ARNALDO DELLO SBARBA, ANATOMIA D’UNA CADUTA

Era stato protagonista della politica toscana da fine ‘800 in poi. Nel 1924 Mussolini lo voleva nel “Listone” fascista.
Ma contro l’ex ministro riformista insorse lo squadrismo pisano.

 Dalla rilettura di archivi pubblici e privati, in parte inediti, il ritratto di una classe dirigente che allevò il fascismo e ne fu divorata.

1911, Arnaldo a Roma, appena eletto deputato socialista
(Archivio privato famiglia Dello Sbarba)

Che nel giro di pochi giorni, o forse di poche ore, si sarebbe giocato tutta la sua vita politica, Arnaldo Dello Sbarba (1) lo sapeva da tempo. E a quella vigilia elettorale dell’anno 1924 (2) era arrivato come lui sapeva fare: ben preparato.
Aveva dalla sua Benito Mussolini, vecchia conoscenza d’epoca socialista e ora duce del fascismo vittorioso. Aveva conquistato Cesare Rossi (3), numero due del regime e potente capo dell’ufficio stampa del governo. Nella circoscrizione, nella quale Dello Sbarba aveva recitato da primattore per quattro legislature, puntavano su di lui le élite fiancheggiatrici che speravano così di moderare e controllare lo squadrismo (4).
Nella base fascista Arnaldo poteva contare sul Fascio di Pisa, guidato dal capitano Bruno Santini (5), che sul “caso Dello Sbarba” aveva ricevuto istruzioni “inequivocabili” dal duce. Santini capeggiava in quei giorni il movimento dei “dissidenti” contro il segretario federale Filippo Morghen (6), sostenuto invece dai “ras” provinciali (7). E da quando Morghen s’era avventurato a giurare: «Nel fascismo, o me o Dello Sbarba» (8), Santini s’era convinto che poteva usare Dello Sbarba per togliersi Morghen dai piedi.

Considerati dunque tutti i pro e i contro, Arnaldo riteneva di poter vincere la partita. Sarebbe stato ammesso nella “Lista Nazionale” di Mussolini, con la certezza di tornare in parlamento. Voti personali ne aveva in quantità, al resto ci avrebbe pensato il diluvio di seggi garantiti ai fascisti dalla legge Acerbo.
Eppure, compiuti cinquant’anni il 12 agosto 1923, Arnaldo Dello Sbarba si avvicinava all’anno nuovo in stato di grande agitazione. Alla vigilia di Natale, il suo fedele segretario Carlo Conti (9) aveva riferito al fratello Bruno Dello Sbarba di «gravi preoccupazioni politiche non ancora ultimate [anche se] ben incamminate (…) Ci vorranno ancora dei giorni nei quali Arnaldo, che non sta bene soprattutto di cuore, ha bisogno di calma più assoluta (…) . Scrivigli per tranquillizzarlo e incitarlo a vincere la più aspra battaglia» (10).
Finito in mezzo alle lotte intestine del fascismo pisano, nel novembre del 1923 Arnaldo era stato addirittura aggredito alla stazione di Pisa da una squadraccia comandata dal conte Giuseppe Della Gherardesca (11).
Di questo si era immediatamente lamentato con Cesare Rossi. L’aggressione, scrive Arnaldo a Rossi il 10 novembre 1923, non è stata affatto «frutto di uno stato di esaltazione personale» ma della volontà di «costringermi fuori dalla vita pubblica».
Arnaldo riferisce a Rossi che in una riunione della federazione fascista, successiva all’aggressione,

in cui il Gherardesca urgentemente chiamato partecipò, […] si proclamò che io ero un comunista, antitaliano e anti-patriota, e che coloro che mi avevano fatto affronto avevano compiuta opera italianissima, da deplorar semmai per essere stata solo nei limiti di minacce e di ingiurie (…). Fui interventista della primissima ora, partecipai alla manifestazione di Quarto (12) e scoppiata la guerra mi scrissi volontario. Non ho, in coscienza, nulla da rimproverarmi (…) alle accuse di chi, come il Gherardesca fu in quegli anni noto tedescofilo.

Lei mi è testimone – continua la lettera di Arnaldo a Rossi – con quale ardore nel 1921 io, nella circoscrizione di Pisa Lucca Livorno e Massa Carrara, difesi il blocco nazionale ed affermai le ragioni del fascismo, allo stesso modo che nelle sventurate elezioni del 1919, per riaffermare le ragioni della guerra e della patria, fui esposto a tutti gli oltraggi e a tutti gli attentati dei socialcomunisti. Venuto il governo fascista gli ho dato disinteressatamente ed incondizionatamente tutto il mio consenso, fino a partecipare alla commemorazione della marcia su Roma. Della mia devozione per il Presidente non ho bisogno spero neanche di intrattenermi (13).

Primo maggio 1900. Arnaldo saluta il nuovo secolo con la prima pagina de L’Avanti.
(Archivio privato famiglia Dello Sbarba)

Questo Arnaldo Dello Sbarba del 1923 non era evidentemente più quello «degli anni della sua splendida gioventù», raccontati da Arnaldo Fratini (14) nella sua storia del socialismo volterrano, «che germogliò per la cura, l’ardore e il coraggio con cui lui, insieme ad altri ottimi compagni, volle e seppe coltivarlo». Non era più il battagliero direttore de «Il Martello», uno dei primi giornali del socialismo toscano (15), né il giovane avvocato che nel 1898 aveva difeso, a fianco di Pietro Gori, i lavoratori in sciopero a Campiglia e nel 1900 aveva combattuto per la grazia all’anarchico Cesare Batacchi, rinchiuso nel mastio di Volterra per una bomba mai lanciata (16).
Aveva cambiato rotta: c’era stato l’appoggio alla campagna coloniale di Libia del 1911 (17), l’espulsione dal PSI nel 1912, l’interventismo, la guerra, il “Biennio Rosso” vissuto dalla parte opposta della barricata, all’ombra del liberalismo giolittiano.
Deputato ininterrottamente dal 1911, nei governi di Nitti e Giolitti, Arnaldo era stato sottosegretario alla Giustizia nei mesi insanguinati dall’insorgenza del fascismo. Nel debole governo Facta era stato infine ministro del lavoro, finché la marcia su Roma non aveva mandato tutti a casa. Dopo di che, da deputato, aveva votato per il primo governo Mussolini, usando poi la presenza in parlamento per intessere relazioni nei palazzi del nuovo potere.

Il suo riferimento più importante era diventato Cesare Rossi, che in quell’inizio del 1924 stava lavorando per allargare il consenso al fascismo e farne la spina dorsale di un nuovo stato. La candidatura di un Arnaldo Dello Sbarba, ex ministro dell’era giolittiana, era funzionale a questa strategia.
Così Cesare Rossi si era fatto il regista della candidatura Dello Sbarba nel listone fascista. All’inizio del 1924 aveva ordinato a Luigi Freddi, capo ufficio stampa del PNF, di impedire all’ala intransigente del fascismo pisano di usare il settimanale «L’Idea fascista» per «scocciar l’anima a Dello Sbarba (…) poiché costui (che fra parentesi è molto intelligente e abbastanza ben visto dal Presidente, il quale gli ha anche affidato l’incarico, insieme ad altri due o tre Deputati, di costituire un gruppo di sinistri fascistofili) finirà per essere compreso nel Listone. (…) Io mi riprometto di difenderlo al momento opportuno» (18).
Il tandem Rossi-Freddi aveva anche imbastito una massiccia campagna di stampa per Arnaldo, trainata da «Il Nuovo Giornale» di Athos Gastone Banti e dal «Corriere italiano» di Filippo Filippelli (19).
Per dividere il fronte degli intransigenti, Cesare Rossi aveva mobilitato con un telegramma il principe Piero Ginori Conti (20), proprietario della Boracifera di Larderello e ras dei ras provinciali:

Consiglio inviare senz’altro Presidente Mussolini telegramma in cui si prospettino opportunità positive soprattutto elettorali inclusione Dello Sbarba testimoniando, come per mio conto ho già fatto e farò ancora, il suo contributo [di] affiancatore [del] movimento fascista in varie sue fasi.

Intanto Arnaldo Dello Sbarba stava preparando un promemoria per illustrare i suoi meriti «di affiancatore del fascismo». Nel suo archivio se ne trovano diverse bozze. Un primo schema lo redige Carlo Conti e per Arnaldo rivendica la lotta contro il popolare segretario provinciale del PSI Carlo Cammeo e le manovre messe in atto per destituire, in combutta col prefetto filofascista Renato Malinverno, i “sindaci rossi” Giulio Guelfi di Cascina ed Ersilio Ambrogi di Cecina (21).
Un canovaccio è incaricato di stenderlo anche l’altro segretario, il cavalier Vittorio Fagioli di Marciana Marina, luogotenente di Arnaldo per la provincia di Livorno:

I socialisti ufficiali gli dichiararono guerra implacabile […]. Nelle elezioni del 1919 la campagna bolscevica fu esclusivamente contro l’on. Dello Sbarba, che fu coperto di contumelie come guerrafondaio, indicato all’ira delle folle e in un sobborgo di Pisa gli fu perfino tirato in faccia manciate di sterco e di mota gridando: Eccoti la Patria! (22).

1920, Arnaldo sottosegretario alla Giustizia nel V° governo Giolitti
(Archivio privato famiglia Dello Sbarba)

Il promemoria definitivo, in terza persona e da spedire a Roma, Arnaldo lo scrive di suo pugno. Nella prima parte ripercorre le prove del suo amor di Patria, già ricordate nella lettera a Cesare Rossi. Poi passa agli esempi concreti, che letti oggi fanno venire i brividi.

Sottosegretario alla giustizia con Giolitti – scrive di sé Arnaldo Dello Sbarba – si batté col noto maestro Cammeo in una elezione provinciale memorabile e difese i fascisti sempre. Avvenuta la uccisione Cammeo (Mussolini ebbe con lui in proposito una corrispondenza telegrafica) procurò la scarcerazione della Rosselli e degli altri accusati (23). Quando, dopo i fatti di Sarzana (24), fu arrestato Santini, andò a Massa per farlo scarcerare. Quando fu ucciso Menichetti (25) in una imboscata comunista a Ponte a Moriano, ne seguì a capo scoperto il feretro.
Ministro del lavoro, parlando in una solenne riunione a Larderello (il senatore Ginori Conti presente e testimone) fece pubblica esaltazione del fascismo. Idem per l’inaugurazione del monumento ai caduti a Bagni di San Giuliano [e] il 26 ottobre 1922 in un pubblico discorso a Casanova di Piemonte […].
Dopo l’avvento del governo fascista, […] si fece sollecito di infondere nelle masse operaie, su cui ha vivo ascendente, il senso di fiducia e disciplina al governo dell’on. Mussolini, che esaltò […] ai metallurgici di Viareggio, ai contadini di Rosignano, agli operai di Ponte a Moriano, ai cavatori di alabastro di Castellina, ai mezzadri di Collesalvetti. […]. Nell’anniversario della Marcia su Roma – a dimostrare che fascismo e nazione si identificano – partecipò ai pubblici cortei (26).
È perseguitato dai ras locali con la scusa che egli ha una mentalità socialista, quella che servì sempre senza infingimenti […] e che anche oggi, per la parte che tende all’elevazione morale e materiale delle classi lavoratrici, non avulse ma integrative dei supremi interessi della Patria, ha il suo più grande interprete in Mussolini e la pratica nei sindacati nazionali fascisti.

La candidatura Dello Sbarba viene discussa a Roma dalle massime cariche del fascismo dal 4 all’11 febbraio 1924. Ne abbiamo sul «Messaggero Toscano» il resoconto di Bruno Santini, presente come segretario del fascio di Pisa, che riferisce di aver dichiarato in diverse riunioni tra il 4 e il 9 febbraio, a Costanzo Ciano, presente Morghen, a Cesare Rossi, alla Pentarchia (la commissione elettorale a cinque) presieduta da Aldo Finzi

che l’on Dello Sbarba aveva forti correnti contrarie nel partito Fascista e una ragguardevole forza sua fuori dal partito, tra tutti coloro che per quindici anni erano stati da lui beneficiati, aiutati, sorretti. Se l’on. Dello Sbarba fosse entrato nella Lista Nazionale del Partito Fascista, questa avrebbe guadagnato voti di molti elementi non fascisti.

Alla seduta decisiva dell’11 febbraio 1924 partecipa Mussolini in persona, che ha l’ultima parola sulle candidature. «Davanti a S.E. Mussolini, presente S.E. De Bono – racconta Santini – ripetei le stesse dichiarazioni. Il Presidente mi lesse alcuni appunti riguardanti l’on. Dello Sbarba, che riflettevano la sua posizione rispetto al Fascismo», e qui Santini cita a memoria la scarcerazione degli assassini di Cammeo, quella dello stesso Santini a Massa e il discorso filo fascista a di San Giuliano Terme. «Altro lesse il Presidente che io non ricordo. Ricordo che le dichiarazioni del Presidente furono esplicite, nette, recise» (27).
Ai vertici fascisti Mussolini aveva letto dunque proprio il promemoria scritto da Arnaldo. E aveva deciso. L’annuncio arriva a Dello Sbarba con un biglietto proveniente dai corridoi della Pentarchia:

Caro Arnaldo, stamani la tua questione è stata decisa favorevolmente. Tu sei stato ammesso come era giusto e doveroso. [La firma è purtroppo indecifrabile].

«Comincia circolare voce tua inclusione, studio affollato, entusiasmo vivissimo» telegrafa Conti ad Arnaldo il 12 febbraio. Il mattino dopo il segretario viene convocato dal prefetto Renato Malinverno, preoccupato della piega presa dagli avvenimenti. Alle 16,30 Conti riferisce ad Arnaldo:

Alle 11:00 sono stato chiamato dal prefetto. Ha cominciato col prospettarmi il pericolo di dimissioni, di astensioni eccetera. L’ho fermato subito su questa strada dicendogli chiaro e tondo che avevo saputo da Dario Lischi (28), tornato stanotte da Roma, le parole chiare e inequivocabili dette dal Duce al Santini: “Dì ai Pisani che Dello Sbarba è nella lista per mio volere e nessuno ce lo toglie, che è anche l’ora di smetterla con i campanili – essendo la lista Nazionale – anche se i campanili sono storti e artistici come quelli di Pisa”.
Il prefetto evidentemente non conosceva questo episodio che gli ha fatto impressione. Allora ho cominciato a parlare descrivendogli la situazione vera, (i grandi consensi eccetera) che è in tuo favore. Quanto a dimissioni, astensioni ecc ., gli ho detto saranno in numero molto ridotto seppur vi saranno. Che in ogni modo si tratterà di qualche capo malinconico e scornato. (…) Che la verità vera è questa: Medoro (29) e gli altri della federazione avevano corso troppo nel farti la guerra e si trovavano perciò impegnati fino al collo (…) per giustificare dinanzi alla Pentarchia la loro imbecillità e creare fantasmi di agitazione.
Poi uscendo gli ho detto: Scusi lei sente di essere il prefetto? Lui mi ha risposto: Ah per questo Le assicuro che io eseguirò e farò rispettare gli ordini! Basta così! Ho la convinzione di averlo lasciato persuaso.

Il 14 febbraio anche la stampa dà la notizia dell’inclusione di Arnaldo nel listone fascista. Ma gli avversari non si sono dati per vinti.
Il 15 febbraio una lettera proveniente da Pisa avverte Dello Sbarba:

Carissimo onorevole, sono arrivati stamani da Roma gli energumeni Carosi, Biscioni, De Guidi, Parenti ed altri che lunedì notte, appena appresa la notizia della sua inclusione nel Listone, partirono per impressionare le direzione del partito. Minacciarono distacco dal Partito ufficiale, costituzione di fasci autonomi, rappresaglie ecc. e secondo quanto essi affermano sarebbero riusciti a persuadere il Direttorio e l’on. Giunta a far pressione presso il Duce per ottenere il loro intento (30).

Il 17 febbraio il segretario provinciale Filippo Morghen – che si era istallato in permanenza a Roma presso l’hotel Continental, a due passi dalla stazione – dirama a tutti i fasci l’ordine di inviare ai vertici nazionali telegrammi contro l’inclusione di Dello Sbarba nel listone.
Morghen ha dalla sua la deliberazione del 2 febbraio della federazione fascista pisana che si era pronunciata per l’esclusione di Dello Sbarba e un’ordine del giorno approvato dall’assemblea dei sindaci fascisti in cui essi «confermano di ritenere Dello Sbarba politicamente non degno di essere compreso nella Lista Nazionale». Se Mussolini lo avesse ciò nonostante inserito, i sindaci fascisti minacciano di dimettersi in massa. E se qualcuno se ne fosse dimenticato, il 18 febbraio ci pensa il sindaco di Collesalvetti Gino Lavelli de Capitani, proprietario di fabbriche nella piana pisana, a spedire a tutti i sindaci una copia della delibera approvata, invitandoli a passare ai fatti (31).

Il 19 febbraio Carlo Conti informa Arnaldo dei metodi adottati dagli intransigenti.

Alla famosa adunanza, molti sindaci non erano presenti e, tolti 3 o 4, gli altri dichiarano che fu loro imposto di votarti contro. A Volterra si vive nel terrore, girano col nerbo per impedire che ti si facciano telegrammi o si faccia il tuo nome. Sono 7 o 8, ma armati, e fanno paura alla gente. Soltanto perché il Quadri fece pubblica dichiarazione di soddisfazione per la tua inclusione, la farmacia ora è guardata dai carabinieri”.

Lo stesso Conti è stato minacciato con un biglietto anonimo: «Diciamo a lei diabolico segretario di smetterla perché prima del suo padrone sarà soppresso». Conti commenta: «Niente po’ po’ di meno! Povero, grande Mussolini, da qual gente è qui rappresentato!».

Il fatto è che il «povero grande Mussolini» ha già fatto marcia indietro, cedendo alle pressioni del fascismo intransigente. Accade così ora nel microcosmo pisano ciò che in grande si ripeterà nel gennaio del ’25, come reazione al delitto Matteotti. Messo di fronte all’alternativa drastica, e rimangiandosi le promesse di moderazione, il duce sceglierà sempre di appoggiarsi all’ala più violenta del fascismo.
Alla sera di quel tormentato 19 febbraio 1924, l’agenzia Stefani batte infine il dispaccio che riporta la versione definitiva della Lista Nazionale per la Toscana. Arnaldo Dello Sbarba non vi compare più.

È successo che per tagliare la testa alle lotte interne, Mussolini ha deciso per la Toscana una lista “fascistissima”, composta di sole camicie nere. Accanto ai 24 nomi scelti dal duce vengono indicate con puntigliosità le cariche fasciste e i meriti di guerra: combattente, decorato, grande invalido e così via. Per Pisa in lista compaiono Guido Buffarini Guidi (32), sindaco e presidente dei combattenti, e Lando Ferretti (33), «ferito in guerra e decorato», entrambi candidati proposti dalla federazione pisana. Non vi compare invece l’uomo che il direttorio aveva proposto come primo: Filippo Morghen. L’eliminazione di Dello Sbarba ha trascinato con sé anche il suo arcinemico – almeno in questo Bruno Santini aveva visto giusto.
Il quale Santini, qualche giorno appresso, si prende pure la soddisfazione di rivelare sulla stampa gli intrallazzi di Morghen, che, mentre scatenava le camicie nere contro Dello Sbarba, dietro le quinte tentava un accordo con il vituperato ex ministro. Santini racconta che, nelle concitate giornate in cui a Roma si discuteva della candidatura Dello Sbarba, Morghen lo aveva fatto contattare da tre suoi uomini della commissione elettorale pisana che gli avevano promesso di «cessare la campagna contro di Lei» in cambio dell’impegno dello stesso Dello Sbarba a sostenere l’ingresso nel Listone «di nomi nostri, designati dalla Federazione» – tra i quali compariva come primo proprio il Morghen (34). È probabile che questo doppio gioco abbia convinto il duce a escludere pure lui dalla lista.

«Che farà ora Dello Sbarba?» si chiede il Messaggero Toscano la mattina del 20 febbraio. Il giornale prospetta due strade: presentare una lista propria, o aderire alla lista “Democratici Sociali” creata da due sue vecchie conoscenze, Mario Supino, avvocato, esponente della “democrazia massonica” di Pisa, e Augusto Mancini (35), filologo e deputato radicale, che di questa «lista parallela» aveva già informato Arnaldo per lettera il 15 febbraio.
In realtà, Arnaldo avrebbe avuto anche una terza opzione: confluire nella “lista bis” in cui Mussolini aveva dirottato in Toscana i tre deputati liberali uscenti, restati anche loro fuori dalla lista “fascistissima”. E cioè il livornese Guido Donegani, presidente della Montecatini, il senese Gino Sarrocchi, liberale della destra salandrina contiguo al fascismo, e l’agrario grossetano Gino Aldi Mai (36). Questa “lista bis” avrebbe pescato nei seggi spettanti all’opposizione, ma era appoggiata dal governo e sarebbe poi confluita nella maggioranza. Teoricamente, l’opzione ideale per Dello Sbarba: garantita nel risultato, indipendente nella forma, fascista nella sostanza. Ma – informava il «Messaggero Toscano» – «i liberali non ne vorranno sapere di Dello Sbarba», ormai sgradito al fascismo locale e temibile concorrente nelle preferenze.

1916, Arnaldo sottotenente nei gruppi di artiglieria avanzata della Val Lagarina a Coni Zugna e Zugna Torta.
(Fondo A. Dello Sbarba Biblioteca Guarnacci di Volterra)

La mattina del 20 febbraio Arnaldo è ancora deciso a non mollare. Solo e arrabbiato nel suo ufficio di deputato a Roma, prende carta e penna e scrive a Mussolini per annunciargli che lui si candiderà comunque.

Caro Presidente, ieri discutendosi in Pentarchia la lista per la Toscana, il mio nome non fu incluso nella lista nazionale, non già perché mi si potesse rimproverare alcuna colpa verso la Patria o verso il Fascismo, ma solo perché tal Morghen, segretario provinciale di Pisa, per risentimenti personali spintisi fino ad una vera e propria caccia all’uomo, ha creato una situazione di grottesco imbottigliamento antisbarbiano che ieri (domandalo al comm. Cesare Rossi) egli non riuscì a giustificare […]. D’altronde io so di non avere demeritato né della Patria né del Fascismo, cui ho dato lealmente consigli e aiuti; so di avere numerosi amici in Toscana, i quali non possono e non vogliono tollerare questa forma di ostruzionismo politico, e quindi, non perché malato di parlamentarismo, ma perché […] devo difendere la mia dignità umana, io vado ad appellarmi al giudizio degli elettori, ai quali chiarirò che […] solo da loro, che mi diedero per 4 legislature il viatico, io posso accettare oggi il congedo dalla vita politica” (37).

Alla sera, però, Arnaldo ci ripensa. Per tutto il giorno ha ricevuto messaggi che lo spingono a più miti consigli. Il fedele e accorto Carlo Conti, già la sera del 19 febbraio, lo ammoniva: «I pochi amici coi quali ho parlato sono poco favorevoli a liste bis o parallele».
La mattina dopo anche Gino Sossi, avvocato, compagno in politica, socio negli affari e marito della sorella Adele, gli aveva scritto:

Non so se tu accetterai di fare parte di una lista parallela, ma il mio avviso è che tu debba accettare se sicuro della riuscita. Se dovessimo fare la lotta delle preferenze con Donegani, Sarrocchi ecc. credo che potremo essere battuti. Perciò sii vigile, l’unica cosa da evitare è di accingersi alla lotta e rimanere a terra.

Anche l’industriale farmaceutico pisano Alfredo Gentili, suo fedele sostenitore, lo metteva in guardia dal candidarsi «nella lista bis, che qui è chiamata la lista dei cani rognosi». Infine, da Pisa gli aveva telegrafato la moglie Maria Ziffo:

Amici interpellati ritengono conveniente tuo disinteressamento eventuale lista liberale perché lotta ridurrebbesi favorire influenti liberali privilegiati [da] centri elettorali industriali.

A sera, dunque, Arnaldo Dello Sbarba si era di nuovo seduto alla scrivania per scrivere una seconda lettera a Mussolini e poi fargliela recapitare subito a mano dal servizio parlamentare. Sono le ultime parole – almeno per ora! – di una lunga carriera politica:

Illustre Presidente – scrive Arnaldo – la situazione di ostilità e di dissenso che si è riacutizzata, in questi giorni, fra fascisti pisani per la cocciuta volontà di alcuni di essi, ingiustamente prevenuti contro di me ed immemori della mia opera sempre onesta e fermamente patriottica anche in ore oscure, che rivendico in pieno, mi decide a rinunciare alla formazione di una lista propria […]. Ma se rinuncio a rientrare in Parlamento, ove le mie forze elettorali mi avrebbero certamente riportato, non intendo disertare il campo della lotta imminente. Perciò, inviterò con pubblico manifesto i miei amici a votare compatti e fervorosi la Lista Nazionale, con l’augurio che gli infatuati miei oppositori non mi impediscano almeno di portare il mio personale disinteressato aiuto alla forte battaglia che tu combatti – con pugno sicuro – per la più grande vittoria dell’Italia.

In soli cinque giorni Arnaldo Dello Sbarba si era giocato la sua carriera politica, e aveva perso.

Qualche settimana dopo lo conforta sua madre da Volterra:

Arnaldino mio – scrive Isola Veroli – non posso descriverti la consolazione. Sapendo la guerra che ti facevano e conoscendo questa gente, avevo sempre paura che ti facessero del male. Anche Bruno mi scrive che è contentissimo della tua decisione, prega e spera che tu non cambi. Mi dici che presto verrai a Volterra. Io non ci credo finché non ti vedo e il desiderio è tanto grande” (38).

Il 4 aprile 1924, alla vigilia di elezioni che a Pisa si sarebbero svolte per la prima volta da vent’anni senza un Dello Sbarba in qualche lista, si fa vivo di nuovo l’amico industriale Alfredo Gentili:

Il governo dovrebbe esserle grato (esiste oggi la gratitudine a Roma?) per il suo atteggiamento. Avremo la possibilità non lontana di vedere un segno della gratitudine mussoliniana per lei?

Gentili allude a quella prossima “infornata di nuovi senatori” per nomina governativa di cui già parlano i giornali (39). Il Duce avrebbe ripescato anche Arnaldo? Amici, sostenitori, segretari, e prima di tutti lui stesso, ci contano.
Le “infornate” arriveranno una dopo l’altra, ma il turno di Arnaldo Dello Sbarba non arriverà più. Al contrario, il fascismo pisano vuole liberarsi definitivamente di lui.
Il 2 gennaio 1925, al culmine della crisi seguita al delitto Matteotti e alla vigilia del discorso con cui Mussolini assumerà in parlamento la responsabilità dell’assassinio (40), un corteo di fascisti furibondi attraversa Pisa come “una colonna di fuoco” (41). Oltre a distruggere il circolo repubblicano e il quotidiano cattolico «Il Messaggero toscano», al grido di “fuori i massoni dal fascismo” i fascisti devastano la loggia massonica, l’abitazione e lo studio del gran maestro Alfredo Pozzolini e l’abitazione e lo studio al Palazzo alla Giornata di Arnaldo Dello Sbarba.
Pochi mesi dopo, Arnaldo deciderà di abbandonare Pisa per Roma: «Ho dovuto constatare scrive al fratello Bruno (42) – che a Pisa non c’è aria per me, e non c’è lavoro».

NOTE:

(1) Arnaldo Dello Sbarba (1873-1958) è stato dalla fine dell‘800 alla prima metà del ‘900 un protagonista della politica in provincia di Pisa (compresa l’area da Rosignano all’Elba). Laureato in Giurisprudenza a Pisa, consigliere in comune a Volterra e poi in provincia, è parlamentare dal 1911 al 1924. Diviene sottosegretario nei governi Nitti e Giolitti (1920-1921) e ministro per il Lavoro nei governi Facta (1922). Naufragata la candidatura nel “Listone” fascista del 1924 e entrato nel mirino dei fascisti, abbandona Pisa per Roma. Fino al 1929 è sottoposto a vigilanza di polizia. Nel 1943 il prefetto della RSI emette contro di lui mandato di cattura. Dopo la Liberazione di Pisa, il 29 dicembre 1944 è ammesso nel CLN provinciale su nomina del neonato “Partito Democratico del Lavoro”, nonostante la decisa opposizione di partigiani e CLN di Volterra che lo accusano di complicità col fascismo. Nel dopoguerra ricopre numerose cariche, tra cui quella di Presidente della Cassa di Risparmio di Pisa e della Domus Galileiana. Cfr. A. Biscioni, Dello Sbarba Arnaldo, in Dizionario biografico degli italiani Treccani, 1990, https://www.treccani.it/enciclopedia/arnaldo-dello-sbarba_(Dizionario-Biografico).
Gran parte delle sue carte sono conservate nel Fondo A. Dello Sbarba nell’archivio della Biblioteca Guarnacci di Volterra (d’ora in poi BGVolterra/FAdS), Cfr. E. Dello Sbarba e S. Trovato, Inventario dell’archivio di Arnaldo Dello Sbarba, «Rassegna volterrana», a. 90, 2013. Per questo articolo sono stati esaminati inoltre archivi privati ancora inediti, custoditi dalla famiglia (d’ora in poi APAdS), l’Archivio di Stato di Pisa, la Biblioteca Capitolare dell’Arcidiocesi di Pisa, la SMSBiblio di Pisa, la Biblioteca delle Oblate e l’Archivio di Stato di Firenze. Un piccolo “fondo Dello Sbarba” è anche presso l’Archivio centrale dello Stato.
(2) Sulle elezioni del 6 aprile 1924 Cfr. R. De Felice, La legge elettorale maggioritaria e le elezioni politiche del 1924, in Mussolini il fascista, 1. La conquista del potere 1921-1925, Torino, Einaudi, 1966. Sulla situazione in Toscana in quel periodo si v. A. Giaconi, La fascistissima: il fascismo in Toscana dalla marcia alla “notte di San Bartolomeo”, Foligno, Il formichiere, 2019.
(3) Cesare Rossi (1887-1967), sindacalista rivoluzionario, interventista, giornalista con Mussolini al «Popolo d’Italia», co-fondatore dei Fasci nel marzo 1919. Mussolini lo incaricò di organizzare la “Ceka fascista” che rapì e uccise Matteotti. Accusato del delitto, in un memoriale indicò Mussolini come mandante. Fu prosciolto in istruttoria. Scappò in Francia, ma fu arrestato nel 1928 e condannato dal Tribunale speciale a diversi anni di carcere e confino. Nel 1947 al nuovo processo Matteotti – in cui chiamò a deporre in suo favore anche Arnaldo Dello Sbarba – venne assolto per insufficienza di prove. Cfr. M. Canali, Cesare Rossi da rivoluzionario a eminenza grigia del fascismo, Il Mulino, Bologna, 1991; M. Franzinelli, Matteotti e Mussolini, Milano, A. Mondadori, 2024.
(4) Cfr. P. Nello, Liberalismo, democrazia e fascismo. Il caso di Pisa, 1919-1925, Pisa, Giardini, 1995. La responsabilità delle vecchie élite dominanti nello sviluppo del fascismo (sottovalutazione o condivisione?) è un nodo storiografico fondamentale, oggi particolarmente attuale. Le élite politiche formatesi in epoca liberale stentarono a comprendere la natura del fascismo e che sarebbe diventato il loro “rottamatore”. Ma furono proprio le vecchie classi dirigenti a contribuire a creare, ciascuna corrente a modo suo, il clima favorevole al fascismo e a sostenerlo. Molti liberali lo tennero addirittura a battesimo. Giovani liberali furono tra i fondatori del fascio di Pisa e mantennero a lungo la doppia militanza. Furono originariamente liberali diversi fascisti di spicco qui citati, come Piero Ginori Conti, Costanzo Ciano, o lo stesso Filippo Morghen. C’era poi la composita galassia dei “democratici” (“democrazia massonica” inclusa) che si era candidata nel 1919 nell’”Unione democratica” e nel 1921 nel “Blocco Nazionale”, sempre con capolista Arnaldo Dello Sbarba. La loro convinta campagna interventista per la guerra come compimento del Risorgimento e rigeneratrice dei popoli incontrò il dannunzianesimo prima e il fascismo poi. A Pisa, dove l’interventismo attingeva al mito di Curtatone e Montanara, il fascismo partì da una generazione di studenti-combattenti motivati da una parte del vecchio corpo docente a combattere il “nemico interno” dei neutralisti, degli anti-nazionali, dei socialisti.
Tra gli interventisti democratici, inoltre, i social-riformisti finirono per sottomettere la lotta di classe agli “interessi della Nazione”, tanto più che nei mesi della neutralità italiana il Partito socialista riformista, cui apparteneva Arnaldo Dello Sbarba, puntellò al potere un liberale di destra come Salandra, già orientato all’intervento e sabotatore dei negoziati con l’Austria. Questo composito “radicalismo nazionale”, intriso di polemica antigiolittiana, antisistema e soprattutto antisocialista, pervase buona parte dell’intellighenzia italiana e nel dopoguerra accompagnò consapevolmente l’ascesa del fascismo, condividendone i valori e spesso anche le azioni.
(5) Bruno Santini, nato a Carrara nel 1895, studente di giurisprudenza a Pisa, capitano degli alpini, avvocato. Alla guida della componente ex combattentistica, animata da toni anti-borghesi, diventa segretario del Fascio di Pisa nel dicembre 1920 e guida gli assalti alla sinistra, ai sindacati, alle leghe rosse, ai sindaci socialisti. Entrerà in conflitto col segretario federale Filippo Morghen e dopo alterne vicende verrà espulso e costretto ad lasciare Pisa nel 1925. Cfr. M. Canali, Il dissidentismo fascista, Pisa e il caso Santini, 1923-1925, Roma, Bonacci, 1983.
(6) Filippo Morghen nasce a Castellina Marittima nel 1882 da una famiglia di incisori e acquafortisti (il nonno Raffaello era al servizio del granduca Ferdinando III). Laureato in giurisprudenza a Pisa, è combattente, avvocato e possidente. Da Filippo Morghen Arnaldo Dello Sbarba aveva acquistato in società col fratello Bruno la cava di alabastro del Marmolajo di Castellina Marittima, dove sindaco era proprio quel Carlo Conti che fu amico, segretario e consigliere di Arnaldo (vedi nota 6). In APAdS sono conservati gli atti di compra-vendita della cava e il relativo carteggio.
(7) Sul “dissidentismo” pisano e il conflitto Santini-Morghen è bene non fermarsi alla semplice dicotomia “normalizzatori contro intransigenti”. C’è infatti da chiedersi quanto di “ideale” ci fosse nei conflitti tra fascisti per i quali, dopo la marcia su Roma, si erano spalancate le porte del potere assoluto. Il controllo del partito consentiva loro di occupare importanti posizioni e ottenere consistenti arricchimenti personali. Più forte del confronto sulle idee, era dunque la lotta per accaparrarsi i rilevanti vantaggi derivanti da un movimento che stava trasformandosi in regime. Vedi i già citati lavori di P. Nello e M. Canali, oltre a M. Mazzoni, Livorno all’ombra del fascio, Firenze, L.S. Olschki, 2009.
(8) Sull’aut aut di Morghen Cfr. il «Messaggero Toscano», 29 febbraio 1924.
(9) Carlo Conti (1879-1943), più volte sindaco di Castellina Marittima ‒ suo feudo politico ‒, amico, segretario particolare e ascoltatissimo consigliere di Arnaldo Dello Sbarba, è stato poeta e giornalista per diverse testate, tra cui: «La nuova Italia», da lui fondato, «La Nazione», «Il Telegrafo», «Il Giornale d’Italia», «Il Ponte di Pisa», «Camicia nera», il giornale della corrente di Santini, di cui era amico. Collaboratore della casa editrice Nistri-Lischi, repubblicano filodemocratico e massone, tentò senza successo di riunificare in un’unica formazione le varie anime della “democrazia massonica” pisana. Nell’aprile 1923 inaugurò il suo terzo mandato da sindaco con un discorso di entusiastico sostegno al governo Mussolini. Cfr. In memoria di Carlo Conti, Lallo, a cura dei giornalisti pisani, Pisa, V. Lischi e figli, 1963, e Discorso di Carlo Conti pronunciato per l’insediamento dell’amministrazione comunale di Castellina Marittima il 20 aprile 1923, Pisa, Nistri-Lischi, 1923, ristampato da Tagete, Pontedera, 2005.
(10) Lettera di Carlo Conti a Bruno Dello Sbarba, fratello minore di Arnaldo, del 24 dicembre 1923 in APAdS.
(11) Giuseppe Della Gherardesca (1876-1968), Conte Palatino, Nobile dei Conti di Donoratico, Patrizio fiorentino, di Pisa e di Volterra, Nobile di Sardegna. Esponente di spicco dell’aristocrazia agraria e del fascismo toscano, dominatore della zona di Castagneto Carducci e Bolgheri. Podestà di Firenze dal 1928 al 1933, Senatore del Regno dal 1929 al 1943, carica da cui decadde nel 1945 in seguito all’epurazione antifascista.
(12) A Quarto il 5 maggio 1915, per il 55° anniversario della spedizione dei Mille, Gabriele D’Annunzio pronunciò, davanti a oltre ventimila persone, un’“orazione” per invocare l’intervento nella guerra contro l’Austria-Ungheria, che ebbe una forte eco e segnò la definitiva egemonia nazionalista sul movimento interventista, agli inizi spinto dall’“interventismo democratico” di personaggi come Leonida Bissolati, compagno di partito di Arnaldo Dello Sbarba.
(13) Lettera di Arnaldo Dello Sbarba a Cesare Rossi del 10 novembre 1923, in BGVolterra/FAdS, Carteggio, b. 4. I documenti citati di seguito, salvo diversa indicazione, si intendono provenienti da questo archivio, stessa posizione.
(14) Arnaldo Fratini (1895-1973) è stato la memoria storica del socialismo a Volterra. Alabastraio, entrato giovanissimo nel PSI, dal 1919 ne fu più volte segretario e consigliere comunale e fu perseguitato dal fascismo. Cfr. A. Fratini, Appunti per una storia del socialismo volterrano, «Volterra», dal n. 9 (set. 1969) al n. 11 (nov. 1970).
(15) «Il Martello» venne fondato il 6 ottobre 1894 dal ventunenne Arnaldo Dello Sbarba con Giulio Topi (nel 1920 primo sindaco socialista di Volterra) sull’onda delle lotte contro il governo Crispi. Il giornale dovette chiudere il 13 settembre 1895 avendo collezionato tre processi in 12 mesi.
(16) Cfr. D. Benvenuti, Le cravatte nere, storie degli anarchici a Volterra, Volterra, Distillerie, 2009.
(17) L’appoggio alla conquista della Libia comportò l’espulsione dal PSI (con una mozione promossa da Benito Mussolini) della corrente riformista di Bissolati e Bonomi di cui faceva parte anche Arnaldo Dello Sbarba. Cfr. M. Degl’Innocenti, Il socialismo italiano e la guerra di Libia, Roma, Editori riuniti, 1976, anche I. Bonomi, Dal socialismo al fascismo, Milano, Garzanti, 1946.
(18) Cfr. Canali, Il dissidentismo fascista…, cit., p. 55.
(19) Athos Gastone Banti (1881-1959), giornalista “spadaccino” (molte sue polemiche finivano in duello) fu amico e sostenitore di Arnaldo Dello Sbarba. Redattore capo del «Telegrafo», corrispondente di guerra per il «Giornale d’Italia», dal 1919 al «Nuovo Giornale» di Firenze, organo ufficioso degli ambienti massonici, la cui sede venne data alle fiamme nel 1924 dai fascisti. In seguito Banti torna al «Giornale d’Italia», ma finisce nei guai con Mussolini per un articolo sul caffè bevuto dal Duce in tempi d’autarchia. Nel dopoguerra fonda e dirige «Il Tirreno» di Livorno fino al 1957. Filippo Filippelli (1890-1961), fascista della prima ora, giornalista dal 1920 al «Popolo d’Italia», nel 1922 diventa segretario di Arnaldo Mussolini, fratello del Duce. Nell’aprile 1923 è azionista, amministratore delegato e direttore del «Corriere Italiano», creato dai vertici fascisti con fondi messi a disposizione da gruppi industriali come Ansaldo, Eridania, Ilva, Fiat ecc. Il giornale funzionava anche come collettore di finanziamenti occulti gestiti da Arnaldo Mussolini per il fascismo e per la stessa famiglia Mussolini. Filippelli fornì a Amerigo Dumini (per il «Corriere italiano» ispettore delle vendite) la Lancia con cui Matteotti venne rapito ed ucciso. Ricercato, rivelò in un memoriale l’esistenza della “Ceka del Viminale”, comandata da Dumini. Venne arrestato il 17 giugno 1924 e due giorni dopo il giornale cessò le pubblicazioni. A proposito di fondi, nell’archivio Arnaldo Dello Sbarba (BGVolterra/FAdS, carteggio, b. 4) esistono le lettere indirizzate ad Arnaldo, firmate dal direttore dello stabilimento Solvay di Rosignano, che accompagnano quattro assegni di £ 5.000 ciascuno emessi dalla Solvay a favore dei due giornalisti: due intestati a Filippelli datati 22 febbraio e 27 marzo 1924, due intestati a Banti datati 14 aprile e 7 maggio 1924. Arnaldo fa da intermediario tra la Solvay e i beneficiari.
(20) Piero Ginori Conti (1865-1939), Principe di Trevignano, conte palatino, nobile romano, patrizio di Firenze e di Pisa e nobile di Livorno. Parlamentare dal 1900 al 1921. Sposa Adriana del Larderel e ne eredita le proprietà. Alla guida della Società Boracifera Larderello, inventa lo sfruttamento della geotermia per produrre elettricità. Crea il primo fascio fuori dalla città di Pisa e stronca così lo sciopero del 1920 alla Boracifera, imponendo l’eliminazione di molti diritti, licenziamenti di massa e successivamente l’obbligo di iscrizione al PNF per i dipendenti. Sostenitore di Mussolini, alla sua morte il fascismo lo celebra con funerali di Stato. Cfr. il volume apologetico di R. Martinelli, Il fascismo a Larderello, Firenze, Sansoni, 1934. Inoltre, M. Fontani e M. G. Costa, Come la chimica Toscana si prostrò di fronte al fascismo: il caso di Piero Ginori Conti, https://chimicanellascuola.it/index.php/cns/article/view/chimica-toscana-fascismo-il-caso-piero-ginori-conti/65
(21) Promemoria Carlo Conti, due pagine scritte a mano: “Chiedere chi, a proposito di sindaci rossi, aiutò il Comune di Cascina a liberarsi del famigerato sindaco Guelfi, insistendo presso l’autorità governativa e giudiziaria perché promuovessero un’inchiesta amministrativa contabile prima, la procedura penale poi? Il prefetto Malinverno dirà che tutta questa opera fu compiuta dall’onorevole Dello Sbarba (…)”. Su Giulio Guelfi (1888-1939) Cfr. Massimiliano Bacchiet, “Guelfi Giulio” in ToscanaNovecento: https://www.bfscollezionidigitali.org/entita/16235-guelfi-giulio?i=12. Renato Malinverno fu prefetto filofascista di Pisa dal 1° settembre 1921 al 14 aprile 1924.
(22) Promemoria Fagioli: sette pagine scritte a mano intestate Camera dei Deputati. “Si venne alle elezioni del 1921 e Dello Sbarba fu accolto come capo del Blocco Nazionale (…). In quell’occasione corse tutta la circoscrizione, parlando patriotticamente ed esaltando le nuove correnti del fascismo (…). A Volterra, dove nel 1919 i bolscevichi avevano proibito a Dello Sbarba l’entrata, egli fu ricevuto trionfalmente da cortei capitanati dai fascisti Pedani, Maffei ecc. (…)”. Paolo Pedani era ispettore della zona di Volterra, Gherardo Maffei segretario del fascio di Volterra e commerciante di alabastro. Nel 1924 entrambi furono protagonisti della campagna contro la candidatura Dello Sbarba.
(23) Il commando fascista che uccise Carlo Cammeo era composto dallo studente Elio Meucci, da Mary Rosselli-Nissim, figlia di un patriota mazziniano e fanatica attivista interventista durante la Prima guerra mondiale, e da Giulia Lupetti, figlia del comandante del presidio militare di Pisa. Cfr. Massimiliano Bacchiet, Un’ora di dolore per il proletariato pisano, in ToscanaNovecento: https://www.toscananovecento.it/custom_type/unora-di-dolore-per-il-proletariato-pisano/
(24) Il 21 luglio 1921, Sarzana fu attaccata da una colonna di circa 500 squadristi comandati da Amerigo Dumini, ma stavolta furono affrontati da Carabinieri e Guardie regie, cui seguì la resistenza antifascista spontanea della popolazione e degli Arditi del Popolo. Fu uno dei pochi episodi di resistenza armata ai fascisti, che ebbero diversi morti e feriti e molti arrestati.
(25) Tito Menichetti, giovane fascista ex ufficiale, fu ucciso il 25 marzo 1921 durante una spedizione punitiva a Ponte a Moriano e celebrato come il “primo martire” del fascismo pisano. I Fasci organizzarono i suoi solenni funerali cui parteciparono tutte le istituzioni. L’Università accolse il feretro in Sapienza con la partecipazione del senato accademico oltre che del Rettore Ermanno Pinzani, che poi, sugli studenti universitari fascisti caduti nel 1921, così scrisse : Nell’anno scolastico testé decorso (…) quei martiri (…) hanno offerto la loro vita giovanile, preziosa e piena di entusiasmi in olocausto ai santi ideali di patria, giustizia e libertà”. Cfr. E. Pinzani, Inaugurazione degli studi. Relazione del Rettore, «Annuario della R. Università di Pisa per l’Anno Accademico 1921/1922», Pisa, Tip. Mariotti, 1922, p. 24.
(26) Nel corteo che attraversa “una città imbandierata”, Arnaldo Dello Sbarba è in prima fila insieme al sindaco Buffarini Guidi, al prefetto Malinverno, al senatore Supino e al deputato Ruschi. Cfr. «Messaggero toscano», 29 ottobre 1923.
(27) Cfr. «Messaggero Toscano», 21 febbraio 1924.
(28) Dario Lischi “Darioski” (1891-1938), giornalista, colonna dell’«Idea fascista», organo della federazione fascista pisana, del cui consiglio federale fu più volte membro, autore di numerosi libri, tra cui La marcia su Roma con la colonna Lamarmora (1923), Viaggio di un cronista fascista in Cirenaica (1934) e Tripolitania Felix (1937). Cfr. P. Nello, Liberalismo, democrazia e fascismo…, cit., p. 136.
(29) “Medoro” nomignolo dato dai pisani a Filippo Morghen a causa delle sue traversie coniugali. Ispirato alle vicende di Angelica nell’Orlando Furioso.
(30) Sandro Carosi (1899-1965), uomo di fiducia di Morghen, era farmacista e sindaco di Vecchiano, definito dal prefetto Malinverno «uno squilibrato per temperamento violento». Tra gli altri, uccide a freddo il tipografo Ugo Rindi l’8 aprile del 1924. Ebbe il compito di minacciare ripetutamente Arnaldo Dello Sbarba. Giuseppe Biscioni, “ras” di Calci, partecipò all’assassinio Rindi. Daniele De Guidi era il “ras” di Rosignano Marittimo. Lamberto Parenti era squadrista a Cascina e Navacchio. Francesco Giunta (1887-1971), segretario del PNF dal 1923 al 1924 e parlamentare dal 1921 al 1943, fu il persecutore della minoranza slovena di Trieste. Nel 1945 la Jugoslavia lo dichiarò criminale di guerra, ma l’Italia non concesse l’estradizione.
(31) L’ordine del giorno dei sindaci e la lettera del sindaco di Collesalvetti viene spedita da Carlo Conti ad Arnaldo il 19 febbraio 1924.
(32) Guido Buffarini Guidi (1895-1945), laureato in Giurisprudenza, volontario nella Prima guerra mondiale, massone nella loggia Darwin di Pisa. Avvocato e sindaco fascista di Pisa dove fu anche podestà e federale, membro del Gran consiglio del fascismo, sottosegretario agli interni (1933-1943), fu ministro dell’Interno nella Repubblica Sociale Italiana e corresponsabile dell’eccidio delle Fosse Ardeatine. Venne fucilato dai partigiani il 10 luglio 1945.
(33) Lando Ferretti (1895-1977), combattente di due guerre, capo-corso alla scuola Normale di Pisa, deputato fascista dal 1924 al 1939. Dirigente sportivo, in era fascista fu presidente del CONI e commissario della Federazione italiana gioco calcio. Nel 1942 tenne una conferenza a Firenze nel 1942 indicando “il comune nemico nel trinomio giudaismo, plutocrazia, bolscevismo” e proponendo la ghettizzazione degli ebrei. Nel dopoguerra fu a lungo senatore del MSI (1953-1968) e membro del comitato organizzatore delle olimpiadi di Roma del 1960.
(34) Cfr «Il Messaggero Toscano» del 21 febbraio 1924.
(35) Mario Supino (1879-1938), avvocato, collega e amico di Arnaldo, già dirigente dell’Associazione nazionale combattenti di Pisa, per conto della massoneria si candidò alle elezioni politiche del 1924 nella lista democratico sociale, con scarso successo. Augusto Mancini (1875-1957) fu docente di filologia all’università di Pisa. Interventista, deputato repubblicano dal 1913 al 1924. Primo presidente del CLN di Lucca e primo rettore dell’università di Pisa liberamente eletto.
(36) Guido Donegani (1877-1947) fu presidente della società Montecatini, deputato del partito fascista dal 1921 al 1939, massone. Nel 1921 era stato eletto con Arnaldo Dello Sbarba nella lista dei “Blocchi Nazionali”. Gino Sarrocchi (1870-1950), deputato della destra liberale dal 1913 al 1929, ministro ai Lavori pubblici del primo governo Mussolini, si dimise dopo il delitto Matteotti. Nel 1929 fu nominato senatore. Dopo il 25 luglio 1943 si ritirò a vita privata. Gino Aldi Mai (1877-1940) eletto deputato a Siena in una lista agraria-liberale che poi confluisce nel PNF, rieletto dal 1924 al 1934, poi nominato senatore.
(37) APAdS, minuta a mano di 15 pagine in piccolo formato intestate “Camera dei Deputati”.
(38) In APAdS.
(39) Cfr. «La Nazione» del 17 giugno 1924, che cita indiscrezioni su possibili nomi.
(40) Cfr. R. De Felice, Mussolini il fascista, 1. La conquista del potere 1921-1925, cit., cap. 7: Dal delitto Matteotti al discorso del 3 gennaio.
(41) Cfr. M. Canali, Il dissidentismo fascista…, cit., pp. 80-83.
(42) Lettera del 26 agosto 1925, in APAdS.

Riccardo Dello Sbarba
Volterra, 1954. Laureato in filosofia a Pisa, docente di ruolo, giornalista professionista. Fin da giovanissimo partecipa ai movimenti degli studenti medi e universitari, milita nel gruppo del “Manifesto” di Pisa e scrive corrispondenze per il quotidiano. Dal 1986 al 1988 è nominato dalla Regione Toscana nel CdA del Parco di S. Rossore. Collabora con «Il Tirreno». Nel 1988 si trasferisce a Bolzano, dove lavora al quotidiano «Alto Adige» fino al 1992, al settimanale in lingua tedesca «ff» fino al 2001 e dirige il quotidiano «Il Mattino» fino al 2003. Cura il volume: Alexander Langer, Scritti sul Sudtirolo – Aufsätze zu Südtirol, Merano, A&B, 1996 ed è autore di: Südtirol-Italia: Il calicanto di Magnago e altre storie, Trento, Il Margine, 2003. Per quattro legislature, dal 2004 al 2023, è consigliere per i Verdi del Sudtirolo nel Consiglio provinciale di Bolzano, di cui è stato presidente dal 2006 al 2008. Collabora alla Biblioteca F. Serantini su temi inerenti la storia politica e sociale della provincia di Pisa.




Resistenza e Liberamuratoria

Nei primi mesi del 1954, Carlo Ludovico Ragghianti pubblicava il libro Una lotta nel suo corso [1], una raccolta ragionata di carte e documenti interni al Partito d’Azione, con la quale si proponeva di far luce sul contributo dato alla Resistenza dalla formazione politica azionista [2]. Il critico lucchese intendeva ovviare un ridimensionamento di alcune delle componenti resistenziali che più avevano sostenuto logisticamente e materialmente la lotta di liberazione, andando a rimarcarne i meriti e a definire i contorni di alcuni dei suoi protagonisti meno conosciuti. In tal contesto, alcune pagine della pubblicazione si soffermarono su un «industriale pratese, generosa tempra d’uomo e nobile patriotta, precocemente defunto»[3]: Adon Toccafondi. Ragghianti ne descrisse l’impegno per la Resistenza a Prato e a Firenze, ne chiarì la collaborazione con il CTLN e lo ricordò tra i primi amministratori dei mesi successivi alla liberazione regionale. Sindaco di Vernio, paese dell’Alta Valle del Bisenzio, Toccafondi si distinse per il suo impegno tanto nella cosa pubblica quanto nel tessuto associativo provinciale. Di estrazione democratica e repubblicana, antifascista di lungo corso, Adon fu iscritto alla Massoneria di Palazzo Giustiniani e, in questa veste, seppe dar nuova vita alla loggia “Giuseppe Mazzoni” di Prato, la prima ad essersi opposta al fascismo nel 1922. In tale veste, egli si configuròcome l’elemento particolare di passaggi oggi in parte dimenticati ma ben presenti nelle dinamiche resistenziali, quali i rapporti e la comunanza di valori tra Liberamuratoria e Resistenza, che non a caso conobbero alcune interessanti traiettorie, di cui Francesco Fausto Nitti e il repubblicano Menotti Riccioli furono tra gli esempi più conosciuti. In questa prospettiva deve essere letta la riscoperta di una figura quale quella di Adon Toccafondi partigiano, massone, primo sindaco della Vernio liberata. Massoneria e Resistenza, Lotta contro la dittatura e ricerca della Vera Luce si incontrano e si intrecciano in questa figura di partigiano che sempre si operò per il bene comune. Una figura in buona parte persa nelle nebbie della storia, il cui studio biografico sembra tutt’altro che un esercizio privo di valore.

Chi era dunque Adon Toccafondi? Adon Toccafondi nacque a San Quirico di Vernio, nell’alta Valle del Bisenzio, il 13 settembre 1902 da Alberto Lorenzo, ex carabiniere a cavallo e gestore di una cava di materiale edilizio e da Oliva Marchi [4]. Attraverso l’impresa del padre, la famiglia era in contatto con i noti industriali della vallata, Lemmo Romei e Angelo Peyron e fu molto probabilmente grazie a questo legame che il giovane Adon fu portato a studiare presso l’allora Regia Scuola delle Arti Tessili e Tintorie ovvero l’odierno Istituto Tullio Buzzi. Fu nel clima interventista dell’istituto che Toccafondi ebbe a sviluppare: da una parte una solida conoscenza della chimica tintoria; dall’altra, secondo le idee dello stesso direttore Tullio Buzzi, un patriottismo con intense sfumature repubblicane. Un patriottismo che, tuttavia, non sfociò mai nel becero nazionalismo ma che assunse tutta la caratura morale della democrazia, della concezione mazziniana dell’emancipazione del popolo. Caratteristiche queste di cui Toccafondi ebbe a dare prova in almeno tre ambiti: nella lotta contro il fascismo, nell’amministrazione della cosa pubblica (del comune) nell’opera interna all’Obbedienza.
Licenziato in chimica nell’ottobre 1920, egli ebbe ben presto a scontrarsi con la violenza squadrista [5]. Il caso avvenne nella vallata bisentina dei primi anni Venti, laddove le rivolte annonarie del 1919furono parallele a una ripresa dei lavori per la Direttissima Prato-Bologna. Nel contesto dell’alta valle, il cosiddetto “biennio rosso” si piegava nella prospettiva degli scioperi nei cantieri per le scarse retribuzioni e nella temporanea paralisi dei lavori nell’inverno 1920-1921. Posto che, in vallata, i prodromi del fascismo si manifestarono sin dall’estate del 1920, la reazione squadrista alle iniziative operaie si concretò a partire dal 17 aprile 1921, quando la prima vera spedizione in territorio pratese e bisentino causò due morti e numerose violenze. A Vernio e nell’intera Valle del Bisenzio, l’azione fascista proseguì senza soluzione di continuità e, già nel luglio successivo, la giunta socialista di San Quirico fu costretta a dimettersi sotto le pressioni delle camicie nere. Fu in tal contesto che il fascismo bisentino si interessò anche di Toccafondi. Le sue profonde convinzioni repubblicane lo resero un bersaglio per lo squadrismo verniotto. Nel giugno 1921, gli squadristi lo affrontarono in pubblico e gli strapparono il distintivo riportante l’effige di Mazzini. Un fatto identico si ripeté nel successivo settembre, nel contesto della repressione fascista contro lo sciopero tessile decretato in opposizione della riduzione dei salari.
Non sembra allora casuale che, pochissimi mesi dopo, egli trovasse lavoro nelle industrie del Nord Italia, prima a Monza, poi a Sesto San Giovanni, poi ancora sul Lago di Como (dove ebbe a instaurare una propria impresa) e, infine, nel Bergamasco, a Caravaggio. Ma non si trattò solo di un progresso professionale. Il Nord Italia portò anche a una sua maturazione personale e morale. Durante la sua permanenza in Lombardia ebbe a sposarsi ed a metter su famiglia. Ma, soprattutto, fu in Lombardia che Toccafondi entrò in maniera attiva nel movimento antifascista clandestino di Giustizia e Libertà, grazie al repubblicano Arnaldo Guerrini e a Carlo Ludovico Ragghianti.
Manifesto del Comune di Vernio 1 novembre 1944La Lombardia fu insomma la premessa alla lotta resistenziale. Tornato alla fine degli anni Trenta in Toscana fu grazie a Toccafondi che nel 1940 fu possibile riallacciare dei rapporti tra i gruppi socialisti e repubblicani tra Firenze e Prato. Lo stesso Ragghianti ebbe a ricordare l’“intemerato repubblicano” Toccafondi come uno dei protagonisti della locale Resistenza [6]. Adon fu tra i presenti al congresso di formazione del Partito d’Azione fiorentino e fu in contatto con tutti i suoi principali dirigenti. Assunto il nome di battaglia di “Leonardo”, egli dette un importante contributo alla stampa clandestina per la quale procurò sia macchinari, sia i materiali per la pubblicazione del periodico azionista «La Libertà». Come ugualmente ebbe rilevanza la sua collaborazione con radio Co Ra, la Commissione Radio guidata da Enrico Bocci, il cui ruolo di comunicazione con le forze alleate fece assumere all’attività di Adon contorni più marcati [7]. In particolare, il suo ruolo di collegamento assunse rilievo a margine della comunicazione tra il gruppo di Bocci e gli Anglo-americani, per l’invio da parte di questi ultimi di rifornimenti e munizioni. Fu il partigiano “Leonardo” che svolse il ruolo di collegamento tra il campo di ricezione degli aviolanci, nel Pratese, nei pressi di Montemurlo e il gruppo fiorentino. Per altro, la tragica fine della radio Co.Ra. gruppo Bocci, scoperta pochi giorni dopo la realizzazione del primo dei lanci di materiale e uomini, rischiò di colpire anche Adon. Toccafondi scampò di poco alla cattura tedesca grazie alla segnalazione di Vincenzo Cangioli, suo conoscente e datore di lavoro del fratello.
Il ruolo svolto da lui svolto all’interno della Commissione Radio rimandava all’importanza della sua figura nell’organizzazione della Resistenza nel Pratese. Almeno due sono i meriti da segnalare. Anzitutto, Adon Toccafondi fu il principale responsabile del reclutamento di personaggi chiave della Resistenza a Prato quali Mario Martini, il capo militare delle truppe partigiane, e l’intero gruppo dirigente del Partito d’Azione (Roberto Cecchi, Rodolfo Corsi, il prof. Salinari, Cesare Grassi…). Ma soprattutto, Toccafondi fu l’ufficiale partigiano di collegamento tra il CLN di Prato e il CTLN posto a Firenze. Quando, dopo i tragici fatti di Figline, Prato fu liberata, fu Toccafondi assieme a pochi altri a guidare le truppe alleate e partigiane nei territori del circondario. Di sicuro furono lui, il dott. Mensurati e Franco Calcagnini (entrambi appartenenti come Toccafondi al Partito d’Azione) ad entrare per primi a Vernio.
Il paese di Vernio fu il secondo contesto in cui si ravvide l’impegno di Toccafondi per la democrazia e la libertà. Qui egli fu nominato sindaco con l’accordo di tutte le forze del CLN locale su indicazione delle autorità refgionali. Egli si impegnò per la ricostruzione di un paese devastato che ebbe anche ad affrontare tragedie personali come il crollo della galleria di Saletto. Durante i lavori di ripristino della viabilità ferroviaria sulla linea Firenze-Prato-Bologna, all’imbocco della galleria di Saletto, un improvviso crollo travolse una cinquantina di operaie e operai provocando 32 vittime [8]. Adon si pose in contatto sin dal giorno successivo alla tragedia con il CTLN e il CLN di Prato per organizzare una raccolta fondi in memoria delle vittime, la quale produsse 25.000 lire, che il Comune impiegò in parte a saldo dei funerali. Ma egli ebbe anche meriti più generali. Sotto la sua amministrazione fu approntato un piano di recupero e di ricostruzione, fu garantito l’approvvigionamento alle popolazioni colpite dalla guerra, fu approntata la ricostruzione materiale delle strade e degli edifici, nonché del locale acquedotto. Lasciò l’incarico nel luglio 1945, ma a tutt’oggi la testimonianza di Carlo Rossi, tra i suoi successori, lo descrivono come «un uomo di valore» [9]. Di sicuro, nella sua qualità di amministratore, le carte archivistiche lo restituiscono come un uomo della collaborazione che seppe relazionarsi con tutte le forze politiche. Ed ancora oggi riluce una lettera del comunista Carlo Ferri in cui è definito il suo impegno per la Vallata come «impagabile» [10]. Del resto, «chiamato a più alto incarico» [11], Toccafondi fu posto sin dall’inizio del 1946 alla direzione provinciale della United Nation Relief and Rehabilitation Admnistration (UNRRA), l’organismo alleato rivolto al sostegno della locale Ricostruzione.
Adon Toccafondi inizio anni QuarantaMa Toccafondi fu anche appartenente alla massoneria e, in questa veste, espresse una volta in più la sua tenuta morale. Affiliato dal 1944 presso la loggia Michelangiolo di Firenze, si impegnò per il risveglio di quella che a livello nazionale fu la prima istituzione liberomuratoria ad essersi pronunciata pubblicamente contro il fascismo: la loggia “Giuseppe Mazzoni” di Prato. Adon riprese i contatti con antichi appartenenti come Amedeo Strobino e Nazzareno Cecconi e di concerto con il venerabile della Michelangiolo, Anton Giulio Magheri e con l’oratore, Menotti Riccioli, diede vita a un primo triangolo pratese da essa dipendente. Dalle carte d’archivio ben emerge come il triangolo dovesse evolvere in un’officina ispirata dai «principi che avevano informato la gloriosa Giuseppe Mazzoni» [12]. All’inizio del 1947, lo stesso Riccioli si aggiunse ad altri quattro fratelli Spartaco Turi, Italo Baragli, Salvatore Bucca, Cesare Conti per risvegliare la loggia Mazzoni. Una loggia che dalle biografie dei suoi stessi appartenenti assume un carattere intimamente antifascista e incardinato sui valori della democrazia e della libertà. Qui basti ricordare la lunga militanza di Menotti Riccioli nell’antifascismo repubblicano e aggiungere tra i primi aderenti all’officina pratese (successivi ai fondatori) Rodolfo Corsi, vicepresidente del locale CLN.
Di li a poco Adon sarebbe mancato in un terribile incidente stradale. Ma di lui sarebbe rimasto il ricordo che Menotti Riccioli ebbe a fare del suo «instancabile impegno» [13]. Toccafondi fu un personaggio che in ogni suo spunto biografico lottò per i valori di libertà, unità e democrazia. La commemorazione accorata fattane tanto in pubblico, «in una piazza San Marco completamente piena di gente» [14] quanto nei lavori di loggia vale a chiarirne «le sue nobilissime qualità»: «onestà, sincerità, immenso amore per la Famiglia, per la Patria, per l’umanità – poteva esser letto nei verbali dell’Obbedienza – ispiravano la sua vita pratica» [15], facendo di Adon «uno di quei vivi focolai d’umanità che tengono in alto i valori dello spirito».

Volendo far rimanere agile la lettura, si informa che laddove non indicato diversamente in nota, i riferimenti al testo sono ripresi da A. Giaconi, La vera luce della democrazia. Adon Toccafondi, antifascista, partigiano, massone, Firenze, Pontecorboli, 2022.

Note al testo:

[1] Una lotta nel suo corso. Lettere e documenti politici e militari della Resistenza e della Liberazione, a cura di L. Ragghianti Collobi e S. Contini Bonacossi, Venezia, Neri Pozza, 1954.

[2] Cfr. A. Becherucci, Le delusioni della speranza. Carlo Ludovico Ragghianti militante di un’Italia nuova, Milano, Biblion, 2021, pp. 154-155, 165-166.

[3] Una lotta nel suo corso, cit., p. 354.

[4] Comune di Vernio, Ufficio di Stato Civile, Registro degli atti di nascita, a. 1902, atto n. 186.

[5] Per i seguenti dati sul fascismo pratese e bisentino, cfr. A. Bicci, Prato 1918-1922. Nascita e avvento del fascismo, Prato, Medicea Firenze, 2014, pp. 120 e ss..

[6] C.L. Ragghianti, Disegno della Liberazione italiana, Pisa, Nistri Lischi, 1962, p. 307

[7] Sul ruolo e sulla vicenda della Co.Ra. gruppo Bocci, cfr. G. La Rocca, La “Radio Cora” di piazza D’Azeglio e le altre due stazioni radio, Firenze, Tip. Giuntina, 1985. Per un’efficace sintesi cfr. F. Fusi, Il servizio Radio CO.RA. e il suo contributo alla lotta di Liberazione, in «Toscana Novecento. Portale di Storia Contemporanea», https://www.toscananovecento.it/custom_type/il-servizio-radio-co-ra-e-il-suo-contributo-alla-lotta-di-liberazione/, ult. consultazione 14-11-2022.

[8] Cfr. La Direttissima ferita. La ferrovia Firenze-Bologna, 1944-1946, Vaiano, CDSE della val di Bisenzio, 2009, pp. 48-69.

[9] Testimonianza di Carlo Rossi, partigiano comunista e già sindaco di Vernio dal 1964 al 1983, del 24 aprile 2019.

[10] Istituto Storico Toscano della Resistenza e dell’Età Contemporanea, CLN di Prato, b. 5, f. 4, appunto di Carlo Ferri presidente del sottocomitato di Vaiano, novembre 1944.

[11] Testimonianza di Carlo Rossi, cit.

[12] Archivio Storico della Loggia “Meoni e Mazzoni”, Verbali della tenuta di primo grado, seduta del 2 febbraio 1947.

[13] Ivi, 15 gennaio 1948.

[14] Testimonianza di Carla Ignesti Toccafondi, figlia di Adon, il 28 novembre 2019.

[15] Archivio Storico della Loggia “Meoni e Mazzoni”, Verbali della tenuta di primo grado, seduta del 22 novembre 1947.

 




Il cardinale Maffi e il fascismo

Quello tra chiesa cattolica e fascismo è un rapporto complesso, che non può essere ridotto a mera strumentalizzazione reciproca, volta al rafforzamento del consenso e alla soluzione della «questione romana». Come ha spiegato Giovanni Miccoli, si trattò di «un’alleanza e un accordo non meramente tattici ma più intimi e sostanziali», basati su «consonanze essenziali» (il culto di valori come ordine, gerarchia, disciplina, autorità, obbedienza) e «nemici comuni» (su tutti, liberalismo e comunismo). Il dato appare con particolare chiarezza nel caso pisano, caratterizzato da una serie di elementi di particolare rilievo: la violenza estrema dello squadrismo, dilaniato da faide intestine e animato da personaggi brutali come Alessandro Carosi; la forza delle sinistre e in particolare del movimento anarchico, che vantava una lunga tradizione di militanza in città; e, non in ultimo, la presenza del cardinale Pietro Maffi, protagonista della vita intra- ed extra-ecclesiale della prima metà del Novecento italiano.

Nato a Corteolona (Pavia) nel 1858, Maffi fu nominato arcivescovo di Pisa nel 1903. Divenuto cardinale nel 1907, promosse lo sviluppo del movimento cattolico e instaurò rapporti cordiali con i Savoia, approfittando della prossimità della residenza reale di San Rossore. Ciò aumentò grandemente il suo prestigio in seno all’episcopato, al punto da sfiorare l’elezione al conclave del 1914. Durante la Prima guerra mondiale Maffi divenne il simbolo dell’unione tra fede e patria nell’Italia grigioverde, esortando i pisani all’obbedienza e contribuendo a contenere il malcontento attraverso iniziative di carattere assistenziale come la ricerca di informazioni sui militari dispersi o prigionieri negli Imperi centrali.

La ripresa della conflittualità politica e sociale dopo la fine del conflitto lo indusse a lanciare un appello alla pacificazione, auspicando un ritorno alla società cristiana; ciò detto, basta sfogliare «Il Messaggero toscano» – il quotidiano da lui fondato nel 1913 – per rendersi conto che, agli occhi del cardinale, il pericolo maggiore era costituito dal socialismo ateo. Non a caso, quando furono i cattolici a subire attacchi e intimidazioni da parte delle camicie nere Maffi tenne un profilo generalmente basso, cercando di calmare gli animi e di trovare un terreno d’intesa con l’aggressore nella celebrazione della memoria “eroica” dei caduti della Prima guerra mondiale: così accadde nel novembre 1921, durante la cerimonia per il Milite ignoto, e nel maggio 1924, con l’inaugurazione del monumento ai caduti nel cortile della Sapienza. I fascisti, però, volevano restare gli unici padroni della scena pubblica e nel gennaio 1925 distrussero la tipografia che stampava i fogli cattolici distribuiti a Pisa, Lucca, Livorno, Pontremoli e La Spezia. Il danno considerevole spinse Maffi a mutare registro, indirizzando prima un telegramma di protesta al ministro dell’Interno («Vescovo ne ho pianto, italiano ne ho arrossito»), poi una lettera pastorale ai pisani. Dedicata al quinto comandamento, essa conteneva frasi durissime contro chi si era macchiato di omicidio nei recenti scontri politici: «Guai alla mano che gronda sangue! Guai ai piedi che urtano in un cadavere! Oh, la dinastia di Caino! Continua puro; ma lo senta che, dove mancano gli uomini, Dio arriva, Dio che ai colpevoli non dà tregua e incessante li persegue e sopra di loro grida e sentenzia: Maledetto, maledetto! Maledetto nel tempo! Maledetto nell’eternità! Maledictus eris!».

Pietro_Maffi_cardinaleDavanti al pericolo di perdere il sostegno di uno dei membri più illustri dell’episcopato, le cose iniziarono a mutare. Complici la fine della faida tra Bruno Santini e Filippo Morghen e l’ascesa di Guido Buffarini Guidi, l’atmosfera andò rasserenandosi e le relazioni tra Chiesa e fascismo entrarono in nuova fase. Nel maggio 1926, lo stesso Mussolini venne in città per assistere all’inaugurazione del restaurato pergamo di Giovanni Pisano nella cattedrale e si lasciò fotografare al fianco del cardinale, quasi a proclamare alla cittadinanza la ritrovata armonia tra le due autorità. L’evento fu un brutto colpo per i fascisti più ostili a Maffi, che dovettero rassegnarsi. Negli anni successivi, nessun incidente turbò i rapporti tra cattolici e camicie nere, che celebrarono insieme la memoria “eroica” del 1915-1918. Ad esempio, nel novembre 1928 il decennale della vittoria fu celebrato in duomo all’insegna della continuità tra guerra mondiale e fascismo: Buffarini lesse il bollettino della vittoria, l’ex cappellano militare Ezio Barbieri celebrò la messa e Maffi benedisse il tumulo imbandierato e circondato da soldati e fascisti; tutti intonarono infine la Marcia reale, l’Inno del Piave e Giovinezza.

Come si vede, alla vigilia della conciliazione il cardinale non esitò a legittimare il regime che si voleva erede di Vittorio Veneto; il culto dei caduti, tuttavia, fu solo l’aspetto più evidente di una convergenza profonda che, come attesta il bollettino diocesano, si manifestò nell’approvazione delle misure varate dal governo per l’incremento della natalità, del numero delle questure sul territorio e, soprattutto, della produzione cerealicola, funzionale al ritorno alla vita “devota” dei campi.

Per quanto importanti, questi elementi impallidiscono di fronte a quello che, a buon diritto, può essere considerato il sogno di una vita: la conciliazione tra Stato e Chiesa del febbraio 1929, che segnò la fine dell’annosa «questione romana» e il culmine della parabola politico-religiosa di Maffi. Pur non avendo avuto parte attiva nei negoziati, egli volle manifestare la propria soddisfazione con tre lettere di ringraziamento dirette al papa Pio XI, al re Vittorio Emanuele III e al dittatore che «con mano sicura e forte» teneva le redini del Paese. Non si trattava di sentimenti affettati: nel comunicare la notizia al clero diocesano, infatti, il presule annunciò con toni trionfali la fine della vecchia Italia dominata da «massoneria, liberalismo, scuole atee e corruzione».

Gli ultimi anni furono ricchi di soddisfazioni per Maffi, chiamato a Roma nel gennaio 1930 per celebrare il matrimonio tra il principe ereditario Umberto e Maria José del Belgio a Roma. Nella circostanza, egli fu insignito del collare dell’Annunziata, che gli dava il titolo di cugino del re.

La morte lo colse nel marzo 1931, mentre la crisi tra regime e Azione cattolica entrava nella fase più acuta. A riprova delle tensioni mai del tutto sopite, il necrologio de «L’Idea fascista» (organo del fascio pisano) precisò che, al di là dei meriti innegabili acquisiti nel corso della sua carriera, lo scomparso non aveva compreso né apprezzato fin da subito l’importanza del fascismo. I detrattori, però, dovettero mordere il freno davanti alla solennità dei funerali che, oltre alla partecipazione di undici vescovi e del maresciallo d’Italia Guglielmo Pecori Giraldi, ebbero l’adesione del re, del segretario di Stato vaticano Eugenio Pacelli e di Mussolini. Quest’ultimo plaudì in un telegramma all’«illustre cardinale Maffi che durante vita operosa seppe armonizzare religione, patria, scienza» e si fece rappresentare al rito dal sottosegretario di Stato al ministero di Giustizia e affari di culto Giuseppe Morelli. La resa dei conti, però, era solo rimandata. Ancora in ottobre, quando la tempesta sembrava ormai alle spalle, «L’Idea fascista» tornò ad accusare lo scomparso di antifascismo.

La presenza di una figura del calibro di Maffi, decisamente inusuale per una diocesi periferica e dalle dimensioni modeste come quella pisana, contribuì a dare agli eventi locali una risonanza notevole non solo nella penisola ma anche all’estero, facendo della Pisa degli anni Venti una sorta di osservatorio da cui scrutare i punti di forza e le criticità della politica ecclesiastica del fascismo. Soprattutto, la vicenda di Maffi evidenzia un dato cruciale. A dispetto di divergenze, tensioni, moniti, incidenti e intimidazioni, i responsabili ecclesiastici non smisero mai di cercare o, dopo il 1929, di difendere la conciliazione. Le leggi razziali causarono certamente un raffreddamento dei rapporti tra le due autorità, anche perché violavano le disposizioni concordatarie in materia di matrimonio; ciò detto, furono soltanto le sconfitte inanellate dall’esercito nel corso della Seconda guerra mondiale a segnare il distacco definitivo della Chiesa da un regime entrato ormai nella sua fase terminale.




Bagni di Casciana 1922: Gino Bonicoli, morte di un mezzadro

Morire a diciott’anni con una pallottola in testa. Per un fiore rosso portato con orgoglio all’occhiello. O per aver fischiettato Bandiera Rossa passeggiando per le strade del paese.

Piccoli gesti – apparentemente innocui – mossi dagli ideali, che si riveleranno fatali per Gino, perché considerati un affronto da coloro che stanno dalla parte opposta della barricata, resa ogni giorno più forte dall’arroganza che sfocia in violenza, dalla prepotenza che spazza via la ragione, lasciando sul campo una scia infinita di sangue. Date lontane un secolo, luoghi così vicini, scene maledettamente simili. Tanti nomi che oggi rischiano di ridursi a semplici elementi della toponomastica, legati a una via o a una piazza. Persone che hanno pagato con la vita il loro desiderio di libertà, per sé e per gli altri, finendo calpestati dallo squadrismo fascista. Quello di Gino Bonicoli, mezzadro ucciso per la sua fede comunista, non fu soltanto il frutto dell’esaltazione di un gruppetto di ragazzi, che se la presero con un coetaneo. Non fu solo la fredda esecuzione di un giovane che si ribellava alle nuove regole che si facevano strada seminando distruzione e violenza, sopraffazione. Esaltazione accompagnata dal tentativo di annientamento degli avversari politici.

Il libro “Gino Bonicoli. Morte di un mezzadro. Bagni di Casciana, 1° giugno 1922” (Tagete Edizioni, 2015), di Francesco Turchi, giornalista del Tirreno e scrittore per passione, ha l’obiettivo di ripercorrere una vicenda che rischiava di essere cancellata nella Memoria della comunità locale e non solo. L’autore ha ricostruito la vicenda attraverso i documenti originali del tempo, raccolti negli archivi anche al di fuori dei confini regionali; verbali di consigli e giunte, informative prefettizie, sentenze. Ma anche articoli di giornale dell’epoca.

Quell’omicidio per essere compreso va inserito nel contesto storico nel quale maturò. Con un’Italia in ginocchio per le conseguenze della prima guerra mondiale.  Ed è qui che si inserisce il lavoro di Francesco Biasci, autore di una introduzione che prende il lettore per mano e lo porta indietro nel tempo, in un quadro ben definito sul piano economico, sociale e politico.

L’Italia del primo dopoguerra è un paese lacerato, fatto di padroni e di servi che rivendicavano condizioni di vita migliori. In questo contesto, i fascisti, in un crescendo di violenza, prendono possesso dei paesi, fino a dominarli, soffocando qualsiasi opposizione. Minacciando, picchiando. Uccidendo. In tutta la provincia di Pisa come nel resto d’Italia. Con una frequenza terribile. Marzo 1921: a Barca di Noce viene ucciso Enrico Ciampi, fondatore della prima sezione comunista del Pisano. Il 13 aprile la stessa sorte tocca al maestro Carlo Cammeo, direttore del giornale socialista “L’Ora Nostra”, freddato nel cortile della scuola dove insegna a Pisa. Il 17 agosto viene ucciso Silvio Rossi, segretario comunale della giunta di sinistra a Palaia; un mese dopo vengono assassinati a Cascina i socialisti pontederesi Paris Profeti e Guido Bellucci. E ancora, nella primavera successiva, Alvaro Fantozzi, segretario della Camera del lavoro di Pontedera, socialista, assessore, viene ammazzato a Casteldelbosco mentre sta andando a Marti a una riunione sindacale. Il fuoco riduce in cenere sedi di partito e sindacati, i manganelli fanno il resto. E quando non bastano, entrano in scena le armi da fuoco.

Succede anche la sera del 1° giugno 1922 a Bagni di Casciana. Cinque mesi prima della marcia su Roma, Gino è vittima di un agguato mentre sta tornando a casa, nella campagna di Fichino. Non gli sono bastati avvertimenti e ultimatum. Continua a portare quel garofano rosso all’occhiello, ignorando le minacce. L’ha fatto anche la mattina stessa e poi la sera, “sorpreso” in un caffè quando invece gli era stato ordinato di starsene a casa. Nello Menicacagli, mugnaio di 21 anni e i due braccianti di poco più giovani, Alfredo Falchetti e Pietro Fabbri lo affrontano con una pistola. Menicagli spara, Gino muore. E morirà una seconda volta, poco tempo dopo, in un’aula di tribunale, quando al termine di un processo-farsa, gli imputati difesi dall’avvocato Guido Buffarini Guidi (sindaco di Pisa e poi podestà tra il 1923 e il 1933, futuro ministro della Repubblica sociale di Mussolini), ottengono l’assoluzione: «Hanno agito per legittima difesa», minacciati da Bonicoli. Che in realtà non ha mai avuto una pistola in vita sua, tanto meno quella sera maledetta. Ucciso due volte, umiliato una terza. Perché i suoi genitori fecero scrivere sulla lapide “vilmente assassinato mentre rincasava“. Nessun riferimento esplicito a mandanti (la cui esistenza non può essere esclusa ma non è mai stata provata) o esecutori. Ma tanto bastò per “invitare” i familiari a rimuoverla. Mamma Anna Maria, non obbedì, ma ordinò al marmista di girare la lapide. Per capovolgerla di nuovo e iniziare a riscrivere la verità, serviranno ventitré anni.

il cippo in memoria di G. BonicoliDopo la Liberazione e la fine dell’occupazione tedesca, i cascianesi rendono omaggio a Gino e poco dopo la Corte di Cassazione cancella il processo del 1922. Dodici mesi più tardi, il 19 giugno 1946 la Corte d’Assise di Pisa ristabilisce la verità su tutta la vicenda, condannando Alfredo Falchetti, l’unico rimasto in vita dei tre che tesero l’agguato a Bonicoli.

Ricordato, in questi giorni, nel centenario della sua morte,  con una serie di iniziative promosse dall’Amministrazione Comunale di Casciana Terme Lari, dalla sezione “Gino Bonicoli” dell’ANPI Valdera Colline, dal Circolo ARCI di Casciana Terme “Il proletario”, con la speranza che la Memoria non cancelli il suo sacrificio per la libertà.

Sono intervenuti alla commemorazione istituzionale di sabato 28 maggio il Sindaco di Casciana Terme Lari Mirko Terreni, il presidente nazionale Anpi Gianfranco Pagliarulo, Ivan Mencacci presidente della sezione Anpi Valdera Colline “Gino Bonicoli”, il responsabile Memoria e Antifascismo Arci Toscana Stefano Carmassi, l’Assessora Regionale alla Cultura della Memoria Alessandra Nardini. Con la partecipazione e i contributi degli alunni della scuola media di Casciana Terme, accompagnati dalla Dirigente Scolastica Maria Rosaria Pizza.

Nel programma altre due  iniziative: il concerto del 1° giugno del Gruppo Musicale “La serpe d’oro”, e il 3 giugno una serata di musica e parole a cura di Guascone Teatro con la regia di Andrea Kaemmerle e la partecipazione del prof. Roberto Bianchi dell’Università di Firenze.




Cesare Lodovici direttore di «Alalà!» settimanale del Fascio carrarese di combattimento

La ricorrenza del centenario dei fatti di Sarzana è stata un’occasione importante per rileggere e fare il punto (si veda il convegno di studi Resistenza ante litteram. 1921-2021. A cent’anni dai “Fatti di Sarzana”, Sarzana, 16-17 luglio 2021) su un episodio significativo, quasi una momentanea battuta d’arresto, nell’ascesa e nell’affermazione del fascismo in Italia e in particolare nella zona di confine tra Liguria e Toscana dove – proprio a Sarzana – il movimento tardò a prendere piede. Episodio che gli squadristi si affrettarono a definire “eccidio” ma che fu piuttosto un’opposizione ferma delle forze dell’ordine intervenute in quell’occasione e di resistenza popolare, poi, di fronte all’ennesimo assedio che i fascisti tentarono sulla città, questa volta per liberare dal carcere Renato Ricci arrestato il 17 di quello stesso mese.
Tra le tante testimonianze che i giornali si affrettarono a pubblicare nei giorni successivi agli scontri, restava tuttavia parzialmente inedita una lunga e dettagliata cronaca dello scrittore Cesare Vico Lodovici (Carrara, 18 dicembre 1885 – Roma, 24 marzo 1968) e allo stesso modo restava quasi del tutto sconosciuta la sua partecipazione allo squadrismo apuano e all’azione del 21 luglio di cui è, appunto, testimone oculare.
Quasi del tutto perché già nel 1992 lo storico tedesco Roger Engelmann nel libro, mai tradotto in italiano, Provinzfaschismus in Italien. Politische Gewalt und Herrschaftsbildung in der Marmorregion Carrara 1921-1924 (R. Oldenbourg Verlag, Munchen, 1992) indica Lodovici tra i membri del Fascio di Combattimento di Carrara e caporedattore di «Alalà!», settimanale ad esso collegato, che lo scrittore dirige per poco più di due mesi tra il 30 luglio e l’8 ottobre 1921.
Ed è proprio sul numero di «Alalà!» del 30 luglio 1921 che esce il suo resoconto su Come si svolsero i fatti di Sarzana, (ripreso subito dopo da «L’intrepido: settimanale del Fascio di combattimento lucchese» del 14 agosto 1921) a quasi dieci giorni di distanza dagli scontri, sul numero 2 anno I del periodico dove il suo nome figura nell’ultima pagina in basso a destra, nel ruolo di direttore insieme con quello di Lodovico Canepa che ne è gerente responsabile, mentre sul numero precedente del 16 luglio 1921, che corrisponde dunque alla prima uscita del settimanale, il titolo di direttore era affidato al solo Canepa; ed è forse questo il motivo per cui nel regesto di Massimo Bertozzi, La stampa periodica in provincia di Massa Carrara, nella scheda sintetica su «Alalà!», Lodovici non è menzionato (Pacini, Pisa, 1979, pp. 170-171).
Eppure, come emerge dai suoi interventi, il ruolo dello scrittore all’interno del Fascio di combattimento di Carrara non deve essere stato affatto secondario, pur non avendo ricoperto particolari posizioni di comando; né può dirsi anonima l’impronta che la sua direzione imprime al giornale in questo brevissimo ma cruciale lasso di tempo.

Lodovici_La_donna_di_nessunoAllo stesso modo non è trascurabile il ruolo di Lodovici negli ambienti letterari e culturali di quel primissimo scorcio degli anni ‘20 soprattutto per l’eccezionalità delle relazioni che seppe intrecciare e la singolarità della sua scrittura teatrale grazie alla quale il suo nome è ancora citato nelle storie del teatro del Novecento. Amico di Pirandello, di Montale e di Gobetti (solo per citarne alcuni) seppe promuovere presso l’editore torinese, insieme con Sergio Solmi, la pubblicazione del volume degli Ossi di seppia, libro d’esordio di Montale, uscito nel 1925. Del resto Gobetti fu anche editore de L’idiota (1923), uno dei testi teatrali più conosciuti di Lodovici insieme con La donna di nessuno (1920). Infine, bisogna ricordare che ancora oggi è sua la traduzione più accreditata di tutto il Teatro di Shakespeare pubblicato da Einaudi (1965).
Forse a causa di una certa settorialità degli studi, dunque, o forse perché lo stesso Lodovici fin dal 1935, anno in cui si trasferisce a Roma per lavorare come consulente artistico presso l’Ispettorato del teatro, visse appartato con un’accettazione silente ma sofferta del regime fino a quando, nel secondo Dopoguerra, assunse l’incarico di critico teatrale per il quotidiano «La Giustizia», organo del Partito socialista democratico italiano.

La sua adesione al Fascio di combattimento di Carrara e al Partito fascista è comunque facilmente inquadrabile e presenta caratteristiche per certi versi comuni a quella di molti altri intellettuali dell’epoca: reduce dalla Prima guerra mondiale, nella quale aveva perso il fratello minore Vico e guadagnato due medaglie al valore dopo essere stato vittima dei gas asfissianti, nel 1917 Lodovici aveva scontato un anno di prigionia nel carcere di Theresienstadt, in Boemia; laureato in legge, ma scrittore e autore teatrale per vocazione, alle idee liberali univa un forte spirito antiborghese; a ciò si aggiunga, a chiudere il quadro, l’appartenenza a una famiglia di industriali del marmo che a Carrara, come molte altre e più potenti famiglie del comprensorio apuano, Lodovici_L'Idiotapartecipavano strategicamente alla vita politica cittadina aderendo all’una e all’altra organizzazione per mantenere inalterata la propria influenza intorno al tema cruciale del possesso degli agri marmiferi. Negli anni di cui ci stiamo occupando, la crisi politico-sociale del dopoguerra aveva infatti accentuato le aspirazioni delle masse popolari e dei cavatori verso la riappropriazione delle cave, anche in seguito alla proposta di legge mineraria presentata alla Camera dall’on. Eugenio Chiesa il 22 marzo del 1920.
A Carrara il sindaco Edgardo Lami Starnuti non seguì la politica del Ministro, anch’esso repubblicano, e la lotta politica per il possesso delle cave passò nelle mani della Camera del Lavoro di cui in quegli anni era segretario Alberto Meschi. Quest’ultimo, in una Lettera aperta a Benito Mussolini individuava negli esponenti delle famiglie proprietarie degli agri marmiferi i sostenitori e gli aderenti allo squadrismo: Ghino Faggioni e Gualtiero Betti fra tutti e poi quelli che ruotano intorno a questo sistema socio-politico: i Corsi, i Giorgi, i Lodovici, gli Ascoli, i Salvini, i Gattini, i Dell’amico, tutti nomi di famiglie già presenti e poi elette nel Direttivo del Partito liberale a partire dal maggio del 1921.

Ritratto di Lodovici

Ritratto di Lodovici

A gennaio di questo stesso anno, anche Renato Ricci era rientrato in città da Fiume e, iscritto inizialmente al fascio di Pisa, dopo aver fondato l’Associazione dei Reduci fiumani, esordisce nella politica locale all’interno della già menzionata Associazione Democratica Liberale Carrarese che si stava organizzando, appunto, in vista delle elezioni politiche indette per il 15 maggio, dopo lo scioglimento della Camera voluto da Giolitti a fine febbraio. Oltre a Ricci, il «Giornale di Carrara» del 9 aprile 1921, organo di stampa del partito, indica nel nuovo consiglio direttivo liberale anche Tommaso Lodovici, fratello maggiore dello scrittore, poi eletto nel Consiglio comunale presieduto dal sindaco repubblicano Lami Starnuti.
Le elezioni politiche passeranno però in secondo piano dopo che lo stesso Ricci, il 12 maggio di quell’anno, fonda a Carrara la sezione locale dei Fasci di combattimento in cui confluiscono sia gli ex-legionari fiumani sia alcuni membri dell’appena rinnovato Partito liberale.
Nei mesi successivi i giornali locali iniziano il racconto degli scontri e delle violenze che da quel momento in poi furono all’ordine del giorno, così come gli atti provocatori e le vendette che lo squadrismo locale organizzò nel territorio apuano contro socialisti e anarchici e, all’inizio dell’anno successivo, all’interno dello stesso movimento fascista provocando la fine dell’alleanza tra liberali e repubblicani e la conseguente caduta dell’amministrazione Lami Starnuti a gennaio del 1922: a questo punto la spaccatura tra squadristi intransigenti e normalizzatori fu insanabile.
Lodovici appartiene chiaramente alla seconda delle due, all’ala moderata del partito come si deduce dai suoi interventi sulle colonne di «Alalà!»: favorevole ai Patti di pacificazione, egli conferma più volte la sua posizione statalista e pubblica accorati appelli alla disciplina in cui chiede con forza la fine della violenza.
La sua fiducia nel capo, anche dopo le dimissioni di Mussolini, non verrà mai meno – almeno in questo periodo – ed egli tenta più volte di riportare all’unità le divergenze interne al movimento, per cui fu uno dei sostenitori della necessità di trasformare il movimento dei Fasci di combattimento in un vero partito politico, cosa che accadrà a Roma il successivo 8 novembre.
L’azione politica del nuovo partito dovrà basarsi, secondo Lodovici, su un programma di rinnovamento civile e sociale a partire dalla questione che, più di ogni altra a Carrara, aveva scatenato gli scontri tra fascisti, socialisti e anarchici: il controllo degli agri marmiferi e il commercio del marmo che non potevano essere separati dal controllo della Camera del Lavoro. Ai primi di settembre, infatti, i fascisti annunciano la costituzione della Camera Carrarese dei Sindacati Economici invitando gli operai ad associarsi e a ritirare le tessere.
Lo scontro allora fu inevitabile: alcuni industriali iniziarono ad esigere la tessera fascista e a licenziare chi, invece, continuava ad avere quella della Camera del Lavoro. Nel mese di settembre la violenza, mai veramente cessata, diventò di nuovo lo strumento principale della politica fascista e fu diretta ancora più apertamente contro i rappresentanti del sindacato.

Lodovici in auto [1923]

Lodovici in auto [1923]

Ad ottobre Renato Ricci concedeva ad Alberto Meschi due ore di tempo per lasciare la città e sgomberare l’edificio in cui aveva sede la Camera del Lavoro.
A questo punto Lodovici pubblica su «Alalà!» ancora un paio di articoli: il 20 settembre partecipa alla manifestazione per la Solenne Consegna del Gagliardetto al Fascio Carrarese di Combattimento e prende la parola con Ricci, Faggioni e Dino Perrone Compagni per ricordare i termini della lotta tra il Sindacato e la Camera del lavoro.
Sarà uno dei suoi ultimi contributi perché l’8 ottobre del 1921 pubblica il suo Congedo in una lettera in cui saluta Renato Ricci, defilandosi così dall’esperienza squadrista e dalla direzione del giornale.
Sul numero successivo, del 15 ottobre 1921, Lodovici non è più indicato come direttore del settimanale, la grafica del periodico è completamente cambiata e l’unico gerente responsabile è di nuovo Lodovico Canepa. Anzi il 29 ottobre, quando Lodovici interviene con un ultimo articolo, una nota della direzione precisa che quell’articolo non impegna alcun fascista a dover condividere tutte le idee esposte.
Nel 1923 Lodovici tentò ancora una volta, ma senza successo, di riconciliare le due correnti del fascismo carrarese quando Ricci si scontrò con il nuovo sindaco di Carrara, Bernardo Pocherra, costringendo alle dimissioni lui e l’ala liberal-conservatrice del partito.
Probabilmente, già a questa altezza cronologica, la fiducia che Lodovici poteva ancora riporre in una possibile svolta liberale del fascismo doveva essere minima e ciò spiega in qualche modo sia la solidarietà e l’amicizia dimostrata a Piero Gobetti sia il suo impegno nella direzione del «Quindicinale», rivista da lui fondata a Milano nel 1926 con Enrico Somarè, che non fu certamente su posizioni filo-fasciste.
È significativa, in questo senso, una lettera da Viareggio del 9 giugno 1923 in cui Lodovici esprime a Gobetti la sua solidarietà: «Ho sentito le sue disavventure; in parola d’onore io non capisco più il mondo – come quel legnaiolo di Hebbel nella Maria Maddalena. Ma: passerà. Io sono convinto che il liberalismo illuminato sarà l’erede del fascismo
Il 19 luglio del 1930 è ancora di Lodovici la firma in calce alla Vibrante e commossa rievocazione dei fatti di Sarzana pubblicata su «Il popolo apuano», organo della federazione provinciale fascista, per commemorare i morti del 21 luglio; ma già nell’autunno del ‘21, quando si congedava da Ricci, Lodovici doveva aver compreso che il liberalismo illuminato sarebbe arrivato probabilmente solo dopo la fine del fascismo.

Le foto pubblicate in questo articolo sono del prof. Gualtiero Magnani di Carrara, che ringraziamo per la gentile concessione. Ogni altro uso, condivisione con terzi e riproduzione non sono consentite.




Cantini e Ferrari: comunisti internazionalisti livornesi.

Quarta parte della rassegna di profili biografici di militanti comunisti internazionalisti di Livorno e provincia, i quali contribuirono alla fondazione del Partito Comunista d’Italia, sezione della IIIª Internazionale, avvenuta a Livorno nel gennaio 1921.

CANTINI  Astarotte (Bruno Baroni)

(Livorno 30.5.1903 – URSS settembre 1938?)

Cantini (1)Nato a Livorno nel 1903, da Milziade e Natalina Parenti, di professione è operaio-manovale. Il fratello Alessandro, classe 1907, è militante comunista. Già nell’immediato primo dopoguerra inizia la sua attività politica come militante rivoluzionario nelle fila del movimento anarchico e nel 1921, in qualità di anarchico convinto e di azione, come recitano i rapporti di polizia entra negli Arditi del Popolo partecipando a scontri di piazza contro i fascisti livornesi tra il 1921 e il 1922. Viene arrestato una prima volta, insieme ad altri tre anarchici livornesi (Virgilio Fabbrucci, Bruno Guerri e Ilio Scali, i cosiddetti bombardieri di via degli Avvalorati) nel giugno del 1922 per fabbricazione e detenzione di materiale esplosivo, da usare contro le squadre fasciste livornesi comandate dal tenente Marcello Vaccari e per questo condannato a due anni e sei mesi di reclusione. Dopo aver scontato 13 mesi esce per amnistia nel 1923 e viene sottoposto a stretta vigilanza di polizia sino al settembre del 1924; successivamente svolge il servizio militare nella Regia Marina. Nel luglio 1926 è sottoscrittore del giornale anarchico Fede! e sempre in quel periodo emigra in Francia probabilmente sotto il falso nome di Bruno Baroni. Nel settembre 1926 fa parte di una delegazione operaia che visita l’Unione Sovietica, dove soggiorna per tre mesi, per poi rientrare in Francia. L’anno successivo si trasferisce a Esch-sur-Alzette, in Lussemburgo, dove continua la sua attività politica, redigendo e diffondendo giornali e altri stampati anarchici. Scrive più volte ai militanti anarchici Bruno Guerri e Athos Ricci per avere notizie delle situazione economica e politica di Livorno, da pubblicare eventualmente nella stampa anarchica. Nel 1928 viene espulso dal Lussemburgo insieme ad altri anarchici pericolosissimi (Adone Franchi, Luigi Sofrà e Giuseppe Morini) e si trasferisce in Belgio ma pochi mesi dopo ritorna in Francia, a Pavillons-sous-Bois e a Livry Gargan. Qui nel 1929 viene avvicinato da Natale Vasco Jacoponi, anch’egli livornese, militante del P.C.d’I. e passa dalla militanza  anarchica a quella comunista. In questa fase della sua vita politica, il Cantini diffonde a Marsiglia materiale del Komintern e tra le altre attività nel 1929 invia a Livorno, tramite posta clandestina, una copia del giornale Fronte Antifascista a Menotti Gasparri, suo amico sin dall’infanzia, nonché militante comunista livornese (che cadrà  in Spagna nel 1936), insieme a quattro talloncini in cui si invitano i lavoratori livornesi a lottare per l’aumento salariale del 20%  (nel 1929 il salario medio operaio  era diminuito drasticamente a causa della politica economica del regime fascista).  Costantemente vigilato dall’OVRA che lo classifica ancora come dirigente antifascista e come anarchico-attentatore, il Cantini nel 1931 o 1933 si trasferisce in Unione Sovietica, probabilmente utilizzando ancora lo pseudonimo di Bruno Baroni, grazie al quale riesce a trarre in inganno l’OVRA e a far perdere le sue tracce per qualche anno. Nel giugno 1933 infatti invia alla madre una falsa lettera proveniente da Le Havre, nella Francia settentrionale, nella quale le annuncia che dovrà lasciare  la Francia “per ragioni di lavoro”, nel tentativo riuscito di depistare l’OVRA che solo nel l’aprile 1935 sarà certa della sua presenza in Unione Sovietica. In Urss viene inviato dal Partito Comunista, ormai stalinizzato nel suo corpo dirigente, a studiare a Mosca alla MLS, la Scuola leninista. Terminati gli studi presso la scuola di partito, viene ulteriormente inviato come istruttore del Club Internazionale dei Marinai a Tuaspe, nel Kraj (territorio) di Krasnodar, nella Russia meridionale e successivamente a Voroscilovgrad, attuale Lugansk (Luhans’k), nell’Ucraina orientale, dove probabilmente lavora in una fabbrica di dirigibili, almeno fino al 1935 e dove nel 1937 ha dalla moglie Zina (detta Lina), cittadina sovietica, un figlio di nome Gino. Nell’aprile 1936, in una lettera alla madre, menziona un altro comunista italiano transfuga in Urss, Decio Tamberi, il quale deluso dal regime staliniano, gli confessa che vorrebbe rimpatriare in Italia perché non riesce ad adattarsi alla vita sovietica.  Negli ultimi anni della sua vita il Cantini rimane a Voroscilovgrad  (Ucraina), da dove esprime, nel giugno 1937, il proprio dispiacere per la morte in combattimento, sul fronte di Madrid, dell’amico Menotti Gasparri, comunista livornese già esule in Unione Sovietica e da dove scrive alla madre: “…quanto a me, mia moglie e Gino, siamo in ottima salute e speriamo che Gino cresca bene, così un bel giorno lo potrai vedere ed abbracciare. Mia moglie si trova in ferie per ancora due mesi dopo il parto con paga completa, e più 95 rubli per la nascita di Gino. La nostra vita è buona in tutto e per tutto, non si pensa al domani… ”. Già inviso alla dirigenza e ai quadri staliniani del Pci a partire dal 1935 a causa di alcune critiche che il Cantini aveva espresso in passato nei confronti della politica di Togliatti e di Stalin, per essere ideologicamente anarchico, non abbastanza disciplinato (secondo quanto conservato nella documentazione sovietica) e per aver frequentato elementi ritenuti vicino al trotskismo, tra il maggio e il giugno 1938 viene arrestato nella città di Voroscilovgrad con la falsa accusa di spionaggio e il 25 settembre dello stesso è condannato ad una pena imprecisata da una trojka del NKVD. Non vi è certezza sulla sua sorte, tuttavia possiamo affermare che il Cantini è stato probabilmente fucilato nell’immediato e sepolto in una fossa comune, insieme a centinaia di trotskisti. Riabilitato nel luglio 1956, nella cosiddetta fase di destalinizzazione, avviata dal segretario generale del PCUS Nikita Chruscev, il suo nome tuttavia resta dimenticato dal P.C. livornese, a causa della sua morte da antistalinista.

FONTI ARCHIVISTICHE E DOCUMENTARIE

Archivio Centrale dello Stato, Ministero dell’Interno, Casellario politico centrale, ad nomen; Comune di Livorno, Archivio di Stato Civile; Biblioteca Franco Serantini, collezioni digitali, dizionario biografico degli anarchici italiani, ad nomen; Memorial, Italiani in Urss, schede biografiche, ad nomen; Associazione Nazionale Perseguitati Politici Italiani Antifascisti (Anppia), Antifascisti nel casellario politico centrale, Quaderni i-xix, Anppia, Roma 1988-1995, ad nomen.

FERRARI  Fernando

(Livorno 19.7.1900- Livorno 28.5.1943)

Nato a Livorno nel 1900 da Girolamo ed Elisabetta Di Rosa, di professione è facchino portuale, successivamente venditore ambulante, in ultimo operaio al cantiere Odero-Terni-Orlando. Segnalato inizialmente come anarchico, agli inizi degli Anni Venti si evidenzia per la sua attività antifascista. Nel dicembre 1922 viene condannato dalla Corte d’Appello di Lucca a 3 anni 10 mesi e 20 giorni di reclusione per aver sparato ad un fascista ferendolo,  nel corso degli avvenimenti sanguinosi che in quegli anni videro contrapporre le squadracce e i “sovversivi” nella città di Livorno. Amnistiato nell’ottobre del 1923, emigra per un certo periodo in Francia, per poi rientrare in Italia. Si avvicina quindi al Pcd’I divenendo probabilmente militante in quegli anni. Nel marzo 1930 viene fermato e subisce una perquisizione domiciliare nel corso della quale viene rinvenuto un pugnale, che gli viene sequestrato e per ciò viene condannato, il 1 giugno di quell’anno, ad una ammenda di L. 100 per omessa denuncia.  Nel dicembre 1930 è invece arrestato insieme ad altri dirigenti del Partito Comunista livornese in una vasta operazione di polizia mirante a smantellare l’organizzazione territoriale clandestina del Pcd’I: il Ferrari è ritenuto essere capo della cellula del rione Borgo San Iacopo, dove risiede, nonché comandante della squadra d’azione (servizio di sicurezza) del settore di Piazza Mazzini. Dalle carte d’archivio si apprende che tra il 1929 e il 1930 si era effettivamente ricostituita a Livorno l’organizzazione comunista clandestina, che risultava divisa in due settori: Barriera Garibaldi (Livorno Nord) e Piazza Mazzini (Livorno Sud). Ogni settore a sua volta era diviso in diverse cellule che variavano di numero in base ai quartieri e ai luoghi di lavoro e ogni dirigente aveva dei compiti prestabiliti. Il settore Sud, quello di Piazza Mazzini, diretto da Arturo Silvano Scotto aveva tra fiduciari: Oreste Baldi, per la stampa e la diffusione nei quartieri e nei luoghi di lavoro; Rosolino Pelagatti per il Soccorso Rosso e Fernando Ferrari per il servizio sicurezza, chiamata squadra d’azione. Al momento dell’arresto gli viene sequestrata anche una somma pari a lire 230 a lui versata dagli altri capi cellula, frutto di una raccolta fondi, per l’acquisto di armi. In effetti Ferrari si sarebbe dovuto occupare dell’acquisto in quei giorni di una sessantina di rivoltelle ed altre armi, cosa che sfumò a causa dell’arresto. Deferito al Tribunale Speciale per la Difesa dello Stato il 24 dicembre 1930, viene condannato nel maggio successivo a quattro anni di reclusione, tre anni di vigilanza ed esclusione perpetua dai pubblici uffici per il reato di ricostituzione del Partito Comunista e per propaganda sovversiva, condanna che sconta nelle carceri di Roma e Civitavecchia. Scarcerato nel novembre 1932, in quanto beneficia dell’amnistia del “Decennale”, rientra a Livorno, dove viene costantemente vigilato. Fermato nel marzo 1933, insieme a moltissimi altri comunisti, in occasione dei funerali di Mario Camici e per l’esplosione notturna di due ordigni presso il Dopolavoro San Marco e la caserma della MVSN, viene rilasciato dopo pochi giorni. In un elenco del 1934 dove sono segnalati i nomi dei militanti del Partito comunista espulsi per attività controrivoluzionaria (elenco rinvenuto dalla Polizia politica fascista), risulta essere stato espulso dal Partito comunista non per aver inoltrato domanda di grazia, cosa che fece nel settembre 1931, ma per un non meglio precisato tradimento, forse perché probabilmente vicino alle posizione bordighiste o trotskiste. Dopo aver esercitato il mestiere di venditore ambulante, nel maggio 1937 viene assunto in qualità di operaio al cantiere navale Odero Terni Orlando, ma nell’ottobre dello stesso anno viene nuovamente arrestato per aver rifiutato di dare indicazioni sulla propria identità personale alle forze dell’ordine e condannato al pagamento di un’ammenda di L. 50. Nel gennaio 1938 viene scarcerato e riprende l’attività lavorativa presso il suddetto cantiere Orlando. Costantemente vigilato, in quanto ancora comunista, Ferrari muore a Livorno nel corso del bombardamento aereo alleato del 28 maggio 1943 che distrusse buona parte della città.

FONTI: Archivio Centrale dello Stato (Roma), Ministero dell’Interno, Direzione Generale di Pubblica Sicurezza, Divisione Affari Generali e Riservati, Casellario Politico Centrale, ad nomen; Comune di Livorno, Archivio di Stato Civile.




Dalla battaglia contro il riformismo alla lotta contro fascismo e stalinismo: comunisti internazionalisti livornesi.

Presentiamo, in questo come in articoli che seguiranno, alcuni profili biografici di militanti comunisti internazionalisti di Livorno e provincia, i quali contribuirono alla fondazione del Partito Comunista d’Italia, sezione della IIIª Internazionale, avvenuta a Livorno nel gennaio 1921.

Con ciò vogliamo non solo ricordare le basi politiche su cui il Partito Comunista nacque e cioè la rottura col PSI e le sue correnti (i massimalisti di Serrati e Lazzari e i riformisti di Turati, Treves e Modigliani), ma vogliamo offrire anche alcuni elementi di riflessione per non cadere nella vulgata di quella narrazione storica in base alla quale il PCI ha sempre rivendicato una sua continuità con la scissione di Livorno, fondando caso mai la sua specificità sugli svolgimenti politico-ideali seguiti all’assunzione della direzione del Partito da parte di Gramsci con il Congresso di Lione del 1926. Indubbiamente una discontinuità reale e profonda, che in quel congresso vede l’estromissione definitiva di gran parte di quel gruppo dirigente e di non pochi militanti che quel partito avevano fondato e guidato a partire dal 1921, per poi arrivare, tra il 1927 e il 1934 ad un graduale processo di espulsione degli stessi. Credo che sia d’obbligo qui ricordare in primis Amadeo Bordiga (1889-1970), colui che sino ad allora era considerato il leader de facto del partito e che nel PSI aveva raccolto attorno a sé già dal dicembre 1918 i militanti del gruppo napoletano de Il Soviet, contribuendo a fondare la Frazione Comunista Astensionista, vero motore della scissione comunista di Livorno. E come non ricordare Bruno Fortichiari (1892-1981), attorno al quale si era organizzata la sinistra socialista milanese durante il Biennio Rosso, divenuto successivamente responsabile del lavoro illegale del PCd’I (il cosiddetto Ufficio n. I) e dei rapporti con le altre formazioni che combattevano attivamente i fascisti sul campo (come gli anarchici e gli Arditi del Popolo). Esiste poi una seconda narrazione storica relativa alla nascita del PCd’I, ripresa dalla pubblicistica più disparata che vede nella scissione di Livorno una miopia politica manifestata dai comunisti, i quali uscendo dal PSI, avrebbero indebolito il fronte antifascista che si stava con fatica cercando di costruire. Tuttavia è d’uopo ricordare in sede storica che pochi mesi dopo la scissione di Livorno il Psi firmò un Patto di pacificazione con i fascisti (3 agosto 1921), che sicuramente ha indebolito il fronte antifascista nel mentre si andavano formando gli Arditi del Popolo, organizzazione nata per arginare le violenze delle squadre d’azione di Mussolini. Oltre a ciò è necessario dire che il 15 ottobre 1922, a tredici giorni dalla Marcia su Roma, il PSI subì una seconda scissione, questa volta da parte dei riformisti di Turati e Modigliani, che andranno a formare il Partito Socialista Unitario.

Per quel che concerne la storia della Sezione Livornese del Partito Comunista d’Italia, possiamo dire che essa venne fondata il 29 gennaio 1921 da un piccolo ma determinato nucleo di militanti che precedentemente avevano ricoperto dei ruoli dirigenziali all’interno del PSI, in primo luogo quei quattro consiglieri comunali eletti nelle file socialiste nel novembre 1920 che contribuirono a fondare la sezione comunista labronica: Gino Brilli, Ilio Barontini, Giuseppe Lenzi e Pietro Gigli. In particolare significativo è il ruolo politico di Giuseppe Lenzi che fu delegato livornese a Imola, dove si erano riuniti i rappresentanti della Frazione Comunista del PSI.

Alla sezione livornese aderirono immediatamente 255 militanti provenienti in modo quasi esclusivo dalle fila del Partito socialista, in particolare da quanti avevano già aderito alla Frazione Comunista Astensionista e alla Mozione di Imola; nel corso degli anni aderirono poi al PCd’I militanti provenienti dalla corrente cosiddetta terzinternazionalista del PSI (detta terzina, corrente facente capo a livello nazionale a Giacinto Menotti Serrati, già direttore dell’Avanti e a Fabrizio Maffi), come, nella città labronica, Athos Lisa, dirigente della locale Camera del Lavoro, oppure Alberto Mario Albanesi, solo per citare i più noti.

Una parte dei militanti livornesi provennero dall’anarchismo, soprattutto negli anni seguenti alla fondazione del Partito stesso, come ad esempio gli stessi Astarotte Cantini e Fernando Ferrari.  Altro contributo assai importante alla fondazione della sezione livornese del Partito giunse dai militanti della Federazione Giovanile Socialista, che quasi al completo passarono al nuovo PCd’I, con in testa Armando Gigli, Pietro Fontana e Angelo Giacomelli.

La caratteristica dei militanti comunisti di Livorno e provincia fu la sua componente di classe, quasi tutti di estrazione operaia, fatta eccezione per alcuni militanti, i quali copriranno un ruolo dirigenziale di primo piano, al contrario di estrazione borghese: Ilio Barontini, impiegato delle ferrovie, consigliere comunale nonché assessore aggiunto nella giunta socialista del sindaco Mondolfi, proveniente da una famiglia della piccola borghesia industriale (il padre possedeva la nota fabbrica di pipe Barontini); Anna Launaro e il suo compagno Ettore Quaglierini, entrambi figli della classe media labronica, appartenenti al ceto impiegatizio e intellettuale. Tutti costoro entreranno a far parte della componente dei funzionari a tempo pieno del Partito Comunista. A questi nomi va aggiunto quello di Ersilio Ambrogi, avvocato, deputato, sindaco di Cecina, appartenente ad una famiglia della media borghesia professionale di Castagneto Carducci. Tuttavia è necessario ricordare, in sede storica, che Cecina nel 1921 apparteneva alla provincia di Pisa e quindi Ersilio Ambrogi è stato un importante dirigente per la fondazione della sezione pisana del PCd’I. Egli comunque ebbe un ruolo importante durante l’autunno del 1920, insieme col fiorentino di origine svizzera professor Virgilio Verdaro, nella fase preparatoria precongressuale, ovvero nell’aspra campagna politica, svolta anche a Livorno nelle locali sezioni del PSI, a favore della Frazione Comunista e per l’espulsione della corrente riformista, capeggiata nel capoluogo labronico da Giuseppe Emanuele Modigliani. Quest’ultimo rispose di rimando a Ersilio Ambrogi, dicendo che non era il caso che il sindaco di Cecina venisse a Livorno a dettar legge e a cercare di subornare gli animi alla propria tendenza. In quel periodo vennero a Livorno a dar man forte ad Ambrogi anche Egidio Gennari e il fiorentino Filiberto Smorti. Quanto ad estrazione sociale, il resto dei militanti erano in gran parte operai metalmeccanici del Cantiere Navale Orlando o nelle fabbriche metallurgiche del comprensorio livornese; operai specializzati delle piccole e medie imprese site tutte nella zona di Livorno Nord, in particolar modo nel quartiere Torretta, detta la Manchester della Toscana (quindi tornitori, manovali, meccanici, falegnami, marmisti e vetrai); scaricatori portuali impiegati presso il porto di Livorno o lungo il sistema di canali che conducono ad esso (navicellai); marinai civili (fuochisti e mozzi); pescatori; ferrovieri e tranvieri ed infine commessi viaggiatori. Non mancava la componente proletaria agraria, fatta di braccianti e contadini, seppur di gran lunga minoritaria rispetto a quella operaia, concentrata nella zona settentrionale della città, nel quartiere oggi detto Fiorentina (dunque al di fuori della cinta daziaria), non distante da dove sorgevano i Mercati Generali, oppure nel Comune di Collesalvetti, la cui economia all’epoca era essenzialmente agraria. A ciò si aggiungono elementi della piccola borghesia commerciale e dei servizi: negozianti (pescivendoli e alimentari); ambulanti (frutta e verdura, prodotti caseari e vestiario) e infine parrucchieri. Stessa composizione si aveva nelle cittadine e nei paesi della provincia di Livorno, che fino al 1925 comprendeva solo la città di Livorno e l’Isola d’Elba, mentre successivamente dal novembre di quell’anno col Regio Decreto n. 2011/1925 verranno aggiunti il Comune di Collesalvetti, a nord di Livorno in direzione di Pisa, e i Comuni di Rosignano Marittimo, Cecina, Bibbona, Castagneto Carducci, Sassetta, Suvereto, Campiglia Marittima e Piombino a sud. In particolare in quest’ultima città si faceva sentire la presenza comunista all’interno dell’acciaieria.

Per quel che concerne la concentrazione spaziale all’interno della città labronica, la maggior parte dei militanti livornesi proveniva dai due quartieri tra essi confinanti, nonché più sovversivi di Livorno: Pontino e La Venezia, situati nella zona nord-occidentale dell’abitato, a ridosso delle due Fortezze e in prossimità degli scali marittimi. Il primo era essenzialmente un quartiere a carattere operaio, vicinissimo al già nominato quartiere Torretta, ad esso limitrofo. Il secondo era invece uno dei quartieri storici cittadini, ampliato a partire dal ‘600, popolato quasi esclusivamente da famiglie di lavoratori portuali, zona in cui ancora oggi sorge il diroccato Teatro San Marc (dove il PCd’I è formalmente nato) e in cui ancora oggi ha sede la Fratellanza Artigiana, luogo dove spesso si sono tenute riunioni sindacali e “sovversive”.

Sul grado di istruzione dei militanti comunisti livornesi c’è da dire che essa presenta un quadro piuttosto omogeneo, come del resto nella provincia: tutti sono più o meno alfabetizzati, ma non hanno gradi di istruzione oltre la licenza elementare e in molti casi neppure quella. Vi sono tuttavia delle eccezioni; alcuni posseggono la licenza media o meglio il cosiddetto avviamento al lavoro: Barotini, Kutufà, Mannucci, Scotto, Pietro e Armando Gigli. Una militante ha la licenza di scuola media superiore: Anna Launaro, mentre due sono i laureati: Ersilio Ambrogi in Giurisprudenza e Ettore Quaglierini in Scienze Politiche.

Le donne che in quegli anni entrano a far parte del PCd’I sono quattro: Anna Launaro, Alice Giacomelli e Alda Cheli a Livorno e la cecinese Primetta Cipolli.

La prima sede del PCd’I labronico fu collocata in via Santa Fortunata, probabilmente dove oggi ci sono le Scuole medie G. Borsi, nella zona centrale della città, vicino a Piazza della Repubblica e non lontano da piazza Grande dove si trova la Cattedrale. Via Santa Fortunata si trovava in un quartiere popolare, che ospitava quotidianamente il mercato e il Mercato Coperto (come del resto ancora oggi).

I membri del consiglio direttivo della sezione livornese del Partito Comunista d’Italia, in quei primi anni furono: Gino Brilli (che ricoprì il ruolo di primo segretario), Ilio Barontini (segretario nel 1921), Carlo Cantini, Pietro Gigli (anch’egli segretario nel 1922), Giuseppe Lenzi, Carlo Kutufà, Danilo Mannucci, Otello Gragnani, Pietro Gemignani, Angiolo De Murtas, Ugo Lorenzini, Quinto Vanzi ai quali si aggiungeranno Gino Niccolai, Alcide Nocchi, Fortunato Landini, Vasco Jacoponi, mentre nel sindacato assunsero importanti ruoli dirigenti i comunisti Archisio De Carpis e Athos Lisa.

Discorso diverso deve essere fatto per Ettore Quaglierini, il quale per le sue caratteristiche intellettuali già dal marzo 1921 è chiamato dal Centro Politico del Partito a Milano e inviato poi a Mosca dove lavorerà insieme alla compagna Anna Launaro per il Komintern.

In provincia si segnalano come fondatori delle locali sezioni Plinio Trovatelli, piombinese, già presente alla fondazione del PCd’I al San Marco e di lì a poco inviato come delegato al III° Congresso dell’Internazionale Comunista, nonché Macchiavello Macchi, fondatore insieme al fratello Mario della sezione Spartacus a Collesalvetti e assessore nella giunta comunale presieduta dal sindaco comunista Alessandro Panicucci.

I giornali comunisti diffusi a Livorno erano Il Comunista, organo ufficiale del partito; Battaglia Comunista, giornale delle Federazioni di Massa, Lucca, Pisa e Livorno che veniva stampato a Massa e Avanguardia, giornale della gioventù comunista. Esisteva anche un giornale comunista locale, stampato in pochi numeri tra il 1921 e il 1922 chiamato Il Garofano Rosso, di cui purtroppo alcuna copia è oggi reperibile. Con una certa probabilità erano diffusi, anche se in misura minore, Il Soviet di Napoli (sino al 1922), l’Ordine Nuovo di Torino e a partire dal 1924 l’Unità.

Con queste biografie dal carattere non agiografico, vogliamo dunque ricordare che è esistita una schiera di militanti comunisti, che, contro venti e maree avversi, rappresentati in primis dal fascismo e dallo stalinismo, hanno continuato la loro battaglia di comunisti e rivoluzionari in coerenza con la linea politica tracciata a Livorno nel 1921.

TROVATELLI PLINIO

(Piombino (Livorno) 20.1.1886 – Piombino (Livorno) 24.12.1942)

Nato a Piombino, nell’allora provincia di Pisa da Ferdinando e Cristina Grassi, di professione è tornitore. Militante socialista dal 1901 nei ranghi della Federazione Giovanile, si segnala già nel 1906 in quanto scrive su il Martello, foglio operaio diffuso a Livorno e Piombino, dove critica la politica dell’ala riformista del PSI rappresentata a Livorno da Giuseppe Emanuele Modigliani. All’entrata dell’Italia nel Primo Conflitto Mondiale è esonerato dal servizio militare, in quanto svolge il lavoro di tornitore in una fabbrica militarizzata, destinata alla produzione bellica; tuttavia svolge propaganda antimilitarista e disfattista tra gli operai a Piombino e successivamente, nel 1917, a Savona, dove viene trasferito per motivi di lavoro. Nel corso di diverse perquisizioni domiciliari gli vengono sequestrati documenti e altro materiale che comprovavano la sua attività sovversiva. Nel gennaio 1921 è tra i fondatori del Pcd’I a Livorno in quanto è tra i 58 delegati della Frazione Comunista al Congresso Socialista i quali fuoriescono dal Partito Socialista e si recano al Teatro San Marco. Nel maggio del medesimo anno è fermato a Luino (Varese) mentre tenta di espatriare in Svizzera per recarsi nelle Russia Sovietica come delegato del Pcd’I a partecipare, con voto consultivo, al III Congresso dell’Internazionale Comunista. Riesce a varcare la frontiera insieme al comunista istriano Franz Cinseb, ma i due appena giunti in Germania vengono nuovamente arrestati. Nell’aprile 1922 in occasione del Trattato di Rapallo tra Germania e Russia Sovietica, presta sevizio quale guardia rossa presso la delegazione sovietica presieduta dal Commissario del Popolo agli Affari Esteri Georgij V.Cicerin. Nel giugno 1923 emigra in Francia presso il fratello Gino, anch’egli militante comunista, dove lavora sempre come tornitore prima a Tolone e poi a Parigi. Anche in Francia continua a svolgere attività politica per il Partito comunista e per tali motivi nel giugno 1925 è espulso dal paese ed ottiene il visto per l’Unione Sovietica, grazie anche all’interessamento di Robusto Biancani, presidente del Club di Mosca e all’autorizzazione del Comitato centrale del Partito Comunista Francese. Stabilitosi nella capitale sovietica e ottenuta l’autorizzazione a iscriversi al Partito Comunista Sovietico, inizia a lavorare come tornitore presso la fabbrica Gomsa e successivamente per l’Istituto Aereo-idrodinamico Zaghi. In quegli anni si sposa con la con Dar’ja Balandina, cittadina sovietica, dalla quale avrà nel 1930 il figlio Bruno. Alla fine del 1929 è espulso dal Pci e poco dopo dal Partito comunista sovietico in quanto accusato di appartenere all’opposizione bordighista-trotzkista. Nel 1934 trova lavoro presso la Casa cinematografica Mejrabpomfilm, fondata da Willi Muzenburg e diretta da Francesco Misiano, già deputato comunista, tuttavia a causa del clima sempre più pesante dovuto all’inizio delle purghe staliniane nel dicembre del 1936, chiede alle autorità diplomatiche italiane il passaporto per potersi recare in Belgio presso il fratello Alfredo. Costantemente sorvegliato dalla polizia politica staliniana ed essendosi fatto notare insieme ad altri trotzkisti a fare propaganda antistalinista, nella documentazione d’archivio sovietica è descritto nei seguenti termini: “Mantiene un’ideologia trotskista antipartito, distaccato dagli altri compagni, ha legami con Sensi e Cerquetti”. Nell’ottobre 1937 ottiene l’autorizzazione a lasciare l’Urss e anche grazie al “Fondo Matteotti” si stabilisce a Bruxelles, presso il fratello, dove nell’aprile del 1938 viene raggiunto dalla moglie e dal figlio. In Belgio lavora presso la bottega del calzolaio Ovidio Mariani, antifascista italiano ed entra in contatto con antistalinisti italiani lì residenti, in particolare con militanti bordighisti.  Nel luglio 1940, con l’occupazione tedesca del Belgio, chiede alle autorità consolari italiane l’autorizzazione al rientro in Italia e ma la ottiene solo nel luglio di due anni dopo. Si stabilisce quindi nel luglio 1942 a Piombino, città che aveva lasciato nel 1917 e qui muore il 24 dicembre 1942.

FONTI ARCHIVISTICHE: Archivio Centrale dello Stato (Roma), Ministero dell’Interno, Direzione Generale di Pubblica Sicurezza, Divisione Affari Generali e Riservati, Casellario Politico Centrale, ad nomen.




Contro discriminazioni e sfruttamento. Le scelte di Alessandro Sinigaglia

Alessandro Sinigaglia nasce in una villa nel comune di Fiesole il 2 gennaio 1902, la madre Cynthia White è una “negra” come si diceva allora, americana, protestante, cameriera della famiglia Smith, trasferitasi pochi anni prima dagli USA, il padre, David Sinigaglia, di famiglia ebrea, meccanico, assunto presso la villa, di nove anni più giovane della moglie. Il fatto che il bimbo nasca solo sei mesi dopo le nozze alimenta le malelingue,  si diffondono anche voci che sia figlio di figure ben più illustri di quella casa. Alessandro è quindi figlio di minoranze più o meno accettate, ma che avevano conosciuto segregazioni e che anche in quel momento sperimentavano diffidenze e disprezzo. I pregiudizi sulle donne nere ammaliatrici e selvagge certo concorrono ad alimentare le false voci sulla sua nascita. I primi anni trascorrono sereni alla Villa, figlio dei domestici formato alla cultura americana dalla madre. Ma dal 1908 con l’ingresso a scuola iniziano i problemi, ad inizio Novecento non facile essere accettato per chi è diverso. Lui poi è la sintesi perfetta dei pregiudizi: figlio di madre nera e padre ebreo.

Segue gli sconvolgimenti del suo tempo fra il primo conflitto mondiale, la rivoluzione russa, un senso di crescente insofferenza per la condizione di serva della madre che peraltro muore nel 1920. Nel contesto del primo dopoguerra Alessandro è attratto dagli Arditi del popolo, anche se presto deluso dal rapido esaurirsi. Nel ’21 a seguito della volontà del padre di sposarsi in seconde nozze con un’ebrea e a fronte delle idee politiche del ragazzo, sono fatti allontanare dalla Villa. Vanno ad abitare in via Ghibellina n. 28 nel quartiere di Santa Croce, reso celebre da Pratolini nei suoi romanzi, ma il ragazzo vive male le scelte paterne.

Ad inizio ’22 è richiamato alla leva, marina, sommergibilista, è testimone della ferocia del bombardamento di Corfù nella crisi italo-greca del ’23 e ne è disgustato e anche per questo vuole lasciare e ci riesce dopo 21 mesi, congedo anticipato quale figlio unico di padre vedovo. Quando torna trova un’altra Firenze. Lavora come meccanico in vari stabilimenti. Dopo il congedo effettivo nel ’24 si avvicina al partito comunista non per scelta familiare, ma sente che la madre ne avrebbe capito l’ansia di libertà. Il suo primo impegno ufficiale sono le elezioni del ’24, quelle della legge Acerbo, ma tutto presto precipita fra l’omicidio Matteotti e la seconda ondata dello squadrismo in città a fronte di una sinistra e di un partito comunista peraltro segnati da divisioni interne e tattiche. Dopo l’instaurazione piena della Dittatura con le leggi fascistissime, sa di essere schedato anche se ancora non è diffidato né ammonito. La repressione sempre più capillare, l’assenza di informazioni con i fuoriusciti e il centro estero, il consolidarsi del regime rendono sempre più difficile la vita di chi si oppone integralmente al fascismo. Nel febbraio del ’28 la repressione distrugge la rete comunista fiorentina, Alessandro riesce a fuggire sfuggendo all’ondata di arresti, ma ormai è segnato. Alessandro lascia l’Italia, emigrando in Francia, anche per non mettere in pericolo le persone che lo hanno precedentemente aiutato. Per volontà del Partito, viene poi inviato in URSS, dove, come tutti si affida all’organizzazione del Soccorso rosso internazionale, scoprendo la presenza di centinaia di italiani a Mosca. Assume l’identità clandestina di Luigi Gallone. Non mancano i pericoli, essendo presenti anche i fascisti, essendo stati ristabiliti i rapporti diplomatici fra i due paesi ed essendo quindi presente l’Ambasciata con tutte le sue strutture, compreso i reticolo dei fiduciari ben inseriti nei circoli degli immigrati politici. Lo tengono sotto controllo anche i comunisti per valutarne affidabilità, disciplina e ortodossia, a partire dalla temuta polizia segreta sovietica. Il desiderio di dare notizie di sé al padre lo tradisce. La censura fascista intercetta una lettera e accresce la sorveglianza sia sui contatti italiani sia su di lui Mosca. Intanto segue il corso di propaganda e si innamora, ricambiato, di una giovane russa, Nina di origini asiatiche, che lavora al Soccorso rosso e che gli insegna la lingua; è portato allo studio delle lingue, conosce già francese e inglese, nel 1930 diventa padre di una bambina, Margherita, un periodo sereno mentre nelle informative della polizia fascista è indelicato sempre più come soggetto pericoloso. Nei primi anni Trenta è “emissario” cioè inviato del partito in altri paesi, ma viene tradito da Luigi Tolentino ex funzionario dell’Internazionale comunista che denuncia centinaia di compagni in cambio di un rientro protetto in Italia. Intanto deve affrontare anche i mesi cupi delle repressioni staliniane fra fine ’34 e inizio ’35 che si abbattono anche su italiani accusati di non essere in linea con lo stalinismo, deve essere sempre più riservato e guardingo. Nella primavera del ’35 lascia la Russia per la Svizzera per l’ennesima missione, salutando Nina e la bambina. Non farà più ritorno in URSS. Viene infatti arrestato il 28 agosto a poche decine di chilometri dal confine italiano, probabilmente su delazione. Il governo elvetico comunque ne decreta l’espulsione ma senza consegnarlo all’Italia e passa quindi in Francia dove riesce a scomparire per i successivi tre anni. Si trasferisce a Parigi sede del Comitato centrale del PCdI in esilio, svolge attività da corriere anche in Italia ma per viaggi sempre molto brevi. Nel ’36, dopo il golpe dei generali, parte per la Spagna, assume il nome di battaglia di Sabino. Ad Albacete incontra i volontari antifascisti fra i quali il livornese Mazzini Chiesa. Conosce l’esperienza della lotta armata in una dimensione bellica nuova rispetto ad ogni altra precedente esperienza condotta in Italia prima o durante la clandestinità. In virtù delle esperienze fatte durante il servizio militare viene arruolato nella Marina repubblicana come tecnico silurista alla base navale di Cartagena, il porto più importante della Spagna, sottotenente di vascello viene imbarcato su un incrociatore, contribuendo alla riorganizzazione dell’arma navale. Immediato lo scontro non solo con i golpisti ma anche con i fascisti italiani che intervengono attaccando le navi con i sommergibili, attuando una guerra di pirateria assolutamente illegale sulla base delle norme del diritto internazionale. Per la conoscenza delle lingue è nominato ufficiale di collegamento fra il comando della marina repubblicana e un gruppo di consulenti sovietici. Costante il rapporto con Longo che informa puntualmente delle condizioni della marina. Viene poi inviato a Barcellona per operare la bonifica degli accessi del porto, ed assiste ai bombardamenti fascisti sulla città. A fronte del crollo della repubblica, come tanti, cerca riparo in Francia. Alessandro finisce nel campo di raccolta di Saint Cyprien nei Pirenei orientali all’interno di una comunità multietnica e multirazziale di spagnoli, italiani, polacchi, rappresentanti di oltre 50 paesi. Viene poi trasferito nel campo di internamento di Gurs, il più grande del sud della Francia: 28 ettari per 18.500 “ospiti” suddivisi in 362 baracche, arriverà ad accogliere 24.500 persone. A seguito dell’invasione nazista della Francia e del rifiuto di arruolarsi nei servizi ausiliari, viene condotto nel campo di Vernet, a 100 km dalla frontiera con i Pirenei, il campo peggiore di tutta la Francia per le condizioni igienico sanitarie, la violenza dei gendarmi e l’ambiente atmosferico. Dopo l’occupazione nazista il campo passa sotto Vichy che nei mesi successivi procede ai rimpatri degli antifascisti, che di fatto sono solo costi inutili. Alessandro torna in Italia in manette.

Viene condannato al confino: a Ventotene dove arriva il 14 giugno 1941. Il confino, come sottolineano molti storici, è l’arma peggiore che il regime usa contro gli oppositori. Al di là dell’allontanamento dalla propria residenza, il confino è sottoposto a vigilanza e regole stringenti e a un sostanziale isolamento anche all’interno della comunità dove è trasferito, ad esempio non può sedere in locali e osterie ma consumare al massimo al banco “in piedi e nel più breve tempo possibile”. I confinati sono circa 850, di questi i politici sono 650 (gli altri alcolizzati, spacciatori, usurai…) fra i quali nomi noti come Terracini, Pertini, Rossi, Secchia, per i quali è previsto un pedinamento costante da parte di un milite. Lo colpisce incontrare anche qui ebrei e persone di colore, fra i primi Spinelli, Colorni, Curiel, fra i secondi l’eritreo Menghistù. Ma lo colpisce anche la storia di una ragazza di 28 anni, Monica Esposito, salernita, mandata al confino perché accusata di essere andata a letto con nero, violando così la legge 882 del 13 maggio in tema di relazioni affettive interraziali. L’attacco naziata all’URSS scuote anche i confinati e riapre dialoghi fra i diversi gruppi politici. Nel novembre del ’41 riceve la notizia della morte del padre. Il Ministero degli Interni prima tarda a concedergli la licenza per il funerale poi quando gliela assegna è troppo tardi e così gliela revoca, essendo venuto meno il motivo. Il passare dei mesi rende sempre peggiori le condizioni di vita fra freddo, penuria di cibo (tanto che viene concesso ai confinati di coltivare la terra), malattie.

Estate ’43 gli Alleati si avvicinano e l’isola è colpita dai combattimenti, viene affondato il battello che consentiva i collegamenti. Sapranno della “caduta” di Mussolini solo il 26 luglio. Tuttavia il nuovo Governo, in perfetta continuità, non muta le direttive di ordine pubblico e mantiene il confino per anarchici e comunisti. Solo le proteste variegate spingono il capo della polizia a rettificare con nuova circolare del 14 agosto.

A fine agosto ’43 Alessandro torna a Firenze. I comunisti sono fra i più organizzati, si ritrovano nella libreria di Giulio Montelatici in via Martelli o a casa di Fosco Frizzi in Santo Spirito, mentre fanno parte del Comitato interpartitico poi riorganizzato in CTLN dopo l’annuncio dell’armistizio. L’esperienza dell’attività clandestina rendono i comunisti consapevoli dei pericoli e pronti ad affrontare l’occupazione nazisti e i pericoli conseguenti. Nella riunione con Secchia del 14 settembre viene affidato ad Alessandro la responsabilità dell’organizzazione militare in città, così come in altre città della regione, come Arezzo dove invia il meccanico Romeo Landini, con cui aveva condiviso la guerra in Spagna, l’internamento in Francia, il confino a Ventotene. La scelta è dovuta alla valutazione delle sue esperienze del suo carisma e grande attivismo. Fascisti e nazisti sono consapevoli della sua pericolosità. Intanto il pci avvia l’organizzazione della propria struttura militare con le brigate Garibaldi in ottobre. Alessandro frequenta varie abitazioni di amici, cercando di sottrarsi al pericolo della cattura da parte di fascisti e nazisti, fra questi il direttore d’orchestra russo, ma con passaporto svizzero, Igor Markevitch. Contro lo strapotere nazifascista in città (segnato anche dalle razzie contro gli ebrei), i comunisti iniziano a pensare ad una strategia di lotta armata urbana, formando i GAP, istituti da fine settembre dal Comando centrale delle Brigate Garibaldi, ricalcando un tipo di lotta di resistenza armata diffusa in Francia, sia pur riadattata. Servono uomini di grande esperienza, a guidare i gap infatti di solito sono tutti ex volontari delle Brigate internazionali in Spagna, i componenti uomini di fede assoluta, consapevoli del rischio, con grandi capacità militari., fondamentale il coraggio e la segretezza (non devono conoscersi neppure fra di loro, se non i componenti di ogni piccola unità). Devono compiere attentati o azioni rapide, dimostrare che i nazifascisti non controllano le città, colpire bersagli simbolo. Il divieto di uso delle biciclette nelle città da parte dei nazisti è proprio conseguente a queste azioni, in quanto era il principale mezzo per agire e spostarsi. Alessandro dirige i GAP e coordina tutti i gruppi comunisti toscani. In provincia di Firenze azioni gappiste vi sono già in novembre in varie cittadine e conseguente è la riorganizzazione dei fascisti con la riorganizzazione della milizia nella nuova organizzazione della Guardia nazionale repubblicana. La prima azione dei GAP fiorentini è l’uccisione del ten. Col. Gino Gobbi capo della leva fascista e quindi simbolo del sistema militare imposto agli italiani per proseguire la guerra a fianco del nazismo, il 1° dicembre del ’43. La reazione è immediata all’alba del 2 dicembre cinque detenuti antifascisti sono fucilati alle Cascine (Oreste Ristori, Gino Manetti, Armando Gualtieri, Luigi Pugi, Orlando Storai). Il cardinale Della Costa condanna la violenza gappista difesa non solo dalla stampa clandestina comunista ma anche da quella azionista.

Su Alessandro pesano responsabilità sempre più complesse e solo lui ha l’esperienza necessaria ad affrontare quel tipo di lotta: dare indicazioni organizzative, di addestramento militare, gestire trasporto armi ed esplosivi, organizzare i gruppi, gestire le comunicazioni interne e con i vertici. Inizia a gestire anche contatti con gli operai delle fabbriche della città. 14 gennaio: gap fanno esplodere 9 ordigni in nove punti diversi della città contemporaneamente, impiegando di fatto tutti i gappisti e suscitando sconcerto fra fascisti e nazisti. La caccia ad Alessandro viene quindi affidata a due esponenti fra i più pericolosi della Banda Carità: Natale Cardini e Valerio Menichetti che con Luciano Sestini e Antonio Natali formano il gruppo dei così detti “4 santi” noto per i tratti di spietata ferocia. Il 17 gennaio attentato dei gap, fallito, al capitano della milizia Averardo Mazzuoli e interruzione in tre punti della ferrovia Firenze-Roma presso Varlungo. 21 gennaio bomba alla casa di tolleranza di via delle Terme, messa a disposizione di nazisti e fascisti. 27 gennaio sostegno allo sciopero alla Pignone, gli operai ottengono una distribuzione supplementare di tessere di pane, 30 gennaio bomba al Teatro La Pergola mentre è in corso una manifestazione fascista., 3 febbraio ucciso un sergente tedesco, 5 attaccata una pattuglia della GNR, uccisi due militi. Ad inizio febbraio avventori del bar Paszkosky picchiano una persona di colore. L’8 febbraio il noto tentativo di Tosca Bucarelli e Antonio Ignesti di mettere una bomba nel bar. Anche per consentire la fuga al compagno, la Bucarelli è catturata, torturata dalla Banda Carità, viene poi rinchiusa nel carcere di Santa Verdiana. 9 febbraio viene giustiziato un sergente della GNR alla Fortezza. L’11 febbraio un gap lancia sette bombe contro la sede della Feld Gendarmerie in via dei Serragli. Intanto Alessandro è   impegnato su più fronti organizzativi, a partire da uno sciopero operaio in risposta ai licenziamenti di dicembre ai danni degli operai rifiutatisi di trasferirsi a nord. 13 febbraio nuovi attentati sulla linea ferroviaria Firenze-Roma. La sera Alessandro ha fissato a cena con Antonio Lari vecchio amico e compagno, nella trattoria di via Pandolfini dove va a mangiare spesso. Ma entrano i “santi”, una spia ne ha denunciato la presenza. Vano tentare la fuga. Sinigaglia viene ucciso. Quando si sparge la notizia, tanti fiorentini scrivono sui muri scritte inneggianti ad Alessandro, tanto che è naturale e immediato che la 22 bis Brigata Garibaldi assuma il suo nome, sarà la prima ad entrare a Firenze per liberare la città.