ARNALDO DELLO SBARBA, ANATOMIA D’UNA CADUTA

Era stato protagonista della politica toscana da fine ‘800 in poi. Nel 1924 Mussolini lo voleva nel “Listone” fascista.
Ma contro l’ex ministro riformista insorse lo squadrismo pisano.

 Dalla rilettura di archivi pubblici e privati, in parte inediti, il ritratto di una classe dirigente che allevò il fascismo e ne fu divorata.

1911, Arnaldo a Roma, appena eletto deputato socialista
(Archivio privato famiglia Dello Sbarba)

Che nel giro di pochi giorni, o forse di poche ore, si sarebbe giocato tutta la sua vita politica, Arnaldo Dello Sbarba (1) lo sapeva da tempo. E a quella vigilia elettorale dell’anno 1924 (2) era arrivato come lui sapeva fare: ben preparato.
Aveva dalla sua Benito Mussolini, vecchia conoscenza d’epoca socialista e ora duce del fascismo vittorioso. Aveva conquistato Cesare Rossi (3), numero due del regime e potente capo dell’ufficio stampa del governo. Nella circoscrizione, nella quale Dello Sbarba aveva recitato da primattore per quattro legislature, puntavano su di lui le élite fiancheggiatrici che speravano così di moderare e controllare lo squadrismo (4).
Nella base fascista Arnaldo poteva contare sul Fascio di Pisa, guidato dal capitano Bruno Santini (5), che sul “caso Dello Sbarba” aveva ricevuto istruzioni “inequivocabili” dal duce. Santini capeggiava in quei giorni il movimento dei “dissidenti” contro il segretario federale Filippo Morghen (6), sostenuto invece dai “ras” provinciali (7). E da quando Morghen s’era avventurato a giurare: «Nel fascismo, o me o Dello Sbarba» (8), Santini s’era convinto che poteva usare Dello Sbarba per togliersi Morghen dai piedi.

Considerati dunque tutti i pro e i contro, Arnaldo riteneva di poter vincere la partita. Sarebbe stato ammesso nella “Lista Nazionale” di Mussolini, con la certezza di tornare in parlamento. Voti personali ne aveva in quantità, al resto ci avrebbe pensato il diluvio di seggi garantiti ai fascisti dalla legge Acerbo.
Eppure, compiuti cinquant’anni il 12 agosto 1923, Arnaldo Dello Sbarba si avvicinava all’anno nuovo in stato di grande agitazione. Alla vigilia di Natale, il suo fedele segretario Carlo Conti (9) aveva riferito al fratello Bruno Dello Sbarba di «gravi preoccupazioni politiche non ancora ultimate [anche se] ben incamminate (…) Ci vorranno ancora dei giorni nei quali Arnaldo, che non sta bene soprattutto di cuore, ha bisogno di calma più assoluta (…) . Scrivigli per tranquillizzarlo e incitarlo a vincere la più aspra battaglia» (10).
Finito in mezzo alle lotte intestine del fascismo pisano, nel novembre del 1923 Arnaldo era stato addirittura aggredito alla stazione di Pisa da una squadraccia comandata dal conte Giuseppe Della Gherardesca (11).
Di questo si era immediatamente lamentato con Cesare Rossi. L’aggressione, scrive Arnaldo a Rossi il 10 novembre 1923, non è stata affatto «frutto di uno stato di esaltazione personale» ma della volontà di «costringermi fuori dalla vita pubblica».
Arnaldo riferisce a Rossi che in una riunione della federazione fascista, successiva all’aggressione,

in cui il Gherardesca urgentemente chiamato partecipò, […] si proclamò che io ero un comunista, antitaliano e anti-patriota, e che coloro che mi avevano fatto affronto avevano compiuta opera italianissima, da deplorar semmai per essere stata solo nei limiti di minacce e di ingiurie (…). Fui interventista della primissima ora, partecipai alla manifestazione di Quarto (12) e scoppiata la guerra mi scrissi volontario. Non ho, in coscienza, nulla da rimproverarmi (…) alle accuse di chi, come il Gherardesca fu in quegli anni noto tedescofilo.

Lei mi è testimone – continua la lettera di Arnaldo a Rossi – con quale ardore nel 1921 io, nella circoscrizione di Pisa Lucca Livorno e Massa Carrara, difesi il blocco nazionale ed affermai le ragioni del fascismo, allo stesso modo che nelle sventurate elezioni del 1919, per riaffermare le ragioni della guerra e della patria, fui esposto a tutti gli oltraggi e a tutti gli attentati dei socialcomunisti. Venuto il governo fascista gli ho dato disinteressatamente ed incondizionatamente tutto il mio consenso, fino a partecipare alla commemorazione della marcia su Roma. Della mia devozione per il Presidente non ho bisogno spero neanche di intrattenermi (13).

Primo maggio 1900. Arnaldo saluta il nuovo secolo con la prima pagina de L’Avanti.
(Archivio privato famiglia Dello Sbarba)

Questo Arnaldo Dello Sbarba del 1923 non era evidentemente più quello «degli anni della sua splendida gioventù», raccontati da Arnaldo Fratini (14) nella sua storia del socialismo volterrano, «che germogliò per la cura, l’ardore e il coraggio con cui lui, insieme ad altri ottimi compagni, volle e seppe coltivarlo». Non era più il battagliero direttore de «Il Martello», uno dei primi giornali del socialismo toscano (15), né il giovane avvocato che nel 1898 aveva difeso, a fianco di Pietro Gori, i lavoratori in sciopero a Campiglia e nel 1900 aveva combattuto per la grazia all’anarchico Cesare Batacchi, rinchiuso nel mastio di Volterra per una bomba mai lanciata (16).
Aveva cambiato rotta: c’era stato l’appoggio alla campagna coloniale di Libia del 1911 (17), l’espulsione dal PSI nel 1912, l’interventismo, la guerra, il “Biennio Rosso” vissuto dalla parte opposta della barricata, all’ombra del liberalismo giolittiano.
Deputato ininterrottamente dal 1911, nei governi di Nitti e Giolitti, Arnaldo era stato sottosegretario alla Giustizia nei mesi insanguinati dall’insorgenza del fascismo. Nel debole governo Facta era stato infine ministro del lavoro, finché la marcia su Roma non aveva mandato tutti a casa. Dopo di che, da deputato, aveva votato per il primo governo Mussolini, usando poi la presenza in parlamento per intessere relazioni nei palazzi del nuovo potere.

Il suo riferimento più importante era diventato Cesare Rossi, che in quell’inizio del 1924 stava lavorando per allargare il consenso al fascismo e farne la spina dorsale di un nuovo stato. La candidatura di un Arnaldo Dello Sbarba, ex ministro dell’era giolittiana, era funzionale a questa strategia.
Così Cesare Rossi si era fatto il regista della candidatura Dello Sbarba nel listone fascista. All’inizio del 1924 aveva ordinato a Luigi Freddi, capo ufficio stampa del PNF, di impedire all’ala intransigente del fascismo pisano di usare il settimanale «L’Idea fascista» per «scocciar l’anima a Dello Sbarba (…) poiché costui (che fra parentesi è molto intelligente e abbastanza ben visto dal Presidente, il quale gli ha anche affidato l’incarico, insieme ad altri due o tre Deputati, di costituire un gruppo di sinistri fascistofili) finirà per essere compreso nel Listone. (…) Io mi riprometto di difenderlo al momento opportuno» (18).
Il tandem Rossi-Freddi aveva anche imbastito una massiccia campagna di stampa per Arnaldo, trainata da «Il Nuovo Giornale» di Athos Gastone Banti e dal «Corriere italiano» di Filippo Filippelli (19).
Per dividere il fronte degli intransigenti, Cesare Rossi aveva mobilitato con un telegramma il principe Piero Ginori Conti (20), proprietario della Boracifera di Larderello e ras dei ras provinciali:

Consiglio inviare senz’altro Presidente Mussolini telegramma in cui si prospettino opportunità positive soprattutto elettorali inclusione Dello Sbarba testimoniando, come per mio conto ho già fatto e farò ancora, il suo contributo [di] affiancatore [del] movimento fascista in varie sue fasi.

Intanto Arnaldo Dello Sbarba stava preparando un promemoria per illustrare i suoi meriti «di affiancatore del fascismo». Nel suo archivio se ne trovano diverse bozze. Un primo schema lo redige Carlo Conti e per Arnaldo rivendica la lotta contro il popolare segretario provinciale del PSI Carlo Cammeo e le manovre messe in atto per destituire, in combutta col prefetto filofascista Renato Malinverno, i “sindaci rossi” Giulio Guelfi di Cascina ed Ersilio Ambrogi di Cecina (21).
Un canovaccio è incaricato di stenderlo anche l’altro segretario, il cavalier Vittorio Fagioli di Marciana Marina, luogotenente di Arnaldo per la provincia di Livorno:

I socialisti ufficiali gli dichiararono guerra implacabile […]. Nelle elezioni del 1919 la campagna bolscevica fu esclusivamente contro l’on. Dello Sbarba, che fu coperto di contumelie come guerrafondaio, indicato all’ira delle folle e in un sobborgo di Pisa gli fu perfino tirato in faccia manciate di sterco e di mota gridando: Eccoti la Patria! (22).

1920, Arnaldo sottosegretario alla Giustizia nel V° governo Giolitti
(Archivio privato famiglia Dello Sbarba)

Il promemoria definitivo, in terza persona e da spedire a Roma, Arnaldo lo scrive di suo pugno. Nella prima parte ripercorre le prove del suo amor di Patria, già ricordate nella lettera a Cesare Rossi. Poi passa agli esempi concreti, che letti oggi fanno venire i brividi.

Sottosegretario alla giustizia con Giolitti – scrive di sé Arnaldo Dello Sbarba – si batté col noto maestro Cammeo in una elezione provinciale memorabile e difese i fascisti sempre. Avvenuta la uccisione Cammeo (Mussolini ebbe con lui in proposito una corrispondenza telegrafica) procurò la scarcerazione della Rosselli e degli altri accusati (23). Quando, dopo i fatti di Sarzana (24), fu arrestato Santini, andò a Massa per farlo scarcerare. Quando fu ucciso Menichetti (25) in una imboscata comunista a Ponte a Moriano, ne seguì a capo scoperto il feretro.
Ministro del lavoro, parlando in una solenne riunione a Larderello (il senatore Ginori Conti presente e testimone) fece pubblica esaltazione del fascismo. Idem per l’inaugurazione del monumento ai caduti a Bagni di San Giuliano [e] il 26 ottobre 1922 in un pubblico discorso a Casanova di Piemonte […].
Dopo l’avvento del governo fascista, […] si fece sollecito di infondere nelle masse operaie, su cui ha vivo ascendente, il senso di fiducia e disciplina al governo dell’on. Mussolini, che esaltò […] ai metallurgici di Viareggio, ai contadini di Rosignano, agli operai di Ponte a Moriano, ai cavatori di alabastro di Castellina, ai mezzadri di Collesalvetti. […]. Nell’anniversario della Marcia su Roma – a dimostrare che fascismo e nazione si identificano – partecipò ai pubblici cortei (26).
È perseguitato dai ras locali con la scusa che egli ha una mentalità socialista, quella che servì sempre senza infingimenti […] e che anche oggi, per la parte che tende all’elevazione morale e materiale delle classi lavoratrici, non avulse ma integrative dei supremi interessi della Patria, ha il suo più grande interprete in Mussolini e la pratica nei sindacati nazionali fascisti.

La candidatura Dello Sbarba viene discussa a Roma dalle massime cariche del fascismo dal 4 all’11 febbraio 1924. Ne abbiamo sul «Messaggero Toscano» il resoconto di Bruno Santini, presente come segretario del fascio di Pisa, che riferisce di aver dichiarato in diverse riunioni tra il 4 e il 9 febbraio, a Costanzo Ciano, presente Morghen, a Cesare Rossi, alla Pentarchia (la commissione elettorale a cinque) presieduta da Aldo Finzi

che l’on Dello Sbarba aveva forti correnti contrarie nel partito Fascista e una ragguardevole forza sua fuori dal partito, tra tutti coloro che per quindici anni erano stati da lui beneficiati, aiutati, sorretti. Se l’on. Dello Sbarba fosse entrato nella Lista Nazionale del Partito Fascista, questa avrebbe guadagnato voti di molti elementi non fascisti.

Alla seduta decisiva dell’11 febbraio 1924 partecipa Mussolini in persona, che ha l’ultima parola sulle candidature. «Davanti a S.E. Mussolini, presente S.E. De Bono – racconta Santini – ripetei le stesse dichiarazioni. Il Presidente mi lesse alcuni appunti riguardanti l’on. Dello Sbarba, che riflettevano la sua posizione rispetto al Fascismo», e qui Santini cita a memoria la scarcerazione degli assassini di Cammeo, quella dello stesso Santini a Massa e il discorso filo fascista a di San Giuliano Terme. «Altro lesse il Presidente che io non ricordo. Ricordo che le dichiarazioni del Presidente furono esplicite, nette, recise» (27).
Ai vertici fascisti Mussolini aveva letto dunque proprio il promemoria scritto da Arnaldo. E aveva deciso. L’annuncio arriva a Dello Sbarba con un biglietto proveniente dai corridoi della Pentarchia:

Caro Arnaldo, stamani la tua questione è stata decisa favorevolmente. Tu sei stato ammesso come era giusto e doveroso. [La firma è purtroppo indecifrabile].

«Comincia circolare voce tua inclusione, studio affollato, entusiasmo vivissimo» telegrafa Conti ad Arnaldo il 12 febbraio. Il mattino dopo il segretario viene convocato dal prefetto Renato Malinverno, preoccupato della piega presa dagli avvenimenti. Alle 16,30 Conti riferisce ad Arnaldo:

Alle 11:00 sono stato chiamato dal prefetto. Ha cominciato col prospettarmi il pericolo di dimissioni, di astensioni eccetera. L’ho fermato subito su questa strada dicendogli chiaro e tondo che avevo saputo da Dario Lischi (28), tornato stanotte da Roma, le parole chiare e inequivocabili dette dal Duce al Santini: “Dì ai Pisani che Dello Sbarba è nella lista per mio volere e nessuno ce lo toglie, che è anche l’ora di smetterla con i campanili – essendo la lista Nazionale – anche se i campanili sono storti e artistici come quelli di Pisa”.
Il prefetto evidentemente non conosceva questo episodio che gli ha fatto impressione. Allora ho cominciato a parlare descrivendogli la situazione vera, (i grandi consensi eccetera) che è in tuo favore. Quanto a dimissioni, astensioni ecc ., gli ho detto saranno in numero molto ridotto seppur vi saranno. Che in ogni modo si tratterà di qualche capo malinconico e scornato. (…) Che la verità vera è questa: Medoro (29) e gli altri della federazione avevano corso troppo nel farti la guerra e si trovavano perciò impegnati fino al collo (…) per giustificare dinanzi alla Pentarchia la loro imbecillità e creare fantasmi di agitazione.
Poi uscendo gli ho detto: Scusi lei sente di essere il prefetto? Lui mi ha risposto: Ah per questo Le assicuro che io eseguirò e farò rispettare gli ordini! Basta così! Ho la convinzione di averlo lasciato persuaso.

Il 14 febbraio anche la stampa dà la notizia dell’inclusione di Arnaldo nel listone fascista. Ma gli avversari non si sono dati per vinti.
Il 15 febbraio una lettera proveniente da Pisa avverte Dello Sbarba:

Carissimo onorevole, sono arrivati stamani da Roma gli energumeni Carosi, Biscioni, De Guidi, Parenti ed altri che lunedì notte, appena appresa la notizia della sua inclusione nel Listone, partirono per impressionare le direzione del partito. Minacciarono distacco dal Partito ufficiale, costituzione di fasci autonomi, rappresaglie ecc. e secondo quanto essi affermano sarebbero riusciti a persuadere il Direttorio e l’on. Giunta a far pressione presso il Duce per ottenere il loro intento (30).

Il 17 febbraio il segretario provinciale Filippo Morghen – che si era istallato in permanenza a Roma presso l’hotel Continental, a due passi dalla stazione – dirama a tutti i fasci l’ordine di inviare ai vertici nazionali telegrammi contro l’inclusione di Dello Sbarba nel listone.
Morghen ha dalla sua la deliberazione del 2 febbraio della federazione fascista pisana che si era pronunciata per l’esclusione di Dello Sbarba e un’ordine del giorno approvato dall’assemblea dei sindaci fascisti in cui essi «confermano di ritenere Dello Sbarba politicamente non degno di essere compreso nella Lista Nazionale». Se Mussolini lo avesse ciò nonostante inserito, i sindaci fascisti minacciano di dimettersi in massa. E se qualcuno se ne fosse dimenticato, il 18 febbraio ci pensa il sindaco di Collesalvetti Gino Lavelli de Capitani, proprietario di fabbriche nella piana pisana, a spedire a tutti i sindaci una copia della delibera approvata, invitandoli a passare ai fatti (31).

Il 19 febbraio Carlo Conti informa Arnaldo dei metodi adottati dagli intransigenti.

Alla famosa adunanza, molti sindaci non erano presenti e, tolti 3 o 4, gli altri dichiarano che fu loro imposto di votarti contro. A Volterra si vive nel terrore, girano col nerbo per impedire che ti si facciano telegrammi o si faccia il tuo nome. Sono 7 o 8, ma armati, e fanno paura alla gente. Soltanto perché il Quadri fece pubblica dichiarazione di soddisfazione per la tua inclusione, la farmacia ora è guardata dai carabinieri”.

Lo stesso Conti è stato minacciato con un biglietto anonimo: «Diciamo a lei diabolico segretario di smetterla perché prima del suo padrone sarà soppresso». Conti commenta: «Niente po’ po’ di meno! Povero, grande Mussolini, da qual gente è qui rappresentato!».

Il fatto è che il «povero grande Mussolini» ha già fatto marcia indietro, cedendo alle pressioni del fascismo intransigente. Accade così ora nel microcosmo pisano ciò che in grande si ripeterà nel gennaio del ’25, come reazione al delitto Matteotti. Messo di fronte all’alternativa drastica, e rimangiandosi le promesse di moderazione, il duce sceglierà sempre di appoggiarsi all’ala più violenta del fascismo.
Alla sera di quel tormentato 19 febbraio 1924, l’agenzia Stefani batte infine il dispaccio che riporta la versione definitiva della Lista Nazionale per la Toscana. Arnaldo Dello Sbarba non vi compare più.

È successo che per tagliare la testa alle lotte interne, Mussolini ha deciso per la Toscana una lista “fascistissima”, composta di sole camicie nere. Accanto ai 24 nomi scelti dal duce vengono indicate con puntigliosità le cariche fasciste e i meriti di guerra: combattente, decorato, grande invalido e così via. Per Pisa in lista compaiono Guido Buffarini Guidi (32), sindaco e presidente dei combattenti, e Lando Ferretti (33), «ferito in guerra e decorato», entrambi candidati proposti dalla federazione pisana. Non vi compare invece l’uomo che il direttorio aveva proposto come primo: Filippo Morghen. L’eliminazione di Dello Sbarba ha trascinato con sé anche il suo arcinemico – almeno in questo Bruno Santini aveva visto giusto.
Il quale Santini, qualche giorno appresso, si prende pure la soddisfazione di rivelare sulla stampa gli intrallazzi di Morghen, che, mentre scatenava le camicie nere contro Dello Sbarba, dietro le quinte tentava un accordo con il vituperato ex ministro. Santini racconta che, nelle concitate giornate in cui a Roma si discuteva della candidatura Dello Sbarba, Morghen lo aveva fatto contattare da tre suoi uomini della commissione elettorale pisana che gli avevano promesso di «cessare la campagna contro di Lei» in cambio dell’impegno dello stesso Dello Sbarba a sostenere l’ingresso nel Listone «di nomi nostri, designati dalla Federazione» – tra i quali compariva come primo proprio il Morghen (34). È probabile che questo doppio gioco abbia convinto il duce a escludere pure lui dalla lista.

«Che farà ora Dello Sbarba?» si chiede il Messaggero Toscano la mattina del 20 febbraio. Il giornale prospetta due strade: presentare una lista propria, o aderire alla lista “Democratici Sociali” creata da due sue vecchie conoscenze, Mario Supino, avvocato, esponente della “democrazia massonica” di Pisa, e Augusto Mancini (35), filologo e deputato radicale, che di questa «lista parallela» aveva già informato Arnaldo per lettera il 15 febbraio.
In realtà, Arnaldo avrebbe avuto anche una terza opzione: confluire nella “lista bis” in cui Mussolini aveva dirottato in Toscana i tre deputati liberali uscenti, restati anche loro fuori dalla lista “fascistissima”. E cioè il livornese Guido Donegani, presidente della Montecatini, il senese Gino Sarrocchi, liberale della destra salandrina contiguo al fascismo, e l’agrario grossetano Gino Aldi Mai (36). Questa “lista bis” avrebbe pescato nei seggi spettanti all’opposizione, ma era appoggiata dal governo e sarebbe poi confluita nella maggioranza. Teoricamente, l’opzione ideale per Dello Sbarba: garantita nel risultato, indipendente nella forma, fascista nella sostanza. Ma – informava il «Messaggero Toscano» – «i liberali non ne vorranno sapere di Dello Sbarba», ormai sgradito al fascismo locale e temibile concorrente nelle preferenze.

1916, Arnaldo sottotenente nei gruppi di artiglieria avanzata della Val Lagarina a Coni Zugna e Zugna Torta.
(Fondo A. Dello Sbarba Biblioteca Guarnacci di Volterra)

La mattina del 20 febbraio Arnaldo è ancora deciso a non mollare. Solo e arrabbiato nel suo ufficio di deputato a Roma, prende carta e penna e scrive a Mussolini per annunciargli che lui si candiderà comunque.

Caro Presidente, ieri discutendosi in Pentarchia la lista per la Toscana, il mio nome non fu incluso nella lista nazionale, non già perché mi si potesse rimproverare alcuna colpa verso la Patria o verso il Fascismo, ma solo perché tal Morghen, segretario provinciale di Pisa, per risentimenti personali spintisi fino ad una vera e propria caccia all’uomo, ha creato una situazione di grottesco imbottigliamento antisbarbiano che ieri (domandalo al comm. Cesare Rossi) egli non riuscì a giustificare […]. D’altronde io so di non avere demeritato né della Patria né del Fascismo, cui ho dato lealmente consigli e aiuti; so di avere numerosi amici in Toscana, i quali non possono e non vogliono tollerare questa forma di ostruzionismo politico, e quindi, non perché malato di parlamentarismo, ma perché […] devo difendere la mia dignità umana, io vado ad appellarmi al giudizio degli elettori, ai quali chiarirò che […] solo da loro, che mi diedero per 4 legislature il viatico, io posso accettare oggi il congedo dalla vita politica” (37).

Alla sera, però, Arnaldo ci ripensa. Per tutto il giorno ha ricevuto messaggi che lo spingono a più miti consigli. Il fedele e accorto Carlo Conti, già la sera del 19 febbraio, lo ammoniva: «I pochi amici coi quali ho parlato sono poco favorevoli a liste bis o parallele».
La mattina dopo anche Gino Sossi, avvocato, compagno in politica, socio negli affari e marito della sorella Adele, gli aveva scritto:

Non so se tu accetterai di fare parte di una lista parallela, ma il mio avviso è che tu debba accettare se sicuro della riuscita. Se dovessimo fare la lotta delle preferenze con Donegani, Sarrocchi ecc. credo che potremo essere battuti. Perciò sii vigile, l’unica cosa da evitare è di accingersi alla lotta e rimanere a terra.

Anche l’industriale farmaceutico pisano Alfredo Gentili, suo fedele sostenitore, lo metteva in guardia dal candidarsi «nella lista bis, che qui è chiamata la lista dei cani rognosi». Infine, da Pisa gli aveva telegrafato la moglie Maria Ziffo:

Amici interpellati ritengono conveniente tuo disinteressamento eventuale lista liberale perché lotta ridurrebbesi favorire influenti liberali privilegiati [da] centri elettorali industriali.

A sera, dunque, Arnaldo Dello Sbarba si era di nuovo seduto alla scrivania per scrivere una seconda lettera a Mussolini e poi fargliela recapitare subito a mano dal servizio parlamentare. Sono le ultime parole – almeno per ora! – di una lunga carriera politica:

Illustre Presidente – scrive Arnaldo – la situazione di ostilità e di dissenso che si è riacutizzata, in questi giorni, fra fascisti pisani per la cocciuta volontà di alcuni di essi, ingiustamente prevenuti contro di me ed immemori della mia opera sempre onesta e fermamente patriottica anche in ore oscure, che rivendico in pieno, mi decide a rinunciare alla formazione di una lista propria […]. Ma se rinuncio a rientrare in Parlamento, ove le mie forze elettorali mi avrebbero certamente riportato, non intendo disertare il campo della lotta imminente. Perciò, inviterò con pubblico manifesto i miei amici a votare compatti e fervorosi la Lista Nazionale, con l’augurio che gli infatuati miei oppositori non mi impediscano almeno di portare il mio personale disinteressato aiuto alla forte battaglia che tu combatti – con pugno sicuro – per la più grande vittoria dell’Italia.

In soli cinque giorni Arnaldo Dello Sbarba si era giocato la sua carriera politica, e aveva perso.

Qualche settimana dopo lo conforta sua madre da Volterra:

Arnaldino mio – scrive Isola Veroli – non posso descriverti la consolazione. Sapendo la guerra che ti facevano e conoscendo questa gente, avevo sempre paura che ti facessero del male. Anche Bruno mi scrive che è contentissimo della tua decisione, prega e spera che tu non cambi. Mi dici che presto verrai a Volterra. Io non ci credo finché non ti vedo e il desiderio è tanto grande” (38).

Il 4 aprile 1924, alla vigilia di elezioni che a Pisa si sarebbero svolte per la prima volta da vent’anni senza un Dello Sbarba in qualche lista, si fa vivo di nuovo l’amico industriale Alfredo Gentili:

Il governo dovrebbe esserle grato (esiste oggi la gratitudine a Roma?) per il suo atteggiamento. Avremo la possibilità non lontana di vedere un segno della gratitudine mussoliniana per lei?

Gentili allude a quella prossima “infornata di nuovi senatori” per nomina governativa di cui già parlano i giornali (39). Il Duce avrebbe ripescato anche Arnaldo? Amici, sostenitori, segretari, e prima di tutti lui stesso, ci contano.
Le “infornate” arriveranno una dopo l’altra, ma il turno di Arnaldo Dello Sbarba non arriverà più. Al contrario, il fascismo pisano vuole liberarsi definitivamente di lui.
Il 2 gennaio 1925, al culmine della crisi seguita al delitto Matteotti e alla vigilia del discorso con cui Mussolini assumerà in parlamento la responsabilità dell’assassinio (40), un corteo di fascisti furibondi attraversa Pisa come “una colonna di fuoco” (41). Oltre a distruggere il circolo repubblicano e il quotidiano cattolico «Il Messaggero toscano», al grido di “fuori i massoni dal fascismo” i fascisti devastano la loggia massonica, l’abitazione e lo studio del gran maestro Alfredo Pozzolini e l’abitazione e lo studio al Palazzo alla Giornata di Arnaldo Dello Sbarba.
Pochi mesi dopo, Arnaldo deciderà di abbandonare Pisa per Roma: «Ho dovuto constatare scrive al fratello Bruno (42) – che a Pisa non c’è aria per me, e non c’è lavoro».

NOTE:

(1) Arnaldo Dello Sbarba (1873-1958) è stato dalla fine dell‘800 alla prima metà del ‘900 un protagonista della politica in provincia di Pisa (compresa l’area da Rosignano all’Elba). Laureato in Giurisprudenza a Pisa, consigliere in comune a Volterra e poi in provincia, è parlamentare dal 1911 al 1924. Diviene sottosegretario nei governi Nitti e Giolitti (1920-1921) e ministro per il Lavoro nei governi Facta (1922). Naufragata la candidatura nel “Listone” fascista del 1924 e entrato nel mirino dei fascisti, abbandona Pisa per Roma. Fino al 1929 è sottoposto a vigilanza di polizia. Nel 1943 il prefetto della RSI emette contro di lui mandato di cattura. Dopo la Liberazione di Pisa, il 29 dicembre 1944 è ammesso nel CLN provinciale su nomina del neonato “Partito Democratico del Lavoro”, nonostante la decisa opposizione di partigiani e CLN di Volterra che lo accusano di complicità col fascismo. Nel dopoguerra ricopre numerose cariche, tra cui quella di Presidente della Cassa di Risparmio di Pisa e della Domus Galileiana. Cfr. A. Biscioni, Dello Sbarba Arnaldo, in Dizionario biografico degli italiani Treccani, 1990, https://www.treccani.it/enciclopedia/arnaldo-dello-sbarba_(Dizionario-Biografico).
Gran parte delle sue carte sono conservate nel Fondo A. Dello Sbarba nell’archivio della Biblioteca Guarnacci di Volterra (d’ora in poi BGVolterra/FAdS), Cfr. E. Dello Sbarba e S. Trovato, Inventario dell’archivio di Arnaldo Dello Sbarba, «Rassegna volterrana», a. 90, 2013. Per questo articolo sono stati esaminati inoltre archivi privati ancora inediti, custoditi dalla famiglia (d’ora in poi APAdS), l’Archivio di Stato di Pisa, la Biblioteca Capitolare dell’Arcidiocesi di Pisa, la SMSBiblio di Pisa, la Biblioteca delle Oblate e l’Archivio di Stato di Firenze. Un piccolo “fondo Dello Sbarba” è anche presso l’Archivio centrale dello Stato.
(2) Sulle elezioni del 6 aprile 1924 Cfr. R. De Felice, La legge elettorale maggioritaria e le elezioni politiche del 1924, in Mussolini il fascista, 1. La conquista del potere 1921-1925, Torino, Einaudi, 1966. Sulla situazione in Toscana in quel periodo si v. A. Giaconi, La fascistissima: il fascismo in Toscana dalla marcia alla “notte di San Bartolomeo”, Foligno, Il formichiere, 2019.
(3) Cesare Rossi (1887-1967), sindacalista rivoluzionario, interventista, giornalista con Mussolini al «Popolo d’Italia», co-fondatore dei Fasci nel marzo 1919. Mussolini lo incaricò di organizzare la “Ceka fascista” che rapì e uccise Matteotti. Accusato del delitto, in un memoriale indicò Mussolini come mandante. Fu prosciolto in istruttoria. Scappò in Francia, ma fu arrestato nel 1928 e condannato dal Tribunale speciale a diversi anni di carcere e confino. Nel 1947 al nuovo processo Matteotti – in cui chiamò a deporre in suo favore anche Arnaldo Dello Sbarba – venne assolto per insufficienza di prove. Cfr. M. Canali, Cesare Rossi da rivoluzionario a eminenza grigia del fascismo, Il Mulino, Bologna, 1991; M. Franzinelli, Matteotti e Mussolini, Milano, A. Mondadori, 2024.
(4) Cfr. P. Nello, Liberalismo, democrazia e fascismo. Il caso di Pisa, 1919-1925, Pisa, Giardini, 1995. La responsabilità delle vecchie élite dominanti nello sviluppo del fascismo (sottovalutazione o condivisione?) è un nodo storiografico fondamentale, oggi particolarmente attuale. Le élite politiche formatesi in epoca liberale stentarono a comprendere la natura del fascismo e che sarebbe diventato il loro “rottamatore”. Ma furono proprio le vecchie classi dirigenti a contribuire a creare, ciascuna corrente a modo suo, il clima favorevole al fascismo e a sostenerlo. Molti liberali lo tennero addirittura a battesimo. Giovani liberali furono tra i fondatori del fascio di Pisa e mantennero a lungo la doppia militanza. Furono originariamente liberali diversi fascisti di spicco qui citati, come Piero Ginori Conti, Costanzo Ciano, o lo stesso Filippo Morghen. C’era poi la composita galassia dei “democratici” (“democrazia massonica” inclusa) che si era candidata nel 1919 nell’”Unione democratica” e nel 1921 nel “Blocco Nazionale”, sempre con capolista Arnaldo Dello Sbarba. La loro convinta campagna interventista per la guerra come compimento del Risorgimento e rigeneratrice dei popoli incontrò il dannunzianesimo prima e il fascismo poi. A Pisa, dove l’interventismo attingeva al mito di Curtatone e Montanara, il fascismo partì da una generazione di studenti-combattenti motivati da una parte del vecchio corpo docente a combattere il “nemico interno” dei neutralisti, degli anti-nazionali, dei socialisti.
Tra gli interventisti democratici, inoltre, i social-riformisti finirono per sottomettere la lotta di classe agli “interessi della Nazione”, tanto più che nei mesi della neutralità italiana il Partito socialista riformista, cui apparteneva Arnaldo Dello Sbarba, puntellò al potere un liberale di destra come Salandra, già orientato all’intervento e sabotatore dei negoziati con l’Austria. Questo composito “radicalismo nazionale”, intriso di polemica antigiolittiana, antisistema e soprattutto antisocialista, pervase buona parte dell’intellighenzia italiana e nel dopoguerra accompagnò consapevolmente l’ascesa del fascismo, condividendone i valori e spesso anche le azioni.
(5) Bruno Santini, nato a Carrara nel 1895, studente di giurisprudenza a Pisa, capitano degli alpini, avvocato. Alla guida della componente ex combattentistica, animata da toni anti-borghesi, diventa segretario del Fascio di Pisa nel dicembre 1920 e guida gli assalti alla sinistra, ai sindacati, alle leghe rosse, ai sindaci socialisti. Entrerà in conflitto col segretario federale Filippo Morghen e dopo alterne vicende verrà espulso e costretto ad lasciare Pisa nel 1925. Cfr. M. Canali, Il dissidentismo fascista, Pisa e il caso Santini, 1923-1925, Roma, Bonacci, 1983.
(6) Filippo Morghen nasce a Castellina Marittima nel 1882 da una famiglia di incisori e acquafortisti (il nonno Raffaello era al servizio del granduca Ferdinando III). Laureato in giurisprudenza a Pisa, è combattente, avvocato e possidente. Da Filippo Morghen Arnaldo Dello Sbarba aveva acquistato in società col fratello Bruno la cava di alabastro del Marmolajo di Castellina Marittima, dove sindaco era proprio quel Carlo Conti che fu amico, segretario e consigliere di Arnaldo (vedi nota 6). In APAdS sono conservati gli atti di compra-vendita della cava e il relativo carteggio.
(7) Sul “dissidentismo” pisano e il conflitto Santini-Morghen è bene non fermarsi alla semplice dicotomia “normalizzatori contro intransigenti”. C’è infatti da chiedersi quanto di “ideale” ci fosse nei conflitti tra fascisti per i quali, dopo la marcia su Roma, si erano spalancate le porte del potere assoluto. Il controllo del partito consentiva loro di occupare importanti posizioni e ottenere consistenti arricchimenti personali. Più forte del confronto sulle idee, era dunque la lotta per accaparrarsi i rilevanti vantaggi derivanti da un movimento che stava trasformandosi in regime. Vedi i già citati lavori di P. Nello e M. Canali, oltre a M. Mazzoni, Livorno all’ombra del fascio, Firenze, L.S. Olschki, 2009.
(8) Sull’aut aut di Morghen Cfr. il «Messaggero Toscano», 29 febbraio 1924.
(9) Carlo Conti (1879-1943), più volte sindaco di Castellina Marittima ‒ suo feudo politico ‒, amico, segretario particolare e ascoltatissimo consigliere di Arnaldo Dello Sbarba, è stato poeta e giornalista per diverse testate, tra cui: «La nuova Italia», da lui fondato, «La Nazione», «Il Telegrafo», «Il Giornale d’Italia», «Il Ponte di Pisa», «Camicia nera», il giornale della corrente di Santini, di cui era amico. Collaboratore della casa editrice Nistri-Lischi, repubblicano filodemocratico e massone, tentò senza successo di riunificare in un’unica formazione le varie anime della “democrazia massonica” pisana. Nell’aprile 1923 inaugurò il suo terzo mandato da sindaco con un discorso di entusiastico sostegno al governo Mussolini. Cfr. In memoria di Carlo Conti, Lallo, a cura dei giornalisti pisani, Pisa, V. Lischi e figli, 1963, e Discorso di Carlo Conti pronunciato per l’insediamento dell’amministrazione comunale di Castellina Marittima il 20 aprile 1923, Pisa, Nistri-Lischi, 1923, ristampato da Tagete, Pontedera, 2005.
(10) Lettera di Carlo Conti a Bruno Dello Sbarba, fratello minore di Arnaldo, del 24 dicembre 1923 in APAdS.
(11) Giuseppe Della Gherardesca (1876-1968), Conte Palatino, Nobile dei Conti di Donoratico, Patrizio fiorentino, di Pisa e di Volterra, Nobile di Sardegna. Esponente di spicco dell’aristocrazia agraria e del fascismo toscano, dominatore della zona di Castagneto Carducci e Bolgheri. Podestà di Firenze dal 1928 al 1933, Senatore del Regno dal 1929 al 1943, carica da cui decadde nel 1945 in seguito all’epurazione antifascista.
(12) A Quarto il 5 maggio 1915, per il 55° anniversario della spedizione dei Mille, Gabriele D’Annunzio pronunciò, davanti a oltre ventimila persone, un’“orazione” per invocare l’intervento nella guerra contro l’Austria-Ungheria, che ebbe una forte eco e segnò la definitiva egemonia nazionalista sul movimento interventista, agli inizi spinto dall’“interventismo democratico” di personaggi come Leonida Bissolati, compagno di partito di Arnaldo Dello Sbarba.
(13) Lettera di Arnaldo Dello Sbarba a Cesare Rossi del 10 novembre 1923, in BGVolterra/FAdS, Carteggio, b. 4. I documenti citati di seguito, salvo diversa indicazione, si intendono provenienti da questo archivio, stessa posizione.
(14) Arnaldo Fratini (1895-1973) è stato la memoria storica del socialismo a Volterra. Alabastraio, entrato giovanissimo nel PSI, dal 1919 ne fu più volte segretario e consigliere comunale e fu perseguitato dal fascismo. Cfr. A. Fratini, Appunti per una storia del socialismo volterrano, «Volterra», dal n. 9 (set. 1969) al n. 11 (nov. 1970).
(15) «Il Martello» venne fondato il 6 ottobre 1894 dal ventunenne Arnaldo Dello Sbarba con Giulio Topi (nel 1920 primo sindaco socialista di Volterra) sull’onda delle lotte contro il governo Crispi. Il giornale dovette chiudere il 13 settembre 1895 avendo collezionato tre processi in 12 mesi.
(16) Cfr. D. Benvenuti, Le cravatte nere, storie degli anarchici a Volterra, Volterra, Distillerie, 2009.
(17) L’appoggio alla conquista della Libia comportò l’espulsione dal PSI (con una mozione promossa da Benito Mussolini) della corrente riformista di Bissolati e Bonomi di cui faceva parte anche Arnaldo Dello Sbarba. Cfr. M. Degl’Innocenti, Il socialismo italiano e la guerra di Libia, Roma, Editori riuniti, 1976, anche I. Bonomi, Dal socialismo al fascismo, Milano, Garzanti, 1946.
(18) Cfr. Canali, Il dissidentismo fascista…, cit., p. 55.
(19) Athos Gastone Banti (1881-1959), giornalista “spadaccino” (molte sue polemiche finivano in duello) fu amico e sostenitore di Arnaldo Dello Sbarba. Redattore capo del «Telegrafo», corrispondente di guerra per il «Giornale d’Italia», dal 1919 al «Nuovo Giornale» di Firenze, organo ufficioso degli ambienti massonici, la cui sede venne data alle fiamme nel 1924 dai fascisti. In seguito Banti torna al «Giornale d’Italia», ma finisce nei guai con Mussolini per un articolo sul caffè bevuto dal Duce in tempi d’autarchia. Nel dopoguerra fonda e dirige «Il Tirreno» di Livorno fino al 1957. Filippo Filippelli (1890-1961), fascista della prima ora, giornalista dal 1920 al «Popolo d’Italia», nel 1922 diventa segretario di Arnaldo Mussolini, fratello del Duce. Nell’aprile 1923 è azionista, amministratore delegato e direttore del «Corriere Italiano», creato dai vertici fascisti con fondi messi a disposizione da gruppi industriali come Ansaldo, Eridania, Ilva, Fiat ecc. Il giornale funzionava anche come collettore di finanziamenti occulti gestiti da Arnaldo Mussolini per il fascismo e per la stessa famiglia Mussolini. Filippelli fornì a Amerigo Dumini (per il «Corriere italiano» ispettore delle vendite) la Lancia con cui Matteotti venne rapito ed ucciso. Ricercato, rivelò in un memoriale l’esistenza della “Ceka del Viminale”, comandata da Dumini. Venne arrestato il 17 giugno 1924 e due giorni dopo il giornale cessò le pubblicazioni. A proposito di fondi, nell’archivio Arnaldo Dello Sbarba (BGVolterra/FAdS, carteggio, b. 4) esistono le lettere indirizzate ad Arnaldo, firmate dal direttore dello stabilimento Solvay di Rosignano, che accompagnano quattro assegni di £ 5.000 ciascuno emessi dalla Solvay a favore dei due giornalisti: due intestati a Filippelli datati 22 febbraio e 27 marzo 1924, due intestati a Banti datati 14 aprile e 7 maggio 1924. Arnaldo fa da intermediario tra la Solvay e i beneficiari.
(20) Piero Ginori Conti (1865-1939), Principe di Trevignano, conte palatino, nobile romano, patrizio di Firenze e di Pisa e nobile di Livorno. Parlamentare dal 1900 al 1921. Sposa Adriana del Larderel e ne eredita le proprietà. Alla guida della Società Boracifera Larderello, inventa lo sfruttamento della geotermia per produrre elettricità. Crea il primo fascio fuori dalla città di Pisa e stronca così lo sciopero del 1920 alla Boracifera, imponendo l’eliminazione di molti diritti, licenziamenti di massa e successivamente l’obbligo di iscrizione al PNF per i dipendenti. Sostenitore di Mussolini, alla sua morte il fascismo lo celebra con funerali di Stato. Cfr. il volume apologetico di R. Martinelli, Il fascismo a Larderello, Firenze, Sansoni, 1934. Inoltre, M. Fontani e M. G. Costa, Come la chimica Toscana si prostrò di fronte al fascismo: il caso di Piero Ginori Conti, https://chimicanellascuola.it/index.php/cns/article/view/chimica-toscana-fascismo-il-caso-piero-ginori-conti/65
(21) Promemoria Carlo Conti, due pagine scritte a mano: “Chiedere chi, a proposito di sindaci rossi, aiutò il Comune di Cascina a liberarsi del famigerato sindaco Guelfi, insistendo presso l’autorità governativa e giudiziaria perché promuovessero un’inchiesta amministrativa contabile prima, la procedura penale poi? Il prefetto Malinverno dirà che tutta questa opera fu compiuta dall’onorevole Dello Sbarba (…)”. Su Giulio Guelfi (1888-1939) Cfr. Massimiliano Bacchiet, “Guelfi Giulio” in ToscanaNovecento: https://www.bfscollezionidigitali.org/entita/16235-guelfi-giulio?i=12. Renato Malinverno fu prefetto filofascista di Pisa dal 1° settembre 1921 al 14 aprile 1924.
(22) Promemoria Fagioli: sette pagine scritte a mano intestate Camera dei Deputati. “Si venne alle elezioni del 1921 e Dello Sbarba fu accolto come capo del Blocco Nazionale (…). In quell’occasione corse tutta la circoscrizione, parlando patriotticamente ed esaltando le nuove correnti del fascismo (…). A Volterra, dove nel 1919 i bolscevichi avevano proibito a Dello Sbarba l’entrata, egli fu ricevuto trionfalmente da cortei capitanati dai fascisti Pedani, Maffei ecc. (…)”. Paolo Pedani era ispettore della zona di Volterra, Gherardo Maffei segretario del fascio di Volterra e commerciante di alabastro. Nel 1924 entrambi furono protagonisti della campagna contro la candidatura Dello Sbarba.
(23) Il commando fascista che uccise Carlo Cammeo era composto dallo studente Elio Meucci, da Mary Rosselli-Nissim, figlia di un patriota mazziniano e fanatica attivista interventista durante la Prima guerra mondiale, e da Giulia Lupetti, figlia del comandante del presidio militare di Pisa. Cfr. Massimiliano Bacchiet, Un’ora di dolore per il proletariato pisano, in ToscanaNovecento: https://www.toscananovecento.it/custom_type/unora-di-dolore-per-il-proletariato-pisano/
(24) Il 21 luglio 1921, Sarzana fu attaccata da una colonna di circa 500 squadristi comandati da Amerigo Dumini, ma stavolta furono affrontati da Carabinieri e Guardie regie, cui seguì la resistenza antifascista spontanea della popolazione e degli Arditi del Popolo. Fu uno dei pochi episodi di resistenza armata ai fascisti, che ebbero diversi morti e feriti e molti arrestati.
(25) Tito Menichetti, giovane fascista ex ufficiale, fu ucciso il 25 marzo 1921 durante una spedizione punitiva a Ponte a Moriano e celebrato come il “primo martire” del fascismo pisano. I Fasci organizzarono i suoi solenni funerali cui parteciparono tutte le istituzioni. L’Università accolse il feretro in Sapienza con la partecipazione del senato accademico oltre che del Rettore Ermanno Pinzani, che poi, sugli studenti universitari fascisti caduti nel 1921, così scrisse : Nell’anno scolastico testé decorso (…) quei martiri (…) hanno offerto la loro vita giovanile, preziosa e piena di entusiasmi in olocausto ai santi ideali di patria, giustizia e libertà”. Cfr. E. Pinzani, Inaugurazione degli studi. Relazione del Rettore, «Annuario della R. Università di Pisa per l’Anno Accademico 1921/1922», Pisa, Tip. Mariotti, 1922, p. 24.
(26) Nel corteo che attraversa “una città imbandierata”, Arnaldo Dello Sbarba è in prima fila insieme al sindaco Buffarini Guidi, al prefetto Malinverno, al senatore Supino e al deputato Ruschi. Cfr. «Messaggero toscano», 29 ottobre 1923.
(27) Cfr. «Messaggero Toscano», 21 febbraio 1924.
(28) Dario Lischi “Darioski” (1891-1938), giornalista, colonna dell’«Idea fascista», organo della federazione fascista pisana, del cui consiglio federale fu più volte membro, autore di numerosi libri, tra cui La marcia su Roma con la colonna Lamarmora (1923), Viaggio di un cronista fascista in Cirenaica (1934) e Tripolitania Felix (1937). Cfr. P. Nello, Liberalismo, democrazia e fascismo…, cit., p. 136.
(29) “Medoro” nomignolo dato dai pisani a Filippo Morghen a causa delle sue traversie coniugali. Ispirato alle vicende di Angelica nell’Orlando Furioso.
(30) Sandro Carosi (1899-1965), uomo di fiducia di Morghen, era farmacista e sindaco di Vecchiano, definito dal prefetto Malinverno «uno squilibrato per temperamento violento». Tra gli altri, uccide a freddo il tipografo Ugo Rindi l’8 aprile del 1924. Ebbe il compito di minacciare ripetutamente Arnaldo Dello Sbarba. Giuseppe Biscioni, “ras” di Calci, partecipò all’assassinio Rindi. Daniele De Guidi era il “ras” di Rosignano Marittimo. Lamberto Parenti era squadrista a Cascina e Navacchio. Francesco Giunta (1887-1971), segretario del PNF dal 1923 al 1924 e parlamentare dal 1921 al 1943, fu il persecutore della minoranza slovena di Trieste. Nel 1945 la Jugoslavia lo dichiarò criminale di guerra, ma l’Italia non concesse l’estradizione.
(31) L’ordine del giorno dei sindaci e la lettera del sindaco di Collesalvetti viene spedita da Carlo Conti ad Arnaldo il 19 febbraio 1924.
(32) Guido Buffarini Guidi (1895-1945), laureato in Giurisprudenza, volontario nella Prima guerra mondiale, massone nella loggia Darwin di Pisa. Avvocato e sindaco fascista di Pisa dove fu anche podestà e federale, membro del Gran consiglio del fascismo, sottosegretario agli interni (1933-1943), fu ministro dell’Interno nella Repubblica Sociale Italiana e corresponsabile dell’eccidio delle Fosse Ardeatine. Venne fucilato dai partigiani il 10 luglio 1945.
(33) Lando Ferretti (1895-1977), combattente di due guerre, capo-corso alla scuola Normale di Pisa, deputato fascista dal 1924 al 1939. Dirigente sportivo, in era fascista fu presidente del CONI e commissario della Federazione italiana gioco calcio. Nel 1942 tenne una conferenza a Firenze nel 1942 indicando “il comune nemico nel trinomio giudaismo, plutocrazia, bolscevismo” e proponendo la ghettizzazione degli ebrei. Nel dopoguerra fu a lungo senatore del MSI (1953-1968) e membro del comitato organizzatore delle olimpiadi di Roma del 1960.
(34) Cfr «Il Messaggero Toscano» del 21 febbraio 1924.
(35) Mario Supino (1879-1938), avvocato, collega e amico di Arnaldo, già dirigente dell’Associazione nazionale combattenti di Pisa, per conto della massoneria si candidò alle elezioni politiche del 1924 nella lista democratico sociale, con scarso successo. Augusto Mancini (1875-1957) fu docente di filologia all’università di Pisa. Interventista, deputato repubblicano dal 1913 al 1924. Primo presidente del CLN di Lucca e primo rettore dell’università di Pisa liberamente eletto.
(36) Guido Donegani (1877-1947) fu presidente della società Montecatini, deputato del partito fascista dal 1921 al 1939, massone. Nel 1921 era stato eletto con Arnaldo Dello Sbarba nella lista dei “Blocchi Nazionali”. Gino Sarrocchi (1870-1950), deputato della destra liberale dal 1913 al 1929, ministro ai Lavori pubblici del primo governo Mussolini, si dimise dopo il delitto Matteotti. Nel 1929 fu nominato senatore. Dopo il 25 luglio 1943 si ritirò a vita privata. Gino Aldi Mai (1877-1940) eletto deputato a Siena in una lista agraria-liberale che poi confluisce nel PNF, rieletto dal 1924 al 1934, poi nominato senatore.
(37) APAdS, minuta a mano di 15 pagine in piccolo formato intestate “Camera dei Deputati”.
(38) In APAdS.
(39) Cfr. «La Nazione» del 17 giugno 1924, che cita indiscrezioni su possibili nomi.
(40) Cfr. R. De Felice, Mussolini il fascista, 1. La conquista del potere 1921-1925, cit., cap. 7: Dal delitto Matteotti al discorso del 3 gennaio.
(41) Cfr. M. Canali, Il dissidentismo fascista…, cit., pp. 80-83.
(42) Lettera del 26 agosto 1925, in APAdS.

Riccardo Dello Sbarba
Volterra, 1954. Laureato in filosofia a Pisa, docente di ruolo, giornalista professionista. Fin da giovanissimo partecipa ai movimenti degli studenti medi e universitari, milita nel gruppo del “Manifesto” di Pisa e scrive corrispondenze per il quotidiano. Dal 1986 al 1988 è nominato dalla Regione Toscana nel CdA del Parco di S. Rossore. Collabora con «Il Tirreno». Nel 1988 si trasferisce a Bolzano, dove lavora al quotidiano «Alto Adige» fino al 1992, al settimanale in lingua tedesca «ff» fino al 2001 e dirige il quotidiano «Il Mattino» fino al 2003. Cura il volume: Alexander Langer, Scritti sul Sudtirolo – Aufsätze zu Südtirol, Merano, A&B, 1996 ed è autore di: Südtirol-Italia: Il calicanto di Magnago e altre storie, Trento, Il Margine, 2003. Per quattro legislature, dal 2004 al 2023, è consigliere per i Verdi del Sudtirolo nel Consiglio provinciale di Bolzano, di cui è stato presidente dal 2006 al 2008. Collabora alla Biblioteca F. Serantini su temi inerenti la storia politica e sociale della provincia di Pisa.




UNA COSPIRAZIONE IN MARE APERTO.

Fra le diverse ricorrenze dell’Undici settembre (Strage nel carcere di Attica, 1971; Golpe in Cile, 1973; Attacco alle Twin Towers, 2001), ve ne è una che appartiene alla storia dell’antifascismo in Italia, ossia l’attentato politico compiuto da Gino Lucetti contro Benito Mussolini, appunto l’11 settembre 1926. «Della serie di attentati che punteggiarono la soppressione delle libertà italiane – come sottolineò lo storico “azionista” Aldo Garosci – esso fu quello in cui si espresse la più lucida e chiara volontà politica».

Il mancato tirannicida, una volta catturato, davanti agli inquirenti si era proclamato «anarchico individualista», onde evitare conseguenze per altri; ma, in contrasto con l’interpretazione in chiave solipsistica del suo gesto, risulta ormai appurata l’esistenza di una rete cospirativa con condivise finalità che vedeva il coinvolgimento, a diversi livelli, di anarchici di differente tendenza, ex-arditi del popolo e antifascisti “d’azione”. Meno conosciuta ed indagata rimane invece la decisiva riunione tenutasi segretamente un anno prima dell’attentato a Livorno dove, come le autorità non ignoravano, erano attivi imbarchi e collegamenti clandestini.

Infatti, secondo la testimonianza dell’anarchico carrarino – poi comandante partigiano – Ugo Mazzucchelli (1903-1997), avvalorata dallo storico Gino Cerrito, nell’estate del 1925 a Livorno vi era stata una riunione clandestina, a bordo di un barcone in mare aperto, a cui presero parte, oltre a Lucetti e a Mazzucchelli, gli anarchici livornesi Augusto Consani e Virgilio Recchi, già organizzatori del Battaglione degli Arditi del popolo, nonchè due minatori anarchici di San Giovanni Valdarno e qualche altro militante non identificato[1]. Lucetti era infatti rientrato clandestinamente da Marsiglia, dove era espatriato alla fine del 1922 intessendo rapporti con gli ambienti più risoluti del “fuoriuscitismo” antifascista. Da quanto si può dedurre e come confermato dal militante anarchico Piero Di Pietro, in questa riunione, preceduta da altri incontri nel carrarese, era stato deciso e delineato un piano operativo per l’eliminazione fisica di Mussolini, oltre a concertare conseguenti sollevazioni contro il regime. Infatti, dopo la mancata insurrezione a seguito del delitto Matteotti e il fallimento della politica aventiniana, «ogni transazione [era] divenuta impossibile».
Lucetti, anarchico d’azione, era eticamente determinato ad attentare alla vita del duce sin dal dicembre 1922, a seguito della strage operaia di Torino, e già nel gennaio-febbraio 1923 si era recato a Roma per verificarne l’attuazione- Il progetto dovette però essere rinviato in quanto Lucetti rimase coinvolto e ferito in una sparatoria con i fascisti ad Avenza, presso il caffè Napoleone in piazza Rivellino, avvenuta nella notte fra il 25 e il 26 settembre 1925. Ricercato dai fascisti e dalla polizia, dovette quindi nascondersi e l’11 ottobre imbarcarsi come “clandestino” su un naviglio per il trasporto di marmo diretto a Marsiglia[2].

L’ANARCHICO ARDITO

Gino Lucetti era nato ad Avenza, frazione del comune di Carrara (MS), il 31 agosto 1900, da Filippo e Adele Crudeli[3]. Dopo aver studiato sino alla VI classe elementare, aveva iniziato a lavorare in cava, divenendo un lizzatore, ossia addetto al faticoso e pericoloso spostamento dei blocchi di marmo. In gioventù era stato vicino agli ideali repubblicani, peraltro non in contraddizione con quelli libertari[4].
Secondo quanto si può dedurre dal confuso Foglio matricolare n. 17822, il 24 marzo 1918 era stato chiamato sotto le armi e, al 2 luglio seguente, risultava «giunto in territorio dichiarato in stato di guerra» ed assegnato come autiere al 2° Reparto d’Assalto di Marcia che, alla vigilia della battaglia finale di Vittorio Veneto, si trovava dislocato nel trevigiano, fra Pederobba e Palazzon. Probabilmente non aveva preso parte a combattimenti, ma dopo l’attentato a Mussolini, la circostanza d’aver comunque fatto parte degli Arditi venne omessa nelle cronache, eccetto che in un articolo sfuggito alla censura, pubblicato su «La Nazione» del 14 settembre 1926, mentre su altri giornali, come la «Gazzetta livornese» del 13 settembre, fu indicato quale ex artigliere[5].
Dopo essere stato posto in congedo provvisorio il 28 febbraio 1919, il 1° dicembre 1919 venne richiamato in servizio presso diversi reggimenti di fanteria (90°, 65°, 25°), venendo impiegato anche nella bonifica dei residuati bellici. Ancora in grigioverde, nel 1921 per un’assenza di quattro giorni fu denunciato per diserzione e per aver sottratto «oggetti d’armamento» (un fucile 91 con relativa baionetta), venendo però assolto, condonato e finalmente congedato nel novembre 1921.
Tornato ad Avenza, alla fine del 1922 decideva di lasciare illegalmente l’Italia a seguito di scontri avuti con fascisti nella zona di Carrara; aiutato dal fratello Andrea, s’imbarcava su un navicello carico di marmo, approdando a Nizza e poi a Marsiglia dove gli fu sempre possibile trovare lavoro come scalpellino presso laboratori del marmo gestiti da italiani di simpatie libertarie o antifasciste.
In Francia era entrato in relazione con esponenti di primo piano dell’anarchismo, dall’antiorganizzatore Paolo Schicchi al federalista Camillo Berneri, e nel 1924, aveva aderito alle Legioni garibaldine della Libertà che, velleitariamente, avrebbero dovuto penetrare in Italia e rovesciare con le armi il regime mussoliniano.
Nello stesso anno risultava essere abbonato alla rivista anarchica «Pensiero e volontà», di cui erano promotori Errico Malatesta e Luigi Fabbri, collaborando saltuariamente al settimanale «Fede!», diretto da Luigi Damiani; due testate non riconducibili all’anarchismo di tendenza individualista.
Dopo l’infausto epilogo garibaldino, apparve evidente che, contro il totalitarismo fascista, altre strade andavano percorse e, superando le diverse impostazioni teoriche, gli anarchici raggiunsero una sostanziale unità d’azione.
Lucetti, come si è visto, sarebbe rientrato in Italia nell’estate del 1925 per uccidere il duce, nella prospettiva d’innescare sommosse, scioperi e attentati; ma in ottobre dovette precipitosamente ripartire alla volta della Francia.
Ritornato furtivamente in Versilia alla fine del maggio 1926, su un barcone da Marsiglia al porto di Marina di Carrara (secondo diversa fonte, nascosto in un vagone merci al confine di Ventimiglia), s’entrò nella fase operativa del piano: in giugno, Lucetti soggiornò almeno una settimana a Roma, ospite di Caterina Diordi, cercandovi anche un lavoro come scalpellino, e forse ancora un giorno o due a metà luglio.
Fra una “trasferta” e l’altra, trovò ospitalità presso compagni compiacenti a Montignoso e soprattutto a Viareggio, con qualche fugace visita familiare ad Avenza.
Con ogni probabilità in questo periodo, furono reperite le armi, una pistola automatica Browning procuratagli dal repubblicano romano Vincenzo Baldazzi (1898-1982), detto “Cencio”, già dirigente nazionale degli Arditi del popolo, e due bombe a mano SIPE, a frammentazione, che l’anarchico avenzino Gino Bibbi (1899-1999), suo cugino, aveva recuperato a Trieste dall’anarchico Umberto Tommasini (1896-1980), così come confermato da entrambi. Dell’attentato in preparazione appare accertato che furono messi al corrente o vi ebbero una qualche parte gli anarchici Malatesta, peraltro in stretti rapporti sia politici che amicali col Baldazzi, Temistocle Monticelli e Luigi Damiani, esponenti di primo piano dell’Unione anarchica italiana già costretta all’attività clandestina[6].

L’ATTENTATO SENZA FORTUNA

Dopo l’attentato, sia sulla stampa che nell’inchiesta giudiziaria, venne dato molto risalto ai collegamenti dell’anarchico con «le centrali dell’antifascismo» in Francia e lo stesso Mussolini additò «certe tolleranze colpevoli e inaudite di oltre frontiera», ma in realtà Lucetti si era mosso in modo autonomo, facendo piuttosto affidamento sui compagni in Italia. Infatti, ai compagni di Marsiglia tenne nascosto l’imminente partenza per l’Italia e chiese i soldi necessari per il viaggio ad un’ignara compaesana. Considerato che il “fuoriuscitismo” era pesantemente infiltrato dalla polizia politica fascista, tale scelta gli permise di muoversi con relativa sicurezza, cogliendo di sorpresa l’apparato poliziesco, tanto che in conseguenza dell’attentato, Mussolini dimissionò il capo della polizia Crispo Moncada, sostituito dal “superpoliziotto” Arturo Bocchini.
Giunto a Roma, il 2 settembre 1926, Lucetti trovò alloggio, sotto falso nome, presso l’albergo “Trento e Trieste”, grazie all’amico e compagno Leandro Sorio che vi lavorava come cameriere, e la mattina dell’11 settembre 1926 entrò in azione nei pressi del piazzale di Porta Pia, eludendo la vigilanza di una cinquantina di agenti in divisa e in borghese dislocati lungo il percorso “presidenziale”.
Al passaggio dell’auto, una nera “limousine” Fiat 519, che conduceva Mussolini dalla sua residenza estiva di Villa Torlonia al Ministero degli Esteri a Palazzo Chigi[7], Lucetti lanciava, dopo averne accesa la miccia, una SIPE fidando che questa (pesante circa mezzo chilo) sfondasse il vetro dello sportello posteriore laterale destro ed esplodesse all’interno della vettura, dove era seduto il duce. Purtroppo, a causa del sobbalzo dell’auto per un avvallamento della strada, la granata colpì la cornice superiore della portiera, pochi centimetri sopra il vetro, rimbalzando e deflagrando sul selciato, col ferimento di otto passanti raggiunti da schegge[8].
Particolari poco conosciuti dell’azione armata sono stati rivelati da “Cencio” Baldazzi in un’intervista del 1976, che confermano il carattere tutt’altro che “individuale” dell’attentato: «c’entravo io, Malatesta, [Attilio] Paolinelli, c’entravamo tutti, tutto il cerchio nostro della resistenza romana. Noi avevamo preparato due attentati a Mussolini, uno al Tritone, ed uno a Porta Pia […] dopo aver organizzato una certa convergenza intorno Porta Pia»[9].
Lucetti, fu quasi subito catturato dal maresciallo capo Dottarelli e dal vice brigadiere Motta che, assieme all’ispettore di PS Bodini responsabile del servizio di scorta, si trovavano sull’Alfa Romeo che seguiva dappresso l’auto di Mussolini. Lucetti disponeva di un’altra SIPE e della pistola Browning, presumibilmente cal. 7,65, con proiettili artigianalmente modificati per renderli più efficaci, che non potè usare. Condotto in Questura in piazza del Collegio Romano (attualmente commissariato di PS Trevi-Campo Marzio), subì i primi interrogatori e pestaggi, mentre all’esterno fascisti facinorosi provocavano incidenti.
Già mezz’ora dopo l’attentato veniva arrestato Malatesta presso la propria abitazione e a distanza di poche ore la sua compagna, l’anarchica Elena Melli (1899-1946); a Roma, nella retata anti-anarchica finivano militanti noti quali i tre fratelli Turci, Aldo Eluisi, Francesco Porcelli, Carlo Monticelli, Eolo Varagnoli, Adelmo Preziosi ma anche semplici simpatizzanti oppure non anarchici, fra cui i comunisti Umberto Terracini e, a Milano, Ottorino Perrone. Non mancarono le spedizioni punitive, come quella contro l’onorevole socialista Attilio Susi a Santa Marinella.
A Livorno, col pretesto che fra i passanti feriti vi era il cappellaio Garibaldo Paoletti, originario di Livorno, i fascisti assaltarono il consolato francese. Sempre nella città labronica, innumerevoli furono i messaggi di felicitazione ed esecrazione, fra cui quello del Maestro Pietro Mascagni a cui Mussolini rispose personalmente. Nella chiesa di S, Giulia, invece, «venne cantato un solenne “Te Deum” di ringraziamento per lo scampato pericolo del Primo Ministro Benito Mussolini».
Nell’arco di pochi giorni furono effettuati almeno 500 arresti e 600 perquisizioni, soprattutto nella capitale ma anche altrove; ad esempio, tra minatori di S. Giovanni Valdarno. Tra i circa sessanta arrestati fra Carrara ed Avenza, vi erano gli amici, i familiari e i parenti di Lucetti ed anche la sua fidanzata, Nella Menconi (1899-1975). A Roma, furono subito tratti in arresto Baldazzi, Leandro Sorio (1899-1975) e Stefano Vatteroni (1897-1965). Quest’ultimi due vennero condannati dal Tribunale Speciale per la Difesa dello Stato, rispettivamente a 20 e 18 anni di carcere, «complicità non necessaria»[10]. Baldazzi, invece, ebbe una condanna a cinque anni di carcere per la complicità nell’attentato e ad altri cinque per aver poi fornito aiuto finanziario alla madre di Lucetti[11]. I familiari, fra cui il cugino Gino Bibbi e la madre, furono assolti «per il reato di concorso in mancato omicidio di S.E. il primo ministro» nel giugno del 1927. Nelle settimane seguenti, numerose furono pure le sentenze per «apologia di attentato» nei confronti di persone che avevano espresso, magari in un’osteria, il proprio rammarico per il tentativo non andato a buon fine. Accadde anche a Livorno, dove nei pressi di Piazza dei Mille tre «giovanotti» furono arrestati e denunciati per aver parlato «a voce alta dell’attentato contro la persona di S.E. Mussolini, esaltando l’attentatore, augurando un nuovo infame gesto contro il Duce»[12]. A Rio Marina, per lo stesso reato, il contadino anarchico Narciso Trenti fu condannato a 30 mesi di reclusione e 300 lire di ammenda[13].

CONDANNA E MEMORIA

Il processo, svoltosi dall’8 all’11 giugno 1927, apparve come una farsa, con l’avvocato d’ufficio Emilio Tommasi, che sembrava l’accusatore dell’imputato, mentre il P.M. Enea Noseda lo additava quale «parricida». A presiedere il Tribunale Speciale vi era il generale Carlo Sanna e della corte faceva parte il conte Antonio Tringali-Casanuova, futuro presidente del Tribunale speciale sino al 1943, nato a Cecina e fascista della prima ora. Lucetti venne condannato a 30 anni di reclusione; fra i delitti di cui fu ritenuto colpevole, quello di aver commesso il fatto «anche col fine d’incutere pubblico timore e di suscitare tumulto e pubblico disordine», con evidente allusione alle finalità di destabilizzazione del regime[14]. Da parte sua, durante l’udienza, Lucetti rifiutò decisamente l’accusa di essere un sicario eterodiretto, così come – sin dal primo interrogatorio – aveva tenuto a precisare che «il mio è stato un attentato da proletario».
Lo aspettavano 17 anni di carcere: dal Terzo Braccio di “Regina Coeli” nel luglio del 1927 fu condotto, via Livorno, nel penitenziario elbano di Portolongone (oggi Porto Azzurro) con i ferri ai polsi e «la lugubre casacca a righe», come riferito su «Il Telegrafo» dell’8 e 9 luglio.
Nel febbraio 1930 venne trasferito nel carcere di Fossombrone (PU), dove in occasione del Primo maggio 1932, assieme ad altri sei detenuti comunisti e anarchici – fra i quali il livornese Tito Raccolti e il veronese Giovanni Domaschi – realizzò artigianalmente e fece uscire dal carcere una quindicina di manifestini, oltre a cantare l’Internazionale e Bandiera rossa. A seguito di tale dimostrazione, il mese dopo fu deportato nell’isola-carcere di Santo Stefano (LT)[15]. Nel terribile penitenziario ex-borbonico, Lucetti rimase sino al settembre 1943, trattenuto dalle misure anti-anarchiche del governo Badoglio, anche dopo la “caduta” di Mussolini. Finalmente liberato da paracadutisti americani il 10 settembre, assieme ad una sessantina di “politici”, fu trasferito all’Isola d’Ischia dove, drammaticamente, il 17 dello stesso mese venne ucciso da un colpo d’artiglieria sparato dalle forze tedesche dalla costa napoletana, forse da Monte Procida o da Capo Miseno, con obiettivo le motosiluranti alleate presenti in porto.

Quando la tragica notizia raggiunse il carrarese dove era in corso la resistenza, la prima formazione partigiana di tendenza libertaria assunse il suo nome e così anche quella poi ricostituita come “Lucetti bis”. A liberazione avvenuta, il CLN di Carrara, accogliendo l’ampia sollecitazione popolare, decise di intitolare a Lucetti la centrale e storica piazza Alberica, ma nel 1963 la giunta comunale decise di intitolargli la piazza Rivellino ad Avenza, mentre quella di Carrara tornava all’antica denominazione.

La salma di Lucetti, da Ischia, avrebbe fatto ritorno ad Avenza il 27 aprile 1947, salutata da un’enorme manifestazione popolare nella piazza a lui dedicata, con comizio tenuto dall’anarchico Giuseppe Mariani (1898-1974), suo compagno di detenzione a S. Stefano, e poi accompagnata in corteo sino al cimitero di Turigliano, dove ancora si trova.
Imbarcata su una nave a Napoli era approdata nel porto di Livorno sabato 26 aprile, venendo accolta e salutata – dalle ore 12 alle ore 15 – presso la sede della Federazione anarchica livornese in via Ernesto Rossi 80[16]. Come riferisce «La voca apuana» del 3 maggio 1947, «la salma dell’eroe era posta nella sede degli anarchici coperta di bandiere e una numerosa schiera di persone attendevano l’ora della cerimonia. Erano presenti compagni di tutti i partiti e numerosi cittadini», quindi in corteo il feretro giunse in piazza San Marco e, dopo un breve discorso di commiato, fu caricato su un’autoambulanza per l’ultimo trasferimento.
Accompagnata da una delegazione di anarchici carrarini e livornesi, dopo brevi soste commemorative a Pisa, Massa ed Avenza, il trasporto giunse a Carrara attorno alle ore 20 e la bara venne esposta presso la sede della FAI, in piazza Lucetti, in attesa delle grandi manifestazioni dell’indomani.
Alcuni anni dopo, Alberto Tarchiani, uno dei fondatori del movimento antifascista “Giustizia e Libertà”, riferendosi agli attentati alla vita di Mussolini, avrebbe commentato: «chi condannerebbe oggi quei tentativi che non avevano bassi scopi di vendetta, ma convinti propositi di evitare sciagure infinitamente più vaste, eliminando un uomo che, vaneggiando di gloria conduceva l’Italia alla devastazione materiale e morale?».

NOTE

1. Augusto Consani (1883-1953), pastaio, militante di primo piano dell’Unione anarchica livornese, era stato segretario della Camera sindacale del Lavoro (USI) nonché tra gli organizzatori dell’arditismo antifascista. Condannato a cinque anni di confino quale «elemento pericoloso per l’ordine dello Stato», fu deportato a Lipari nel dicembre 1926, venendo rimesso in libertà nel marzo 1927, in via condizionale, poichè ammalato di tubercolosi; ciò nonostante avrebbe continuato l’attività clandestina. Paradossalmente, nel saggio di Nicola Badaloni e Franca Pieroni Bortolotti, Movimento operaio e lotta politica a Livorno 1900-1926 (Editori riuniti, 1977) viene ritenuto «uno dei principali sostenitori di una linea “attendista”». Virgilio Recchi (1900-1982), operaio elettricista, fra i fondatori degli Arditi del popolo, è schedato dal 1926 come anarchico. Nel 1945, è nel Comitato di liberazione aziendale del Cantiere navale OTO e fa parte del Gruppo sindacale libertario; partecipa al Congresso fondativo della FAI in rappresentanza del gruppo “Pietro Gori” e nel 1947 è nella Giunta esecutiva della Camera del lavoro, per la componente anarchica.
2. Secondo una ricostruzione pubblicata sulla «Gazzetta livornese» del 13 settembre 1926, «raggiunta la spiaggia il Lucetti sempre aiutato dal fratello suo Andrea, si imbarcava notte tempo sopra un piccolo gozzo, raggiungendo a forza di remi Lerici, ove all’alba del giorno dopo, un navicello carico di marmi, alzava l’ancora per la Francia».
3. Nei suoi saggi, lo storico Renzo De Felice l’ha ritenuto «nativo della Garfagnana», probabilmente perché, subito dopo l’arresto, Lucetti aveva declinato una falsa identità dichiarando d’essere nato a Castelnuovo Garfagnana (LU).
4. Nel Carrarese vi era una storica collateralità fra gli ambienti repubblicani e anarchici e, in particolare, proprio ad Avenza questa risultava evidente nella bandiera nera della locale sezione mazziniana.
5. Risaliva forse a tale esperienza negli Arditi il «tatuaggio sinistro» “W la morte” che Lucetti recava sull’avambraccio oppure, secondo la declinazione poetica di Virgilia D’Andrea, alludeva a «La morte che dona la vita / La morte che risveglia i popoli / Non quella che li distende inermi ed inetti dentro una tomba senza gloria / La morte che spezza il tiranno / Non quella che la tirannia riassoda ed eterna» (Gloria anarchica, 1933).
6. Il 17 gennaio 1926 si tenne segretamente un Convegno della UAI a Milano ed un altro in forma clandestina ai primi di agosto dello stesso anno. Esiste, tra l’altro, una lettera alquanto sibillina, scritta da Malatesta il 4 settembre 1926 all’anarchico Alfonso Coniglio, in cui comunicava che «Le seicento lire di cui mi parli furono ricevute al principio di quest’anno e furono adoperate non per Pensiero e Volontà[il giornale anarchico diretto da Malatesta] ma per un bisogno urgente del nostro movimento. Io ti scrissi e ti dissi vagamente che cosa avevamo fatto del denaro – senza però entrare in particolari, perché si trattava di cose che non conviene scrivere […] Siamo pieni di belle speranze, ma per ora sono… speranze. Noi però facciamo tutto quello che possiamo perché presto diventino realtà».
7. Nel 1922, Mussolini dopo aver trasferito il ministero delle Colonie nel Palazzo della Consulta, aveva destinato Palazzo Chigi a sede del Ministero degli Esteri e in virtù della sua doppia carica di Presidente del Consiglio e di ministro degli Esteri, ne aveva fatto la sua sede ministeriale.
8. Se invece che la SIPE, ad accensione manuale, fosse stata impiegata la variante a percussione (tipo “Gallina”), l’esito avrebbe avuto ben altra efficacia, scoppiando all’urto.
9. Il coinvolgimento di Baldazzi è stato confermato dalla moglie Elena Vitiello, intervistata da Alessandro Portelli: «lo avevano preparato insieme. La cosa che l’attentato non riuscì, con tutte le misure e tutti i calcoli che avevano fatto, non avevano tenuto conto che la strada era leggermente in discesa».
10. Le prove a loro carico erano labili, tanto che secondo Guido Leto, allora funzionario dell’Ufficio speciale movimento sovversivo ed in seguito a capo dell’OVRA, «l’inchiesta assodò che [Lucetti] non aveva complici», forse anche per giustificare il fallimento della sicurezza.
11. Nonostante la stretta sorveglianza, Baldazzi, riuscì ad incontrarsi con Malatesta (erano vicini di casa, in via Andrea Doria) e a prendere accordi con Attilio Paolinelli ed Aldo Eluisi – entrambi anarchici ed ex-arditi del popolo – nel tentativo «di organizzare la fuga» di Lucetti il giorno stesso del processo.
12. L’arresto di in terzetto per apologia di reato, «Gazzetta livornese», 15 settembre 1926. I tre erano l’operaio carpentiere Vittorio Pieracci, il facchino Licurgo Niccolai e il muratore Ilio Fiorini; i primi due schedati come comunisti, il terzo quale socialista.
13. Per offese al Primo Ministro, «Gazzetta livornese», 16 settembre 1926. Sullo stesso quotidiano si trova anche la notizia del rinvio a giudizio per il capitano marittimo Emilio Oliviero, «imputato di non aver esposta la bandiera in occasione dell’attentato al Duce».
14. Le pene accessorie, oltre a tre anni di vigilanza speciale, erano tragicomiche: 300 lire di ammenda, 600 lire per concessioni governative, l’interdizione perpetua dai pubblici uffici. In seguito, per effetto dei decreti governativi di amnistia e indulto del 1932, 1934 e 1937, la pena risultò ridotta a 17 anni, con scarcerazione prevista per il 10 settembre 1945.
15. Le inumane condizioni di prigionia sono descritte anche dal comunista livornese (seppure nato a Pisa) Athos Lisa in Memorie. Dall’ergastolo di Santo Stefano alla Casa penale di Turi di Bari, Milano, Feltrinelli, 1973.
16. Anche a Livorno, un gruppo anarchico – quello del quartiere S. Jacopo – assunse il suo nome.

 

Articolo pubblicato nel settembre del 2024.




Giovanni Martelli: storia di un antifascista livornese

Come affermato in precedenza, Giovanni Martelli viene arrestato a Livorno l’11 giugno 1932, ha solo diciannove anni e definisce negli anni quell’evento come «un duro colpo».[1] Allo stesso modo, il 1932 rappresenta un anno difficile per la riorganizzazione della Federazione comunista livornese, in quanto molti militanti adulti e di spicco vengono arrestati.

Dapprima, Martelli viene fermato e perquisito da un poliziotto dell’OVRA, successivamente gli viene trovato un biglietto che testimonia la sua attività nell’organizzazione del Soccorso rosso.[2] Viene interrogato alla Questura Centrale dal Commissario dell’OVRA Parlagreco, il quale deduce che non solo egli militava nel PCd’I, ma che addirittura apparteneva alla Federazione insieme ad altri esponenti che erano già stati arrestati nei giorni precedenti. Martelli è costretto a riconoscere ed a identificare gli altri compagni di partito, come Leonardo Leonardi, Roberto Vivaldi e Giovanni Tardini. Martelli affermò che non conosceva nessuno, se non qualche individuo adulto dell’organizzazione comunista. Resistere però non è sempre facile e si può comprendere dalle parole usate nell’Autobiografia, in cui egli stesso racconta:

«[…] Pur insistendo a negare […], essi mi fecero uscire e dopo poco fui di nuovo chiamato e così mi trovai di fronte al Vivaldi, il quale – disgraziato – era in uno stato da fare pietà.

Mi domandarono: lo conosci?

No, risposi, non l’ho mai visto.

Essi allora si rivolsero al Vivaldi il quale mi disse: è inutile Martellino, non negare, sanno tutto, essi sanno e conoscono tutto del nostro movimento e quindi non vale la pena insistere, del resto hanno confessato tutti.

Per la verità rimasi molto colpito, non riuscivo a comprendere come esso avesse capitolato così; tuttavia, continuai a negare […]»[3]

Successivamente, viene sottoposto a una perizia calligrafica per vedere se davvero fosse stato lui l’autore del biglietto sul Soccorso rosso. Il biglietto conteneva un prestito in denaro da fare ad alcuni esponenti del Partito ed era stato realizzato da un altro militante, Iedo Tampucci. Martelli non rivelerà mai il nome dell’autore e il contenuto del biglietto.

Durante l’interrogatorio scopre che la denuncia era stata avanzata dal dirigente della Federazione, Roberto Vivaldi. Vivaldi era stato costretto a denunciare proprio perché, come si legge nell’Autobiografia, l’OVRA aveva scoperto l’organizzazione comunista. Effettivamente, molte cose erano cambiate all’interno della Federazione durante l’arresto di questi esponenti: l’organizzazione sembrava essersi sfasciata e sembrava aver smarrito le linee guida necessarie per ricostituirla. L’unica speranza era quella di riedificare il movimento con una nuova linfa, ma i militanti rimasti si rifiutavano di prendere parte a questo processo in quanto temevano l’intervento della polizia fascista.

Nel luglio 1932 Martelli viene mandato in prigione presso il carcere S. Leopoldo e denunciato al Tribunale speciale con l’imputazione prevista dall’articolo 270 del Codice Penale. Viene poi trasferito al carcere dei Domenicani e liberato nell’ottobre dello stesso anno in occasione dell’amnistia per il decennale dalla Marcia su Roma. Quell’arresto fu uno dei più grandi realizzati dall’OVRA, non solo per il numero di arrestati, ma anche perché raggiunse i compagni che stavano espatriando. Con la scarcerazione poco sarebbe cambiato nella vita di Martelli, perché sa che la condizione di vita in clandestinità e la lotta al fascismo sarebbero continuate. Lui stesso racconta:

«[…] La libertà era certo bella per tutti noi tuttavia, quasi spontaneamente, una parte di noi giovani decise di dare continuazione alla propria attività clandestina. Dico una parte perché, sia nel campo giovanile come in quello degli adulti non pochi si ritirarono a vita cosiddetta privata. Non ce ne facemmo motivo di scandalo. Pertanto ci rimettemmo a lavoro […] con una maggiore attenzione […]».[4]

Nel 1933 prende parte alla rifondazione del movimento comunista, un’iniziativa profondamente sostenuta dai giovani livornesi come Renzo Tamberi, Garibaldo Benifei, Otello Frangioni, Marte Corsi, Angiolo Giacomelli. In quel breve periodo, Martelli realizza dei volantini di propaganda e contribuisce alle attività della stampa clandestina.

A nove mesi dalla scarcerazione, il 1° agosto 1933 viene fatto salire su un’automobile in cui lo attendevano tre fascisti. Martelli è tranquillo perché sa che i materiali eversivi del PCd’I sono rimasti a casa sua e viene accompagnato nella sede rionale fascista di Barriera Garibaldi, un luogo tristemente noto per esser teatro di interrogatori e di torture che i fascisti infliggevano agli oppositori politici. Successivamente, viene bendato e portato in una stanza dove ad attenderlo c’è il tenente Gagliano. Il motivo della cattura è il seguente: Gagliano ha scoperto chi è l’autore dei volantini sovversivi, vuole sapere con chi collabora e dove sono custoditi. Il tenente gli mostra i volantini che effettivamente erano stati realizzati da lui e Tamberi, ma Martelli continua a negare tutto.

Gagliano lo invita a spogliarsi ed esamina le sue mani con una lente di ingrandimento. A quel punto, dei giannizzeri iniziano a picchiare violentemente Martelli soprattutto sulle mani, considerate il vero «corpo del reato».[5] Però, la polizia fascista non si limita a interrogare Martelli e decide di indagare su Tamberi. A seguito di diverse indagini compiute nelle settimane precedenti, la polizia fascista aveva scoperto che Martelli e Tamberi collaboravano insieme alla realizzazione dei volantini eversivi.

Quando si consultano delle autobiografie, ciò che sorprende sono sia le emozioni che possono produrre anni dopo sullo stesso lettore, che i minimi dettagli che vengono raccontati. L’Autobiografia di Martelli è un vero e proprio racconto dettagliato di tutte le vicende e le torture subite durante il Ventennio fascista, ma forse non è la minuziosità del racconto a sorprendere un qualsiasi lettore, quanto il pathos che trasmette quando narra le torture subite dagli amici e dai compagni di Partito, i giorni in carcere, la difficoltà a comunicare e a mantenersi in contatto con loro. Durante quell’interrogatorio, Martelli non vedrà mai arrivare Tamberi e crede che l’amico possa aver fatto dei nomi di altri militanti, che possa aver tradito tutti e che sia ceduto davanti alle violenze fasciste. In realtà, Tamberi non verrà interrogato nella sede rionale fascista di Barriera Garibaldi, ma direttamente a casa sua.

Martelli non sa che fare, continua a dire che non era a conoscenza di niente, ma a che scopo? Col passare delle ore e con l’aumento delle percosse subite ha anche egli paura di non farcela, di non saper resistere e di non sapere per quanto potrà mentire. La coercizione fascista era in grado di permeare la psiche di molti giovani e antifascisti che erano stati catturati. Martelli vede l’interrogatorio come una sfida in cui non vuole cedere, anche perché non ha un’altra scelta: deve resistere alla violenza per tutelare non solo l’organizzazione, ma anche i suoi compagni di Partito.

Il militante livornese seppe resistere a quelle brutalità, ma non per questo va raffigurato (e non avrebbe mai voluto definirsi) come “eroe”, piuttosto seppe assolvere le mansioni perché credeva fervidamente a un sistema valoriale basato su libertà e resilienza, così come altri compagni di Partito che cedettero alle violenze. Il raccontare determinati dettagli sulle attività o sulle organizzazioni considerate come eversive, non era sinonimo di “codardia”: non era facile resistere alle violenze e alle percosse che i fascisti infliggevano alle persone col fine di estorcere con mezzi disumani la verità.

L’interrogatorio durò sette ore e l’arrestato venne ripetutamente percosso dal maresciallo Niccoletti, verrà interrogato alla Questura di San Leopoldo e lì vi rimarrà in prigione per diverse settimane. A tre giorni dall’arresto alcuni suoi compagni della stessa organizzazione vengono arrestati e scoprirà che la denuncia era partita dal militante Sirio Vincensini. Vincensini aveva confessato da chi aveva avuto il manifesto originale, ovvero da Garibaldo Benifei che a sua volta aveva fatto il nome di altri militanti. Lo stesso Martelli racconta:

«[…] il Vincensini (un altro militante) informò il fascio che tanto io come il Tamberi quella sera eravamo a stampare, però non sapendo il luogo indusse i fascisti ad attendermi. Preso me, essi pensavano di cavarmi di bocca sia il luogo ove eravamo stati a stampare, come il nome Tamberi, questo per salvare il delatore […]».[6]

Insieme agli altri militanti livornesi, egli promise che avrebbe evitato di compromettere la posizione degli altri compagni, altrimenti il processo sarebbe andato avanti all’infinito.

Il 9 dicembre del 1933 Martelli viene condannato a due anni e cinque mesi di reclusione da scontare alla Casa di pena di Civitavecchia. Il periodo di detenzione non è così duro, a detta di Martelli stesso, perché le condizioni igienico-sanitarie in cui viveva erano buone, aveva diritto due ore di aria invece che una, e poteva prendere parte a laboratori di scrittura e di traduzione. Questa esperienza costituisce un punto di svolta nella sua formazione politica nella quale potrà sperimentare delle nuove forme di mobilitazione politica ed attività pratiche che non aveva mai testato a Livorno. All’interno della cella stipula delle relazioni con esponenti di spicco come Giovanni Parodi e Pietro Carsano, i quali gli trasmettono i principi fondamentali del comunismo e lo avviano a un vero e proprio percorso di formazione sul comunismo.[7] A Civitavecchia, Martelli studia dalla mattina alla sera ed è sottoposto a una disciplina ferrea, perché «il Partito pretendeva che i giovani fossero preparati nel migliore dei modi».[8] L’obiettivo prefissato dal PCd’I era quello di insegnare varie discipline concernenti il materialismo storico, l’economia politica, la letteratura.

Il capo della cella era Giovanni Parodi, ma vi erano comunque altre celle separate dove vi erano esponenti illustri del Partito. Tra una cella e l’altra avvenivano degli scambi di informazioni grazie alla complicità di alcune guardie carcerarie, le quali si rendevano disponibili allo scambio di «farfalle», ovvero biglietti scritti su cui venivano annotati gli argomenti di discussione da trattare nelle ore di aria.[9]

Nel settembre del 1934 viene scarcerato grazie ad un indulto concesso straordinariamente in seguito alla nascita della prima figlia di Re Maggio, il luogotenente dell’epoca della Casa di pena di Civitavecchia. Martelli sa bene che niente sarebbe stato più come prima, perché non vuole più essere il semplice ragazzo che diffonde volantini eversivi ed ha capito che per rovesciare il regime è necessario agire diversamente.

Nel febbraio del 1935 il padre muore e deve far fronte a una difficile situazione economico-finanziaria che travolge tutta la famiglia, tenta più volte di poter far rientro ma senza successo. Dapprima viene mandato al settantacinquesimo di Fanteria di Siracusa, un reggimento di disciplina composto dai criminali più disparati (ladri, stupratori, pochi antifascisti e qualche renitente alla leva) e poi viene assegnato alla scuola di Allievi Ufficiali.[10] In quel breve periodo cerca più volte di tornare a Livorno dai suoi cari, ma senza successo. Nei suoi tentativi di rientrare a casa viene ostacolato perché non aveva completato i corsi premilitari in età adolescenziale che soltanto gli avrebbero permesso di tornare nella città di residenza. Il 5 marzo dello stesso anno viene inserito nel corpo di spedizione in partenza per l’Africa Orientale, per l’Abissinia.  Secondo il figlio, Walter Martelli, la sua esperienza nella Guerra in Africa Orientale non fu completamente negativa per il padre, in quanto non prese parte a delle iniziative militari e riuscì a stabilire delle buone relazioni con gli abitanti del luogo.[11] Martelli ha raccontato ai suoi figli di aver diffuso nei villaggi dei consigli medici e delle nozioni generali per migliorare le condizioni igienico-sanitarie.

Al suo rientro a Livorno, avvenuto nel 1936, molte cose erano cambiate. Alla fine del 1936 venne assunto presso i Cantieri Orlando, un’esperienza positiva che l’autore definì come una «grande conquista».[12] Lo stabilimento racchiudeva la storia del movimento operaio antifascista livornese e, per queste ragioni, riuscì a mettersi nuovamente in contatto con i compagni antifascisti che aveva conosciuto durante la clandestinità. La rete dei rapporti tra i militanti comunisti venne prima stabilita all’interno del cantiere e poi estesa al di fuori, ed era retta proprio dallo stesso Martelli.

A livello nazionale, il PCd’I abbandonò il precedente carattere settario che negli anni precedenti aveva portato il movimento ad isolarsi rispetto alle iniziative di altri partiti antifascisti. Tra il 1934 e il 1938 venne creato un Fronte popolare, in cui erano riunite tutte le forze politiche in aperta opposizione al regime. Questa fu anche la fase in cui i due partiti operai – il Partito Socialista e il Partito Comunista – ripristinarono delle forme di dialogo e di collaborazione dopo anni di scissione, culminate con la stesura di un patto di unità di azione nel 1934.

A livello locale, la Federazione livornese si ricostituì con esponenti di spicco e di varia provenienza come militanti storici, intellettuali, teorici, professori, figure pubbliche e notorie della comunità labronica. Un lieve passo avanti che venne messo di nuovo a dura prova da un’ondata di arresti senza precedenti.[13] Grazie alla rete di relazioni che Martelli aveva edificato ai Cantieri Orlando col militante comunista Mario Galli, l’organizzazione potè stabilire delle relazioni con intellettuali del calibro di Vittorio Marchi, Antonio Maccaroni, Aldo Balducci, Giorgio Stoppa. Le riunioni del nuovo partito si tenevano presso la casa dell’intellettuale Umberto Comi ed affrontavano temi svariati, come il rapporto tra il fascismo e la guerra, la Germania nazista, l’utilizzo della cultura e degli ideali comunisti come unica soluzione davanti alla violenza.[14] Mentre, Martelli e altri esponenti di partito che avevano vissuto direttamente sulla loro pelle la condizione proletaria, si facevano portavoce di altre tematiche, come i problemi della fabbrica e dello sfruttamento dei lavoratori.

Martelli non condivideva la nuova struttura della Federazione perché «nonostante i nuovi componenti si dichiarassero comunisti erano ben lungi dall’esserlo».[15] Secondo il militante di adozione livornese, gli ideali che quest’ultimi condividevano erano ideali social-liberali e poco affini ai principi marxisti-leninisti. Inoltre, a suo giudizio, esisteva una profonda differenza tra chi studiava il marxismo dalla cattedra e chi conosceva il marxismo perché apparteneva alla classe operaia.

Nel 1939 non gli viene riconosciuto più l’esonero dalla leva, riconosciutogli nel 1935 in quanto orfano di padre e unico capofamiglia, ed è per questo motivo che lascia il suo impiego ai Cantieri Orlando. L’ingegnere Bechi, all’epoca direttore dei Cantieri Orlando, si oppone al suo trasferimento inviando una lettera alla Questura di Livorno, ma senza successo. Inizia quindi a lavorare per un’azienda che produceva bombe a mano a Fiume, nota come Motofides. Durante quel periodo lavora alla realizzazione dell’Incrociatore San Giorgio, prende parte ad azioni di insubordinazione dalla catena di montaggio e viene licenziato nel 1942, perché considerato politicamente pericoloso.

Nel 1943 viene mandato a Torino alla Caserma Marmora ma, in seguito ai bombardamenti, viene mandato a Massa Marittima, una città in provincia di Grosseto. In quel piccolo centro rafforza il proprio legame con altri militanti comunisti locali e lì vi rimane fino alla ratificazione dell’Armistizio di Cassibile. Grazie all’aiuto di un militante locale, riesce a scappare dalla città grossetana e a raggiungere la famiglia sfollata ai Bagni di Casciana, dove si trovava anche sua moglie insieme alla sua famiglia. Si unisce alle formazioni partigiane locali nate dopo l’8 settembre e fa parte del Partito del Comitato militare ed ha come compito quello di organizzare i vari nuclei di partigiani della zona prima dell’arrivo del fronte di liberazione.[16]

NOTE

[1] Martelli G., Autobiografia, cit., p. 2.

[2] Il Soccorso rosso, noto anche come “Soccorso rosso internazionale per i combattenti della rivoluzione” in sigla MOPR, è stata un’organizzazione internazionale legata all’Internazionale Comunista con il compito di fornire supporto ai prigionieri comunisti e alle loro famiglie. Il Soccorso rosso è rimasto attivo tra gli anni Trenta e la Seconda guerra mondiale e condusse campagne di solidarietà sociale, di supporto materiale e umanitario, a sostegno dei prigionieri comunisti.

[3] Martelli G., Autobiografia, cit., p. 2.

[4] Tredici M., L’inchiesta, la spia, il compromesso. Livorno 1935: processo ai comunisti. Livorno: Media Print, 2020, p. 346.

[5] Come compare sul dizionario Treccani, originariamente il giannizzero era un soldato di un corpo scelto di truppe a piedi dell’impero Ottomano, spesso adibito alla guardia del corpo del sultano. Nel periodo fascista si indicavano invece tutte quelle persone al servizio di qualche personaggio illustre della milizia fascista. Ma lo stesso termine può anche esser usato in senso dispregiativo per indicare uno scagnozzo o tirapiedi, forse questo è il significato a cui fa riferimento Martelli nella sua Autobiografia. La citazione compare in: Martelli G., Autobiografia, cit., p. 4.

[6] