PISA 1944, IL RITORNO DEL GATTOPARDO

Dall’incrocio di archivi pubblici e privati, il racconto di come, nel caso emblematico di Pisa, poté imporsi quella continuità di uomini e apparati che segnò il dopoguerra[1].

Per vent’anni aveva vissuto in esilio a Roma, sognando ogni giorno il grande ritorno. Con la Liberazione il momento era arrivato. In una provincia devastata dalla guerra, c’era chi invocava l’avvento di un ordine nuovo. Lui no: già settantenne, ma in ottima forma, lui voleva chiudere in fretta non solo la “parentesi fascista”, ma anche quella partigiana.
Così tornò a Pisa l’ex Ministro Arnaldo Dello Sbarba nell’anno di grazia 1944. Agendo da regista tra Roma, la “sua” Pisa e l’ancor più “sua” Volterra, strinse la giovane forza dei CLN in una morsa di poteri convergenti: prefetti, partiti moderati, governo Bonomi, tribunale, stampa. Ecco come fece e chi lo aiutò.

Collesalvetti, 31 agosto 1944: il CLN di Pisa tiene la sua ultima riunione clandestina. I nazisti abbandonano la linea dell’Arno, dopodomani si entra in città. Tutti i ponti sono stati fatti saltare, la guerra ha fatto migliaia di vittime. Ma in quest’ultima seduta si respira l’aria dei giorni grandi. Vanno nominati gli uomini che la rivoluzione democratica insedierà ai vertici di tutti gli enti pubblici, dal comune agli ospedali, dalla Cassa di Risparmio alla polizia municipale. Come sindaco viene proposto Italo Bargagna, commissario politico della 23a Brigata bis Garibaldi “G. Boscaglia”; come questore Alberto Bargagna, comandante della stessa Brigata Garibaldi; come prefetto il comunista Armando Monasterio. Su ogni nomina il CLN dovrà fare i conti con il governatore militare alleato. E mette le mani avanti: “Si delibera di mandare una relazione al governo di Roma allo scopo di evitare la nomina di Dello Sbarba a prefetto di Pisa”[2].

Da giorni circolano voci in proposito. A Roma il governo del CLN è guidato da Ivanoe Bonomi, che ha resuscitato un “Partito democratico del Lavoro” (PDL) raccogliendo vecchi notabili del prefascismo. Per Claudio Pavone “partito trasformista per eccellenza”[3]. Si sa che Bonomi, nell’Italia già liberata, sta sostituendo i “prefetti del CLN” con funzionari di carriera o con compagni del suo stesso partito. A Roma ha nominato prefetto Giovanni Persico, suo braccio destro.
Si sa che Arnaldo Dello Sbarba è tra i cofondatori di questo PDL: “A Roma, prima del 25 Luglio – racconta lui stesso – io mi tenevo in contatto con alcuni dei principali esponenti dell’antifascismo”[4]. Si sa che nella Siena appena liberata è stato lo stesso CLN a proporre a Dello Sbarba di fare il commissario dell’ospedale di Santa Maria della Scala. Lui ha declinato l’invito: gli interessa tornare a casa. A Volterra. E poi a Pisa.


Anni ’20, Arnaldo Dello Sbarba, (secondo da destra) ministro del governo Facta, in una cerimonia a Roma

L’ex ministro conta su protezioni altolocate. Come quella di Adalberto Berruti, potente capo di gabinetto al Ministero dell’interno (che il presidente Bonomi ha tenuto per sé). Berruti è stato prefetto di Pisa dal 1941 al 1943: “In quel periodo – scriverà Berruti – ebbi occasione di conoscere l’on. Arnaldo Dello Sbarba e di avere con lui, in parecchie circostanze, colloqui e scambi di vedute. Ebbi così modo di apprezzare l’elevatezza di pensiero e di sentimento dell’on. Dello Sbarba. Dopo il 25 luglio 1943 fu tra i miei più validi collaboratori nella liquidazione del fascismo pisano”[5]. I due non si erano più persi di vista. Appena lasciata Pisa, Berruti aveva ricontattato Arnaldo: “Eccellenza, le mando da Roma il mio saluto. Conservo di Lei il miglior ricordo e mi auguro di incontrarla presto”. Come dire: si tenga pronto[6].
Berruti è un piemontese la cui antipatia verso i fascisti è pari al suo rigore istituzionale[7]. Diventato capo di gabinetto, Berruti ha voce in capitolo sulla nomina dei prefetti. Pisa gli sta particolarmente a cuore. Vi destina quindi un suo uomo di fiducia: Vincenzo Peruzzo. Anche la vita di Peruzzo si era già incrociata con quella di Arnaldo Dello Sbarba. Peruzzo era stato dal 1921 al 1922 al Gabinetto per le pensioni di guerra nel governo in cui Arnaldo era ministro del lavoro. La carriera di Peruzzo aveva attraversato il fascismo. Per otto anni aveva addirittura lavorato per l’ufficio stampa di Mussolini. Il suo rapporto col regime si era guastato con la guerra: “Per noi – scrive nella sua autobiografia – si sarebbe comunque conclusa con una disfatta: soggiogati dai tedeschi vincitori, o vinti dagli alleati”[8].

Vincenzo Peruzzo arriva a Pisa il 7 settembre 1944: è “il primo prefetto dopo la Liberazione”. Scosso dalle drammatiche condizioni della città, Peruzzo se ne prende cura con una dedizione che la gente ammira. Con la politica però è diverso: ha rapporti difficili col sindaco Bargagna, consulta il meno possibile i CLN, appena può sostituisce i sindaci nominati dalla Resistenza, soprattutto se comunisti. Ai politici preferisce i tecnici. “Ma i tecnici da lui nominati – scrive Carla Forti nel suo saggio su Pisa nel dopoguerra – sono immancabilmente o rappresentanti dei poteri forti, o funzionari pubblici in carica nel precedente ventennio”[9].

Peruzzo lega subito con Arnaldo. Già il 5 ottobre – ignorando i desiderata del CLN – lo nomina commissario della Cassa di Risparmio di Pisa. “Dopo i primi sondaggi con le autorità locali e con le persone più autorevoli dell’ambiente pisano – racconta Peruzzo – mi parve di aver scelto l’uomo adatto al posto importante”.
Secondo passo. Nel novembre il prefetto nomina la giunta provinciale. “Dopo opportuni sondaggi”, Peruzzo designa come presidente il democristiano Aldo Fascetti e, tra gli assessori, l’avvocato Gino Sossi. Sossi è cognato di Arnaldo Dello Sbarba, nonché suo socio in affari e in politica.
Terzo passo. Il 23 novembre Peruzzo istituisce la “Commissione provinciale istruttoria per l’epurazione” composta dal presidente del Tribunale Tito Cangini, dal magistrato Giovanni Miele e dal matematico Leonida Tonelli. Anche Tito Cangini è legato ad Arnaldo Dello Sbarba: è stato giudice al tribunale di Volterra e presidente della locale Cassa di Risparmio[10]. In entrambi gli ambiti Arnaldo è di casa. La commissione per l’epurazione, scrive Carla Forti, “giudicherà da non punirsi quasi tutti i sospesi dal servizio”. In perfetta assonanza col prefetto che, preso in consegna dagli alleati il campo di prigionia per ex fascisti di Coltano, lo svuoterà a tempo di record dei 32.000 internati “con la liberazione – scrive ancora Forti – di quasi tutti i prigionieri”[11].

Come se non bastasse, all’inizio del 1945 il prefetto Peruzzo nomina Arnaldo Dello Sbarba anche presidente del neo-istituito “Comitato provinciale per la ricostruzione”, con l’incarico di fare “la ricognizione dei danni e le opportune proposte da sottoporre al governo per chiedere aiuti adeguati”. Il comitato ha un ruolo vitale per la ripresa economica e sociale della provincia pisana. Ma è anche uno schiaffo al sindaco Bargagna, che “senza un preventivo concerto tra noi – dice Peruzzo – aveva pure pensato di costituire una commissione”. Per Peruzzo, però, è dal prefetto e non dal Comune che devono passare le relazioni con Roma.

L’incarico per la ricostruzione offre ad Arnaldo Dello Sbarba la possibilità di dire la sua sulle scelte della città. Lo fa grazie a compiacenti interviste sul «Tirreno» diretto dal suo vecchio amico Athos Gastone Banti. Banti nel 1924 dirigeva a Firenze il «Nuovo Giornale» e aveva tentato di promuovere la candidatura di Dello Sbarba nel “Listone” fascista con una intensa campagna di stampa. Arnaldo lo compensò con due assegni da 5.000 lire firmati dal direttore della Solvay di Rosignano, generosa finanziatrice della sua carriera politica. Adesso, sul «Tirreno» di Livorno, Dello Sbarba può vantarsi della sua intimità col ministro dei Lavori Pubblici Meuccio Ruini, suo compagno di partito: “Sono mesi che io faccio la spola tra Pisa e Roma!”[12].

Oltre a Pisa c’è Volterra. Arnaldo la considera città “sua”. Ma Volterra è il baluardo della 23a Brigata bis Garibaldi “G. Boscaglia” e i partigiani pretendono l’epurazione radicale degli ex fascisti. A Volterra è forte il Partito d’azione, il più determinato a chiedere un cambio netto di classe dirigente. Presidente del CLN è l’intellettuale azionista Umberto Borgna, innovatore nell’arte dell’alabastro. Azionisti sono Giovanni Salghetti Drioli, dirigente del CLN nell’ufficio tecnico del Comune, e lo scrittore Carlo Cassola, direttore del settimanale «Volterra Libera». Membri del CLN nel giorno della liberazione sono anche il socialista Amedeo Meini, i comunisti Mario Giustarini e Fernando Frattini e il democristiano Aldo Tozzi. Ma il personale disponibile scarseggia. Così nella Giunta comunale ricorrono gli stessi nomi, ma a parti scambiate: Meini sindaco e Borgna vice, oltre a due comunisti e due socialisti come assessori e un agrario “apolitico” come unica concessione agli Alleati. In città si sono concentrati gli uomini della Brigata Garibaldi. E il governatore alleato Clive Robinson ha in linea di massima avvallato le nomine del CLN.
La più importante delle quali è il consiglio di amministrazione del grande ospedale psichiatrico che, con oltre 4.500 pazienti e centinaia di sanitari, è il maggior datore di lavoro della città. Presidente è Mario Basile del Partito d’azione (anche direttore del carcere), membri sono Amedeo Meini (anche sindaco), Mario Giustarini e Aldo Tozzi (anche assessori comunali) e Alfredo Zoppi (anche presidente della bonifica)[13].

Arnaldo Dello Sbarba considera però l’ospedale psichiatrico una propria creatura. Per diversi anni aveva infatti presieduto la “Congregazione di carità”, ente giuridico dell’istituto, in un sodalizio sempre più stretto col geniale direttore Luigi Scabia, che aveva fatto del “Frenocomio di San Girolamo” un modello d’avanguardia della psichiatria europea[14]. Da allora Scabia era diventato l’appassionato sostenitore dell’ascesa politica di Arnaldo e Arnaldo lo strenuo difensore di Scabia dagli attacchi dei fascisti. Arnaldo considerava insomma gli amministratori nominati dal CLN come spine nel fianco. E si era messo in moto.

Il 13 novembre 1944, i partiti liberale, democristiano e demo-laburista volterrani inviano una lettera di fuoco al prefetto e al questore di Pisa. Attaccano violentemente il CLN volterrano, invocano “il ritorno alla normalità” e denunciano, nell’ordine: “arbìtri (incitamento alla rivolta, detenzione abusiva di armi, minacce ecc.), accentramento di cariche, illegalità della costituzione del CDA dell’Ospedale psichiatrico”[15].
Detto, fatto. Il 23 novembre il prefetto Vincenzo Peruzzo dispone lo scioglimento del CDA e nomina un commissario prefettizio “fino alla ricostituzione dell’ordinaria rappresentanza”[16] .
La reazione del CLN volterrano è immediata. Dietro l’azione – mette a verbale il 26 novembre – c’è un ristretto gruppo “risultato chiaramente far capo ad Arnaldo Dello Sbarba, che viene aspramente giudicato per la slealtà”. I commissariamenti – ricorda il CLN – li usavano i fascisti contro Scabia. Lo stesso sistema è ora invocato da “ben individuati gruppetti reazionari e fascistoidi” a colpi di ”anonima delazione e intrighi di corridoio”[17]. Il CLN di Volterra chiede l’immediato ritiro del commissario e un incontro urgente col Prefetto.

Ma prima che la delegazione guidata da Borgna e Meini riesca a farsi ricevere dal Prefetto, un’altra tegola “sbarbiana” cade sulla testa del CLN volterrano. Il 3 dicembre 1944 l’avvocato Arnaldo Frattini, membro comunista del CLN provinciale, porta da Pisa la notizia di “una probabile ammissione dell’avv. Arnaldo Dello Sbarba in seno al CLN provinciale” in rappresentanza del Partito demo-laburista. Per i volterrani è il colmo. In una seduta straordinaria in cui i democristiani sono “assenti perché non invitati”, vista la loro posizione sull’ospedale psichiatrico, comunisti, socialisti e azionisti redigono “una relazione sulla figura morale e politica del Dello Sbarba, stilata dai presenti in base a documentazioni potute raccogliere e firmata dal presidente Borgna“, da inviare ai CLN provinciale, regionale e nazionale, nonché agli organi periferici e centrali dei partiti della sinistra[18].

La relazione è durissima. “Il Dello Sbarba – accusa Borgna – che ama presentarsi come ex deputato antifascista, sin dalle origini del fascismo collaborò con questo, riuscendo ad esservi ammesso dopo il 1935”.
A prova della compromissione di Arnaldo, Borgna cita la sua candidatura nel 1921 come capolista del “Blocco nazionale” di Giolitti, che comprendeva anche i fascisti. “Dura ancora nella memoria del popolo di Volterra – scrive – il ricordo della triste giornata di violenze esperite dalle squadre del fascio volterrano il 7 Maggio 1921 dopo il comizio elettorale tenuto al teatro Persio Flacco dal Dello Sbarba, nel quale egli rivolse infiammate parole ai fascisti”.
Quella giornata fu un vero shock per la città. Quel giorno, scriverà un testimone oculare, l’alabastraio socialista Arnaldo Fratini, “Arnaldo Dello Sbarba scese l’ultimo gradino della sua carriera politica. Durante il corteo che si svolse per le vie della città, i fascisti al suo seguito distribuirono diversi pattoni a chi, al loro passaggio, non si toglieva il cappello. Giunti all’altezza della trattoria di Balosce, di fronte al Cinema Centrale, vi entrarono spaccando tutto e picchiando tutti coloro che vi si trovavano”[19].
Nella risposta a quello che con disprezzo chiamò “Libello Borgna”, Arnaldo minimizzerà il ruolo dei fascisti quel giorno. Ma la cronaca pubblicata dal «Corazziere», giornale monarchico e conservatore cittadino, conferma che tra gli oratori ufficiali in teatro ci fu anche “il fascista signor Davino Volterrani”, che il corteo si svolse “tra canti e inni patriottici” e che di seguito il PSI affisse un manifesto che diceva: “Chi vota per Arnaldo Dello Sbarba vota per il fascismo contro il socialismo”[20].
Questo per il passato. Sul presente, Borgna cita il commissariamento dell’ospedale psichiatrico, provocato da Dello Sbarba con “l’intensa opera disgregatrice e diffamatoria che ha svolto presso la Prefettura di Pisa dove purtroppo le sue parole sembrano ancora trovare credito”. La relazione si conclude con l’appello al CLN provinciale “di respingere la richiesta d’ammissione nel suo seno dell’avv. Arnaldo Dello Sbarba”.

Arnaldo viene avvertito della relazione Borgna prima a voce da Tito Cangini, poi per lettera da Mario Piccioli, rappresentante del PDL nel CLN pisano: “Ottenni il rinvio della discussione. È opportuno che Lei prepari una esauriente risposta”. La risposta non arriva subito. Prima arrivano, firmate dai segretari volterrani di DC, PLI e PDL, tre lettere di protesta per le “violente accuse contro l’avv. Arnaldo Dello Sbarba”. Le tre lettere sono opera di una stessa mano: tra le carte private di Arnaldo se ne trova la minuta scritta con la sua inconfondibile calligrafia[21].

Il 27 dicembre arriva finalmente l’autodifesa di Arnaldo Dello Sbarba: “È venuta l’ora di gridare basta!” scrive l’accusato. “Il libello Borgna non è che la continuazione di quella caccia all’uomo, di marca squisitamente fascista, di cui sono vittima da vent’anni”[22]. Nella sua abile autodifesa Arnaldo sfrutta il vantaggio che ha, su avversari che conoscono poco della sua vera vita, per dire mezze verità – e pure qualche non verità – senza tema di smentita.
La tessera fascista ad esempio non la nega, ma la minimizza: “La conferì Ettore Muti a tutti gli ex combattenti” e lui, che non l’aveva chiesta, l’accettò. Ma “anche con quella bella tessera le diffidenze contro di me non cessarono”. E soprattutto: “nessuno mi ha mai visto né in montura, né in adunate, né in collaborazioni dirette o indirette”[23].
Arnaldo elenca invece con precisione “le persecuzioni fasciste” che ha patito: la devastazione di casa e l’ufficio sul Lungarno a Pisa; l’assedio a sua madre a Volterra; il divieto di esercitare la professione nella città della Torre pendente; l’incendio di un suo rifugio a Pietrasanta; l’aggressione degli squadristi della “banda Buffarini” alla stazione di Pisa; l’esilio a Roma; la vigilanza di polizia subita dal 1925 al 1929; il mandato di cattura spiccato dal prefetto repubblichino Adami nell’ottobre 1943 e infine la latitanza nella campagna senese.
Tutto vero. Ma sulle cruciali elezioni politiche del 1924, che segnarono la rottura del fascismo pisano con l’ex ministro, Arnaldo è molto più reticente. Scrive che i fascisti intransigenti gli impedirono “di far parte di quella lista di minoranza che la legge elettorale consentiva per i NON ADERENTI AL FASCISMO” (il maiuscolo è suo). E qui mente.
Gli archivi documentano tutt’altra verità. Raccontano cioè i tentativi da lui fatti per oltre un anno di ottenere una candidatura non di minoranza, ma direttamente nel “Listone” di Mussolini, con l’appoggio dello stesso Duce e del suo braccio destro Cesare Rossi, che elogiava “il suo contributo di affiancatore del movimento fascista in varie sue fasi”[24]. L’adesione a una lista di minoranza Arnaldo Dello Sbarba la considerò solo per qualche ora, il giorno in cui la sua candidatura coi fascisti saltò. Tentazione fugace e subito accantonata. A sera assicurò a Mussolini il suo pubblico appello a votare comunque la lista fascista come “mio disinteressato aiuto alla forte battaglia che Tu combatti con pugno sicuro”[25].

Anni ’30, Arnaldo Dello Sbarba avvocato d’affari a Roma

Sugli anni dell’esilio romano di Arnaldo, il CLN e l’opinione pubblica pisana erano ancora meno informati. L’odio fascista per Dello Sbarba era infatti concentrato a Pisa. A Roma poteva invece frequentare i palazzi del potere e diventare un avvocato d’affari di successo, salvo fare attenzione a mantenersi “indifferente” verso il regime, come segnalavano nel 1927 le autorità romane di polizia che lo sorvegliavano[26].
A proposito d’affari, dalle ricerche svolte presso l’Archivio centrale dello Stato di Roma sono emerse delle carte davvero sorprendenti. Nel 1926 Arnaldo Dello Sbarba entra in società addirittura con Marcello Piacentini, l’architetto di Mussolini, e Angelo Rossellini, grande impresario edile (e padre del futuro regista Roberto). I tre si uniscono nell’A.P.I.S. “Anonima Per le Industrie Stabili”, allo scopo di riedificare completamente l’area tra Piazza Barberini e Piazza S. Bernardo[27]. Per alcuni anni Arnaldo ha il suo studio di avvocato nella sede dell’A.P.I.S. in via S. Niccolò da Tolentino, in area Barberini. Piacentini – che presiede la società – si occupa di progettazione, Rossellini di costruzioni e Arnaldo di finanza, cioè di reperire i capitali necessari per realizzare le opere.
In questo Arnaldo ci sapeva fare, era versatile, efficiente, instancabile. Da ex Ministro al lavoro e alla previdenza sociale sapeva come attrarre gli investimenti dei grandi istituti di previdenza, delle banche pubbliche e para-pubbliche, delle assicurazioni sociali. Quello di Arnaldo era un ruolo chiave per Piacentini, diventato l’architetto prediletto dal Duce proprio per l’abilità con cui riusciva a portare a termine progetti smisurati.
Partiti i lavori nel 1926, Mussolini visitò il cantiere nel settembre del 1930 e – racconta Paolo Nicoloso nella sua biografia di Piacentini – ne rimase compiaciuto. Definì la nuova via Barberini “un’arteria di grande respiro”, ammirò “le linee architettoniche dei palazzi (…) e il nuovo cinematografo” che era stato da poco inaugurato e fu per l’epoca un’opera avveniristica[28].
Nel 1934 l’A.P.I.S. aveva già concluso la sua missione e Arnaldo ne era potuto uscire “con qualche cosa alla mano – scrisse al fratello Bruno – che vedrò come impiegare utilmente”[29].

Anni ’30, Arnaldo Dello Sbarba avvocato d’affari a Roma

Ma perfino a Pisa Arnaldo Dello Sbarba riuscì a operare nonostante l’esilio. San Giuliano Terme è un borgo termale appena fuori Pisa. Il 20 giugno del 1923, nello studio dell’avvocato Gino Sossi sul Lungarno Mediceo, venne fondata la società anonima “Regie Terme di San Giuliano” e firmato il contratto di gestione dei bagni per sessant’anni, un canone basso e l’impegno di forti investimenti. “Il perno della compagine societaria – scrive Mirella Scardozzi nella sua storia dei “Bagni di Pisa” – non era un imprenditore nel senso comune del termine, ma un personaggio politico di notevole rilievo locale e nazionale, l’avvocato Arnaldo Dello Sbarba”[30]. Come sappiamo, Sossi era cognato di Arnaldo e della società era socio anche il fratello Bruno.
Da Ministro alla previdenza, Arnaldo si era occupato intensamente di termalismo e per le “Regie Terme” il suo risiedere a Roma si rivelò vitale. Quando la crisi del 1929 farà crollare il turismo termale di lusso, sarà infatti grazie alle convenzioni con la Cassa Nazionale delle Assicurazioni Sociali che Arnaldo riuscirà a tappare i buchi nel bilancio. E quando neppure questo basterà, e le “Regie Terme”, a un passo dal fallimento, verranno accusate di inadempienza negli investimenti, sarà proprio all’Istituto Nazionale Fascista per la Previdenza Sociale che Arnaldo riuscirà a vendere sia la società che gli stabilimenti – e non in una, ma in ben tre cessioni frazionate, l’ultima nel luglio 1939. Grazie a questo, scrive Mirella Scardozzi, “i 16 anni di vita della società non si rivelarono per i suoi azionisti così negativi come farebbero pensare i bilanci sempre in rosso”.

Ma torniamo al dicembre 1944 e al “libello Borgna”. Non fu la diatriba sul suo passato a far vincere Arnaldo Dello Sbarba, ma due semplici argomentazioni giuridiche della sua autodifesa. E cioè: primo, le regole istitutive dei CLN non prevedono “il diritto di sindacazione politica sulle persone delegate dai rispettivi partiti a rappresentarle”. E, secondo: il “Libello Borgna” è nullo, poiché approvato escludendo a priori una parte del CLN. Sulla questione il CLN provinciale vota infine il 29 dicembre 1944: “A maggioranza di voti si ammette l’on. Dello Sbarba in seno al CLN di Pisa”[31].
La decisione fa probabilmente parte di un unico pacchetto. Il giorno prima infatti era stato chiuso anche il conflitto sull’ospedale psichiatrico. Il prefetto Vincenzo Peruzzo era salito a Volterra e aveva negoziato col CLN un nuovo consiglio di amministrazione. Del vecchio erano rimasti in due, il presidente Mario Basile e Mario Giustarini. Tutti gli altri erano nuovi: l’ingegner Giovanni Salghetti Drioli, Emilio Vanni e un colonnello, Piero Ricci. La composizione era gradita al Prefetto, il commissario fu ritirato[32].
La questione politica invece restò aperta. Il CLN volterrano venne tartassato per mesi di domande dal CLN nazionale e dal governo Bonomi. Se la sua composizione fosse regolare, perché a Volterra PLI e PDL non fossero ammessi, quando e da chi fosse stato approvato il “Libello Borgna” e così via. I volterrani da accusatori erano diventati imputati[33].

La situazione precipita nell’aprile 1945. Il 10 il CLN di Volterra, a conclusione di una vasta raccolta di informazioni, vuole finalmente deliberare sull’epurazione degli ex fascisti. E comincia dall’assemblea dei soci della Cassa di Risparmio di Volterra. I democristiani propongono di delegare il compito alla Cassa stessa, ma la sinistra fa muro: “non è logico che gli epurandi possano decidere sulla loro stessa epurazione!”. La lista viene approvata, contiene 14 nomi, su 6 la DC vota contro. Ci sono cognomi che contano: Ciapetti, Guidi, Lagorio, Inghirami, Ginori. C’è anche Arnaldo Dello Sbarba – quella è la sua “banca di casa”. È un azzardo.
Il giorno dopo Borgna e compagni vengono convocati d’urgenza dal Governatore alleato. Si tratta delle misure contro gli ex fascisti. La seduta è drammatica. Riferendosi ad arresti di fascisti in zona, il governatore dice che “non si può trattenere una persona verso la quale non vi siano denunce specifiche”. Borgna ribatte: “i maggiormente responsabili ed in special modo i sovvenzionatori ed i sostenitori del fascismo” hanno sempre agito nell’ombra. Coi criteri del Governatore “non potranno mai essere arrestati né colpiti“. Il Governatore non cede. Cede il CLN, riservandosi di raccogliere denunce più circonstanziate e intanto di spiegare alla popolazione “la ragione dei mancati arresti”[34].
Ma non basta. In base a due successive circolari del CLN provinciale, il CLN di Volterra prima è costretto ad accogliere il PLI, poi a fare marcia indietro sull’epurazione. Va delegata agli enti interessati: proprio quel che pochi giorni prima era stato giudicato “illogico”.
Alla fine – ed è il 24 aprile, proprio alla vigilia della Liberazione – Umberto Borgna si dimette dal CLN. Si dimettono anche Amedeo Meini, il sindaco, e Mario Basile, il presidente dell’ospedale. Formalmente perché l’ennesima circolare da Pisa vieta il cumulo delle cariche.
Ma la realtà è diversa. Umberto Borgna mette a verbale una sua emozionata dichiarazione. “Lascio il CLN con molto dolore – dice Borgna – non voglio né posso continuare la lotta sleale fatta di questioni personali, di piccole, grette ambizioni. Non sono uomo politico. Rimpiango il lungo e snervante periodo della lotta clandestina. Lo rimpiango per quello spirito di fraternità che tutti ci animava”. Ribadisce che per lui, azionista, i CLN sono “la base della futura politica italiana, la più pura espressione del popolo antifascista, del popolo italiano di domani”. Un popolo “che ha veramente sofferto e che è buono e deve essere aiutato, amato, sorretto nella dura lotta di ricostruzione materiale e morale”.
Quella di Borgna non è però una rinuncia: “Ho altre responsabilità cittadine – dichiara – alle quali debbo doverosamente portare tutto il mio massimo contributo”. Intende innanzitutto la giunta comunale, di cui è il vicesindaco. La scelta è lungimirante. Sarà infatti proprio attraverso le istituzioni cittadine che, negli anni a venire, potranno fruttificare le istanze antifasciste, con il partigiano comunista Mario Giustarini sindaco amatissimo di Volterra per ben 34 anni, dal 1946 al 1980[35].

Anni ’50, Arnaldo Dello Sbarba a Pisa

Ma nell’aprile del 1945 nemmeno l’uscita di Borgna basta a calmare le acque attorno al CLN volterrano. Tra il maggio e il giugno 1945 Tito Cangini, presidente del tribunale di Pisa, accusa «Volterra Libera» di parlare di “magistratura reazionaria”. Cangini respinge “le ingiurie di questo fogliuccio volterrano” e annuncia querele contro “il professor Cassola” se non viene sconfessato. A luglio il CLN provinciale sconfessa Cassola e “deplora l’attacco di Volterra Libera contro la magistratura”[36].
La guerra a mezzo stampa contro «Volterra Libera» e il CLN riprende in agosto con l’uscita del «Il Porcellino», quindicinale ispirato, finanziato e in parte scritto da Arnaldo Dello Sbarba. Nelle carte private di Arnaldo si trovano lunghi manoscritti su presunte malversazioni del “trio Borgna-Meini-Salghetti”. Uno è indirizzato al prefetto Peruzzo. Non si sa se gliel’abbia spedito[37].
In parallelo l’ascesa di Arnaldo Dello Sbarba continua. Il 25 novembre 1945 viene designato a Roma nella “Commissione di studio per la riorganizzazione dello Stato”, organo della “Consulta nazionale” che fa da parlamento provvisorio. Lì ritrova l’amico prefetto Adalberto Berruti, che per la commissione lavora.
Il 18 aprile 1946 Arnaldo passa da commissario a presidente regolarmente eletto della Cassa di Risparmio di Pisa. Lo rimarrà fino alla fine del 1951. Di qui alla sua morte (1958) diventerà anche presidente dell’ACI, della Croce Rossa, del Gioco del Ponte, degli Istituti riuniti di ricovero ed educazione di Pisa, della Domus Galileiana, del Credito Agrario[38].

Il 2 giugno 1946 viene proclamata la Repubblica. I CLN vengono sciolti, ma la loro esperienza si è logorata da tempo. In seguito al conflitto su epurazione e ruolo dei CLN, tra il dicembre 1944 e il giugno 1945 ha governato a Roma per sette mesi un “Bonomi ter” da cui socialisti e Partito d’azione sono rimasti polemicamente fuori. Sono gli stessi sette mesi in cui si è consumata la resa di conti tra Arnaldo Dello Sbarba e il CLN volterrano.
Siamo all’epilogo. Il 31 luglio 1946 il prefetto Adalberto Berruti lascia il Ministero degli interni. Due mesi dopo anche il prefetto Vincenzo Peruzzo lascia Pisa. Arnaldo gli dedica un pubblico saluto: “Fu il prefetto che fece concorde la nostra discordia“. Missione compiuta.

NOTE

[1] Per questo articolo sono stati consultati i seguenti archivi: Archivio della Biblioteca Guarnacci di Volterra, Fondo A. Dello Sbarba, (d’ora in poi BGV/FAdS); Archivio storico postunitario del comune di Volterra, Fascicolo CLN-Verbali delle adunanze (d’ora in poi ASCV-Postunitario); Archivio di Stato di Pisa, Fondo Comitato di Liberazione Nazionale (d’ora in poi ASPi/CLN); Archivio centrale dello Stato di Roma, Fondo Dello Sbarba Arnaldo (d’ora in poi ACS/FAdS); Ivi, Casellario Politico Centrale, b. 1695 Dello Sbarba Arnaldo, (d’ora in poi ACS/CPC); Archivi privati di famiglia (d’ora in poi AP/AdS). Ringrazio la forte squadra di amici di Volterra per l’infaticabile aiuto: Danilo Cucini, Gian Paolo Debidda e Giovanni Tamburini dell’ANPI; Silvia Trovato, archivista del comune e Elena Dello Sbarba, custode delle memorie familiari.

[2]      ASPi/CLN, Verbale 31 agosto 1944.

[3]      Cfr. C. Pavone, Alle origini della Repubblica. Scritti su fascismo, antifascismo e continuità dello stato, Torino, Bollati Boringhieri, 1995. In particolare i cap. 2 e 3. Sullo sfondo storico: C. Pavone, Una guerra civile, Saggio storico sulla moralità della Resistenza, Torino, Bollati Borignhieri, 1991. Sulla continuità dello Stato e degli apparati militari: D. Conti, Gli uomini di Mussolini: prefetti, questori e criminali di guerra dal fascismo alla Repubblica italiana, Torino, Einaudi, 2017.

[4]      ASPi/CLN, “È venuta l’ora di gridare basta!”, prot. 1000/2-A, 30 dicembre 1944.

[5]      BGV/FAdS, Memoria di Adalberto Berruti per Arnaldo Dello Sbarba, 6 giugno 1948.

[6]      BGV/FAdS, Cartolina di  Adalberto Berruti, 22 agosto 1943.

[7]      Cfr. L’ombra del potere. Biografie di capi di gabinetto e degli uffici legislativi, a cura di G. Tosatti, Società per gli studi di storia delle istituzioni, 2016,  pp. 33-35.

[8]      Per tutte le citazioni del prefetto Peruzzo cfr. Vincenzo Peruzzo, ricordi del primo prefetto di Pisa dopo la Liberazione, a cura di C. Forti, Pisa, Pacini, 2012.

[9]      Cfr. C. Forti, Dopoguerra in provincia, microstorie pisane e lucchesi, 1944-1948, Milano, F. Angeli, 2007, pp. 100-112.

[10]      Cfr. Cangini Tito, in Dizionario di Volterra, a cura di L. Lagorio, Pisa, Pacini, 1984, pp. 926-927.

[11]      Cfr. C. Forti, Dopoguerra in provincia, microstorie pisane e lucchesi, 1944-1948, cit., pp. 72-79. Nel saggio sono riportati i seguenti dati: Il campo di Coltano passò all’amministrazione italiana il 28 agosto 1945. Ospitava 32.229 internati. Il 27 settembre 1945 cominciarono gli interrogatori, che si conclusero il 29 ottobre. Circa 30.000 internati furono subito liberati e 2.700 trattenuti, ma parecchi fuggirono o, trasferiti in un campo presso Arezzo, furono presto liberati. 313 furono prelevati dalle Questure competenti, 45 ufficiali dell’esercito furono trasferiti al Forte Boccea a Roma e 187 ufficiali di Marina al campo di Narni.

[12]      Cfr. Il Tirreno, 25 maggio 1945.

[13]      ASCV-Postunitario, CLN-Verbali delle adunanze, Adunanza del 14 luglio 1944, n. 7. Il “Libro dei verbali del CLN di Volterra, dal 9 luglio 1944 al 4 settembre 1945” è stato conservato da Luigi Riondino e donato all’Archivio del Comune di Volterra il 9 luglio 2024, in occasione dell’80° anniversario della Liberazione della città.

[14]      Cfr. V. Fiorino, Le officine della follia, Il frenocomio di Volterra, Pisa, ETS, 2011.

[15]      BGV/FAdS, Lettera Dc, PLI e PDL del 13 novembre 1944.

[16]      ASPi, Gabinetto del prefetto, Decreto 6973, div. 2/2, del 23 novembre 1944.

[17]      ASCV-Postunitario, CLN-Verbali delle adunanze, Adunanza 26 novembre 1944, n. 17.

[18]      ASPi/CLN, b. 1 f. 5, Attività e posizione politica dell’avv. Arnaldo Dello Sbarba, Memoriale del 4 dicembre 1944 del CLN volterrano al CPLN e p.c. al CTLN.

[19]      AP/AdS, A. Fratini, Appunti per una storia del socialismo volterrano, esemplare originale dattiloscritto dell’autore, pp. 58-59.

[20]      Cfr. «Il Corazziere», nn. 1° e 14 maggio 1921.

[21]      BGV/FAdS, Lettere del 23 dicembre 1944 della Dc, del PLI e del PDL e minuta manoscritta non datata.

[22]      ASPi/CLN, “È venuta l’ora di gridare basta!”, cit.

