augurando un nuovo infame gesto contro il Duce»[12]. A Rio Marina, per lo stesso reato, il contadino anarchico Narciso Trenti fu condannato a 30 mesi di reclusione e 300 lire di ammenda[13].

CONDANNA E MEMORIA

Il processo, svoltosi dall’8 all’11 giugno 1927, apparve come una farsa, con l’avvocato d’ufficio Emilio Tommasi, che sembrava l’accusatore dell’imputato, mentre il P.M. Enea Noseda lo additava quale «parricida». A presiedere il Tribunale Speciale vi era il generale Carlo Sanna e della corte faceva parte il conte Antonio Tringali-Casanuova, futuro presidente del Tribunale speciale sino al 1943, nato a Cecina e fascista della prima ora. Lucetti venne condannato a 30 anni di reclusione; fra i delitti di cui fu ritenuto colpevole, quello di aver commesso il fatto «anche col fine d’incutere pubblico timore e di suscitare tumulto e pubblico disordine», con evidente allusione alle finalità di destabilizzazione del regime[14]. Da parte sua, durante l’udienza, Lucetti rifiutò decisamente l’accusa di essere un sicario eterodiretto, così come – sin dal primo interrogatorio – aveva tenuto a precisare che «il mio è stato un attentato da proletario».
Lo aspettavano 17 anni di carcere: dal Terzo Braccio di “Regina Coeli” nel luglio del 1927 fu condotto, via Livorno, nel penitenziario elbano di Portolongone (oggi Porto Azzurro) con i ferri ai polsi e «la lugubre casacca a righe», come riferito su «Il Telegrafo» dell’8 e 9 luglio.
Nel febbraio 1930 venne trasferito nel carcere di Fossombrone (PU), dove in occasione del Primo maggio 1932, assieme ad altri sei detenuti comunisti e anarchici – fra i quali il livornese Tito Raccolti e il veronese Giovanni Domaschi – realizzò artigianalmente e fece uscire dal carcere una quindicina di manifestini, oltre a cantare l’Internazionale e Bandiera rossa. A seguito di tale dimostrazione, il mese dopo fu deportato nell’isola-carcere di Santo Stefano (LT)[15]. Nel terribile penitenziario ex-borbonico, Lucetti rimase sino al settembre 1943, trattenuto dalle misure anti-anarchiche del governo Badoglio, anche dopo la “caduta” di Mussolini. Finalmente liberato da paracadutisti americani il 10 settembre, assieme ad una sessantina di “politici”, fu trasferito all’Isola d’Ischia dove, drammaticamente, il 17 dello stesso mese venne ucciso da un colpo d’artiglieria sparato dalle forze tedesche dalla costa napoletana, forse da Monte Procida o da Capo Miseno, con obiettivo le motosiluranti alleate presenti in porto.

Quando la tragica notizia raggiunse il carrarese dove era in corso la resistenza, la prima formazione partigiana di tendenza libertaria assunse il suo nome e così anche quella poi ricostituita come “Lucetti bis”. A liberazione avvenuta, il CLN di Carrara, accogliendo l’ampia sollecitazione popolare, decise di intitolare a Lucetti la centrale e storica piazza Alberica, ma nel 1963 la giunta comunale decise di intitolargli la piazza Rivellino ad Avenza, mentre quella di Carrara tornava all’antica denominazione.

La salma di Lucetti, da Ischia, avrebbe fatto ritorno ad Avenza il 27 aprile 1947, salutata da un’enorme manifestazione popolare nella piazza a lui dedicata, con comizio tenuto dall’anarchico Giuseppe Mariani (1898-1974), suo compagno di detenzione a S. Stefano, e poi accompagnata in corteo sino al cimitero di Turigliano, dove ancora si trova.
Imbarcata su una nave a Napoli era approdata nel porto di Livorno sabato 26 aprile, venendo accolta e salutata – dalle ore 12 alle ore 15 – presso la sede della Federazione anarchica livornese in via Ernesto Rossi 80[16]. Come riferisce «La voca apuana» del 3 maggio 1947, «la salma dell’eroe era posta nella sede degli anarchici coperta di bandiere e una numerosa schiera di persone attendevano l’ora della cerimonia. Erano presenti compagni di tutti i partiti e numerosi cittadini», quindi in corteo il feretro giunse in piazza San Marco e, dopo un breve discorso di commiato, fu caricato su un’autoambulanza per l’ultimo trasferimento.
Accompagnata da una delegazione di anarchici carrarini e livornesi, dopo brevi soste commemorative a Pisa, Massa ed Avenza, il trasporto giunse a Carrara attorno alle ore 20 e la bara venne esposta presso la sede della FAI, in piazza Lucetti, in attesa delle grandi manifestazioni dell’indomani.
Alcuni anni dopo, Alberto Tarchiani, uno dei fondatori del movimento antifascista “Giustizia e Libertà”, riferendosi agli attentati alla vita di Mussolini, avrebbe commentato: «chi condannerebbe oggi quei tentativi che non avevano bassi scopi di vendetta, ma convinti propositi di evitare sciagure infinitamente più vaste, eliminando un uomo che, vaneggiando di gloria conduceva l’Italia alla devastazione materiale e morale?».

NOTE

1. Augusto Consani (1883-1953), pastaio, militante di primo piano dell’Unione anarchica livornese, era stato segretario della Camera sindacale del Lavoro (USI) nonché tra gli organizzatori dell’arditismo antifascista. Condannato a cinque anni di confino quale «elemento pericoloso per l’ordine dello Stato», fu deportato a Lipari nel dicembre 1926, venendo rimesso in libertà nel marzo 1927, in via condizionale, poichè ammalato di tubercolosi; ciò nonostante avrebbe continuato l’attività clandestina. Paradossalmente, nel saggio di Nicola Badaloni e Franca Pieroni Bortolotti, Movimento operaio e lotta politica a Livorno 1900-1926 (Editori riuniti, 1977) viene ritenuto «uno dei principali sostenitori di una linea “attendista”». Virgilio Recchi (1900-1982), operaio elettricista, fra i fondatori degli Arditi del popolo, è schedato dal 1926 come anarchico. Nel 1945, è nel Comitato di liberazione aziendale del Cantiere navale OTO e fa parte del Gruppo sindacale libertario; partecipa al Congresso fondativo della FAI in rappresentanza del gruppo “Pietro Gori” e nel 1947 è nella Giunta esecutiva della Camera del lavoro, per la componente anarchica.
2. Secondo una ricostruzione pubblicata sulla «Gazzetta livornese» del 13 settembre 1926, «raggiunta la spiaggia il Lucetti sempre aiutato dal fratello suo Andrea, si imbarcava notte tempo sopra un piccolo gozzo, raggiungendo a forza di remi Lerici, ove all’alba del giorno dopo, un navicello carico di marmi, alzava l’ancora per la Francia».
3. Nei suoi saggi, lo storico Renzo De Felice l’ha ritenuto «nativo della Garfagnana», probabilmente perché, subito dopo l’arresto, Lucetti aveva declinato una falsa identità dichiarando d’essere nato a Castelnuovo Garfagnana (LU).
4. Nel Carrarese vi era una storica collateralità fra gli ambienti repubblicani e anarchici e, in particolare, proprio ad Avenza questa risultava evidente nella bandiera nera della locale sezione mazziniana.
5. Risaliva forse a tale esperienza negli Arditi il «tatuaggio sinistro» “W la morte” che Lucetti recava sull’avambraccio oppure, secondo la declinazione poetica di Virgilia D’Andrea, alludeva a «La morte che dona la vita / La morte che risveglia i popoli / Non quella che li distende inermi ed inetti dentro una tomba senza gloria / La morte che spezza il tiranno / Non quella che la tirannia riassoda ed eterna» (Gloria anarchica, 1933).
6. Il 17 gennaio 1926 si tenne segretamente un Convegno della UAI a Milano ed un altro in forma clandestina ai primi di agosto dello stesso anno. Esiste, tra l’altro, una lettera alquanto sibillina, scritta da Malatesta il 4 settembre 1926 all’anarchico Alfonso Coniglio, in cui comunicava che «Le seicento lire di cui mi parli furono ricevute al principio di quest’anno e furono adoperate non per Pensiero e Volontà[il giornale anarchico diretto da Malatesta] ma per un bisogno urgente del nostro movimento. Io ti scrissi e ti dissi vagamente che cosa avevamo fatto del denaro – senza però entrare in particolari, perché si trattava di cose che non conviene scrivere […] Siamo pieni di belle speranze, ma per ora sono… speranze. Noi però facciamo tutto quello che possiamo perché presto diventino realtà».
7. Nel 1922, Mussolini dopo aver trasferito il ministero delle Colonie nel Palazzo della Consulta, aveva destinato Palazzo Chigi a sede del Ministero degli Esteri e in virtù della sua doppia carica di Presidente del Consiglio e di ministro degli Esteri, ne aveva fatto la sua sede ministeriale.
8. Se invece che la SIPE, ad accensione manuale, fosse stata impiegata la variante a percussione (tipo “Gallina”), l’esito avrebbe avuto ben altra efficacia, scoppiando all’urto.
9. Il coinvolgimento di Baldazzi è stato confermato dalla moglie Elena Vitiello, intervistata da Alessandro Portelli: «lo avevano preparato insieme. La cosa che l’attentato non riuscì, con tutte le misure e tutti i calcoli che avevano fatto, non avevano tenuto conto che la strada era leggermente in discesa».
10. Le prove a loro carico erano labili, tanto che secondo Guido Leto, allora funzionario dell’Ufficio speciale movimento sovversivo ed in seguito a capo dell’OVRA, «l’inchiesta assodò che [Lucetti] non aveva complici», forse anche per giustificare il fallimento della sicurezza.
11. Nonostante la stretta sorveglianza, Baldazzi, riuscì ad incontrarsi con Malatesta (erano vicini di casa, in via Andrea Doria) e a prendere accordi con Attilio Paolinelli ed Aldo Eluisi – entrambi anarchici ed ex-arditi del popolo – nel tentativo «di organizzare la fuga» di Lucetti il giorno stesso del processo.
12. L’arresto di in terzetto per apologia di reato, «Gazzetta livornese», 15 settembre 1926. I tre erano l’operaio carpentiere Vittorio Pieracci, il facchino Licurgo Niccolai e il muratore Ilio Fiorini; i primi due schedati come comunisti, il terzo quale socialista.
13. Per offese al Primo Ministro, «Gazzetta livornese», 16 settembre 1926. Sullo stesso quotidiano si trova anche la notizia del rinvio a giudizio per il capitano marittimo Emilio Oliviero, «imputato di non aver esposta la bandiera in occasione dell’attentato al Duce».
14. Le pene accessorie, oltre a tre anni di vigilanza speciale, erano tragicomiche: 300 lire di ammenda, 600 lire per concessioni governative, l’interdizione perpetua dai pubblici uffici. In seguito, per effetto dei decreti governativi di amnistia e indulto del 1932, 1934 e 1937, la pena risultò ridotta a 17 anni, con scarcerazione prevista per il 10 settembre 1945.
15. Le inumane condizioni di prigionia sono descritte anche dal comunista livornese (seppure nato a Pisa) Athos Lisa in Memorie. Dall’ergastolo di Santo Stefano alla Casa penale di Turi di Bari, Milano, Feltrinelli, 1973.
16. Anche a Livorno, un gruppo anarchico – quello del quartiere S. Jacopo – assunse il suo nome.

 

Articolo pubblicato nel settembre del 2024.




Giovanni Martelli: storia di un antifascista livornese

Il 21 gennaio 1944, Giovanni Martelli e Otello Frangioni si erano recati alla Casa Manna, un luogo di ritrovo per gli antifascisti comunisti livornesi e situato in via Trieste, col fine di prender parte a una riunione. Il punto di ritrovo era però fissato in un altro luogo e, visto che nessuno si presentò all’appuntamento, Frangioni e Martelli si recarono alla Casa Manna. Una volta entrati, caddero in una trappola, perché ad attenderli vi era un commando unificato composto da ufficiali tedeschi, repubblichini e questori.
Il terzo arresto mette a dura prova l’animo di Martelli e lo segna nel profondo perché i rischi che poteva correre erano maggiori del passato. Viene arrestato perché le autorità fasciste identificavano in lui il «filo conduttore» col movimento di liberazione e l’esponente ideale da cui trarre informazioni sulle formazioni partigiane della Brigata Garibaldi[1]. In quei giorni viene ripetutamente interrogato dal questore Moraglia, dal capitano della polizia Porquier, dai marescialli Marchesi e Artieri[2].
Martelli continua a negare qualsiasi coinvolgimento o relazione con gli altri membri della Resistenza livornese, afferma che non sapeva niente sui manifesti della propaganda partigiana e sui volantini del movimento di liberazione. Martelli ricorda il suo terzo interrogatorio con le seguenti parole:

«[…] A domanda risposi: io, nella mia prima giovinezza mi ero interessato di politica, ma soprattutto in seguito ai due arresti ed alla condanna cui fui sottoposto, nonché per l’essermi trovato in luogo di capofamiglia, non mi era interessato più di nulla. Da allora a quel momento, aggiunsi, c’era anche l’esperienza dell’Africa Orientale e, immediatamente dopo la vita di fabbrica come operaio specializzato, alla qualcosa tenevo al di sopra di tutto. Citai la esperienza del cantiere Orlando, […] e, infine, la esperienza alla Moto Fides. Le domande che attorno a queste risposte mi furono date furono sempre pronunciate dal tenente Purchié e dall’agente repubblicano Hippert. Sia l’Altieri come il Marchesi, non solo non mi fecero mai domande ma mai si opposero alle mie risposte. E, sia chiaro, solo loro due potevano farlo! Questo comportamento mi fu di grande conforto e non mancai di riferirlo a chi, dopo di me, doveva passare sotto quel “torchio”. Ciò che soprattutto poteva incutere maggiore timore, cosa che io stesso subii, era che a quell’interrogatorio erano sempre presenti uno o due rappresentanti della “Gestapo” e, spesso, erano loro a suggerire domande […]»[3]

Alla domanda posta dalle autorità repubblichine sul perché non fosse fascista, lui risponde con fermezza dicendo che non lo era e che non lo sarebbe mai stato, perché si definiva come eticamente diverso da loro. Nel periodo della terza detenzione presso il carcere Don Bosco di Pisa conosce esponenti di spicco della Resistenza locale e ebbe degli scambi epistolari con alcuni di questi, come Fortunato Garzelli e Oberdan Chiesa[4]. Purtroppo, venne a conoscenza di una tragica notizia, ovvero che un mese prima erano stati catturati all’Ardenza tutti i frequentatori della Casa Manna, come Vasco Iacoponi, Corrado Faiani e lo stesso Oberdan Chiesa[5]. Prima condividevano le celle in comune con altri, ma con l’arresto di Frangioni e di Martelli vennero messi in celle di isolamento.
Chiesa ebbe degli scambi epistolari con Martelli e gli chiese quale fosse la sua posizione, aveva un brutto presentimento e temeva per la sua vita. Quando Martelli cercò di inviare un biglietto di risposta, venne a conoscenza che Chiesa era stato fucilato. I due si erano incontrati due mesi prima a Cevoli, perché quest’ultimo attendeva Chiesa per l’invio di materiali col fine di realizzare dei documenti falsi. La scomparsa di Chiesa ebbe «l’effetto di una doccia fredda sull’intero gruppo e richiamò alla mente di ognuno la realtà del momento» che stavano vivendo[6].
Il 12 febbraio per ordine del prefetto Fac-Duelle viene messo in isolamento e conosce di nuovo la dura vita nel carcere fascista, soffre la fame, la sete, il freddo, la solitudine, la paura di non potercela fare. L’esperienza di Modena lasciò un segno indelebile, soprattutto per le condizioni in cui viveva: predominava una sensazione di insicurezza, perché spesso venivano prelevati alcuni prigionieri da parte dei nazisti e dei repubblichini per fucilarli[7]. Alle azioni di sabotaggio della Resistenza corrispondevano spesso queste rappresaglie nelle carceri.
Quattro mesi dopo viene trasferito nel carcere Sant’Eufemia di Modena e tenta una fuga durante il bombardamento dell’11 giugno. Il giorno successivo viene chiamato per un presunto interrogatorio, ma Martelli teme di non far ritorno. Al suo ingresso nella stanza dell’interrogatorio si trova davanti due marescialli tedeschi, i quali gli chiedono di spogliarsi per effettuare una valutazione delle sua condizioni fisiche. Molti detenuti e rivali politici venivano sottoposti a queste fittizie valutazioni che servivano per “attestare” l’idoneità fisica dell’individuo. È facile intuire che qualora una persona fosse risultata debole, malata o anziana, veniva mandata in Germania con la scusa fittizia che sarebbero stati inseriti in nuovi contesti lavorativi. In realtà venivano spediti nei campi di concentramento.
Nella medesima occasione, un capitano delle brigate nere gli promette che, in caso avesse preso parte a delle opere di volontariato, sarebbe stato scarcerato. Molti aderirono all’iniziativa perché ciò avrebbe permesso ai detenuti di uscire dal carcere e di raggiungere le altre formazioni partigiane attive nel modenese. Martelli rifiuta la proposta perché non lo convince, non si fida delle promesse dei repubblichini.
Nell’ultima settimana di luglio, i nazifascisti realizzano degli attacchi contro la Repubblica partigiana di Montefiorino, a cui i gappisti della sessantacinquesima Brigata “Walter Tabacchi” rispondono con diversi attacchi contro gli automezzi e le strutture delle forze di occupazione tedesche. Nella tarda mattinata del 30 luglio i militari del Rustungskommando di Bologna ricevono la notizia dell’ennesimo attentato nel centro storico di Modena, dove è detenuto Martelli: nel primo pomeriggio una delegazione parte dalla città felsinea e raggiunge la Ghirlandina. Convocate le autorità̀ civili e militari della RSI, i soldati del Rustungskommando invocano una rappresaglia esemplare. In un primo momento propongono di rastrellare venti persone da catturare nei caffè del centro storico e di fucilarle in Piazza Grande, ma le obiezioni di alcuni fascisti li convincono a desistere. Dopo una breve discussione, i tedeschi accettano che gli ostaggi siano prelevati dalle carceri di Sant’Eufemia, ma impongono di eseguire la missione nel più breve tempo possibile poiché vogliono tornare a Bologna per cena. Mentre i venti detenuti scelti per la strage vengono incolonnati e fatti uscire dalla prigione, suona l’allarme aereo e i modenesi affollano il rifugio di Piazza Grande. Sul selciato, il plotone d’esecuzione fa distendere le vittime sul ventre formando due file e tutti vengono uccisi con dei colpi alla nuca. Dopo il cessato allarme, la popolazione della città resta inorridita dal macabro spettacolo della piazza: i venti corpi inerti vengono lasciati sul selciato per quasi ventiquattro ore, poi un autocarro li trasporta al cimitero di San Cataldo.
La paura di non poter tornare a casa si materializza per Martelli: i prossimi che verranno condannati a morte sono proprio i detenuti antifascisti toscani. Sulla base di ciò che accadeva fuori dalle mura di Sant’Eufemia, ognuno poteva avere le ore contate. Molte persone che aveva conosciuto in quel periodo erano già morte per fucilazione o per impiccagione. La speranza di rivedere la sua amata Livorno si affievolisce, così tanto che sostiene:

«noi tutti fondavamo la nostra speranza sul fatto che i nostri verbali fossero rimasti a Livorno, per mio conto ciò voleva dire fino ad un certo punto, poiché io ero negativo, ma così non era per altri compagni, che in seguito a prove schiaccianti o accuse, o per non aver saputo resistere all’interrogatori avevano dovuto ammettere qualche cosa. Un giorno fummo di nuovo chiamati ed interrogati, insistemmo sull’atteggiamento assunto al primo interrogatorio e questa volta – ormai delusi delle volte precedenti – che non credevamo più a nessuna possibilità di uscirne, fu proprio la volta decisiva […]».[8]

Alla fine di agosto, Martelli viene scarcerato insieme ad altri compagni di Partito come Otello Frangioni ed è proprio a Otello che dedica la sua Autobiografia, proprio perché con lui ha «condiviso la vita nel partito subendo insieme rischi ed arresti»[9]. Di quel periodo così difficile, Martelli racconta:

«[…] Dopo alcuni giorni da quel triste episodio [dell’uccisione dei venti detenuti del Carcere di Sant’Eufemia] fu inviato al carcere, per interrogarci, un giudice istruttore. Uno alla volta fummo tutti interrogati e tenuto conto che quel giudice non aveva nulla in mano, in quanto i documenti istruttori erano rimasti al di là del fronte, fu relativamente facile a tutti a confermare le dichiarazioni già fatte e, chi si era troppo esposto, a rettificare la propria posizione. Capimmo di lì a pochi giorni che quel giudice era stato inviato dal Prefetto Repubblichino (credo di chiamasse De Santis), il quale era in rapporti con il Cnl.
Fu veramente la volta buona: a fine settembre – così mi sembra ricordare – fummo invitati tutti ad uscire con gli indumenti personali. Ci fu chiaramente detto che eravamo liberi. L’unico che rimase, per uscire dopo un mese circa, fu Vasco
Iacoponi. Una volta in libertà io fui incaricato dai compagni, eravamo tutti alloggiati in un grande albergo di Modena, di recarmi in una segheria nei dintorni di Modena dove conobbi il Baroni che era stato al confino con Vasco, il quale mi consegnò i documenti falsi, naturalmente repubblichini, con i quali avremmo dovuto viaggiare nei territori occupati […]»[10].

Il 5 settembre 1944, lui e Otello Frangioni tornarono a Livorno, a seguito di un lungo viaggio per l’Emilia-Romagna e dopo aver attraversato le zone di Vergato e di Marzabotto. Dovettero superare i campi minati, evitare le pattuglie e i rastrellamenti. Il rientro a Livorno non fu facile, ma Martelli riuscì a tener fede all’obiettivo: tornare a casa. Livorno era stata liberata il 19 luglio e il loro rientro venne consacrato con una festa all’interno della Federazione comunista livornese.
Il nuovo Segretario era Aramis Guelfi, che assegnò Martelli alla Federazione di Pisa col compito di dirigere le attività dell’organizzazione sindacale Federterra. Pisa resterà un luogo caro a Martelli, perché proprio lì aveva avuto origine il suo percorso di resistenza attiva al nazifascismo e lì aveva pianificato le attività dei Nuclei del Fronte Nazionale di Liberazione in Toscana. Inizialmente, crede che col suo incarico possa entrare più in contatto con l’anima di quei luoghi che conosceva bene. In realtà, già nei primi mesi del 1945 lascia la mansione perché «non [lo] entusiasmava»[11]. In compenso, viene incaricato della propaganda presso la redazione del bollettino della Federazione. Martelli nella Nota autobiografica del 1987 si lascia ad una confessione, in cui afferma:

«[…] Tutti quegli incarichi, tuttavia, rappresentavano per noi le prime esperienze di vita legale del partito per cui non mancavano, da parte di ognuno di noi, comportamenti tutt’altro che idonei alle responsabilità che ci erano state affidate […]»[12].

Effettivamente, Martelli all’epoca ha 32 anni e conosce ben poco la vita di partito, forse non l’ha nemmeno sperimentata fino in fondo. Martelli ha lavorato in ambito propagandistico e nel contesto della lotta armata al nazifascismo, ma sapeva ben poco di politica. La ridefinizione e il ripristino delle istituzioni democratiche sarà un problema che in realtà coinvolgerà tutto il Paese, la vita politica, le istituzioni pubbliche, i civili.
Dopo la liberazione, Aramis Guelfi venne trasferito alla Federazione comunista di Taranto e poi di Lecce, e Ilio Barontini successe alla guida della Federazione livornese. Martelli diventò Vicesegretario nel periodo in cui Ilio Barontini entrò a far parte prima della Consulta e poi della Costituente.
Negli anni successivi, Martelli diventerà una figura di spicco nell’ambito sindacale e svolgerà una serie di impieghi che lo porteranno lontano da Livorno per diversi anni. Diventerà segretario delle Federazioni comuniste di Treviso e di Carrara, poi svolgerà degli impieghi presso la FIOM (Federazione Impiegati Operai Metallurgici) e la CGIL (Confederazione Generale Italiana del Lavoro). Rientrerà nella città labronica solo negli anni Sessanta, anni in cui verrà nominato come presidente della Commissione di Controllo del PCI locale e come Presidente del Bacino del Carenaggio[13]. Martelli è morto il 22 ottobre 1992 a Livorno.

Conclusioni.

Da decenni la storiografia sta producendo numerose monografie sulle vite degli antifascisti e sulle esperienze di lotta durante la Resistenza (1943-1945), col fine di esaminare complessivamente i valori condivisi e le azioni compiute dai gruppi antifascisti. Allo stesso modo, questo elaborato ha cercato di esaminare i valori di un uomo molto attivo nella resistenza toscana e livornese. Il tema è quindi importante per ricostruire le storie e le figure di chi si è fatto testimone di libertà in un periodo segnato dalla violenza e dall’autoritarismo.

Nello sviluppo dell’elaborato, una domanda è emersa: come si potrebbe descrivere l’esperienza politica di Giovanni Martelli?

L’esperienza politica di Martelli ricorda le esperienze di tanti altri militanti attivi nel periodo della Resistenza all’occupazione nazifascista, in cui questa lotta ha rappresentato un punto di svolta e una chiave di lettura per il futuro repubblicano e democratico del Paese. Per Martelli, la verità è stata rivoluzionaria e ha sempre fatto riferimento a questo valore in qualunque sua battaglia, nelle fabbriche, nella sua città, a livello nazionale. La storia di Martelli è la storia di un uomo resiliente, che ha saputo adattare i suoi ideali davanti a qualsiasi difficoltà o situazione storica; di un militante determinato e fedele agli ideali del Partito; di un sindacalista che poneva le questioni operaie e sociali al centro di qualsiasi analisi sulla realtà circostante.

L’analisi ha evidenziato quanto sia difficile saper racchiudere le esperienze di vita e di militanza politica in poche semplici parole. Ogni storia, seppur piccola, può esser densa di sfumature ed un caso emblematico è proprio quello della vita di Martelli.

Le problematiche emerse nello sviluppo dell’elaborato possono esser riscontrate consultando le fonti utilizzate. Metter insieme di documenti così personali e all’apparenza scollegati ha significato entrare in contatto con dei materiali biografici vivi, che non hanno delle vere e proprie controparti, ovvero: non ci sono dei documenti da confrontare con quanto racconta lo stesso Martelli. Le fonti consultate sono principalmente fonti primarie, arricchite da ricerche realizzate personalmente sui destinatari dei documenti o sui contenuti.

L’augurio da fare per un futuro è che la storiografia possa approfondire maggiormente le biografie di quegli uomini e di quelle donne che hanno apportato notevoli contributi alla causa dell’antifascismo e della Resistenza, col fine di poter comprendere maggiormente quali sono stati quei valori e quelle speranze che hanno permesso la nascita della Repubblica italiana e della Costituzione.

NOTE

1 Martelli G., Autobiografia, cit., p. 10.
2 Martelli conosceva bene il capitano della polizia Luigi Porquier (alias Porchié) perché, come racconta nella Nota autobiografica, era quel ragazzo che aveva percosso nel 1928 durante i corsi premilitari. Dopo le percosse che dette a Porchié, venne mandato al commando di polizia (all’epoca in via Cairoli), dove successivamente venne sottoposto a un interrogatorio e radunato con altri in via Ippolito Nievo. Dopo i rituali di circostanza, venne invitato ad uscire ed espulso per indegnità. Per fortuna, Porchié non lo riconosce durante la terza cattura di Martelli.
3 Allo stesso modo, Martelli conosce anche il brigadiere Marchesi perché è sempre stato presente ai suoi interrogatori, ma lo definisce comunque come una brava persona. L’impressione di Martelli sul brigadiere Marchesi viene descritta anche nel testo: Tredici M., L’inchiesta, la spia, il compromesso, cit., p. 354.
4 Fortunato Garzelli (1902-1944): nasce in una famiglia proletaria e si trasferisce a Livorno perché lavora come aiuto macchinista presso le Ferrovie dello Stato. Aderisce al Partito Comunista e nel 1933 subisce i primi fermi, arresti e perquisizioni. Nel 1941 costituisce il primo Fronte nazionale antifascista ed è membro della Concentrazione antifascista, poi diventato CLN di Livorno. Muore a pochi giorni dalla liberazione di Livorno mentre guida una pattuglia partigiana nei pressi di Quercianella (una frazione di Livorno), in uno scontro a fuoco avvenuto con i tedeschi il 15 luglio del 1944.
Oberdan Chiesa (1911-1944): nasce in una famiglia liberale e aderisce al Partito Comunista. Ben presto viene schedato dall’OVRA e definito come pericoloso antifascista. Negli anni Trenta, vive per un breve in Francia e partecipa alla Guerra Civile spagnola. Al suo rientro viene nuovamente arrestato e liberato in vista dell’8 settembre. Successivamente prende parte alle formazioni partigiane nell’entroterra livornese, ma viene arrestato il 22 dicembre del 1943 e trasferito al carcere Don Bosco di Pisa. Da quell’arresto non vi farà più ritorno, viene infatti fucilato a Rosignano Solvay (LI) il 29 gennaio 1944. Per un approfondimento sul tema, vedi: Brunetti G., Oberdan Chiesa: un uomo, una vittima, un mito. Pisa: Edizioni ETS, 2022.
5 L’Ardenza è un quartiere periferico situato a sud del comune di Livorno.
6 Tredici M., L’inchiesta, la spia, il compromesso, cit., p. 355.
7 Ivi, p. 357.
8 Martelli G., Autobiografia, cit., p. 12.
9 Martelli G., Autobiografia, cit., p. 12.
10 Ibidem.
11 Id, Nota autobiografica riferita al “dopo Liberazione”, marzo 1987, p. 2.
12 Ibidem.
13 Quando viene nominato Presidente del Bacino del Carenaggio, Martelli mostra delle doti manageriali che fino ad allora non era riuscito a sperimentare, contribuendo alla costruzione della Lips (la Società addetta alla progettazione e commercializzazione di eliche e alberi di trasmissione nel campo navale) e della piattaforma Sincrolift (una piattaforma della Darsena Morosini). Lasciò la Presidenza nel 1979, perché a lui successe Nelusco Giachini.

Articolo pubblicato nel giugno 2024.




Giovanni Martelli: storia di un antifascista livornese

Come affermato in precedenza, Giovanni Martelli viene arrestato a Livorno l’11 giugno 1932, ha solo diciannove anni e definisce negli anni quell’evento come «un duro colpo».[1] Allo stesso modo, il 1932 rappresenta un anno difficile per la riorganizzazione della Federazione comunista livornese, in quanto molti militanti adulti e di spicco vengono arrestati.

Dapprima, Martelli viene fermato e perquisito da un poliziotto dell’OVRA, successivamente gli viene trovato un biglietto che testimonia la sua attività nell’organizzazione del Soccorso rosso.[2] Viene interrogato alla Questura Centrale dal Commissario dell’OVRA Parlagreco, il quale deduce che non solo egli militava nel PCd’I, ma che addirittura apparteneva alla Federazione insieme ad altri esponenti che erano già stati arrestati nei giorni precedenti. Martelli è costretto a riconoscere ed a identificare gli altri compagni di partito, come Leonardo Leonardi, Roberto Vivaldi e Giovanni Tardini. Martelli affermò che non conosceva nessuno, se non qualche individuo adulto dell’organizzazione comunista. Resistere però non è sempre facile e si può comprendere dalle parole usate nell’Autobiografia, in cui egli stesso racconta:

«[…] Pur insistendo a negare […], essi mi fecero uscire e dopo poco fui di nuovo chiamato e così mi trovai di fronte al Vivaldi, il quale – disgraziato – era in uno stato da fare pietà.

Mi domandarono: lo conosci?

No, risposi, non l’ho mai visto.

Essi allora si rivolsero al Vivaldi il quale mi disse: è inutile Martellino, non negare, sanno tutto, essi sanno e conoscono tutto del nostro movimento e quindi non vale la pena insistere, del resto hanno confessato tutti.

Per la verità rimasi molto colpito, non riuscivo a comprendere come esso avesse capitolato così; tuttavia, continuai a negare […]»[3]

Successivamente, viene sottoposto a una perizia calligrafica per vedere se davvero fosse stato lui l’autore del biglietto sul Soccorso rosso. Il biglietto conteneva un prestito in denaro da fare ad alcuni esponenti del Partito ed era stato realizzato da un altro militante, Iedo Tampucci. Martelli non rivelerà mai il nome dell’autore e il contenuto del biglietto.

Durante l’interrogatorio scopre che la denuncia era stata avanzata dal dirigente della Federazione, Roberto Vivaldi. Vivaldi era stato costretto a denunciare proprio perché, come si legge nell’Autobiografia, l’OVRA aveva scoperto l’organizzazione comunista. Effettivamente, molte cose erano cambiate all’interno della Federazione durante l’arresto di questi esponenti: l’organizzazione sembrava essersi sfasciata e sembrava aver smarrito le linee guida necessarie per ricostituirla. L’unica speranza era quella di riedificare il movimento con una nuova linfa, ma i militanti rimasti si rifiutavano di prendere parte a questo processo in quanto temevano l’intervento della polizia fascista.

Nel luglio 1932 Martelli viene mandato in prigione presso il carcere S. Leopoldo e denunciato al Tribunale speciale con l’imputazione prevista dall’articolo 270 del Codice Penale. Viene poi trasferito al carcere dei Domenicani e liberato nell’ottobre dello stesso anno in occasione dell’amnistia per il decennale dalla Marcia su Roma. Quell’arresto fu uno dei più grandi realizzati dall’OVRA, non solo per il numero di arrestati, ma anche perché raggiunse i compagni che stavano espatriando. Con la scarcerazione poco sarebbe cambiato nella vita di Martelli, perché sa che la condizione di vita in clandestinità e la lotta al fascismo sarebbero continuate. Lui stesso racconta:

«[…] La libertà era certo bella per tutti noi tuttavia, quasi spontaneamente, una parte di noi giovani decise di dare continuazione alla propria attività clandestina. Dico una parte perché, sia nel campo giovanile come in quello degli adulti non pochi si ritirarono a vita cosiddetta privata. Non ce ne facemmo motivo di scandalo. Pertanto ci rimettemmo a lavoro […] con una maggiore attenzione […]».[4]

Nel 1933 prende parte alla rifondazione del movimento comunista, un’iniziativa profondamente sostenuta dai giovani livornesi come Renzo Tamberi, Garibaldo Benifei, Otello Frangioni, Marte Corsi, Angiolo Giacomelli. In quel breve periodo, Martelli realizza dei volantini di propaganda e contribuisce alle attività della stampa clandestina.

A nove mesi dalla scarcerazione, il 1° agosto 1933 viene fatto salire su un’automobile in cui lo attendevano tre fascisti. Martelli è tranquillo perché sa che i materiali eversivi del PCd’I sono rimasti a casa sua e viene accompagnato nella sede rionale fascista di Barriera Garibaldi, un luogo tristemente noto per esser teatro di interrogatori e di torture che i fascisti infliggevano agli oppositori politici. Successivamente, viene bendato e portato in una stanza dove ad attenderlo c’è il tenente Gagliano. Il motivo della cattura è il seguente: Gagliano ha scoperto chi è l’autore dei volantini sovversivi, vuole sapere con chi collabora e dove sono custoditi. Il tenente gli mostra i volantini che effettivamente erano stati realizzati da lui e Tamberi, ma Martelli continua a negare tutto.

Gagliano lo invita a spogliarsi ed esamina le sue mani con una lente di ingrandimento. A quel punto, dei giannizzeri iniziano a picchiare violentemente Martelli soprattutto sulle mani, considerate il vero «corpo del reato».[5] Però, la polizia fascista non si limita a interrogare Martelli e decide di indagare su Tamberi. A seguito di diverse indagini compiute nelle settimane precedenti, la polizia fascista aveva scoperto che Martelli e Tamberi collaboravano insieme alla realizzazione dei volantini eversivi.

Quando si consultano delle autobiografie, ciò che sorprende sono sia le emozioni che possono produrre anni dopo sullo stesso lettore, che i minimi dettagli che vengono raccontati. L’Autobiografia di Martelli è un vero e proprio racconto dettagliato di tutte le vicende e le torture subite durante il Ventennio fascista, ma forse non è la minuziosità del racconto a sorprendere un qualsiasi lettore, quanto il pathos che trasmette quando narra le torture subite dagli amici e dai compagni di Partito, i giorni in carcere, la difficoltà a comunicare e a mantenersi in contatto con loro. Durante quell’interrogatorio, Martelli non vedrà mai arrivare Tamberi e crede che l’amico possa aver fatto dei nomi di altri militanti, che possa aver tradito tutti e che sia ceduto davanti alle violenze fasciste. In realtà, Tamberi non verrà interrogato nella sede rionale fascista di Barriera Garibaldi, ma direttamente a casa sua.

Martelli non sa che fare, continua a dire che non era a conoscenza di niente, ma a che scopo? Col passare delle ore e con l’aumento delle percosse subite ha anche egli paura di non farcela, di non saper resistere e di non sapere per quanto potrà mentire. La coercizione fascista era in grado di permeare la psiche di molti giovani e antifascisti che erano stati catturati. Martelli vede l’interrogatorio come una sfida in cui non vuole cedere, anche perché non ha un’altra scelta: deve resistere alla violenza per tutelare non solo l’organizzazione, ma anche i suoi compagni di Partito.

Il militante livornese seppe resistere a quelle brutalità, ma non per questo va raffigurato (e non avrebbe mai voluto definirsi) come “eroe”, piuttosto seppe assolvere le mansioni perché credeva fervidamente a un sistema valoriale basato su libertà e resilienza, così come altri compagni di Partito che cedettero alle violenze. Il raccontare determinati dettagli sulle attività o sulle organizzazioni considerate come eversive, non era sinonimo di “codardia”: non era facile resistere alle violenze e alle percosse che i fascisti infliggevano alle persone col fine di estorcere con mezzi disumani la verità.

L’interrogatorio durò sette ore e l’arrestato venne ripetutamente percosso dal maresciallo Niccoletti, verrà interrogato alla Questura di San Leopoldo e lì vi rimarrà in prigione per diverse settimane. A tre giorni dall’arresto alcuni suoi compagni della stessa organizzazione vengono arrestati e scoprirà che la denuncia era partita dal militante Sirio Vincensini. Vincensini aveva confessato da chi aveva avuto il manifesto originale, ovvero da Garibaldo Benifei che a sua volta aveva fatto il nome di altri militanti. Lo stesso Martelli racconta:

«[…] il Vincensini (un altro militante) informò il fascio che tanto io come il Tamberi quella sera eravamo a stampare, però non sapendo il luogo indusse i fascisti ad attendermi. Preso me, essi pensavano di cavarmi di bocca sia il luogo ove eravamo stati a stampare, come il nome Tamberi, questo per salvare il delatore […]».[6]

Insieme agli altri militanti livornesi, egli promise che avrebbe evitato di compromettere la posizione degli altri compagni, altrimenti il processo sarebbe andato avanti all’infinito.

Il 9 dicembre del 1933 Martelli viene condannato a due anni e cinque mesi di reclusione da scontare alla Casa di pena di Civitavecchia. Il periodo di detenzione non è così duro, a detta di Martelli stesso, perché le condizioni igienico-sanitarie in cui viveva erano buone, aveva diritto due ore di aria invece che una, e poteva prendere parte a laboratori di scrittura e di traduzione. Questa esperienza costituisce un punto di svolta nella sua formazione politica nella quale potrà sperimentare delle nuove forme di mobilitazione politica ed attività pratiche che non aveva mai testato a Livorno. All’interno della cella stipula delle relazioni con esponenti di spicco come Giovanni Parodi e Pietro Carsano, i quali gli trasmettono i principi fondamentali del comunismo e lo avviano a un vero e proprio percorso di formazione sul comunismo.[7] A Civitavecchia, Martelli studia dalla mattina alla sera ed è sottoposto a una disciplina ferrea, perché «il Partito pretendeva che i giovani fossero preparati nel migliore dei modi».[8] L’obiettivo prefissato dal PCd’I era quello di insegnare varie discipline concernenti il materialismo storico, l’economia politica, la letteratura.

Il capo della cella era Giovanni Parodi, ma vi erano comunque altre celle separate dove vi erano esponenti illustri del Partito. Tra una cella e l’altra avvenivano degli scambi di informazioni grazie alla complicità di alcune guardie carcerarie, le quali si rendevano disponibili allo scambio di «farfalle», ovvero biglietti scritti su cui venivano annotati gli argomenti di discussione da trattare nelle ore di aria.[9]

Nel settembre del 1934 viene scarcerato grazie ad un indulto concesso straordinariamente in seguito alla nascita della prima figlia di Re Maggio, il luogotenente dell’epoca della Casa di pena di Civitavecchia. Martelli sa bene che niente sarebbe stato più come prima, perché non vuole più essere il semplice ragazzo che diffonde volantini eversivi ed ha capito che per rovesciare il regime è necessario agire diversamente.

Nel febbraio del 1935 il padre muore e deve far fronte a una difficile situazione economico-finanziaria che travolge tutta la famiglia, tenta più volte di poter far rientro ma senza successo. Dapprima viene mandato al settantacinquesimo di Fanteria di Siracusa, un reggimento di disciplina composto dai criminali più disparati (ladri, stupratori, pochi antifascisti e qualche renitente alla leva) e poi viene assegnato alla scuola di Allievi Ufficiali.[10] In quel breve periodo cerca più volte di tornare a Livorno dai suoi cari, ma senza successo. Nei suoi tentativi di rientrare a casa viene ostacolato perché non aveva completato i corsi premilitari in età adolescenziale che soltanto gli avrebbero permesso di tornare nella città di residenza. Il 5 marzo dello stesso anno viene inserito nel corpo di spedizione in partenza per l’Africa Orientale, per l’Abissinia.  Secondo il figlio, Walter Martelli, la sua esperienza nella Guerra in Africa Orientale non fu completamente negativa per il padre, in quanto non prese parte a delle iniziative militari e riuscì a stabilire delle buone relazioni con gli abitanti del luogo.[11] Martelli ha raccontato ai suoi figli di aver diffuso nei villaggi dei consigli medici e delle nozioni generali per migliorare le condizioni igienico-sanitarie.

Al suo rientro a Livorno, avvenuto nel 1936, molte cose erano cambiate. Alla fine del 1936 venne assunto presso i Cantieri Orlando, un’esperienza positiva che l’autore definì come una «grande conquista».[12] Lo stabilimento racchiudeva la storia del movimento operaio antifascista livornese e, per queste ragioni, riuscì a mettersi nuovamente in contatto con i compagni antifascisti che aveva conosciuto durante la clandestinità. La rete dei rapporti tra i militanti comunisti venne prima stabilita all’interno del cantiere e poi estesa al di fuori, ed era retta proprio dallo stesso Martelli.

A livello nazionale, il PCd’I abbandonò il precedente carattere settario che negli anni precedenti aveva portato il movimento ad isolarsi rispetto alle iniziative di altri partiti antifascisti. Tra il 1934 e il 1938 venne creato un Fronte popolare, in cui erano riunite tutte le forze politiche in aperta opposizione al regime. Questa fu anche la fase in cui i due partiti operai – il Partito Socialista e il Partito Comunista – ripristinarono delle forme di dialogo e di collaborazione dopo anni di scissione, culminate con la stesura di un patto di unità di azione nel 1934.

A livello locale, la Federazione livornese si ricostituì con esponenti di spicco e di varia provenienza come militanti storici, intellettuali, teorici, professori, figure pubbliche e notorie della comunità labronica. Un lieve passo avanti che venne messo di nuovo a dura prova da un’ondata di arresti senza precedenti.[13] Grazie alla rete di relazioni che Martelli aveva edificato ai Cantieri Orlando col militante comunista Mario Galli, l’organizzazione potè stabilire delle relazioni con intellettuali del calibro di Vittorio Marchi, Antonio Maccaroni, Aldo Balducci, Giorgio Stoppa. Le riunioni del nuovo partito si tenevano presso la casa dell’intellettuale Umberto Comi ed affrontavano temi svariati, come il rapporto tra il fascismo e la guerra, la Germania nazista, l’utilizzo della cultura e degli ideali comunisti come unica soluzione davanti alla violenza.[14] Mentre, Martelli e altri esponenti di partito che avevano vissuto direttamente sulla loro pelle la condizione proletaria, si facevano portavoce di altre tematiche, come i problemi della fabbrica e dello sfruttamento dei lavoratori.

Martelli non condivideva la nuova struttura della Federazione perché «nonostante i nuovi componenti si dichiarassero comunisti erano ben lungi dall’esserlo».[15] Secondo il militante di adozione livornese, gli ideali che quest’ultimi condividevano erano ideali social-liberali e poco affini ai principi marxisti-leninisti. Inoltre, a suo giudizio, esisteva una profonda differenza tra chi studiava il marxismo dalla cattedra e chi conosceva il marxismo perché apparteneva alla classe operaia.

Nel 1939 non gli viene riconosciuto più l’esonero dalla leva, riconosciutogli nel 1935 in quanto orfano di padre e unico capofamiglia, ed è per questo motivo che lascia il suo impiego ai Cantieri Orlando. L’ingegnere Bechi, all’epoca direttore dei Cantieri Orlando, si oppone al suo trasferimento inviando una lettera alla Questura di Livorno, ma senza successo. Inizia quindi a lavorare per un’azienda che produceva bombe a mano a Fiume, nota come Motofides. Durante quel periodo lavora alla realizzazione dell’Incrociatore San Giorgio, prende parte ad azioni di insubordinazione dalla catena di montaggio e viene licenziato nel 1942, perché considerato politicamente pericoloso.

Nel 1943 viene mandato a Torino alla Caserma Marmora ma, in seguito ai bombardamenti, viene mandato a Massa Marittima, una città in provincia di Grosseto. In quel piccolo centro rafforza il proprio legame con altri militanti comunisti locali e lì vi rimane fino alla ratificazione dell’Armistizio di Cassibile. Grazie all’aiuto di un militante locale, riesce a scappare dalla città grossetana e a raggiungere la famiglia sfollata ai Bagni di Casciana, dove si trovava anche sua moglie insieme alla sua famiglia. Si unisce alle formazioni partigiane locali nate dopo l’8 settembre e fa parte del Partito del Comitato militare ed ha come compito quello di organizzare i vari nuclei di partigiani della zona prima dell’arrivo del fronte di liberazione.[16]

NOTE

[1] Martelli G., Autobiografia, cit., p. 2.

[2] Il Soccorso rosso, noto anche come “Soccorso rosso internazionale per i combattenti della rivoluzione” in sigla MOPR, è stata un’organizzazione internazionale legata all’Internazionale Comunista con il compito di fornire supporto ai prigionieri comunisti e alle loro famiglie. Il Soccorso rosso è rimasto attivo tra gli anni Trenta e la Seconda guerra mondiale e condusse campagne di solidarietà sociale, di supporto materiale e umanitario, a sostegno dei prigionieri comunisti.

[3] Martelli G., Autobiografia, cit., p. 2.

[4] Tredici M., L’inchiesta, la spia, il compromesso. Livorno 1935: processo ai comunisti. Livorno: Media Print, 2020, p. 346.

[5] Come compare sul dizionario Treccani, originariamente il giannizzero era un soldato di un corpo scelto di truppe a piedi dell’impero Ottomano, spesso adibito alla guardia del corpo del sultano. Nel periodo fascista si indicavano invece tutte quelle persone al servizio di qualche personaggio illustre della milizia fascista. Ma lo stesso termine può anche esser usato in senso dispregiativo per indicare uno scagnozzo o tirapiedi, forse questo è il significato a cui fa riferimento Martelli nella sua Autobiografia. La citazione compare in: Martelli G., Autobiografia, cit., p. 4.

[6] Martelli G., Autobiografia, cit., p. 6.

[7] Giovanni Parodi (1889-1962) nasce in una famiglia operaia e diventa ben presto militante del PCd’I, viene arrestato nel 1927 dal Tribunale Speciale Fascista e gode dell’amnistia nel 1937. Fugge in Francia nel 1940 e viene arrestato l’anno successivo. Fortunatamente riesce ad evadere e a continuare il lavoro politico clandestino, nel dopoguerra fu membro del Comitato centrale del Partito Comunista Italiano e Segretario generale della Federazione Italiana Operai Metallurgici (in sigla, FIOM).

Giovanni Carsano (1891-1965): inizialmente operaio torinese, aderisce al PCd’I e partecipa al biennio rosso. Come Parodi viene arrestato nel 1927 e rilasciato dopo dieci anni, viene mandato al confino nel 1943 dove rimane fino alla liberazione. Dopo la guerra lavora presso i sindacati dei pensionati e presso l’Unione internazionale dei sindacati dell’Alimentazione.

[8] Tredici M., L’inchiesta, la spia, il compromesso, cit., p. 349.

[9] Ibidem.

[10] Tredici M., L’inchiesta, la spia, il compromesso, cit., p. 350.

[11] Intervista dell’autrice a Walter Martelli, svoltasi il 2 aprile 2024 presso l’abitazione di quest’ultimo a Livorno.

[12] Tredici M., L’inchiesta, la spia, il compromesso, cit., p. 350.

[13] Tra gli esponenti di spicco vengono arrestati Garibaldo Benifei e Aramis Guelfi.

Aramis Guelfi (1905-1977): inizialmente maestro d’ascia, viene condannato nel 1939 dal Tribunale speciale a scontare quattro anni di reclusione. Viene liberato anch’egli con l’Armistizio dell’8 settembre, ma continua a combattere nella zona di Volterra. Diventa esponente di spicco del Partito Comunista livornese, per poi aderire nel 1963 al Partito Socialista Democratico.

[14] Umberto Comi era vicedirettore del giornale fascista “Sentinella Fascista” e spesso scriveva articoli non proprio conformi all’ideologia fascista, ma erano spesso difficili da decifrare nei loro contenuti e, proprio per la sua adesione al Partito, si crearono delle divisioni all’interno del movimento.

[15] Martelli G., Autobiografia, cit., p. 9.

[16] L’area sottoposta al controllo di Giovanni Martelli è relativamente grande e comprendeva molte piccole città della provincia di Pisa, come: Lari, Cascina, Crespina, Terricciola, Chianni, Peccioli.

Articolo pubblicato nel maggio 2024.




Giovanni Martelli: storia di un antifascista livornese

Introduzione
Giovanni Martelli è stato un antifascista, militante comunista e sindacalista livornese. Ha dedicato la sua vita ai lavoratori e agli ideali di libertà, in cui credeva fervidamente. È stato vittima delle violenze fasciste, di incomprensioni da parte dei suoi stessi compagni di Partito e dei dirigenti dei sindacati, di un sistema politico che cambiava costantemente e in cui si identificava sempre meno.
Questo articolo vuole ripercorrere una parte della vita di Martelli, dalla sua precoce militanza nel Partito Comunista d’Italia fino alla detenzione nelle carceri [1]. Verranno esaminate anche tutte quelle persone che hanno assistito Martelli nel proprio percorso politico, come alcuni antifascisti e militanti livornesi, partigiani attivi nella Resistenza all’occupazione nazifascista, politici e sindacalisti della Prima Repubblica. Tale ricerca non può esser scissa da un’analisi complessiva sul contesto nazionale che ha fatto da sfondo alla sua vita, un contesto segnato dal fascismo prima e dalle tematiche del secondo dopoguerra.
Il progetto è nato sulla base della consultazione dell’Autobiografia e delle note autobiografiche redatte da Giovanni Martelli stesso, e successivamente è stato esteso grazie a degli approfondimenti attuati su altri documenti conservati dal militante. Fino ad oggi la biografia e le esperienze di vita di Martelli sono state poco note alla comunità livornese odierna ma, grazie ad un lavoro di ricerca attuata personalmente presso l’Istituto Storico della Resistenza e delle Società Contemporanee della provincia di Livorno (in sigla, ISTORECO), adesso sarà possibile ricostruirle passo dopo passo. Martelli non era di origini livornesi, eppure il suo impegno politico è sempre stato rivolto alla città labronica fin da quando aveva diciassette anni, fin dal 1930.
L’articolo illustra non solo la sua figura, il suo impegno politico e sociale, ma anche i valori che ha condiviso e che lo hanno contraddistinto in tutti i suoi anni di militanza. Perché al di là della figura, c’è stato un uomo che ha creduto negli ideali di libertà, solidarietà, verità, lavoro. Martelli è stato proprio questo: un militante che ha corso dei rischi per i valori in cui credeva, ed è proprio partendo da questi valori che sarà possibile definire con maggior chiarezza la sua figura.
Per la realizzazione dell’elaborato sono stati consultati i documenti redatti e conservati da Martelli stesso, come ad esempio: le note autobiografiche, la propria biografia, lettere e opuscoli, articoli di giornali, comunicati. Le fonti sono state dapprima analizzate analiticamente, approfondendo i contenuti e gli eventi riportati, e successivamente sono state esaminate complessivamente col fine di tracciare un filo rosso che le ponesse in correlazione. Le persone non decidono casualmente di conservare determinati documenti, il tutto dipende dal grado di importanza che per essi rivestono; oppure, ogni individuo conserva un determinato oggetto perché lo rappresenta intrinsecamente. I documenti accumulati da un essere umano non sono mai agenti neutrali della storiografia, ma vanno osservati con attenzione e cautela.
Per esaminare questa storia particolare ed affascinante, l’elaborato è stato suddiviso in tre brevi paragrafi (pubblicati in tre articoli distinti).
Il primo paragrafo (pubblicato qui di seguito) illustra i primi anni di militanza di Giovanni Martelli nel Partito Comunista d’Italia durante il regime fascista e il suo incontro precoce con la classe operaia. Come afferma nella sua autobiografia, Martelli incontra la politica in età giovanile e quasi per caso, senza rendersi conto di cosa significasse aderire a un partito costretto alla clandestinità durante un regime totalitario. Si accorge delle responsabilità che ricopre solo quando vivrà sulla propria pelle la perquisizione e l’arresto.
Il secondo evidenzia i suoi due periodi di detenzione nelle carceri fasciste e le difficili condizioni psico-fisiche in cui ha vissuto. Nonostante gli arresti, Martelli apporterà un contributo significativo alla causa dell’antifascismo livornese e della Resistenza.
Il terzo ripercorre l’ultimo periodo di detenzione avvenuto prima presso il carcere di Don Bosco a Pisa e poi presso il carcere di Sant’Eufemia a Modena. L’ultimo arresto segnerà in maniera indelebile la vita del giovane antifascista di adozione livornese, soprattutto perché temeva di non poter più far ritorno a casa.

La presa di consapevolezza (novembre 1913-giugno 1932).
Giovanni Martelli nasce il 17 novembre 1913 a Castelfiorentino in una famiglia di umili origini: suo padre è operaio presso la Metallurgica Italiana e sua madre è casalinga. Per questioni lavorative il padre si trasferisce col resto della famiglia a Livorno, quando Martelli era molto piccolo. Lo stesso padre era nato e domiciliato a Livorno.
Vista la difficile situazione economica in cui viveva la famiglia, Martelli è costretto a lavorare non appena ha terminato le scuole elementari. Il suo primo impiego è presso l’ufficio telegrafico, dove vende a domicilio i telegrammi in arrivo, e a quindici anni lavora alla Cristalleria Torretta. Conosce il mondo del lavoro molto presto, quando è poco più che un bambino. Il contatto precoce con questa realtà lo segna così tanto nel profondo che le battaglie proletarie rimarranno al centro dei suoi interessi e delle sue discussioni.
Fino ai diciotto anni svolge più impieghi: diventa manovale edile, costruisce i blocchi di Shangai, svolge degli incarichi presso l’impresa Feltrinelli[2]. Successivamente, inizia a lavorare presso la ditta francese Mathon in uno stabilimento di materiali refrattari[3]. L’autore descrive la difficile condizione lavorativa in cui viveva, il difficile rapporto col sistema di produzione industriale fordista e la scarsa remunerazione che riceveva. Martelli racconta quella realtà con le seguenti parole:

«[…] Lavorai in quella fabbrica per circa due anni e fu in essa che conobbi veramente la durezza del lavoro e delle condizioni imposte all’operaio. In questo stabilimento, costruito secondo i moderni criteri dell’epoca, nonostante il paternalismo di quella direzione, le condizioni del lavoratore erano subordinate alla “salute” dei materiali […]. La condizione [in] cui si trovava l’operaio addetto alla macinazione del materiale refrattario, immerso per ore e ore permanentemente [nel] nuvolo di polvere e così via. Una forte percentuale di quegli operai, che per anni avevano dovuto lavorare a quelle condizioni, veniva colpita da malattie tubercolari o da gravi forme di silicosi […]»[4].

Quelle difficili condizioni lavorative gli fecero capire l’importanza della formazione, dell’istruzione e della scuola, di quei percorsi che aveva dovuto abbandonare a causa della povertà. Martelli comunque tra i diciotto e i ventuno anni riesce a frequentare delle scuole serali di avviamento professionale, dove si specializza in motori e in aviazione.
Sempre all’età di diciotto anni, Martelli si avvicina alla politica e al PCd’I quasi per caso. Nella sua Autobiografia racconta che non si è mai spiegato il perché a quell’età nutrisse una «profonda avversione verso il sistema fascista» e una «certa simpatia per il Partito comunista»[5]. In realtà, esisteva una motivazione di fondo che spiegava i suoi sentimenti contrastanti: come altri giovani cresciuti durante il Ventennio, era costretto a frequentare dei corsi premilitari che detestava nel profondo.
L’attività politica di Martelli si inserisce proprio in un periodo storico molto complesso. Nel 1931 si iscrive alle organizzazioni giovanili della Federazione comunista livornese a Iedo Tampucci e Leonardo Leonardi ma, a causa della sua giovane età, inizialmente non ricopre dei ruoli di rilievo politico all’interno della federazione e svolge altre attività, come: azioni di propaganda, organizzazione delle cellule, distribuzione e lanci dei manifesti di propaganda, preparazione dei materiali da discutere nelle riunioni. Aderire a un movimento considerato come eversivo in un regime autoritario, significava prender parte consapevolmente alla vita clandestina.
Un anno dopo entra a far parte del Comitato federale dei giovani e conosce molti giovani comunisti livornesi, tra cui Otello Frangioni e Garibaldo Benifei[6]. È necessario precisare che questi giovani non solo svolgeranno dei ruoli di rilevanza all’interno della lotta al regime nazifascista, ma continueranno anche a ricoprire degli incarichi di spicco all’interno del Partito dopo la guerra. Inizialmente prendono parte a riunioni su argomenti concernenti i presagi di una guerra imminente e la possibile partecipazione del fascismo ad essa, e successivamente svolgono il ruolo di trasmissione all’interno dell’organizzazione delle inaudite difficoltà che stava vivendo il Partito a livello nazionale. Inoltre, svolgeranno azioni di proselitismo clandestine nelle fabbriche e nelle giornate di festività dei lavoratori, come il primo maggio abolita dal regime e realizzeranno dei volantini inneggianti lavoro, pace e libertà.
Il 1932 è un anno che segnerà in maniera irreversibile la vita di Martelli in quanto viene arrestato l’11 giugno dall’OVRA, la polizia politica e segreta del regime che aveva il compito di reprimere l’antifascismo. Fino al 1944, Martelli verrà arrestato complessivamente tre volte e verrà denunciato al Tribunale speciale, come compare anche nella scheda biografica del Casellario Politico Centrale[7].
Le torture subite, gli arresti, le condanne e i trasferimenti, cambieranno le scelte di vita di Martelli che da militante per caso, divenne sinceramente convinto delle proprie scelte e continuerà ad opporsi al regime con un coraggio senza precedenti. È proprio con queste esperienze difficili che Martelli acquisirà una maggior consapevolezza e coscienza su cosa vuol dire esser militanti in un partito di opposizione durante un regime totalitario.

Note

  1. D’ora in avanti il Partito Comunista d’Italia verrà indicato con la sigla PCd’I.
  2. Presso l’impresa Feltrinelli, Martelli lavora allo scarico e carico del legname. Per un’impostazione generale sul tema, vedi: Martelli G., Nota autobiografica, Livorno, gennaio 1985, p. 1.
  3. Lo stabilimento qui menzionato è la “Società toscana per lo sfruttamento di cave e miniere C. Mathon”, attiva in tutto il territorio toscano e collocata a Livorno all’epoca in Piazza San Marco. Per un approfondimento sul tema, vedi: Camera di commercio della Maremma e del Tirreno, Fascicolo delle Società cessate, b. 838.
  4. Martelli G., Nota autobiografica, cit., p. 3.
  5. Martelli G., Autobiografia, Direzione del Partito Comunista Italiano (Sezione Quadri), 20 marzo 1945, p. 1.
  6. Otello Frangioni (1913-1952): è coetaneo di Martelli, con cui stringe un solido rapporto di amicizia. Anche lui si iscrive al Partito Comunista quando è giovanissimo e nutre un interesse profondo per le questioni proletarie. Sposerà una delle sorelle di Martelli e diventerà suo cognato. Muore in un incidente stradale a Scandicci insieme a altri militanti livornesi, come Leonardo Leonardi e Ilio Barontini.
    Garibaldo Benifei (1912-2015): Nasce in una famiglia antifascista, composta dal fratello anarchico Rito e dal fratello socialista Antonio. Nel 1933 viene arrestato con Martelli e condannato a un anno di reclusione presso il Palazzo dei Domenicani a Livorno, dove conobbe Sandro Pertini. Dopo l’arresto nel 1939 viene condannato a sette anni di carcere, ma viene liberato con l’Armistizio dell’8 settembre 1943. Tornato a Livorno aderisce al CLN e prende parte attivamente alla guerra di liberazione. Nel dopoguerra ha continuato a lavorare come operaio ed è stato esponente di spicco del Partito Comunista livornese.
  7. Casellario Politico Centrale, Giovanni Martelli, b. 3092, < http://dati.acs.beniculturali.it/CPC/ >, data di consultazione: 18 marzo 2024.

Articolo pubblicato nell’aprile 2024.




Armando Turinelli

Il 31 luglio del 1922, l’Alleanza per il Lavoro (una coalizione tra CGdL, USI, UIL[1], FILM)[2] proclamò lo “sciopero legalitario” contro i soprusi e le violenze dei fascisti, finanziati dagli agrari e dagli industriali (con la complicità della Chiesa e della monarchia) per contrastare “il pericolo rosso”. «La Parola dei Socialisti» del 11 giugno 1922 aveva già accusato la borghesia di avere “allevata in seno una serpe” e di non essere più in grado di gestire quel movimento che aveva incoraggiato, credendo di poterlo manovrare a suo vantaggio.[3] Anche a Livorno, come nelle altre città, le squadracce delle camice nere, si muovevano (indisturbate) per la città in cerca di cittadini da malmenare e conti da regolare[4]. Con la proclamazione dello sciopero, partì la mobilitazione fascista: centinaia di squadristi da tutta la Toscana si ritrovarono a Livorno nella sede di via Goldoni per stroncare la “città rossa”. I fascisti devastarono la Camera del Lavoro, i circoli socialisti, le sedi delle organizzazioni “sovversive”. Alcune sparatorie ci furono in via Garibaldi, in piazza Carlo Alberto (attuale piazza della Repubblica), in via della Pina d’Oro. Scontri a fuoco tra comunisti e fascisti anche in via dell’Oriolino. In via Solferino, quasi all’imboccatura di piazza XI maggio ed al quadrivio di via della Campana, furono feriti con colpi di rivoltella due fascisti. Altri scontri in via Santa Fortunata, dove un facchino che strappava i manifesti fascisti, dopo una colluttazione con un cittadino, fu aggredito da alcuni fascisti che attaccavano in zona i manifesti; ancora ad Ardenza Terra, in via ed in piazza Vittorio Emanuele (attuali via e piazza Grande), in zona Ponte Arcione[5] (Pontarcione, tra via Provinciale Pisana ed il ponte sull’Ugione), dove perse la vita Filippo Filippetti. Furono aggrediti anche rappresentanti del Consiglio e della Giunta comunale. Vennero uccisi l’assessore Luigi Gemignani e il consigliere Pietro Gigli, insieme al fratello Pilade.

Il 3 agosto, un migliaio di camice nere circondarono il palazzo comunale. Costanzo Ciano e il marchese Perrone Compagni minacciarono il sindaco Mondolfi che, costretto dalla violenza, rassegnò le dimissioni. Il Comune andò in mano ai fascisti ma in città continuano per le vie non gli scontri. Vengono devastate le sedi del Partito Socialista e quella del Partito Comunista (via Santa Fortunata). Scontri avvengono anche in via Tranquilli, sul Voltone, in via Palestro, in via San Luigi e in via Cairoli. Nel pomeriggio del 4 agosto le squadracce fasciste organizzano delle retate e tra gli arrestati, insieme al vicesindaco di Livorno Adolfo Minghi, c’è anche Armando Turinelli[6].
Con la vittoria del fascismo, insieme alle Camere del Lavoro, alle Case del popolo, alle sedi di partiti e di cooperative, vengono costrette a chiudere anche le sedi delle associazioni anticlericali compreso il Gruppo antireligioso “Pietro Gori”.
Nel 1922, a causa dell’attività politica, Turinelli viene licenziato. Non troverà più un’occupazione fissa ed inizia un periodo difficile per tutta la famiglia. Affittato un magazzino in via Provinciale Pisana[7], riprende a svolgere il vecchio mestiere di impagliatore di damigiane e fiaschi di vino.
La casa del Turinelli diventa luogo di incontro di sovversivi

di giorno vengono gli amici del babbo vestiti con i panni da lavoro, hanno sempre fretta e parlano a voce così bassa che non è facile capirli; arrivano e partono senza salutare, senza prendere mai né un bicchiere d’acqua né una tazza di cicoria.[8]

Durante il regime, Armando sarà vittima di aggressioni fisiche e di azioni punitive con irruzioni nella notte nella propria abitazione alla ricerca di materiale sovversivo. Talvolta viene prelevato con la forza e portato nei locali della Fortezza Vecchia dove viene percosso. Nonostante i soprusi, Turinelli rimane fedele ai suoi ideali: “Volete che mi vesta da fascista? Io mi vesto però l’abito è vostro ma dentro sono mio”[9]. Alle elezioni politiche, per le quali era prevista la sola possibilità di approvare o respingere un’unica lista di deputati sostenitori del fascismo Armando si presenta al seggio con la sciarpa rossa e vota no “e siccome il voto non è affatto segreto, torna a casa pesto e sanguinante”[10].
Racconta poi la figlia Lenina che ogni volta che c’è una parata o che a Livorno arrivano personaggi importanti del Regime, il padre viene prelevato e portato in caserma[11]. Una volta all’uscita trova un manipolo di fascisti intenti a purgare i dissidenti con il famigerato olio di ricino. Turinelli rientra al Commissariato e al questurino incredulo che gli chiede il perché del suo ritorno risponde seccamente: io alla purga preferisco la galera.[12]

Nel periodo della guerra, i Turinelli trovarono riparo presso una casa a “Campo al Melo” (una frazione di Livorno nell’entroterra dopo Cisternino) e si guadagnano da vivere vendendo in città il raccolto della campagna. Durante il giro in città, Armando si allontanava dai familiari per incontrarsi clandestinamente con gli antifascisti livornesi.

Finita la guerra e sconfitto il fascismo, riprendono le attività pubbliche e dall’agosto 1945, ricompare il Gruppo Antireligioso Pietro Gori. Il 21 marzo 1946, esce il primo numero de «Il Corvo», giornale anticlericale edito dallo stesso gruppo. Turinelli è confermato Presidente del Gruppo (lo sarà fino alla scomparsa[13]) e scrive articoli per il giornale.

Armando Turinelli muore il 23 gennaio 1951, il giorno dopo la scomparsa di Ilio Barontini (morto nella mattina del 22 gennaio in seguito ad un incidente stradale insieme ai compagni di partito Frangioni e Leonardi[14]), al quale era stato al fianco fin dal 1921. Al suo funerale saranno presenti i soci del Gruppo anticlericale ed un migliaio di amici e compagni con numerosi vessilli rossi[15].
Turinelli è stato tra i fondatori del PCd’I e negli anni venti, Segretario provinciale della Fiom CGdL di Livorno[16].

NOTE

  1. https://it.wikipedia.org/wiki/Unione_Italiana_del_Lavoro_(1918-1925) – (Da non confondere con il sindacato omonimo fondato nel 1950 ed esistente tutt’oggi).
  2. https://it.wikipedia.org/wiki/Alleanza_del_Lavoro.
  3. http://www.comune.livorno.it/_cn_online/index02b2.html?page=default&id=554&lang=it.
  4. Paola Ceccotti, Il Fascismo a Livorno – dalla nascita alla prima amministrazione podestarile, Empoli, Ibiskos Editrice, 2006, p. 101.
  5. Da «Il Telegrafo» del 3 agosto 1922 (i giorni precedenti il 3 agosto, il giornale non esce in edicola per l’adesione allo sciopero indetto dall’Alleanza del Lavoro).
  6. Memorie dell’Antifascismo Livornese, (a cura dell’ANPPIA di Livorno), Pisa, Industrie Grafiche d Pacini, 2000, pp. 14, 20.
  7. Marco Susini, “MILITANTI” Personaggi e Storie della sinistra livornese, Pontedera, Bandecchi &Vivaldi, 2002, p. 105.
  8. Rosalba Risaliti “Le cinque domande di Cesarina”, https://anppia.it/l-antifascista/leggi-anche-tu/ .
  9. https://www.facebook.com/anppiantifascista/photos/a.1443457072608570/2745214389099492/?type=3
    Racconto del figlio Spartaco.
  10. M. Susini “MILITANTI”… cit. 105.
  11. Ibidem.
  12. Ibidem p. 106.
  13. «Il Corvo» (anno VI n.15) 1 maggio 1951 p.4.
  14. https://archivio.unita.news/assets/main/1951/01/23/page_001.pdf.
  15. «Il Corvo» (anno VI n.15) 1 maggio 1951 p.4.
  16. https://necrologie.repubblica.it/necrologi/2004/439054-turinelli-armando?nome=turinelli+armando.



Armando Turinelli

Questo ritratto che proponiamo di un militante antifascista si colloca nella cornice della tradizione anarco-comunista di Livorno ma soprattutto in quella dell’anticlericalismo labronico. Non si tratta di un personaggio di primissimo piano ma può essere utile a rappresentare attraverso un percorso biografico sintetico, una vicenda molto più estesa e significativa.
Di origine lombarda (Milano), Armando nasce a Noceto in provincia di Parma il 16 aprile 1886. La famiglia è parte di una compagnia teatrale.
In cerca di un lavoro più redditizio, Armando abbandona l’attività teatrale e si stabilisce a Livorno, nota città anticlericale e sovversiva. Troverà occupazione presso una ditta che riveste le damigiane per il vino.
Fin dai primi anni si impegna in attività politiche e sindacali. Contrario al dogma religioso ed al potere della Chiesa, la sera del 4 agosto del 1910[1] Turinelli promuove, insieme ad un gruppo di Compagni del quartiere Stazione (Vannucci, Andreucci, Cerrai, Ficini, Giovannetti, Serri, Tucci, Falleni, Pampana, Filippetti), in antitesi alla costruzione di una nuova chiesa, la costituzione di un’associazione antireligiosa chiamata “Gruppo Antireligioso di viale Carducci” (successivamente assumerà il nome di Gruppo Antireligioso Pietro Gori[2]) del quale sarà Presidente.
Nel primo ventennio del ‘900, Turinelli scrive articoli per quotidiani politici tra i quali l’«Avanti!»[3] e ricopre ruoli di responsabilità in diversi giornali. Diviene gerente de «La Parola dei Socialisti»[4], settimanale socialista fondato da Giuseppe Emanuele Modigliani (diventato poi voce delle correnti rivoluzionarie). Nel 1913 è gerente responsabile de «Il Razionalista» – giornale quindicinale di battaglia razionalista e anticlericale fondato a Livorno[5]. Nel 1915 è gerente responsabile de «Il Fascio socialista» (organo della Federazione socialista Livorno-Elba e dei collegi di Volterra e Lari)[6].

Nel 1914 entra nel Comitato Federale del PSI[7]. Si dedica poi a studiare le opere di Lenin.
Nelle pause di lavoro, com’era tradizione dei livornesi del periodo, pranzava presso la Antica Fiaschetteria Civili (oggi conosciutissimo Bar Civili) dove conosce e poi sposa Gina, la nipote del proprietario del locale. (La coppia avrà sette figli: Comunardo, Spartaco, Lenina[8], Oreste, Eleonora, Cesarina, Glauco).
Negli anni a seguire, troverà occupazione come operaio presso la Società Metallurgica Italiana (SMI)ed entrerà a far parte della Commissione Interna.
Su posizioni massimaliste, Turinelli sosterrà l’adesione delle Organizzazioni Sindacali alla III Internazionale[9].
Con l’entrata in guerra dell’Italia nel conflitto mondiale, la situazione economica si aggrava. La linea politica della Camera del Lavoro di Livorno (CdL) era tendenzialmente quella moderata indicata dai socialisti riformisti e dai repubblicani. La FIOM invece sosteneva la necessità di una mobilitazione più radicale. Quando ci furono le prime agitazioni degli operai alla SMI, Turinelli (uno degli organizzatori della lega aderente alla FIOM) sottolineava il fatto che, anche se era difficile, occorreva tentare una mobilitazione ed era sbagliato negare pregiudizialmente ogni appoggio all’agitazione…[10] Nonostante le divergenze, la CdL e la FIOM concordarono sulla linea da seguire. Alla fine la CdL dette un parziale contributo alla risoluzione della vertenza sostenendo la lotta dei metallurgici e Turinelli acquistò e distribuì 600 copie del giornale della Confederazione tra gli operai della SMI. Per la FIOM fu un grande successo: gli operai approvarono l’operato degli organizzatori sindacali con “un voto di plauso” e circa 1.000 nuove adesioni. Gli operai iscritti alla FIOM, restarono comunque lontani dalla CdL, visto che all’interno prevaleva una linea moderata, considerata avversa[11].
Nel secondo semestre del 1919 ci furono le elezioni per il rinnovo degli organi dirigenti della CdL. Nonostante l’attacco dei repubblicani e l’intervento del deputato socialista Modigliani che suggeriva una politica più riformista, i risultati (grazie anche all’euforia per la rivoluzione in Russia) videro vincitrice la linea massimalista che aprì le porte della Segreteria a Zaverio Dalberto. Tra gli 11 eletti è presente anche Armando Turinelli[12].

Il 1 febbraio 1920 la Federazione Anarchica Livornese e la Federazione Giovanile Socialista organizzano un comizio unitario al Teatro San Marco alla presenza di Errico Malatesta, una delle più importati figure del movimento anarchico. Aderirono diverse realtà del mondo sovversivo provenienti da Pisa e Livorno: socialisti, anarchici, repubblicani, sindacalisti. Turinelli rappresenta la Camera del Lavoro di Livorno[13].
Il 5 novembre 1920, Turinelli (facente parte del Comitato di Agitazione) presiede un’assemblea per discutere la proclamazione di uno sciopero generale in seguito agli annunci degli industriali metalmeccanici livornesi di voler ridurre i salari[14].
Con la partenza di Dalberto nell’agosto del 1920, diviene Segretario Ugo Sereni, socialista riformista. In seguito ai primi licenziamenti tra il 1920 e il 1921, all’interno del movimento operaio si concretizzano due posizioni: quella guidata dal segretario della CdL confederale e quella anarco-comunista della Camera sindacale del Lavoro dell’USI (Unione Sindacale Italiana) appoggiata dall’ala comunista della CGdL (Confederazione Generale del Lavoro) nel frattempo ufficializzata con la scissione al Congresso del PSI di Livorno del 21 gennaio.
Il 15 febbraio del 1921, presso la CdL sindacale il comunista Turinelli presentò un ordine del giorno per lo sciopero generale cittadino di protesta contro i licenziamenti, da effettuarsi anche se la dirigenza della CdL (confederale) non fosse stata d’accordo. Il giorno successivo, alla adunanza del Consiglio delle Leghe alla CdL confederale, i comunisti e i sindacalisti intervennero in massa, e praticamente imposero lo sciopero[15]. Fu un successo, non solo per la massiccia adesione ma anche perché i fascisti (nonostante i rinforzi giunti da fuori Livorno) non riuscirono a contrastarlo.

NOTE:

  1. Molto probabilmente nella bottega di via del Vigna angolo viale Carducci.
  2. «Il Corvo» (anno I n.4) 31 agosto 1946 p.1.
  3. Testimonianza della figlia Lenina.
  4. http://www.fondazionemodigliani.it/node/31243.
  5. http://www.fondazionemodigliani.it/node/31675.
  6. https://www.fondazionemodigliani.it/node/31244
  7. Nicola Badaloni, Franca Pieroni Bortolotti, Movimento operaio e lotta politica a Livorno, 1900-1926, Roma, Editori Riuniti, 1977, p. 113.
  8. Comunardo, Spartaco, Lenina, saranno poi ribattezzati dal regime con nomi più graditi: Bruno, Luigi, Arnalda, tutti nomi di parenti di Benito Mussolini – vedi anche: Rosalba Risaliti “Le cinque domande di Cesarina”, https://anppia.it/l-antifascista/leggi-anche-tu/.
  9. N. Badaloni, F. Pieroni Bortolotti, Movimento operaio e …. cit., p. 113.Luigi Tomassini, Le voci del Lavoro. 90 anni di organizzazione e di lotta della Camera del Lavoro di Livorno, Napoli, Edizioni Scientifiche Italiane, 1990, (a cura di Ivan Tognarini e Angelo Varni), p. 197.
  10. Ibidem p. 198.
  11. Ibidem p. 226.
  12. Tobias Abse, Sovversivi e fascisti a Livorno. Lotta politica e sociale (1918-1922), Milano, Franco Angeli editore, 1991, p. 60.
  13. Ibidem p. 194.
  14. L. Tomassini, Le voci del Lavoro. 90 anni di organizzazione…, cit, p. 261.