[23]      In BGV/FAdS: Arnaldo Dello Sbarba torna sulla vicenda in una autobiografia in terza persona scritta nel 1948: “Venuto segretario del partito fascista Ettore Muti, il quale dichiarò che la rivoluzione fascista era finita e bisognava rientrare nella costituzionalità e nella legalità, fece appello all’associazione combattenti a collaborare con la di lui opera; molti amici della provincia di Pisa fecero premura all’onorevole Dello Sbarba, ex combattente iscritto, di esaminare se non fosse dovere civico e patriottico di non estraniarsi dall’assecondare il richiamo del Muti. Si recarono a Roma per avere un colloquio con Muti ed avutolo per due volte a distanza in una sala dell’hotel Moderno, Muti confermò le promesse dichiarando che se queste non si fossero verificate egli avrebbe lasciato la sua carica. Scongiurò i combattenti di non fare un secondo Aventino. Allora fu deciso di accogliere l’invito tanto quanto bastava per rendere possibile un’eventuale futura collaborazione per cui fu accettata la tessera. Ma rimasero nell’attesa. Questa tessera è rimasta lettera morta, l’onorevole Dello Sbarba e gli altri rimasero in disparte e in silenzio, delusi ed umiliati di essere stati così ingenui da credere non a Muti, il quale in realtà se ne andò, ma alla possibilità che il fascismo si trasformasse”.

[24]      BGV/FAdS, Lettera di Cesare Rossi al senatore Ginori Conti del 9 dicembre 1923.

[25]      BGV/FAdS, Lettera di Arnaldo Dello Sbarba a Benito Mussolini del 20 febbraio 1924. Sulle lotte interne al fascismo pisano e la tentata candidatura di Arnaldo Dello Sbarba nel “Listone” fascista del 1924, cfr. R. Dello Sbarba, Arnaldo Dello Sbarba: anatomia di una caduta, in «ToscanaNovecento», portale di storia contemporanea. https://www.toscananovecento.it/custom_type/arnaldo-dello-sbarba-anatomia-duna-caduta/?print=print

[26]      Cfr ACS/CPC, Segnalazione del 7 luglio 1927 del Prefetto di Roma Paolo D’Ancona al Ministero dell’Interno, Direzione generale di P.S., Divisione affari generali e riservati: “Pregioimi comunicare che l’ex deputato Dello Sbarba avv. Arnaldo abitante in via Viminale 43 e con studio in via Pie’ di Marmo 18, da vari anni non risulta che esplichi alcuna attività politica e serba regolare condotta. Nei riguardi dell’attuale regime fascista dimostrasi indifferente”.

[27]      Cfr. ACS, Guida Monaci, Guida commerciale, scientifica e artistica della città di Roma, aa. dal 1926 al 1946.

[28]      Cfr. P. Nicoloso, Marcello Piacentini. Architettura e potere: una biografia, Udine, Gaspari, 2018, pp. 121-122.

[29]      BGV/FAdS, Lettera di Arnaldo al fratello Bruno Dello Sbarba del 16 aprile 1933.

[30]      Cfr. M. Scardozzi, Un paese intorno alle terme, da Bagni di Pisa a San Giuliano Terme, 1742-1935, Pisa, ETS, 2014.

[31]      ASPi/CLN, Verbale della seduta del 29 dicembre 1944.

[32]      ASCV-Postunitario, CLN-Verbali delle adunanze, Adunanza 28 dicembre 1944, n. 20.

[33]      ASPi/CLN, Corrispondenza tra CPLN, CCLN, CLN Volterra, Gabinetto governo Bonomi, Uffici centrali e periferici di PLI e PDL, tra il 1° gennaio e il 30 marzo 1945.

[34]      ASCV-Postunitario, CLN-Verbali delle adunanze, Adunanza 11 aprile 1945, n. 21.

[35]      ASCV-Postunitario, CLN-Verbali delle adunanze, Adunanza 24.04.45, n. 32. Su Mario Giustarini si v. M. Bacchiet, Giustarini Mario, in Dizionario biografico online delle comuniste e dei comunisti della provincia di Pisa, Biblioteca Franco Serantini, Istituto di storia sociale, della Resistenza e dell’età contemporanea. https://www.bfscollezionidigitali.org/entita/16112-giustarini-mario?i=10

[36]      ASPi/CLN, Corrispondenza tra CPLN e Tito Cangini dal 15 maggio 1945 al 29 luglio 1945.

[37]      BGV/FAdS, diverse memorie stilate da Arnaldo Dello Sbarba tra il 1944 e il 1945, tra cui un intero “Blocco di appunti”.

[38]          Cfr. E. Dello Sbarba e S. Trovato, Inventario dell’archivio di Arnaldo Dello Sbarba, «Rassegna volterrana», a. 90, 2013.




Beatrice Giglioli, una donna sulla linea del fronte

1. I Giglioli di Pisa
Beatrice Elena Giglioli nasce a Portici (NA) il 5 febbraio 1892 da Italo[1] e Costanza Stocker[2]. I suoi due nomi richiamano due persone della storia della famiglia, uno per quella materna e uno per quella paterna. Grazie al Book IV. 1 dei Family Memorials of the Giglioli-Casella, scritte ad uso della famiglia da Maria Elena Casella (1888-1959), si apprende che Beatrice aveva una zia materna con lo stesso nome, Beatrice Alicia Ramsay Stocker[3], che nell’anno della nascita della nipote si imbarca per gli Stati Uniti per unirsi alle tribù dei Sioux come missionaria presbiteriana. Il secondo nome ricorre con continuità nel succedersi delle generazioni e si riferisce alla nonna paterna, Ellen Hillyer, per la devozione nei suoi confronti da parte di Italo, padre di Beatrice Elena[4].
La famiglia discende da Giuseppe Giglioli (1804-1865), figlio di Domenico (1775-1848) e Maria Luigia Palmerini (?-1862), patriota, membro della Giovine Italia e amico personale di G. Mazzini. Esule in Inghilterra, G. Giglioli aveva sposato Ellen Hillyer (1819-1894) e dalla loro unione erano nati cinque figli: Enrico (1845-1909), Augusto (1846-1901), Alfredo (1847-1897), Italo (1852-1920) e Elena (1858-1941).

Beatrice Giglioli nei primi anni venti. [Archivio Biblioteca Serantini]

Nel 1903 in seguito al trasferimento del padre Italo – già direttore alla Scuola superiore di agricoltura di Portici –, tutta la famiglia si stabilisce a Roma e dove Beatrice inizia gli studi superiori nel liceo ginnasio T. Tasso. Il suo percorso liceale si completerà al liceo classico G. Galilei di Pisa, perché nel 1904 il padre verrà nominato docente di chimica agraria alla locale Scuola superiore di agraria. Iscrittasi alla Facoltà di Lettere dell’Università di Pisa nell’ottobre del 1912, nel novembre 1913 sostiene l’esame al concorso per un posto di alunna aggregata senza sussidio alla Scuola Normale Superiore, classe di lettere e filosofia. La prova scritta di italiano a quell’esame si intitola L’opera di Dante considerata come sussidio alla conoscenza diretta e piena della Commedia. Vince il concorso e successivamente, per il merito dimostrato negli esami sostenuti, viene ammessa come alunna aggregata con sussidio.
Agli inizi della guerra, avendone conseguito il diploma il 6 aprile 1915, presta la propria opera di aiuto-infermiera della Croce Rossa Italiana. Il suo nome è anche nel 1° elenco dei soci del Club Alpino Italiano chiamati alle armi e il suo servizio sui treni ospedali inizia il 10 agosto 1915. Le infermiere volontarie e le aiuto-infermiere della CRI di Pisa svolgono servizio anche presso l’Ospedale militare di riserva, nel Palazzo Arcivescovile, nell’Ospedale succursale Pisa e negli istituti di rieducazione per soldati mutilati. In questo periodo Beatrice intrattiene corrispondenza con ufficiali e sottufficiali al fronte, quasi tutti studenti dell’Università di Pisa. Tra questi c’è Piero Pieri, in seguito tra i maggiori storici italiani della Prima guerra mondiale.
Nel giugno 1917 si laurea in lettere a pieni voti con una tesi su Il problema della decadenza dell’Impero romano negli storici moderni. Il relatore è Vincenzo Costanzi (1863-1929), ordinario di storia antica. Per nomina ministeriale, Beatrice viene incaricata dell’insegnamento di storia, geografia e diritti e doveri per l’anno scolastico 1917-18 nella Scuola tecnica Nicola Pisano di Pisa. Nel maggio 1918, presso l’Università di Pisa, supera l’esame di abilitazione all’insegnamento della lingua inglese per gli istituti d’istruzione media di 2° grado.
Nell’agosto 1918 si trasferisce a Londra, dove, il 26 dello stesso mese, ottiene per esame il posto di traduttrice al War Office (Ministero della guerra), con il compito di tradurre in inglese documenti e opuscoli italiani e francesi concernenti la guerra europea. Poche settimane dopo, il 21 settembre 1918, si dimette dall’incarico in seguito alla nomina ad assistente presso la Facoltà di Italiano dell’Università di Cambridge. Durante la sua permanenza in Inghilterra segue corsi di perfezionamento di filologia e letteratura inglese, tiene conferenze a Londra e a Edimburgo sulla storia e la letteratura italiana. Nel gennaio 1919 e per i due trimestri successivi assume l’incarico di insegnare lingua e letteratura italiana presso la stessa Università di Cambridge, impegno che prosegue fino al luglio successivo, quando è costretta a rientrare in Italia per l’aggravamento delle condizioni di salute del padre.
Nel frattempo, le profonde trasformazioni geo-politiche legate al riassetto seguito alla Prima guerra mondiale, generano tensioni politiche in tutta Europa. Il legame della famiglia Giglioli con la tradizione risorgimentale mazziniana e con il tema dell’autodeterminazione politica delle nazionalità, si manifesta nel sostegno alla spedizione fiumana di D’Annunzio, alle rivendicazioni dell’italianità della Dalmazia e all’indipendenza ceco-slovacca.
Nell’autunno del 1920 Beatrice diviene insegnante supplente di lingua inglese all’Istituto tecnico Antonio Pacinotti di Pisa, dove rimane negli anni scolastici 1920-21 e 1921-22. Vince il concorso generale a cattedre di lingua inglese per gli istituti tecnici e si trasferisce per un anno a Sassari, dove insegna all’Istituto tecnico Alberto Lamarmora. Dall’a.s. 1923-24 e 1924-25 insegna presso l’Istituto tecnico Germano Sommeiller di Torino, nel corso superiore della Sezione commercio e ragioneria. A Torino, nel 1925, per l’editore Paravia traduce dall’inglese la guida pratica di J.E. Russell, Lezioni intorno al terreno. A partire dall’a.s. 1925-26 torna a Pisa, al Liceo ginnasiale G. Galilei dove lei stessa aveva studiato e dove diventerà titolare di lingua e letteratura inglese dall’a.s. 1935-36. Dall’a.a. 1925-1926 è incaricata del lettorato di lingua inglese della Scuola Normale Superiore, incarico riconfermato fino al 1959. Presso la SNS sono conservati i registri delle sue lezioni a partire dall’anno 1932 e tra i testi da lei più utilizzati nei corsi compare Oliver Twist di C. Dickens.
Oltre che sul piano professionale, Beatrice è attiva anche su quello civile: quando il 13 febbraio 1926 viene fondata la Sezione di Pisa del CAI, risulta – insieme ai fratelli Irene e Giorgio, oltre che a Piero Zerboglio – tra i promotori e fondatori[5].
Il 25 febbraio 1933 firma il giuramento di “fedeltà” al Re e al regime fascista. Il verbale del giuramento riporta i nomi dei testimoni, Giovanni Gentile, direttore della SNS, e i docenti Francesco Arnaldi e Giovanni Ricci[6].

Ingresso Villa dei Giglioli, 1938 [Archivio Biblioteca Serantini]

Quella di Beatrice al fascismo non è un’adesione ideologico-politica, è invece un’adesione solo formale, dovuta alla necessità di rimanere come insegnante alla SNS, per poter continuare a provvedere a sé stessa e all’anziana madre. La sua precedente attività di volontaria della CRI nella Prima guerra mondiale e la partecipazione, insieme al padre, alla campagna a favore dell’indipendenza ceco-slovacca nel 1920, sono impegni pubblici di tipo “patriottico” nel segno della tradizione mazziniana, ma negli anni che vanno dal 1922 al 1933 non c’è nessuna sua presa di posizione in senso nazionalista. Del resto, nel libro sulla storia dei Giglioli scritto dalla madre di Beatrice e pubblicato nel 1935, benché l’argomento riguardi la tradizione risorgimentale della famiglia, non vi è traccia di alcun accenno al fascismo e al suo leader, in cui evidentemente l’autrice non riconosceva alcuna continuità con la storia del mazzinianesimo[7].
Dall’anno scolastico 1935-1936, oltre che al Liceo ginnasio G. Galilei, è nominata titolare di lingua e letteratura inglese anche alla scuola media R. Fucini di Pisa. Nel 1935 pubblica per R. Pironti di Napoli la traduzione di Much ado about nothing di W. Shakspeare.

2. Sulla linea del fronte: 31 agosto 1943-1° gennaio 1945
Durante gli anni di guerra con meticolosa puntualità Beatrice Giglioli annota su piccole agendine gli avvenimenti familiari e locali. Con la sorella Irene, Beatrice ha vissuto a Cisanello, sobborgo di Pisa, per gran parte del Novecento. Oltre alle notizie sugli eventi quotidiani, nelle sue agendine registra alcune dinamiche relazionali e sociali, che vengono alla luce, paradossalmente, per effetto dei bombardamenti su Pisa, che iniziano il 31 agosto 1943 e proseguono a lungo. Alla dimensione verticale delle bombe che cadono dall’alto e che producono morte e distruzione, subentra quella orizzontale degli effetti generati dalle esplosioni, a partire dai comportamenti di chi, sopravvissuto, si trova ad agire in una realtà fisica (edifici, ponti, strade) e umana (morti, feriti) drammaticamente colpita e dove la vita, per continuare, deve affrontare difficoltà inedite in una situazione che è mutata profondamente. Nella vita civile niente è più come prima: provvedere alle cure mediche per i malati e ora anche per i feriti, spostarsi da un luogo all’altro della città, a piedi, in bicicletta o con qualche altro mezzo, procurarsi cibo e rifornirsi di provviste, dare e avere notizie sulle persone care o conosciute, poter continuare o meno a svolgere il proprio lavoro, poter contare o meno sul funzionamento delle istituzioni, dei servizi postali, dei trasporti ferroviari e delle infrastrutture in genere, ecc. Le bombe, inoltre, producono anche un elevato numero di sfollati, le cui sorti sono esposte a grave rischio, costretti come sono a cercare ospitalità, un alloggio o almeno un riparo.

Bombardamento di Pisa, dicembre 1943 [The U.S. National Archives and Record Administration (NARA)]

Pochi giorni dopo il primo bombardamento, inoltre, in seguito all’armistizio con gli Alleati annunciato l’8 settembre, si determina un ulteriore cambiamento, che ha ripercussioni notevoli sulla società civile e rende ancora più precaria la situazione di Pisa e che peggiora con l’arrivo delle truppe d’occupazione naziste, alle quali gli uomini della RSI, sorta nel frattempo, sono del tutto subalterni.
Di tutto ciò si trova ampia traccia nei diari di Beatrice[8]. Quella che si raccoglieva nella villa di Cisanello prima dei bombardamenti era una fitta rete di rapporti fatta di legami parentali, amicali, professionali e culturali, sostenuta da una rete altrettanto fitta di vicini di casa, affittuari, conoscenti e persone provenienti per lo più dal territorio circostante per le collaborazioni domestiche (cucina, pulizie e lavori di casa) e per la fornitura di servizi (materie prime, cibo, servizi di manutenzione della casa, ecc.). A questi va aggiunta la cura dei numerosi animali (cani, gatti, galline, conigli, capre, api), e il conforto rappresentato dal giardino, con l’attenzione esperta ai fiori, alle verdure e alle piante da frutto, esito evidente delle competenze di Italo Giglioli trasmesse alle figlie. Dopo il bombardamento di Pisa, le sorelle Giglioli vogliono subito vederne gli effetti per valutarne la portata e si attivano per far fronte a tutto, a partire dal fatto che accorrono subito presso le macerie della casa degli amici Zerboglio, colpita in pieno da una bomba sul Lungarno Regio (odierno Lungarno Pacinotti), per mettere in salvo la maggior quantità possibile dell’archivio e dei numerosissimi libri che vi erano raccolti. La rete dei rapporti d’amicizia è un bene prezioso, che va tenuta attiva nei momenti difficili, come si vede quando il 23 settembre 1943, dopo aver saputo che l’amico Aldo Visalberghi (1919-2007) era stato ferito nella difesa di Roma, Beatrice Giglioli si affretta a informarne gli amici comuni della famiglia Barletta. La rete di solidarietà si manifesta accogliendo in casa sfollati, curando gli esseri umani e gli animali, continuando ad avere la stessa attenzione di prima anche per il giardino e ospitando amici e parenti a pranzo, a cena, per la notte o anche solo per il tè, cercando, procurando e distribuendo risorse alimentari e facendo di necessità virtù con quelle disponibili. Le sorelle Giglioli intendono in ogni momento ricostituire una comunità di fraternità e integrazione civile, il che rappresenta, per i loro interlocutori, una risorsa preziosa su cui contare. Fra gli amici ospitati più frequentemente a casa Giglioli ci sono persone di differente appartenenza religiosa, come anglicani e valdesi (il pastore Attilio Arias o l’insegnante e collega Laura Revel), o ebrei (alcuni esponenti della famiglia De Cori, Giulia Letizia Aghib, l’insegnante e collega Maria Sacerdotti), nonostante fossero in vigore le leggi razziali fasciste emanate nel 1938 e la persecuzione anti-ebraica si fosse inasprita dopo la nascita della RSI. È la storia stessa della famiglia Giglioli, con il suo ramo protestante inglese degli Hillyer e degli Stocker, a fornire esempio vissuto di costruzione comunitaria. Le Giglioli, del resto, non si fanno intimidire nemmeno dall’arrivo delle truppe tedesche nella loro casa, una prima volta ad aprile 1944 e poi altre due volte tra luglio e agosto.
Gli interlocutori delle sorelle Giglioli sono soprattutto insegnanti, colleghi di Irene e di Beatrice, la quale, insegnando sia nelle scuole secondarie che alla SNS, si trova a contatto con molti dei più noti intellettuali e scienziati attivi a Pisa (G. Gentile, L. Tonelli, L. Russo, S. Timpanaro sr. ecc.). Tra questi ci sono anche alcuni medici molto noti in città, come Francesco Niosi o Silvio Luschi, che prestano cure alle sorelle, amici e vicini. Nelle pagine di Beatrice si coglie bene anche il pesante impatto della guerra sulla vita della scuola. Il lavoro di Beatrice presso la SNS l’ha portata a essere insegnante di molti studenti poi noti nell’ambito delle professioni e che, come nel caso di Visalberghi, sono diventati anche amici. Alla costruzione di questa parte dei rapporti delle sorelle Giglioli con il mondo universitario ha anche contribuito la precedente attività di docente a Pisa del padre Italo, la cui amicizia con Adolfo Zerboglio, per esempio, ha portato all’amicizia fraterna tra le figlie di Giglioli e il figlio di Zerboglio, Piero, importante figura dell’antifascismo azionista toscano, il cui nome ricorre molto frequentemente nelle pagine del Diario. In effetti, dal Diario traspare la posizione antifascista delle Giglioli, tanto che la loro casa, oltre che un riferimento sicuro per Zerboglio, lo è anche per un altro esponente azionista, Carlo Ricci, frequente ospite a Cisanello, così come accadeva anche per altri antifascisti.

Arrivo soldati a Pisa settembre 1944 [The U.S. National Archives and Record Administration (NARA)]

Non sono solo le numerose presenze di persone e cose a caratterizzare il Diario, ma anche alcune assenze. Può sembrare strano che in quelle pagine, così attente ad annotare tutto ciò che va dalla minuta vita quotidiana ai grandi avvenimenti politici e militari, manchino due fatti di grande rilievo. In effetti, non c’è alcuna citazione dell’uccisione di Giovanni Gentile, avvenuta a Firenze il 15 aprile 1944, e nemmeno dell’eccidio per mano nazista avvenuto a Pisa il 1° agosto 1944 in casa di Giuseppe Pardo Roques, presidente della comunità ebraica pisana, che era stato amico di Italo Giglioli. È probabilmente la gravità dei due fatti a indurre in Beatrice un’evidente auto-censura a scopo precauzionale. È nella corrispondenza con la sorella Lilia, svolta attraverso scambi realizzati fuori dal circuito postale grazie a mani amiche, che i due fatti vengono citati e commentati.

Negli anni della guerra Beatrice Giglioli continua a lavorare come insegnante al Liceo G. Galilei e come lettrice alla SNS, dove la conferma del suo incarico giunge anche per l’a.a. 1943-44 da parte del nuovo direttore, Leonida Tonelli, rinnovato anche da Luigi Russo[9]. Dall’anno accademico 1942-1943 fino al 1948-1949 è docente incaricata di lingua e letteratura inglese all’Università di Pisa. A causa delle vicende belliche nell’a.a. 1943-44 inizia le lezioni il 1° febbraio 1944 e può tenere solo lezioni saltuarie fino ad aprile.
Dopo la fase dell’occupazione tedesca della città e i mesi di guerra dell’estate del 1944, riprenderà l’insegnamento alla SNS il 25 gennaio 1945. Uno dei suoi interlocutori è il meridionalista Giuseppe Isnardi (1886-1965), collaboratore dell’Animi, che dal 1928 al 1934 insegna al Liceo classico Carducci-Ricasoli di Grosseto e dal 1934 al 1951 a Pisa, dove insegna lettere al ginnasio G. Galilei, collega di Beatrice, insieme a G. Raniolo e a Ildebrando Imberciadori, che insegna lettere al triennio liceale.
Sull’esempio della madre, Beatrice si dedica alla cura dell’archivio di famiglia con l’aiuto della sorella Irene e della cugina Maria Elena Casella. Il ruolo di Beatrice nel conservare l’archivio di famiglia è ricordato proprio dalla Casella in alcuni passi delle sue Family Memorials: «The passage was marked by Italo Giglioli in the book found for me by Beatrice Giglioli at Cisanello, in September 1958» (p. 80); «I once found by chance, in Beatrice’s study, a notebook with some notes jotted down by Italo Giglioli» (p. 150).
Beatrice muore a Pisa il 7 febbraio 1988. Le ceneri per sua volontà sono state collocate nel cimitero di Pisa accanto a quelle delle sorelle Irene e Lilia. L’archivio è lasciato ad Antonio Ricci, che lo ha donato alla Biblioteca F. Serantini.

Note

  1. Italo nasce a Genova il 1° maggio 1852 da Giuseppe e Ellen Hillyer. Si laurea in agraria al Royal Agricultural College di Cirencester, contea di Gloucestershire. Muore a Pisa il 1° ottobre 1920.
  2. Costanza nasce a Roma il 2 ottobre 1856 dal reverendo anglicano Edward Seymour Stocker (1828-1900) e da Jean Hamilton Dunbar (1829-1862). Nel 1885 incontra Italo Giglioli e sarà suo padre Edward, il 26 agosto 1886, a celebrare il loro matrimonio a Londra. Oltre alla cura dei figli, Costanza coltiva le sue passioni e, grazie alla vicinanza del marito e alla conoscenza della storia della famiglia Giglioli, si interessa alle vicende del Risorgimento italiano, in particolare alle avanguardie democratiche e giacobine attive a Napoli tra la fine del Settecento e la prima metà dell’Ottocento. Da questi studi nasce il volume dedicato alla rivoluzione napoletana del 1799, pubblicato in Inghilterra nel 1903.
  3. Nata a Roma il 13 marzo 1858, Beatrice A.R. Stocker muore il 23 febbraio 1935 a Sonoma, in California, dov’è sepolta. Tracce molto interessanti della sua esperienza di missionaria si ritrovano in alcune lettere da lei inviate alla sorella Constance Giglioli Stocker, cfr. A Doorkeeper in the House of God: The Letters of Beatrice A. R. Stocker, Missionary to the Sioux, 1892-1893, a cura di A.M. Baker, «South Dakota History», vol. 22, n. 1, 24 marzo 1992, pp. 38-63.
  4. L’ultima figlia di Ellen Hillyer è stata chiamata Elena, così come quest’ultima ha voluto chiamare Maria Elena la sua unica figlia. Beatrice Elena non ha fatto a tempo a conoscere la nonna Ellen, morta nel 1894 in Abruzzo, a Chieti, dove risiedeva presso la famiglia del genero Raffaello Casella, marito di Elena Giglioli.
  5. «Notiziario» CAI – Sezione di Pisa, a. xxxvii, n. 1, 2017.
  6. SNS, Centro archivistico, fasc. Giglioli Beatrice. Dal fascicolo risulta che Beatrice Giglioli è iscritta al Pnf dal 31 luglio 1933, tessera n. 671151, e all’Afs (Associazione fascista della Scuola) dal 1934, tessera n. 022270.
  7. C. Giglioli Stocker, Una famiglia di patrioti emiliani. I Giglioli di Brescello, con appendice di 26 lettere inedite di patrioti del tempo, Milano [etc.], Società editrice Dante Alighieri, 1935.
  8. B. Giglioli, Diario 21 agosto 1943 – 1° gennaio 1945. Ricordi dell’estate 1944 di Antonio Ricci, a cura di F. Bertolucci, B. Cattaneo e G. Mangini, Ghezzano (PI), BFS edizioni, 2025.
  9. SNS, Centro archivistico, fasc. Giglioli Beatrice. L’incarico alla sns termina nell’a. a. 1959-60.



La Resistenza in Valtiberina

La Valtiberina è una zona geografica soprattutto appenninica, soggetta alla provincia aretina, che si estende nella Toscana orientale comprendendo grosso modo l’alta valle del Tevere. L’intera area fu coinvolta nella primavera/estate del 1944 in quel fronte divisorio tra Ancona e Livorno, linea di scontro tra l’esercito anglo-americano che risaliva la penisola e le truppe tedesche costrette alla ritirata. In quella zona i nazisti appoggiati dai fascisti scorrazzavano per lungo e per largo prestandosi però all’insidia clandestina delle formazioni partigiane e conseguentemente mettendo in atto feroci rappresaglie e deportazioni delle popolazioni locali. Ma è proprio sui componenti di queste popolazioni, prevalentemente contadini – in tutta l’area il sostentamento e l’attività lavorativa si fondavano direttamente sulla terra – che la Resistenza ha potuto appoggiarsi per proseguire e portare a termine la Liberazione. Già dalla sera stessa dell’8 settembre, il primo e spontaneo atto di resistenza passiva, ma sostanziale, al tedesco che gettò le premesse dell’azione armata, fu l’assistenza agli sbandati dell’esercito, agli ex prigionieri alleati, agli ebrei, ai politici ricercati dalla polizia ed ai renitenti alla leva. Da quel giorno il ruolo svolto dal mondo contadino durante la Resistenza è stato determinante fino al punto che “…se i contadini non le fossero stati favorevoli, partecipandovi anche attivamente in gran numero, la Resistenza sarebbe stata impossibile[1].

Quando i tedeschi imposero la denuncia e la consegna degli ex prigionieri e l’iscrizione degli sbandati negli uffici comunali per il loro eventuale richiamo, automaticamente costrinsero tutti gli abitanti della campagna, nessun ceto escluso, a schierarsi o con i nazifascisti o contro di essi a favore dei perseguitati. La stragrande maggioranza scelse la seconda soluzione, preparando alla nascente resistenza politica e armata un territorio particolarmente favorevole.

Il Casentino e la Valtiberina come altre zone rurali della Toscana si trasformarono in un grande centro di raccolta, assistenza e transito di decine di migliaia di individui. Fu un’azione che coinvolse tanto i privati quanto il movimento resistenziale organizzato, con l’aiuto di diversi diplomatici stranieri che operavano per conto degli alleati e l’appoggio in denaro e mezzi fornito dal clero. Naturalmente il lavoro di assistenza ai prigionieri alleati e agli sbandati non passò inosservato ai tedeschi e ai collaborazionisti fascisti che fin dal 16 settembre intimarono: “Tutti i prigionieri di guerra dovranno consegnarsi al Comando tedesco… coloro che continueranno a dargli vitto e alloggio… saranno puniti secondo la legge tedesca[2]. Anche il capo della provincia di Arezzo, pensando di far leva su quello che riteneva l’anello più debole, ossia i proprietari terrieri, decretava “il sequestro della proprietà a chi dà ospitalità ad ex prigionieri e sbandati[3]. Ma entrambe le azioni intimidatorie non riuscirono a rompere quel fronte solidale che si era creato attorno alla Resistenza. L’importanza del contributo del mondo contadino alla lotta contro i nazifascisti era già stato manifestato dal “Fronte per la Liberazione Nazionale” di Firenze, futuro CTLN, con un volantino nel settembre del ‘43 quando elogiava i contadini per l’aiuto prestato agli sbandati dell’esercito e ai prigionieri alleati e li incitava a continuare nella lotta, invitandoli, al momento del raccolto, ad evadere gli ammassi per sottrarre il grano ai tedeschi e dare l’aiuto alle formazioni partigiane.

Ma la Resistenza in Valtiberina oltre al contributo di sostanza dato dunque dal mondo contadino, ha potuto contare anche sul forte sostegno della Chiesa caratterizzando la lotta per la Liberazione, in questa zona forse più che in altre, con uno sfondo prevalentemente cattolico. Si deve tener presente, infatti, che in questa vallata il parroco, nel tempo, per una complessità di cause, aveva finito per rappresentare in genere più che altrove l’incontrastata guida della sua gente: consigliere e confessore, uomo di fiducia e punto di riferimento in ogni occasione. In pratica la parrocchia diventava onnicomprensiva, luogo di culto, di riunione e di divertimento, era centro religioso, sociale e non ultimo luogo di istruzione scolastica. Infatti la Valtiberina, incastonata nell’Appennino, presentava diversi nuclei frazionali dispersi fra le montagne e molto disagevoli a raggiungere, cosicché l’istruzione scolastica negli anni era stata lasciata al clero, ed anche il fascismo dopo i Patti Lateranensi col suo programma di alfabetizzazione aveva preferito costituire le “scuole sussidiate” continuando ad affidarle ai parroci. In questo modo al clero montanaro di questa diocesi veniva affidato più dei due terzi dell’insegnamento elementare. Ogni parrocchia aveva la sua scuola dislocata nei locali della canonica, che dipendeva dal Provveditore agli Studi della Provincia, in cui si svolgevano gli stessi programmi, almeno teoricamente, delle elementari comunali[4]. Questo aspetto, non trascurabile, dell’istruzione scolastica lasciato nelle mani della Chiesa si sarebbe poi fatto sentire  più che mai durante la Resistenza tra quei giovani usciti dalle aule parrocchiali, soprattutto perché questi ragazzi, abitanti nella vallata, venivano consegnati all’istruzione scolastica impartita il più delle volte da preti con idee innovative, progressiste che per lo più erano stati inviati nelle zone più disagiate come in una sorta di confino, un po’ simile a ciò che avverrà poi negli anni Cinquanta con don Milani. Nelle diocesi di questo Appennino toscano, per esempio, avevano trovato rifugio vari sacerdoti romagnoli già aderenti alla prima Democrazia Cristiana murriana[5] come don Zanzi (parroco a Usciano) e don Savini (parroco a Palazzo del Pero), o come don Sante Tampieri e don Edoardo Cotignoli nel Montefeltro, o infine come Francesco Mari nella zona di Città di Castello. Anche se non vi era una posizione omogenea concordata preventivamente, perché entravano in gioco temperamenti individuali e altri fattori soggettivi, è possibile riscontrare nei sacerdoti della provincia d’Arezzo un orientamento abbastanza generalizzato e costante verso i valori democratici e di giustizia sociale a giudicare dall’alto prezzo di sangue pagato nei giorni della Resistenza, dove furono ventiquattro le vittime del mondo clericale cadute sotto i colpi dei nazifascisti[6]. Significativo anche il modo: in genere per essersi offerti quali ostaggi volontari per liberare la propria gente come don Fondelli a Meleto o don Lazzeri a Civitella di Chiana o indiscriminatamente rastrellati con la popolazione da cui non intendevano dissociarsi. E i nazifascisti quando se la prendevano con il clero parrocchiale dell’Appennino dimostravano di conoscere molto bene il ruolo dei parroci in queste zone, considerando la loro opera svolta, almeno all’inizio dell’offensiva, la principale se non l’unica guida dell’opposizione. Esisteva un forte legame, espressione di un tessuto comunitario compatto, fra la popolazione e il parroco che si era consolidato negli anni dalla comune convivenza, dalla scuola, dalla partecipazione nelle attività sociali, un legame che proprio nei mesi della Resistenza risultava non necessariamente e solo religioso ma andava oltre fino al punto che spesso era lo stesso parroco ad avvallare le decisioni collettive per l’appoggio alla lotta partigiana. In questa zona nei mesi dopo l’Armistizio del ’43 il parroco interpretava la comunità scegliendo il campo della lotta e implicitamente la comunità lo delegava in ciò a rappresentarla. Ed è per l’appunto questa presenza attiva del clero parrocchiale che va considerata come un fattore essenziale che spiega e qualifica la partecipazione collettiva della popolazione contadina nella Valtiberina in chiave cattolica nella lotta per la liberazione. Inoltre dobbiamo considerare che la diocesi aretina era guidata da Monsignor Emanuele Mignone, l’unico vescovo che in Toscana si era apertamente dichiarato antifascista contravvenendo in parte all’orientamento dettato dal cardinale Elia Dalla Costa, la più alta autorità religiosa toscana, che prevedeva “di rendersi estranei ad ogni competizione politica”, e di fatto obbedienza alla legittima autorità, cooperazione nella tutela dell’ordine pubblico e quindi legittimazione del fascismo…ma con neutralità[7]. Dopo l’8 settembre il Vescovo Mignone si attivò immediatamente nella lotta contro il nazifascismo cooperando con gli oppositori politici ed entrando in contatto con le formazioni partigiane, caso unico nell’alto clero toscano che volutamente ignorava il CTLN e i partigiani perché nutriva fortissime preoccupazioni per l’adesione del popolo all’ideologia comunista. Non è privo di significato, infatti, che il Vescovo Mignone sia stato proclamato cittadino onorario dal CTLN all’indomani della Liberazione, e può essere indicativo anche il fatto che nella diocesi aretina non ci sia stato un solo caso di cappellano militare della Repubblica Sociale Italiana. E non altrimenti si spiega la presenza dei parroci nei Comitati Nazionali di Liberazione (organismi nati dopo l’8 settembre e prima dei CNL) e poi nei Comitati provinciali di liberazione, né si comprenderebbe come il primo nucleo resistente nella zona di Anghiari fosse stato organizzato dal prevosto mons. Nilo Conti. Nella provincia aretina, dunque, un contributo essenziale e determinante, al pari di quello offerto dal mondo contadino, è stato dato dalla Chiesa coinvolgendo nella Resistenza sia i parroci che le cariche ecclesiastiche più alte della diocesi. Così la stragrande maggioranza del clero che prese posizione lo fece quindi a favore della Resistenza politica e spesso non esitò a entrare in quella armata.

 

NOTE:

[1] Lorenzo Bedeschi, La Resistenza in Valtiberina in La Resistenza dei cattolici sulla Linea Gotica, (a cura di) Silvio Tramontin, Edizioni cooperativa culturale “Giorgio La Pira”, Sansepolcro 1983, p. 158.

[2] Iris Origo, Guerra in Valdorcia, Vallecchi, Firenze 1968, pp. 65-67.

[3] Da un manifesto affisso nella Provincia di Arezzo in Libertario Guerrini, La Resistenza e il mondo contadino. Dalle origini del movimento alla Repubblica: 1900-1946, Contributo per il convegno “Mondo Contadino e Resistenza” Foiano della Chiana, 15 marzo 1975, p. 72.

[4] L. Bedeschi, La Resistenza in Valtiberina, cit., p. 159.

[5] Prende il nome da Romolo Murri, presbitero e politico italiano, tra i fondatori del cristianesimo sociale in Italia, propugnatore di un maggior impegno  politico dei cattolici, agì come voce critica nei confronti del conservatorismo delle gerarchie ecclesiastiche, cercando una conciliazione tra socialismo e dottrina sociale della Chiesa. Egli subì la sospensione a divinis nel 1907 e la scomunica nel 1909, revocata poi nel 1943. Cfr. Giampiero Cappelli, Romolo Murri: contributo per una biografia, Edizioni 5 lune, Roma 1965.

[6] Ivi, p. 160.

[7] L. Guerrini, La Resistenza e il mondo contadino, cit., p. 78.

 

Questo articolo è stato realizzato grazie al contributo del Consiglio regionale della Toscana nell’ambito del progetto per l’80° anniversario della Resistenza promosso e realizzato dall’Istituto storico toscano della Resistenza e dell’età contemporanea.

Articolo pubblicato nel mese di novembre 2024.




Nada. Tra Storia e Letteratura

Nada Giorgi

 

Nada da giovane

Nada Giorgi con Renato Ciandri

Nada Giorgi nacque il 25 gennaio 1927 a Pontassieve, in provincia di Firenze, da una famiglia di umili origini. Negli anni dell’adolescenza, durante la Resistenza, incontrò il partigiano Renato Ciandri, noto col nome di battaglia “Baffo”, modificato in Bube da Carlo Cassola nel romanzo La ragazza di Bube [1].  Dopo l”8 settembre 1943, lui, proveniente da Volterra, si era unito al gruppo di partigiani di Pontassieve. Era infatti sfollato a Torre a Decima, presso Molino del Piano, frazione di Pontassieve dove, tramite l’amico Pietro Verniani, conobbe Nada, anch’ella sfollata con la famiglia. Ciandri -durante la Resistenza- combatté infatti in varie formazioni (in special modo nel “Gruppo di Pontassieve” e nella “Ciro Fabbroni”) nella zona fra Pontassieve, Monte Giovi e Dicomano. Nel febbraio 1944, dopo essere riuscito a sfuggire all’arresto dei tedeschi, operava stabilmente sul monte Giovi con la formazione partigiana “Stella Rossa”. Pare abbia partecipato anche alla liberazione di Firenze rimanendo ferito nei pressi della stazione di Santa Maria Novella. Il 21 agosto 1944, quando le truppe alleate liberarono Pontassieve, Bube, come anche altri partigiani, rispose alla chiamata dei partiti antifascisti e si arruolò nel gruppo volontario 22° Fanteria “Cremona”. La disciplina e le regole militari però gli andavano strette, come viene raccontato nel libro di Massimo Biagioni; il suo temperamento e l’insofferenza per gli atti che non condivideva, gli fecero collezionare ben quattordici capi d’imputazione per insubordinazione; fu condannato poi amnistiato.

«Definito “ribelle fra i ribelli” per l’insofferenza verso la disciplina e i numerosi atti di insubordinazione, alla fine della guerra venne amnistiato di un totale di sedici anni di reclusione collezionati in pochi mesi come soldato nel “Cremona”[2]».

Dopo la guerra, la storia tra Renato a Nada proseguì e i due vissero per un periodo a Volterra, dove Renato trovò lavoro come guardia municipale.

Nel maggio 1945, tornarono a Pontassieve e per la Festa della Madonna del Sasso, evento molto atteso nella zona, dove avvenne il triste fatto che riportò nell’ombra della guerra e del dolore un’intera vallata, loro erano presenti.

I due giovani si dovettero presto separare: Renato venne, infatti, coinvolto nella sparatoria avvenuta il 13 maggio 1945, proprio in occasione di quella Festa. Al Santuario della Madonna delle Grazie al Sasso, non distante da Santa Brigida, sempre nel Comune di Pontassieve, furono uccisi un Carabiniere, il Maresciallo Carmine Zuddas e suo figlio Antonio. Il conflitto era da poco terminato, ma tra le macerie ancora visibili, la popolazione era divisa dalla guerra civile.

Ogni anno, la seconda domenica di maggio, veniva celebrata una solenne Messa cantata con l’offerta dei doni alla Madonna da parte dei vari compaesani dei paesi limitrofi, seguita dalla processione con la “benedizione della campagna”, e poi ancora, il pranzo. Seguiva nel pomeriggio la festa con musiche, danze e canti.

Processione della seconda domenica di maggio in Le Grazie e miracoli al Santuario https://www.conoscifirenze.it/toscana-firenze/517-le-grazie-e-miracoli-al-santuario.html

Una giornata di preghiera e di celebrazioni religiose, sfociò però nel caos. Fuori dalla chiesa, il Rettore del Santuario e tre giovani, ex partigiani, ebbero un acceso diverbio. Il motivo, apparentemente, pare fosse legato alle vesti succinte di questi, non adatte al contesto; stando, invece, ad altre testimonianze, i giovani avrebbero indossato il fazzoletto rosso al collo, simbolo inequivocabile e motivo di diverbio. Nella discussione intervenne il Maresciallo dei Carabinieri Zuddas, Comandante della Stazione dei Carabinieri di Molino del Piano, incaricato al servizio d’ordine, necessario per il regolare  svolgimento di una festività religiosa di ringraziamento per la fine della guerra, recatosi al Sasso con la moglie e il figlio diciassettenne. Chiese spiegazioni al prete, invitandolo a fare entrare i giovani, che avevano collaborato per liberare l’Italia dai tedeschi. Il figlio però, poco distante, non capendo forse bene cosa stesse succedendo e vedendo il padre accerchiato, seppur in modo innocui al momento, pare abbia estratto una pistola e abbia sparato, uccidendo uno dei giovani, il pollivendolo Luigi Panchetti. Stando, invece, ad altre ricostruzioni, pare che alcuni partigiani avessero tentato di disarmare il Carabiniere, dopo che questi aveva sparato un colpo in aria per ristabilire l’ordine, a causa del tafferuglio creatosi. Secondo la ricostruzione degli eventi, riportati in un dettagliato rapporto dell’Arma, coincidente con le notizie riportate dai giornali e con le testimonianze che hanno dato in seguito alcuni giovani incriminati, il figlio, visto il padre in pericoli, impugnata la pistola, avrebbe sparato in direzione di uno dei giovani, tale Panchetti, colpendolo a morte. Le persone attorno fermarono i due uomini, il Maresciallo e il figlio, rinchiudendoli in una stanza della canonica, fino all’intervento di alcuni partigiani, tra cui Renato Ciandri (Bube), presente assieme a Nada alla Festa e che -secondo le accuse- sparò contro il ragazzo, uccidendolo. Morirà assieme al figlio anche Carmine Zuddas [3].

Carmine Zuddas e la sua famiglia. Davide Batzella, Maresciallo Carmine Zuddas di Serramanna (dal libro di Cassola “La ragazza di Bube”), in ASerramanna, 22 Aprile 2013, https://www.aserramanna.it/2013/04/maresciallo-carmine-zuddas-di-serramanna-dal-libro-di-cassola-la-ragazza-di-bube-2/

Secondo Nada Giorgi, dopo che il diciassettenne Zuddas ebbe colpito a morte l’ex partigiano, gli altri membri della banda, che avevano nascosto precedentemente delle armi, al contrario di Ciandri, che era disarmato, correndo verso la chiesa, invitarono Bube a non tirarsi indietro, a restare fedele ai suoi ideali. Pare, perciò, che questi abbia tentato di disarmare il ragazzo e che, dopo una colluttazione, qualcuno abbia raggiunto il giovane con una raffica di mitra. Contemporaneamente, qualcuno aveva sparato anche al Maresciallo. A testimoniare l’innocenza del Ciandri, la Giorgi avrebbe presentato anche la deposizione della moglie del Carabiniere, Margherita Rotelli, unica sopravvissuta.

La vicenda non è tutt’oggi chiara: molte le versioni dei fatti, alcune delle quali vedono il Ciandri realmente coinvolto. Ogni protagonista di quel giorno ha raccontato dettagli diversi, che rendono difficile, oggi come allora, la ricostruzione di quella giornata di maggio [4].

I giovani trovati con le armi furono portati alle carceri a Firenze, in via Ghibellina. Renato e Nada tornarono invece a casa. Presto però, i compagni del Partito comunista, al quale Ciandri sarà sempre legato, lo invitarono a fuggire, a tornare verso Volterra, onde evitare di essere arrestato. Bube era infatti il più noto tra i ragazzi del Sasso. Inoltre, le elezioni del 2 giugno si stavano avvicinando e le tensioni politiche aumentavano.

Nonostante l’invito a consegnarsi, emersa anche la possibilità di esser scagionato, Bube si dette alla macchia. Dopo giorni passati in campagna, a Torre a Decima, sopra Molino del Piano, un amico camionista di Ellera lo aiutò a tornare verso Colle Val d’Elsa. Fu in quest’occasione che Nada e Bube conobbero Carlo Cassola, “comandante Carlino”, che era stato con i partigiani in montagna ed era il figlio del maestro di Ciandri. Si conobbero in un bar e i due raccontarono la vicenda del Sasso. Cassola ne rimase colpito e offrì a Bube una sistemazione momentanea a Volterra. Sembra che i tre abbiano passato anche la giornata del 2 giugno assieme [5].

Durante il viaggio verso quella cittadina, sul pullman (o meglio sulla sita), dove Ciandri si trovava con Nada, pare ci fosse Mons. Dolfi (Ciolfi nel libro), antipartigiano convinto. Alcuni passeggeri, inferociti, pare avessero addirittura minacciato il parroco, prima che, giunti a destinazione, Cassola e Bube non avessero portato il religioso in Caserma, salvandolo così dalle aggressioni della folla [6].

Bube riprese a vivere nel paese natio, ma presto i Carabinieri lo invitarono a presentarsi al tenente. Pareva convinto a consegnarsi, ma alcuni giovani dell’Anpi di Volterra, Ciaba e Niccolò, allertati dall’Anpi fiorentino, lo invitarono a non farlo. La notte una motocicletta andò a prenderlo: scappò prima verso Pisa, poi a Milano e infine in Francia, dove trovò lavoro come operaio tappezziere. Ottenne asilo politico come comunista, ma presto ebbe la condanna in Italia in contumacia a 19 anni di carcere. Per poter restare in Francia, doveva procurarsi i documenti: tentò così di arruolarsi prima nella Legione straniera, poi fuggì in Olanda e in Tunisia, per poi tornare in Francia e riprendere la sua attività di tappezziere. L’esilio di Ciandri durò fino al 1950, quando scoperto dall’Interpool, fu estradato in Italia. Rimarrà in carcere, prima a Torino, poi per un breve periodo a Pisa, poi ad Alessandria, a Bologna, all’Elba e, infine, a San Gimignano, dove rimase fino al 1961.

Il processo si era tenuto a Torino nel settembre 1946: alla difesa dei giovani contribuirono molti pontassievesi, con una raccolta fondi organizzata nella Casa del popolo di Santa Brigida. Il secondo giorno il processo verrà spostato negli ampi locali della Corte d’Assise, dove era presente anche una delegazione di operai della Fiat-Mirafiori.

Dopo il processo, infatti, erano state arrestate dieci persone, dopo le prime indagini, sette delle quali facenti parte del Corpo Volontari della Libertà. Tutti si dichiararono colpevoli, eccetto Bube, che si è sempre dichiarato innocente [7].

Nei giorni successivi alla Festa della Madonna, infatti, erano state molte le voci ad alzarsi. Membri del CLN si recarono sul posto. Molti capi delle formazioni partigiane tentarono di giustificare quanto era successo, come Romeo Fibbi, Lazio Cosseri, Giuseppe Maggi, commissario politico della brigata “Lavacchini” e futuro sindaco di Borgo San Lorenzo. L’evento, significativo di quel clima di passaggio, di tensione e di giustizia sommaria nel dopoguerra italiano, sconvolse un’intera comunità. Chiunque si riteneva portatore di giustizia, spesso in contrasto con altri. Qualcuno giustificò l’accaduto poiché il Carabiniere era stato antipartigiano e fascista, stando a certe voci. La vicenda stessa è caduta nell’oblio, già al tempo, complice il Partito Comunista di Pontassieve, reticente e forse -inconsciamente- desideroso di guardare al futuro nel clima di psicosi generale anticomunista, tipica degli ultimi anni Quaranta.

Il 26 agosto 1951, Ciandri e la Giorgi si sposarono nel carcere di Alessandria. Nada, infatti, gli era sempre rimasta accanto e aveva sempre cercato di mantenere i rapporti con il fidanzato prima e con il marito poi, tramite lettere, scambi di fotografie e, quando possibile, con i colloqui e le visite.

Intanto Renato in carcere frequentava la scuola, [8] mentre Nada lavora a Pontassieve come fiascaia.

Nel 1953 vennero scarcerati i compagni di Bube incriminati per i fatti del Sasso, ma con una condanna di minor durata. L’anno successivo Ciandri venne trasferito al carcere di Porto Longone, all’Isola d’Elba, a causa di un violento litigio con un altro detenuto [9]. Verrà poi trasferito a San Gimignano, dove Nada poteva andare più frequentemente. Come ricorda lei stessa nel libro di Biagioni, nessuno degli ex compagni di Partito, gli era rimasto vicino.

È in questo periodo che Bube, durante una visita in carcere, ricevette da Cassola la copia del libro. Alla storia di Nada e Renato, Carlo Cassola aveva dedicato le pagine del suo celebre romanzo, La ragazza di Bube, mettendo al centro della narrazione Nada, pur lasciando che nel titolo comparisse il nome del suo compagno, Bube appunto, rilegando la sua figura come secondaria. La Giorgi non apprezzerà perciò il romanzo, non sentendosi rappresentata dallo scrittore e non riconoscendo i suoi cari in quelle pagine. Dal libro emerge inoltre un Bube colpevole; per Nada, dunque, l’opera era un’eredità negativa dalla quale doversi liberare.

Potremmo dire che il romanzo non ricalca, infatti, la vera vita dei due protagonisti, sebbene prenda ispirazione dalle loro storie. La vicenda è ambientata in Valdelsa, poco dopo la Liberazione, e non nel Pontassievese, come nella realtà. I protagonisti sono due giovani, Mara Castellucci e Bube, ovvero Nada Giorgi e Renato Ciandri, detto Baffo. Mara è una ragazza di sedici anni che vive a Monteguidi insieme al padre, comunista militante, alla madre e a un fratello, Vinicio. La vera Nada il padre lo aveva conosciuto appena in quanto morì quando lei aveva solo tre anni.

In quel paese conosce Arturo Cappellini, detto Bube. Il giovane, amico e compagno di Sante, il fratellastro di Mara morto durante la Resistenza, si era recato nel paese dell’amico per conoscere la famiglia e in questo modo avviene il primo incontro con Mara. Tra i due nasce subito una simpatia e Mara, lusingata dall’interesse del ragazzo, inizia a scambiare lettere con lui. Tutta la trama, riproposta poi da Comencini nel celebre film, è un intreccio di fantasia e qualche riferimento reale.

Come lei stessa ha detto:

Non ho mai avuto un fratello nato fuori dal matrimonio: semplicemente non ho fratelli. Non ebbi mai amanti: tanto meno uno che si chiamava Stefano. Non feci l’amore con Bube nella capanna. So bene che Cassola scrisse un romanzo, una storia in parte inventata, ma la realtà sono io. La realtà è la mia famiglia, è mio figlio Moreno… Per lui, perché non avesse mai l’idea che suo padre fosse un assassino […] [10]

Secondo il libro, infatti, dopo il loro incontro, Bube e Mara si devono allontanare: Bube è, infatti, accusato di un delitto. Era accaduto che, mentre si trovava a San Donato con i compagni Ivan e Umberto, un prete aveva impedito loro di entrare in chiesa. Secondo i ragazzi, la ragione era il loro orientamento comunista. I giovani avevano allora iniziato a protestare, e un Maresciallo dei Carabinieri era intervenuto insieme al figlio a sostegno del prete. Bube e gli amici avevano inutilmente cercato di far valere le loro ragioni e, spinti dall’ira, avevano messo il prete contro il muro. Il maresciallo aveva perciò reagito sparando ad Umberto, uccidendolo. Per vendicare l’amico, Ivan, l’altro compagno di Bube, aveva ucciso il Maresciallo. A sua volta, Bube aveva rincorso fin su per una scalinata e ucciso il figlio del Maresciallo, mentre scappava.

Mara e Bube fuggono così verso Volterra, dove abita la famiglia di lui. A bordo della corriera si trova una donna che riconosce Bube e lo sprona a dare una lezione ad uno dei passeggeri: si tratta del prete Ciolfi, il quale durante la guerra aveva collaborato con i nazisti, causando così la morte del nipote della donna. Suo malgrado, dopo essere sceso, Bube viene praticamente costretto dai presenti a picchiare il prete per poter salvare la faccia: il suo ruolo nella zona era infatti quello del Vendicatore, appellativo con il quale viene talvolta ancora chiamato dagli abitanti del posto.

Arrivato a casa dai familiari, Bube viene avvertito dal compagno Lidori del rischio di essere arrestato per il delitto commesso e gli consiglia la fuga. Qualche giorno dopo, una macchina passa a prendere Bube per farlo rifugiare in Francia, mentre Mara ritorna a casa. Nel frattempo, qualcosa in lei è cambiato: non è più la ragazza spensierata di prima e si dimostra angosciata per la mancanza di notizie da parte di Bube.

Verso novembre, Mara decide di andare a lavorare come domestica in una famiglia a Poggibonsi. Qui stringe amicizia con una compaesana, Ines, con cui esce spesso e che le presenta Stefano. Mara, inizialmente fredda, lentamente comincia ad apprezzare la sua compagnia.

Dopo un anno, Bube, costretto al rimpatrio, viene arrestato alla frontiera ed è condotto a Firenze. Mara, accompagnata dal padre, si reca a sua volta nel capoluogo toscano per un colloquio con Bube. Durante l’incontro, la ragazza si accorge che il suo attaccamento a Bube era ancora molto forte, così decide che, da quel momento, sarebbe per sempre la sua donna. Bube viene condannato a quattordici anni di carcere. Mara, tornata a Poggibonsi, racconta a Stefano di aver preso una decisione: ha scelto Bube, che andrà spesso a trovare in carcere.  Il romanzo termina con Mara che attende la liberazione del suo amato.

«I primi tempi sono i più terribili, disse poi. Ma, in seguito, ci si fa quasi l’abitudine… sono passati questi sette anni , passeranno anche questi altri sette. E poi, io cerco di non pensarci. Conto solo i giorni che mi separano dal colloquio. Perché è tale una gioia quando lo rivedo [11]…»

Tale opera sarà un vero e proprio successo editoriale, che porterà Cassola a vincere il Premio Strega nel 1960. Venne tradotta in molte lingue, rendendo celebre la storia di Baffo e della Giorgi, divenuti Bube e Mara per i lettori, dove però la finzione supera la realtà [12].

Complici la fama del libro e l’eco ottenuta [13], grazie anche all’aiuto di Cassola stesso, che si mobilitò per aiutare Ciandri ad ottenere uno sconto di pena, il 22 dicembre 1961, Renato ottenne la libertà desiderata.

Entrambi i protagonisti, però, non si sentirono rappresentati dal libro di Cassola: Ciandri lamentava di essere stato dipinto come una figura a tratti negativa, che rinnegava i compagni, il Partito, gli ideali. La storia dei sentimenti, come affermò, non era in linea con la storia dei fatti, non fedele alla realtà. Neppure Nada si sentiva rappresentata, tanto che non riuscì nemmeno a finire il libro [14].

Pian piano i due ripresero una vita normale: Ciandri trovò finalmente un lavoro al Centro Carni e ne diventerà presto socio a tutti gli effetti.

Già pochi mesi dopo l’uscita del libro, Luigi Comencini, noto regista, aveva deciso di trarne un film dove apparirono come interpreti principali, attori della caratura di Claudia Cardinale e George Chakiris, rispettivamente nei panni di Nada (Mara) e Ciandri (Bube).

Claudia Cardinale e George Chakiris in una scena del film di Comencini

Anche le vicende attorno all’uscita del film sono controverse: Renato Ciandri non voleva che venisse proiettato, in quanto avrebbe contribuito a fissare, ancor più del libro, l’immagine già stereotipata che la gente si era fatta sulla sua persona. I produttori prima promisero ai Ciandri un ricco compenso per ottenere l’approvazione per la proiezione del film, poi – vista l’irremovibilità dei soggetti coinvolti- minacciarono Ciandri e la sua famiglia di querelarli. Non erano però le uniche querele: i Ciandri a loro volta ne firmarono una per non essere stati ascoltati, la sorella di Nada un’altra per informazioni false sulla figura del marito, scomparso durante la guerra, una, infine, da un figlio del Maresciallo Zuddas, critico sulla narrazione dei fatti, oltraggiosi per la memoria del padre e del fratello scomparsi e -a suo parere- poco fedeli ai fatti [15].

Nel frattempo, dall’unione di Nada e Renato nacque un figlio nel 1963, Moreno, autore, compositore e musicista.

Ciandri presto cambierà mansione e inizierà a lavorare in ufficio. Nel clima di rinnovata serenità, partecipa attivamente anche alle cerimonie degli eccidi della Seconda Guerra mondiale, agli anniversari e alle manifestazioni, continuando a coltivare gli ideali della Resistenza [16].

A metà degli anni Settanta, «Tuttolibri», il settimanale del quotidiano «La Stampa»,  rilegge il fortunato libro di Cassola. L’inviato Lamberto Furno incontra la coppia: è l’unica vera intervista di Ciandri [17].

Quando però la vita comincia a riprendere tranquillamente il suo corso, Renato scopre di avere un tumore, che il 6 novembre 1981 lo porterà alla morte [18]. Sentiti e partecipati i funerali. Venne sepolto presso il Cimitero di San Martino a Quona, a Pontassieve. Questa l’epigrafe sulla sua tomba [19]:

“Bube”

Renato Ciandri (3-3-1924/ 6-11-1981)

E voi imparate che occorre

vedere e non guardare in aria

questo mostro stava una volta

per conquistare il mondo

i popoli lo spensero

ma ora non cantiamo

vittoria troppo presto

il grembo da cui nacque

è ancora fecondo

Brecht

Alessandro Bargellini, 16-1-2009 https://resistenzatoscana.org/monumenti/pontassieve/sepolcro_di_ciandri/

La fama innescata dal libro non si arresta, anzi, ci saranno anche rappresentazioni teatrali sulla vicenda di Bube, come quella firmata dal registra Alessandro Gatto, di grande successo.

Nada, desiderosa di lasciarsi alle spalle gli anni della Guerra e della carcerazione del marito, ma volendone mantenere viva la memoria, comincerà a fare attività nelle scuole del territorio, per parlare ai ragazzi delle classi. Si spengerà il 24 maggio 2012 a 85 anni.

Negli ultimi anni di vita, Nada, per riabilitare la memoria del marito e per lasciare ai posteri la sua versione dei fatti, incaricò Massimo Biagioni, scrittore di Storia locale, giornalista pubblicista, oggi dirigente regionale di Confesercenti, con precedenti esperienze politiche, il compito di stendere in un secondo libro la sua biografia, da cui sono tratte molte delle informazioni qui riportate. Nada ha così scacciato la Mara del romanzo, e con Renato, è voluta tornare ad essere persona e non personaggio. «Ora posso anche morire!» disse a Biagioni, stringendo la prima copia uscita dalla Polistampa. Anche il figlio Moreno ha vinto il riserbo del padre che non ne aveva voluto parlare più, per dare spazio invece al volere della mamma [20].

 

Nada Giorgi, nominata cittadina onoraria del Comune di Pelago (FI) in News dalle Pubbliche Amministrazioni della Città Metropolitana di Firenze, http://met.provincia.fi.it/news.aspx?n=182704

Note

1.Sulla vita di Renato Ciandri e sulla sua attività di partigiano, prima del 13 maggio 1945, rimando alle pagine di Biagioni, pp. 27-46.

2. Giovanni Baldini, Renato Ciandri, “Bube”, in ResistenzaToscana, 14 luglio 2003, https://resistenzatoscana.org/biografie/ciandri_renato/ [consultato il 4 novembre 2024].

3. Per un’ulteriore ricostruzione della vicenda, si veda Dania Mazzoni, Attraverso la bufera: Pontassieve fra guerra, Resistenza e ricostruzione, 1943-1948, (con una nota introduttiva di Simonetta Soldani), Comune di Pontassieve, Pontassieve 1990, pp. 142-144.

4. Diversa la versione dei fatti esposta nell’articolo di Davide Batzella, Maresciallo Carmine Zuddas di Serramanna (dal libro di Cassola “La ragazza di Bube”), in ASerramanna, 22 Aprile 2013, https://www.aserramanna.it/2013/04/maresciallo-carmine-zuddas-di-serramanna-dal-libro-di-cassola-la-ragazza-di-bube-2/ [consultato il 5 novembre 2024]. Tale versione incolperebbe infatti Bube e la sua compagnia.

5. Massimo Biagioni, Nada, la ragazza di Bube, Polistampa, Firenze, 2006, pp. 51-52.

6. Rimando alle pagine di M. Biagioni, Nada, la ragazza di Bube, pp. 52-53, per la ricostruzione delle vicende antecedenti che vedono coinvolto Dolfi.

7. D. Mazzoni, Attraverso la bufera: Pontassieve fra guerra, Resistenza e ricostruzione, 1943-1948, pp. 144-144.

8.  M. Biagioni, Nada, la ragazza di Bube, p. 85

9. Ivi, p. 93

10. Da Sandro Bennucci, «Io, Nada, vi racconto la vera storia della ragazza di Bube», «La Nazione», 13 aprile 2006 in LeonardoLibri, [consultato il 4 novembre 2024, https://www.leonardolibri.com/recensione.php?i=3314]

11. Carlo Cassola, La ragazza di Bube, Oscar Mondadori, Milano, 2010, p. 217.

12. M. Biagioni, Nada, la ragazza di Bube, p. 100. Per la trama del libro, vedi anche pp. 98-100.

13. Ivi, pp. 100-103.

14. Ivi, p. 109.

15. Ivi, p. 129.

16. Ivi, pp. 133-137.

17. La minuta dell’intervista è riprodotta in M. Biagioni, Nada, la ragazza di Bube, pp. 141-144.

18. Ivi, p. 145.

19. Cfr. M. Biagioni, Nada, la ragazza di Bube, p. 150. Nella primavera del 2005 la salma di Ciandri venne traslata in un forno non distante dalla Cappella dei caduti e degli ex combattenti di tutte le guerre.

20. Michela Aramini, Cinque anni fa morì Nada, la “ragazza di Bube”: il ricordo di Massimo Biagioni, in il Filo – Idee e Notizie dal Mugello, 24 maggio 2017 [consultato il 4 novembre 2024, https://cultura.ilfilo.net/cinque-anni-fa-mori-nada-ragazza-bube-ricordo-massimo-biagioni/]

 

Bibliografia

Biagioni Massimo, Nada, la ragazza di Bube, Polistampa, Firenze, 2006

Cassola Carlo, La ragazza di Bube, Oscar Mondadori, Milano, 2010 [prima edizione, Einaudi, Torino, 1960]

Mazzoni Dania, Attraverso la bufera: Pontassieve fra guerra, Resistenza e ricostruzione, 1943-1948, (con una nota introduttiva di Simonetta Soldani), Comune di Pontassieve, Pontassieve 1990

 

Questo articolo è stato realizzato grazie al contributo del Consiglio regionale della Toscana nell’ambito del progetto per l’80° anniversario della Resistenza promosso e realizzato dall’Istituto storico toscano della Resistenza e dell’età contemporanea.

Articolo scritto nel mese di novembre 2024.




Giovanni Martelli: storia di un antifascista livornese

Il 21 gennaio 1944, Giovanni Martelli e Otello Frangioni si erano recati alla Casa Manna, un luogo di ritrovo per gli antifascisti comunisti livornesi e situato in via Trieste, col fine di prender parte a una riunione. Il punto di ritrovo era però fissato in un altro luogo e, visto che nessuno si presentò all’appuntamento, Frangioni e Martelli si recarono alla Casa Manna. Una volta entrati, caddero in una trappola, perché ad attenderli vi era un commando unificato composto da ufficiali tedeschi, repubblichini e questori.
Il terzo arresto mette a dura prova l’animo di Martelli e lo segna nel profondo perché i rischi che poteva correre erano maggiori del passato. Viene arrestato perché le autorità fasciste identificavano in lui il «filo conduttore» col movimento di liberazione e l’esponente ideale da cui trarre informazioni sulle formazioni partigiane della Brigata Garibaldi[1]. In quei giorni viene ripetutamente interrogato dal questore Moraglia, dal capitano della polizia Porquier, dai marescialli Marchesi e Artieri[2].
Martelli continua a negare qualsiasi coinvolgimento o relazione con gli altri membri della Resistenza livornese, afferma che non sapeva niente sui manifesti della propaganda partigiana e sui volantini del movimento di liberazione. Martelli ricorda il suo terzo interrogatorio con le seguenti parole:

«[…] A domanda risposi: io, nella mia prima giovinezza mi ero interessato di politica, ma soprattutto in seguito ai due arresti ed alla condanna cui fui sottoposto, nonché per l’essermi trovato in luogo di capofamiglia, non mi era interessato più di nulla. Da allora a quel momento, aggiunsi, c’era anche l’esperienza dell’Africa Orientale e, immediatamente dopo la vita di fabbrica come operaio specializzato, alla qualcosa tenevo al di sopra di tutto. Citai la esperienza del cantiere Orlando, […] e, infine, la esperienza alla Moto Fides. Le domande che attorno a queste risposte mi furono date furono sempre pronunciate dal tenente Purchié e dall’agente repubblicano Hippert. Sia l’Altieri come il Marchesi, non solo non mi fecero mai domande ma mai si opposero alle mie risposte. E, sia chiaro, solo loro due potevano farlo! Questo comportamento mi fu di grande conforto e non mancai di riferirlo a chi, dopo di me, doveva passare sotto quel “torchio”. Ciò che soprattutto poteva incutere maggiore timore, cosa che io stesso subii, era che a quell’interrogatorio erano sempre presenti uno o due rappresentanti della “Gestapo” e, spesso, erano loro a suggerire domande […]»[3]

Alla domanda posta dalle autorità repubblichine sul perché non fosse fascista, lui risponde con fermezza dicendo che non lo era e che non lo sarebbe mai stato, perché si definiva come eticamente diverso da loro. Nel periodo della terza detenzione presso il carcere Don Bosco di Pisa conosce esponenti di spicco della Resistenza locale e ebbe degli scambi epistolari con alcuni di questi, come Fortunato Garzelli e Oberdan Chiesa[4]. Purtroppo, venne a conoscenza di una tragica notizia, ovvero che un mese prima erano stati catturati all’Ardenza tutti i frequentatori della Casa Manna, come Vasco Iacoponi, Corrado Faiani e lo stesso Oberdan Chiesa[5]. Prima condividevano le celle in comune con altri, ma con l’arresto di Frangioni e di Martelli vennero messi in celle di isolamento.
Chiesa ebbe degli scambi epistolari con Martelli e gli chiese quale fosse la sua posizione, aveva un brutto presentimento e temeva per la sua vita. Quando Martelli cercò di inviare un biglietto di risposta, venne a conoscenza che Chiesa era stato fucilato. I due si erano incontrati due mesi prima a Cevoli, perché quest’ultimo attendeva Chiesa per l’invio di materiali col fine di realizzare dei documenti falsi. La scomparsa di Chiesa ebbe «l’effetto di una doccia fredda sull’intero gruppo e richiamò alla mente di ognuno la realtà del momento» che stavano vivendo[6].
Il 12 febbraio per ordine del prefetto Fac-Duelle viene messo in isolamento e conosce di nuovo la dura vita nel carcere fascista, soffre la fame, la sete, il freddo, la solitudine, la paura di non potercela fare. L’esperienza di Modena lasciò un segno indelebile, soprattutto per le condizioni in cui viveva: predominava una sensazione di insicurezza, perché spesso venivano prelevati alcuni prigionieri da parte dei nazisti e dei repubblichini per fucilarli[7]. Alle azioni di sabotaggio della Resistenza corrispondevano spesso queste rappresaglie nelle carceri.
Quattro mesi dopo viene trasferito nel carcere Sant’Eufemia di Modena e tenta una fuga durante il bombardamento dell’11 giugno. Il giorno successivo viene chiamato per un presunto interrogatorio, ma Martelli teme di non far ritorno. Al suo ingresso nella stanza dell’interrogatorio si trova davanti due marescialli tedeschi, i quali gli chiedono di spogliarsi per effettuare una valutazione delle sua condizioni fisiche. Molti detenuti e rivali politici venivano sottoposti a queste fittizie valutazioni che servivano per “attestare” l’idoneità fisica dell’individuo. È facile intuire che qualora una persona fosse risultata debole, malata o anziana, veniva mandata in Germania con la scusa fittizia che sarebbero stati inseriti in nuovi contesti lavorativi. In realtà venivano spediti nei campi di concentramento.
Nella medesima occasione, un capitano delle brigate nere gli promette che, in caso avesse preso parte a delle opere di volontariato, sarebbe stato scarcerato. Molti aderirono all’iniziativa perché ciò avrebbe permesso ai detenuti di uscire dal carcere e di raggiungere le altre formazioni partigiane attive nel modenese. Martelli rifiuta la proposta perché non lo convince, non si fida delle promesse dei repubblichini.
Nell’ultima settimana di luglio, i nazifascisti realizzano degli attacchi contro la Repubblica partigiana di Montefiorino, a cui i gappisti della sessantacinquesima Brigata “Walter Tabacchi” rispondono con diversi attacchi contro gli automezzi e le strutture delle forze di occupazione tedesche. Nella tarda mattinata del 30 luglio i militari del Rustungskommando di Bologna ricevono la notizia dell’ennesimo attentato nel centro storico di Modena, dove è detenuto Martelli: nel primo pomeriggio una delegazione parte dalla città felsinea e raggiunge la Ghirlandina. Convocate le autorità̀ civili e militari della RSI, i soldati del Rustungskommando invocano una rappresaglia esemplare. In un primo momento propongono di rastrellare venti persone da catturare nei caffè del centro storico e di fucilarle in Piazza Grande, ma le obiezioni di alcuni fascisti li convincono a desistere. Dopo una breve discussione, i tedeschi accettano che gli ostaggi siano prelevati dalle carceri di Sant’Eufemia, ma impongono di eseguire la missione nel più breve tempo possibile poiché vogliono tornare a Bologna per cena. Mentre i venti detenuti scelti per la strage vengono incolonnati e fatti uscire dalla prigione, suona l’allarme aereo e i modenesi affollano il rifugio di Piazza Grande. Sul selciato, il plotone d’esecuzione fa distendere le vittime sul ventre formando due file e tutti vengono uccisi con dei colpi alla nuca. Dopo il cessato allarme, la popolazione della città resta inorridita dal macabro spettacolo della piazza: i venti corpi inerti vengono lasciati sul selciato per quasi ventiquattro ore, poi un autocarro li trasporta al cimitero di San Cataldo.
La paura di non poter tornare a casa si materializza per Martelli: i prossimi che verranno condannati a morte sono proprio i detenuti antifascisti toscani. Sulla base di ciò che accadeva fuori dalle mura di Sant’Eufemia, ognuno poteva avere le ore contate. Molte persone che aveva conosciuto in quel periodo erano già morte per fucilazione o per impiccagione. La speranza di rivedere la sua amata Livorno si affievolisce, così tanto che sostiene:

«noi tutti fondavamo la nostra speranza sul fatto che i nostri verbali fossero rimasti a Livorno, per mio conto ciò voleva dire fino ad un certo punto, poiché io ero negativo, ma così non era per altri compagni, che in seguito a prove schiaccianti o accuse, o per non aver saputo resistere all’interrogatori avevano dovuto ammettere qualche cosa. Un giorno fummo di nuovo chiamati ed interrogati, insistemmo sull’atteggiamento assunto al primo interrogatorio e questa volta – ormai delusi delle volte precedenti – che non credevamo più a nessuna possibilità di uscirne, fu proprio la volta decisiva […]».[8]

Alla fine di agosto, Martelli viene scarcerato insieme ad altri compagni di Partito come Otello Frangioni ed è proprio a Otello che dedica la sua Autobiografia, proprio perché con lui ha «condiviso la vita nel partito subendo insieme rischi ed arresti»[9]. Di quel periodo così difficile, Martelli racconta:

«[…] Dopo alcuni giorni da quel triste episodio [dell’uccisione dei venti detenuti del Carcere di Sant’Eufemia] fu inviato al carcere, per interrogarci, un giudice istruttore. Uno alla volta fummo tutti interrogati e tenuto conto che quel giudice non aveva nulla in mano, in quanto i documenti istruttori erano rimasti al di là del fronte, fu relativamente facile a tutti a confermare le dichiarazioni già fatte e, chi si era troppo esposto, a rettificare la propria posizione. Capimmo di lì a pochi giorni che quel giudice era stato inviato dal Prefetto Repubblichino (credo di chiamasse De Santis), il quale era in rapporti con il Cnl.
Fu veramente la volta buona: a fine settembre – così mi sembra ricordare – fummo invitati tutti ad uscire con gli indumenti personali. Ci fu chiaramente detto che eravamo liberi. L’unico che rimase, per uscire dopo un mese circa, fu Vasco
Iacoponi. Una volta in libertà io fui incaricato dai compagni, eravamo tutti alloggiati in un grande albergo di Modena, di recarmi in una segheria nei dintorni di Modena dove conobbi il Baroni che era stato al confino con Vasco, il quale mi consegnò i documenti falsi, naturalmente repubblichini, con i quali avremmo dovuto viaggiare nei territori occupati […]»[10].

Il 5 settembre 1944, lui e Otello Frangioni tornarono a Livorno, a seguito di un lungo viaggio per l’Emilia-Romagna e dopo aver attraversato le zone di Vergato e di Marzabotto. Dovettero superare i campi minati, evitare le pattuglie e i rastrellamenti. Il rientro a Livorno non fu facile, ma Martelli riuscì a tener fede all’obiettivo: tornare a casa. Livorno era stata liberata il 19 luglio e il loro rientro venne consacrato con una festa all’interno della Federazione comunista livornese.
Il nuovo Segretario era Aramis Guelfi, che assegnò Martelli alla Federazione di Pisa col compito di dirigere le attività dell’organizzazione sindacale Federterra. Pisa resterà un luogo caro a Martelli, perché proprio lì aveva avuto origine il suo percorso di resistenza attiva al nazifascismo e lì aveva pianificato le attività dei Nuclei del Fronte Nazionale di Liberazione in Toscana. Inizialmente, crede che col suo incarico possa entrare più in contatto con l’anima di quei luoghi che conosceva bene. In realtà, già nei primi mesi del 1945 lascia la mansione perché «non [lo] entusiasmava»[11]. In compenso, viene incaricato della propaganda presso la redazione del bollettino della Federazione. Martelli nella Nota autobiografica del 1987 si lascia ad una confessione, in cui afferma:

«[…] Tutti quegli incarichi, tuttavia, rappresentavano per noi le prime esperienze di vita legale del partito per cui non mancavano, da parte di ognuno di noi, comportamenti tutt’altro che idonei alle responsabilità che ci erano state affidate […]»[12].

Effettivamente, Martelli all’epoca ha 32 anni e conosce ben poco la vita di partito, forse non l’ha nemmeno sperimentata fino in fondo. Martelli ha lavorato in ambito propagandistico e nel contesto della lotta armata al nazifascismo, ma sapeva ben poco di politica. La ridefinizione e il ripristino delle istituzioni democratiche sarà un problema che in realtà coinvolgerà tutto il Paese, la vita politica, le istituzioni pubbliche, i civili.
Dopo la liberazione, Aramis Guelfi venne trasferito alla Federazione comunista di Taranto e poi di Lecce, e Ilio Barontini successe alla guida della Federazione livornese. Martelli diventò Vicesegretario nel periodo in cui Ilio Barontini entrò a far parte prima della Consulta e poi della Costituente.
Negli anni successivi, Martelli diventerà una figura di spicco nell’ambito sindacale e svolgerà una serie di impieghi che lo porteranno lontano da Livorno per diversi anni. Diventerà segretario delle Federazioni comuniste di Treviso e di Carrara, poi svolgerà degli impieghi presso la FIOM (Federazione Impiegati Operai Metallurgici) e la CGIL (Confederazione Generale Italiana del Lavoro). Rientrerà nella città labronica solo negli anni Sessanta, anni in cui verrà nominato come presidente della Commissione di Controllo del PCI locale e come Presidente del Bacino del Carenaggio[13]. Martelli è morto il 22 ottobre 1992 a Livorno.

Conclusioni.

Da decenni la storiografia sta producendo numerose monografie sulle vite degli antifascisti e sulle esperienze di lotta durante la Resistenza (1943-1945), col fine di esaminare complessivamente i valori condivisi e le azioni compiute dai gruppi antifascisti. Allo stesso modo, questo elaborato ha cercato di esaminare i valori di un uomo molto attivo nella resistenza toscana e livornese. Il tema è quindi importante per ricostruire le storie e le figure di chi si è fatto testimone di libertà in un periodo segnato dalla violenza e dall’autoritarismo.

Nello sviluppo dell’elaborato, una domanda è emersa: come si potrebbe descrivere l’esperienza politica di Giovanni Martelli?

L’esperienza politica di Martelli ricorda le esperienze di tanti altri militanti attivi nel periodo della Resistenza all’occupazione nazifascista, in cui questa lotta ha rappresentato un punto di svolta e una chiave di lettura per il futuro repubblicano e democratico del Paese. Per Martelli, la verità è stata rivoluzionaria e ha sempre fatto riferimento a questo valore in qualunque sua battaglia, nelle fabbriche, nella sua città, a livello nazionale. La storia di Martelli è la storia di un uomo resiliente, che ha saputo adattare i suoi ideali davanti a qualsiasi difficoltà o situazione storica; di un militante determinato e fedele agli ideali del Partito; di un sindacalista che poneva le questioni operaie e sociali al centro di qualsiasi analisi sulla realtà circostante.

L’analisi ha evidenziato quanto sia difficile saper racchiudere le esperienze di vita e di militanza politica in poche semplici parole. Ogni storia, seppur piccola, può esser densa di sfumature ed un caso emblematico è proprio quello della vita di Martelli.

Le problematiche emerse nello sviluppo dell’elaborato possono esser riscontrate consultando le fonti utilizzate. Metter insieme di documenti così personali e all’apparenza scollegati ha significato entrare in contatto con dei materiali biografici vivi, che non hanno delle vere e proprie controparti, ovvero: non ci sono dei documenti da confrontare con quanto racconta lo stesso Martelli. Le fonti consultate sono principalmente fonti primarie, arricchite da ricerche realizzate personalmente sui destinatari dei documenti o sui contenuti.

L’augurio da fare per un futuro è che la storiografia possa approfondire maggiormente le biografie di quegli uomini e di quelle donne che hanno apportato notevoli contributi alla causa dell’antifascismo e della Resistenza, col fine di poter comprendere maggiormente quali sono stati quei valori e quelle speranze che hanno permesso la nascita della Repubblica italiana e della Costituzione.

NOTE

1 Martelli G., Autobiografia, cit., p. 10.
2 Martelli conosceva bene il capitano della polizia Luigi Porquier (alias Porchié) perché, come racconta nella Nota autobiografica, era quel ragazzo che aveva percosso nel 1928 durante i corsi premilitari. Dopo le percosse che dette a Porchié, venne mandato al commando di polizia (all’epoca in via Cairoli), dove successivamente venne sottoposto a un interrogatorio e radunato con altri in via Ippolito Nievo. Dopo i rituali di circostanza, venne invitato ad uscire ed espulso per indegnità. Per fortuna, Porchié non lo riconosce durante la terza cattura di Martelli.
3 Allo stesso modo, Martelli conosce anche il brigadiere Marchesi perché è sempre stato presente ai suoi interrogatori, ma lo definisce comunque come una brava persona. L’impressione di Martelli sul brigadiere Marchesi viene descritta anche nel testo: Tredici M., L’inchiesta, la spia, il compromesso, cit., p. 354.
4 Fortunato Garzelli (1902-1944): nasce in una famiglia proletaria e si trasferisce a Livorno perché lavora come aiuto macchinista presso le Ferrovie dello Stato. Aderisce al Partito Comunista e nel 1933 subisce i primi fermi, arresti e perquisizioni. Nel 1941 costituisce il primo Fronte nazionale antifascista ed è membro della Concentrazione antifascista, poi diventato CLN di Livorno. Muore a pochi giorni dalla liberazione di Livorno mentre guida una pattuglia partigiana nei pressi di Quercianella (una frazione di Livorno), in uno scontro a fuoco avvenuto con i tedeschi il 15 luglio del 1944.
Oberdan Chiesa (1911-1944): nasce in una famiglia liberale e aderisce al Partito Comunista. Ben presto viene schedato dall’OVRA e definito come pericoloso antifascista. Negli anni Trenta, vive per un breve in Francia e partecipa alla Guerra Civile spagnola. Al suo rientro viene nuovamente arrestato e liberato in vista dell’8 settembre. Successivamente prende parte alle formazioni partigiane nell’entroterra livornese, ma viene arrestato il 22 dicembre del 1943 e trasferito al carcere Don Bosco di Pisa. Da quell’arresto non vi farà più ritorno, viene infatti fucilato a Rosignano Solvay (LI) il 29 gennaio 1944. Per un approfondimento sul tema, vedi: Brunetti G., Oberdan Chiesa: un uomo, una vittima, un mito. Pisa: Edizioni ETS, 2022.
5 L’Ardenza è un quartiere periferico situato a sud del comune di Livorno.
6 Tredici M., L’inchiesta, la spia, il compromesso, cit., p. 355.
7 Ivi, p. 357.
8 Martelli G., Autobiografia, cit., p. 12.
9 Martelli G., Autobiografia, cit., p. 12.
10 Ibidem.
11 Id, Nota autobiografica riferita al “dopo Liberazione”, marzo 1987, p. 2.
12 Ibidem.
13 Quando viene nominato Presidente del Bacino del Carenaggio, Martelli mostra delle doti manageriali che fino ad allora non era riuscito a sperimentare, contribuendo alla costruzione della Lips (la Società addetta alla progettazione e commercializzazione di eliche e alberi di trasmissione nel campo navale) e della piattaforma Sincrolift (una piattaforma della Darsena Morosini). Lasciò la Presidenza nel 1979, perché a lui successe Nelusco Giachini.

Articolo pubblicato nel giugno 2024.




La solitaria impresa di Mario Bonacchi

La figura del comandante è spesso decisiva per la vita di una formazione partigiana. Un capo autorevole e carismatico che unisce all’abilità di condurre la guerriglia anche qualità di natura etica come il coraggio e lo spirito di sacrificio può fare la differenza. Un uomo con queste caratteristiche è sicuramente il primo comandante delle squadre armate lucchesi, Roberto Bartolozzi, che però, alla fine di giugno 1944, viene ucciso dai fascisti in un agguato. Proprio la consapevolezza dell’importanza per un capo di dare l’esempio ai suoi uomini, così come per mesi ha fatto Bartolozzi, spingerà il suo successore a essere protagonista di un’iniziativa tra le più audaci nella storia della Resistenza armata a Lucca.

Castelnuovo di Garfagnana, domenica 20 agosto 1944.

Silla Turri, da alcuni giorni a capo del locale distaccamento della XXXVI Brigata nera “B. Mussolini” e commissario prefettizio del Comune, si trova nella sala consiliare della Rocca ariostesca. Non sa che nel corso della notte alcuni partigiani della Brigata garfagnina della Divisione Garibaldi Lunense hanno piazzato una bomba a orologeria sotto la pedana del tavolo riservato al podestà. Tuttavia, Turri non è seduto al suo posto. Così, quando l’ordigno esplode, a rimanere ucciso è il sergente della Brigata nera Giovanni Battaglini. Turri rimane ferito e con lui altre due Camicie nere, Giulio Tamburi e Antonio Broglio detto “Zacchia”, oltre all’impiegato comunale Francesco Simonetti.

Vengono subito arrestate e tradotte al carcere di San Giorgio a Lucca diverse persone, tra cui un manovale quarantunenne appartenente al III Battaglione della Brigata garfagnina della Lunense, Giorgio Giorgi, e un’impiegata del Comune, Luciana Bertolini, accusata di aver dato le chiavi della sala ai partigiani. Il giorno successivo ai due si aggiunge anche Gina Gualtierotti: è fidanzata con Michele Bertagni, fratello di Giovanni Battista comandante proprio del III Battaglione. È in realtà quest’ultimo il vero obiettivo dei fascisti: ventitré anni, di Pieve Fosciana, ha combattuto sul fronte balcanico e dopo l’armistizio è rientrato in Garfagnana. A metà giugno 1944 si aggrega a una neonata formazione armata che si è costituita a Careggine e che sarà l’embrione della futura Garibaldi Lunense. In meno di due mesi, egli trova il modo di portare a termine diverse azioni di sabotaggio e, per la fantasia e il clamore che esse suscitano, il gruppo da lui comandato diventa ben presto noto anche tra la popolazione civile come “Battaglione Casino”. Così, quando c’è da trovare un responsabile dell’attentato a Turri, le indagini puntano subito nella direzione di Giovanni Battista Bertagni.

Lucca, mercoledì 23 agosto 1944

Il CLN di Castelnuovo informa degli arresti Pietro Mori, del Comitato Militare del CLN comunale di Lucca e questi coinvolge il Plotone Questura: già da alcuni mesi si è formato, in seno alla Questura di Lucca, un gruppo di effettivi e ausiliari che partecipa alla lotta partigiana cittadina come una sorta di quinta colonna, soprattutto controllando l’attività delle truppe tedesche e delle autorità repubblicane e informandone il CLN. Ne è a capo il tenente Luigi Giusti che, peraltro, proprio quel giorno sta sostituendo il questore Carlo Alberto Gusmitta: grazie a questa circostanza viene a sapere che Bertolini, Giorgi e Gualtierotti sono in procinto di essere fucilati. Capisce che non c’è tempo da perdere: qualcuno deve agire prima che qualcuno dei tre catturati parli o che la sentenza di morte sia eseguita.

Il Plotone Questura è inquadrato nella formazione partigiana comandata, da un mese e mezzo, da Mario Bonacchi. Ventisette anni, reduce dalla campagna di Russia, dai primi mesi del 1944 guida il gruppo del quartiere di Sant’Anna. Dopo l’uccisione di Roberto Bartolozzi, il CLN lucchese ha affidato a lui la riorganizzazione e il comando dei partigiani lucchesi. Pertanto, Giusti si rivolge a Bonacchi per organizzare in poche ore una spedizione che liberi le persone catturate e a rischio uccisione. Il piano è tanto semplice quanto rischioso e si basa su un finto ordine di scarcerazione a scopo di interrogatorio con tanto di timbro della Brigata nera e firma falsa del tenente Carlo Dinelli. Ci vuole però qualcuno che entri in carcere travestito da milite della Brigata: sarà Bonacchi stesso.

Lucca, giovedì 24 agosto 1944, ore 18

Il capo partigiano, procuratosi una divisa da brigatista, la camuffa sotto una giacca blu, nasconde il mitra e l’elmetto in una borsa di paglia e si avvia in bicicletta verso San Giorgio. Una volta arrivato vicino al carcere, incontra Anna Maria Nardi: le lascia la borsa e la giacca blu e la trasformazione in milite fascista è completata; un’altra partigiana, Wilma Franceschini, è appostata in via San Giorgio, mentre Enzo e Guglielmo Bini (padre e figlio) sono davanti al carcere per segnalare eventuali pericoli.

Bonacchi entra dunque con il suo mitra in carcere e presenta il documento di scarcerazione: il secondino, dopo avergli ordinato di deporre l’arma, lo accompagna nell’ufficio competente. Bonacchi esegue, ma il timore di trovarsi disarmato di fronte a qualche vero milite della Brigata nera è forte. È fortunato: prima che qualcuno si accorga dell’inganno, i tre detenuti vengono portati da lui. Il quartetto si può dirigere ora verso l’esterno, con il capo partigiano che ancora non può svelare la sua vera identtià e sempre con il timore di venire scoperto. Ancora una volta tutto va bene e gli viene restituito il mitra. Una volta fuori dal carcere, Bonacchi svela chi è veramente  raccomandando ai tre liberati di far finta di niente: Bertolini e Gualtierotti vengono affidate a Wilma Franceschini, che le nasconde nel convento di Santa Zita in piazza Sant’Agostino (e lì rimarranno fino all’arrivo degli Alleati), a poche centinaia di metri da San Giorgio, mentre Giorgi fugge con i Bini: il giorno successivo ripartirà per la Garfagnana.

Lucca, venerdì 25 agosto

Dinelli si presenta al carcere e chiede dei prigionieri. Saputo che sono stati liberati dietro presentazione di un documento recante la sua firma, vengono passati in rivista tutti i militi della Brigata nera, quelli veri. Nessuno di loro è quello visto dai secondini del carcere. I sospetti si dirigono su uomini della Questura, perché solo lì possono avere carta intestata e timbri, e tutti sono sottoposti a una prova calligrafica, per capire chi può essere stato a falsificare la firma. Il principale indiziato è Giusti, ma il perito grafologo non avvalora tale ricostruzione.

Lucca, domenica 27 agosto, mattina

Idreno Utimpergher, comandante della XXXVI Brigata nera, è furioso per lo smacco subìto e, nonostante non siano state raccolte prove, ordina l’arresto e la consegna ai tedeschi di Ferdinando Lucchesi, professore di disegno caposquadra del plotone Questura, dello stesso Giusti e di tutti gli ausiliari di polizia. Alcuni di loro verranno deportati in Nord Italia e torneranno a Lucca soltanto a guerra finita, mentre Giusti e altri riescono a sfuggire alla cattura.

 

Il motivo per cui è Bonacchi stesso a eseguire la liberazione in prima persona verrà da lui spiegato in un articolo pubblicato un anno dopo sul quotidiano La Nazione:

Gli Alleati si avvicinavano a Lucca; il giorno dell’insurrezione era prossimo. I componenti le squadre di città dovevano avere la prova definitiva che [il comandante, NdA] non sarebbe rimasto in preda a timori o esitazioni.

Articolo pubblicato nel febbraio 2024.




Il partigiano Beppe e la Resistenza nel Volterrano

La vicenda partigiana di Vinicio Modesti (Beppe) è una storia esemplare per comprendere la Resistenza nella provincia di Pisa. Sono qui presenti, infatti, molti degli elementi fondamentali per cogliere le specificità della lotta di liberazione nel Volterrano, l’area di maggiore attività partigiana a livello provinciale.

L’irrequietezza e l’insofferenza delle generazioni più giovani rappresentano il punto di partenza senza il quale non sarebbe neanche pensabile una partecipazione armata alle attività clandestine antifasciste e antitedesche. Vinicio era nato a Volterra nel 1924: dopo l’8 settembre, poco più che studente e appena approdato all’insegnamento tecnico, organizzò con un paio di amici un piccolo nucleo di cospiratori. Un membro del locale Cln li invitò però ad aspettare, per «non turbare la pace del paese». Intanto, a partire dal novembre 1943, la pace dei maschi nati tra il 1923 e il 1925 fu turbata dalla chiamata alle armi delle autorità militari della neocostituita Repubblica di Salò. Da qui la scelta di sparire e unirsi ai partigiani.

I tentativi di avere contatti con la rete antifascista si rivolsero inizialmente verso Firenze, poiché altrove in Toscana l’organizzazione clandestina era ancora debole e poco strutturata, ma senza esito. Alcuni gruppi di uomini alla macchia si erano formati più a sud, attorno a Massa Marittima, comandati da Velio Menchini ed Elvezio Cerboni; i primi di novembre l’incarico di organizzare una formazione partigiana venne affidato a Mario Chirici, comandante repubblicano antifascista molto noto nella zona e appena tornato dalla Jugoslavia. Erano molti i collegamenti con il Volterrano e la Val di Cecina, aree collinari e boscose unite da una fitta rete di strade comunali: nel giro di pochi giorni i ragazzi che insieme a Vinicio Modesti volevano unirsi ai partigiani trovarono i contatti giusti per raggiungere il campo base della banda di Chirici, all’Uccelliera, tra Monterotondo e Massa Marittima. Vinicio però arrivò in un momento particolarmente infelice: la formazione si era appena spostata per sfuggire a un rastrellamento e senza essere riuscito ad agganciare nessuno il giovane decise di rientrare a Volterra.

Non appena rientrato, i militi repubblichini, ben informati dei suoi movimenti, lo andarono a cercare a casa, in Piazza dei Priori; all’ultimo un vicino generoso lo nascose permettendogli di fuggire. Nascosto da coloni in mezzo al bosco, tratteneva rapporti epistolari con la famiglia, che nel frattempo subiva la persecuzione fascista: il negozio venne chiuso, i genitori e le sorelle furono costretti a lasciare Volterra. Nel mese di gennaio del 1944 Vinicio si spostò di nuovo verso sud, nel grossetano, dove riuscì finalmente a incontrare i partigiani di Mario Chirici. In pochi giorni venne nominato capo squadra e vide la graduale crescita degli effettivi armati dai 15 iniziali agli 80 circa.

A metà febbraio, tuttavia, la vita della formazione venne bruscamente interrotta dal rastrellamento del Frassine, il maggior trauma nell’esperienza resistenziale della zona, motivo di una profonda frattura che non si sarebbe mai più rimarginata. La sera del 15 febbraio, partirono da Follonica e da Massa Marittima dei camion carichi di militi fascisti locali, a cui si aggiunsero altri provenienti da Grosseto, in direzione dell’area dove avevano base i partigiani: prima dell’alba del 16 febbraio, tre colonne di repubblichini comandate dagli ufficiali Giovanni Nardulli di Massa Marittima, Monti di Grosseto e Pini di Castelpiano, conclusero l’operazione di rastrellamento della formazione, che venne presa totalmente alla sprovvista. La maggior parte degli uomini riuscì a scappare, un piccolo gruppo si asserragliò in una casa colonica, da dove ingaggiò una lunga sparatoria con gli assedianti. Dopo qualche ora i partigiani si arresero: cinque vennero trucidati, gli altri furono condotti in prigione.

Molti uomini che avevano gravitato intorno a Chirici decisero di allontanarsi e proseguire la loro attività più a nord-est, tra le province di Pisa e di Siena, in particolare nell’area tra il bosco delle Carline, Radicondoli e il bosco di Berignone, dove si era formata una squadra sotto il comando di Elvezio Cerboni. Qui con la guida di Guido Stoppa e di Alberto Bargagna l’organizzazione militare e i rapporti con il territorio si fecero più solidi e strutturati, le bande si svilupparono in maniera efficiente e dai primi di marzo riuscirono a darsi un livello operativo coordinato e coerente. Le azioni a Belforte e Montieri, nel marzo 1944 sancirono l’inizio di una nuova fase.

Il diario del partigiano Beppe, datato aprile 1944, è stato di recente ristampato insieme a un racconto successivo dello stesso Vinicio Modesti. L’attività da lui svolta dopo la guerra come scultore e insegnante hanno lasciato una memoria viva nel territorio; meno invece si sapeva della sua esperienza partigiana. Sia il diario che il racconto si chiudono però con la primavera del 1944, tranne un accenno alla vicenda della sorella Rossana che si prolunga fino a giugno. Le vicende partigiane vissute nel maggio e nel giugno non appaiono. Si tratta di una scelta singolare, che merita una riflessione. La maggior parte delle azioni partigiane di questa area avvennero proprio a partire dal maggio del 1944, quando con lo sfondamento della Linea Gustav e la ripresa dell’avanzata alleata sul territorio italiano, le speranze di una liberazione imminente spinsero a una crescita esponenziale della presenza e della forza resistenziale nella provincia di Pisa. Molti si unirono solo in questa ultima fase, tra la primavera e il passaggio del fronte.

Di questi mesi, che pure furono i più ricchi di colpi riusciti e di consenso da parte della popolazione, Vinicio Modesti tace. Forse perché altri potevano raccontare, mentre lui solo avrebbe potuto testimoniare ciò che accadde prima, i lunghi itinerari inconcludenti, le sconfitte, gli «odiosi attendismi». Forse perché considerava la parte precedente quella più autentica e sofferta dell’esperienza partigiana, più solitaria e imprevista, dura e dagli esiti imprevisti. Impossibile arrivare ora a una risposta certa; rimane il fascino irrisolto per una testimonianza ricca e vitale, irrequieta e intensa come lo sa essere solo lo spirito di un ragazzo che «era giovane ma [che] i suoi diciannove anni li aveva vissuti così intensamente che in certe cose pareva un saggio».




Antifascista per sé: Cristina Lenzini (1903-1944)

In seguito ad un accanito rastrellamento operato da ingenti forze tedesche contro la formazione, l’Ardemanni che proteggeva con la mitragliatrice il ripiegamento dei suoi compagni, veniva colpita gravemente da un colpo di mortaio nemico per cui decedeva all’istante.”[1] Con queste parole la Commissione regionale per il riconoscimento partigiano attribuisce a Cristina Lenzini in Ardimanni la qualifica di partigiana combattente caduta[2].

L’8 agosto 1944 sul monte Gabberi le compagnie III e IV della X bis brigata Garibaldi “Gino Lombardi”, guidate da Bandelloni, Palma e dal Porto, sono impegnate contro nazisti e fascisti per la seconda volta nel giro di pochi giorni dopo gli scontri sul monte Ornato, con pochi mezzi e isolate rispetto al resto della Brigata che ha deciso di ripiegare sul Lucese[3].
Lo scontro s’inserisce pienamente nel contesto dell’estate 1944 in cui alla guerra civile (patriottica e di classe) s’intreccia la cosiddetta “guerra ai civili”: la linea Gotica – che rappresenta uno spazio di demarcazione tra due eserciti regolari stranieri, due modelli di occupazione, e due schieramenti opposti di italiani, e un territorio che le comunità vedono mutare profondamento grazie alla guerra -, diventa per i nazisti uno spazio da “bonificare” integralmente, in cui è necessaria una “omogeneizzazione” per il dominio e lo sfruttamento, le cui retrovie devono essere epurate dal pericolo dei banditen, e in cui anche le popolazioni locali vengono ritenute responsabili, assimilate ai partigiani, e quindi soggette alla punizione .
Ma, tornando alla Lenzini, quello in cui perde la vita combattendo è soltanto uno dei tanti momenti in cui la donna lotta contro il fascismo. Purtroppo alla fase attuale della ricerca la sua biografia è ripercorribile a singhiozzi, il periodo antifascista precedente al 1944 è possibile intuirlo tra le pieghe delle fonti di polizia relative agli uomini a cui era legata. Infatti Cristina Lenzini in Ardimanni nata a Pisa nel 1903 da Angelo (Angiolo), bracciante, e Bartolai Rosa, casalinga, è sostanzialmente la moglie di Alfredo Ardimanni nel fascicolo del Casellario Politico Centrale, schedato come comunista (ma vicino anche agli ambienti anarchici); è con lui che condivide le idee antifasciste e con cui nel 1924, insieme al figlio Alberto, sceglie come molti la strada del fuoriuscitismo in Francia, dopo che sarebbero stati proprio due suoi fratelli squadristi a consigliarle, secondo quanto ricostruito dall’Anpi Versilia, di espatriare per evitare le persecuzioni fasciste.
A quanto si apprende dall’interrogatorio di Alfredo, arrestato a Ventimiglia nel 1943, sappiamo qualcosa sulla loro vita in Francia: dalla possibile attività di Alfredo come intercettatore di volontari per la guerra civile in Spagna (negata nelle dichiarazioni ufficiali), al suo internamento allo scoppio della guerra nel campo di S. Cyprien al confine tra Francia e Spagna, dall’andamento altalenante della loro relazione, cui l’Ardimanni attribuisce responsabilità alla condotta morale della moglie Cristina, alla sua messa a disposizione volontaria insieme al figlio per lavorare al servizio dei tedeschi e poi delle truppe di occupazione italiane a Tolone. Non abbiamo fonti a sufficienza che possano smentire o confermare ciò che Alfredo afferma durante l’interrogatorio, non possiamo garantire che sia frutto di una dissimulazione per un estremo tentativo di salvataggio o se si tratti di opportunismo politico.
Nel frattempo ritroviamo Cristina, che per i funzionari di pubblica sicurezza “[è] immune da pregiudizi penali e politici, risulta di buona condotta in genere”, nel 1932 fra la documentazione relativa a Bucchioni Azelio, schedato come pericoloso comunista nel Cpc[4]; originario di Pisa, dove “abitava in prossimità delle abitazioni di Di Paco Ferdinando detto Umberto, del quale ha assunto le generalità, e del comunista Ardimanni Alfredo di Abele col quale era in intimi rapporti di amicizia. Il Bucchioni conviverebbe presentemente con certa Lenzini Cristina, moglie del comunista Ardimanni Alfredo col quale egli avrebbe perciò troncato ogni rapporto di amicizia”.
È, quindi, una storia personale che possiamo percepire solo fra gli interstizi della documentazione, ma guardare in controluce ci permette di osservare possibili vuoti da colmare e di provare a formulare ipotesi di ricerca. Cristina Lenzini è pensata talmente all’ombra delle figure maschili che non ha un fascicolo di riferimento, sintomo che i funzionari di P.S. non pensavano potesse svolgere attività politica, o quantomeno non che potesse farlo in autonomia per propria identità e coscienza, a fianco, insieme e in condivisione delle idee con gli uomini sopra citati: è sorvegliata perché è la moglie di Ardimanni, la convivente o amante di Bucchioni. Esattamente come altre donne antifasciste la Lenzini viene osservata col filtro di uomini che di fatto non concepiscono che le donne possano uscire dalla sfera privata cui dovrebbero essere relegate per svolgere attività politica in autonomia[5]. Non abbiamo fonti al momento che possano colmare i buchi, non siamo a conoscenza, ad esempio, se la donna sia attiva durante la guerra civile in Spagna o quale sia il suo percorso dagli anni Trenta ai Quaranta, ma sappiamo che nel 1942 torna a sua volta in Italia e che entro il 1944 ha maturato con determinazione la scelta resistente.
L’attività partigiana è perciò soltanto l’ultimo atto di un’antifascista di lungo corso, in cui la scelta di resistere imbracciando le armi è probabilmente una decisione vissuta come una necessità di fronte alle violenze del nemico[6]. Una scelta presa per sé, in autonomia, con convinzione e doppiamente in libertà perché, come pure per tutte le donne protagoniste delle varie forme di resistenza, svincolata dagli obblighi imposti agli uomini dai bandi di arruolamento della Rsi: la guerra civile, seppur fase di crisi, permette che si aprano spazi pubblici, politici e militari, che le donne possono occupare, sconfinando dalla sfera privata e al di fuori dal tracciato tradizionale per assumersi la responsabilità delle proprie azioni e trovare una diversa collocazione sociale[7]. Cristina Lenzini, come altre nella sua condizione, decide di resistere rompendo l’ordine naturale delle cose per il quale tradizionalmente la militarizzazione femminile è vista come un fenomeno eccezionale e di disturbo, poiché infrange la statica divisione dei ruoli per cui le armi sono attributi prettamente maschili, mentre alle donne è demandato l’onere riproduttivo. Quest’ultime, concepite “per natura” come più pacifiche rispetto agli uomini, nel momento in cui imbracciano le armi vengono viste come anomalie, dal comportamento sessuale in qualche modo irregolare, “sessualmente libere e disponibili, oppure dalla sessualità «sospesa>» o proibita come le vedove o le vergini”[8]. Ed effettivamente dalle testimonianze raccolte dall’Anpi Versilia e dal linguaggio utilizzato nella documentazione partigiana emerge che la figura della Lenzini è vista o come una eroina spersonalizzata, una combattente pronta all’estremo sacrificio con la mitragliatrice in mano per permettere la ritirata dei compagni, o una donna sola, al pari di una vedova, ricordata dal partigiano Moreno Costa come “una donna decisa, pareva come una mamma con i suoi quarant’anni, a noi che eravamo quasi tutti molto giovani”. Eppure, nonostante questa correlazione con il tradizionale ruolo di madre, ciò non sovrasta o riduce il suo operato, e Cristina è riconosciuta sia formalmente sia informalmente come una combattente dal contributo fondamentale[9]. A lei, che per tutta la vita è stata osservata e giudicata dalla pubblica sicurezza fascista perché antifascisti erano gli uomini con cui aveva relazioni affettive, le viene finalmente riconosciuto, in una singolare forma di giustizia postuma, il merito della scelta e la determinazione nell’averla portata avanti.
Ricostruire biografie fuor di retorica, tentando comunque di restituire un percorso individuale di partecipazione attiva all’antifascismo e alla Resistenza, ci permette oggi di avviare ricerche e approfondimenti che possano riportare alla luce storie personali per provare sia a ridare dignità a chi come singolo ha lottato contro i fascismi, sia ad aggiungere un tassello nella complessiva storia dei fenomeni di antifascismo e Resistenza.

Note:

1. AISRECLU, Ricompart, b. 237, L. Bandelloni, fasc. Ardemanni Cristina.
2. F. Bergamini, G. Bimbi, «Per chi non crede». Antifascismo e Resistenza in Versilia, a cura dell’ANPI Versilia, 1983.
3. Sono i luoghi lungo il versante occidentale della linea Gotica in cui la ritirata aggressiva di nazisti e fascisti è caratterizzata dalle stragi e da episodi di violenza che risulterebbero essere 49 soltanto in Versilia e nelle aree collinari e montane, tra cui citiamo la strage di tipo eliminazionista di Sant’Anna di Stazzema. Cfr. G. Fulvetti, P. Pezzino (a cura di), Zone di guerra, geografie di sangue. L’Atlante delle stragi naziste e fasciste in Italia (1943-1945), Bologna, Il Mulino, 2016; Cfr. M. Battini, P. Pezzino, Guerra ai civili. Occupazione e politica del massacro. Toscana 1944, Venezia, Marsilio, 1997; Cfr. P. Pezzino, Sant’anna di Stazzema. Storia di una strage, Bologna, Il Mulino, 2013; Cfr. Claudio Pavone, Una guerra civile. Saggio storico sulla moralità nella Resistenza, Torino, Bollati Boringhieri, 2006; Cfr. L. Klinkhammer, L’occupazione tedesca in Italia 1943 – 1945, Torino, Bollati Boringhieri, 1993.
4. ACS, Cpc, b. 877, fasc. Bucchioni Azelio; http://www.antifascistispagna.it/?page_id=758&ricerca=852 [ultima consultazione: 31/03/2023]. Bucchioni Azelio emigra in Francia, in Belgio e poi in Corsica, immerso in una discreta rete di antifascisti comunisti, fa attività di propaganda e nel 1936 durante la guerra civile in Spagna partecipa come combattente nella Sezione italiana. Nel 1941 è in Francia nuovamente dove pare svolgere “attività politica di orientamento anarchico” e poi arrestato in Belgio nel 1943, da cui viene deportato dalle autorità tedesche prima nel campo di concentramento di detenzione temporanea e di transito di Herzogenbusch in Olanda e successivamente a Neuengamme (Amburgo), dove muore il 18 febbraio 1945. Su Bucchioni Azelio si v. anche la voce nel Dizionario biografico degli anarchici italiani online: https://www.bfscollezionidigitali.org/entita/13256-bucchioni-azelio?i=0 [ultima consultazione: 31/03/2023]
5. M. Guerrini, Donne contro. Ribelli, sovversive, antifasciste nel Casellario Politico Centrale, Milano, Zero in condotta, 2013; G. De Luna, Donne in oggetto. L’antifascismo nella società italiana 1922-1939, Torino, Bollati Boringhieri, 1995.
6. Cfr. L. Martin, «Come ti ho fatto ti disfo». Intorno a donne e violenza agita nella Resistenza, «Zapruder», n. 32, 2013,
7. Cfr. D. Gagliani, E. Guerra, L. Mariani, F. Tarozzi (a cura di), Donne, guerra, politica. Esperienze e memorie della Resistenza, Clueb, Bologna 2000; R. Fossati, Donne guerra e Resistenza tra scelta politica e vita quotidiana, «Italia contemporanea», n. 199, 1995.
8. P. Di Cori, Partigiane, repubblichine, terroriste. Le donne armate come problema storiografico in (a cura di) G. Ranzato, Guerre fratricide. Le guerre civili in età contemporanea, Torino, Bollati Boringhieri, 1994; Ead., Donne armate e donne inermi. Questioni di identità sessuale e di rapporto tra le generazioni in Laura Derossi (a cura di), 1945. Il voto alle donne, Milano, F. Angeli, 1998.
9. A. Bravo, Resistenza armata, resistenza civile in ivi.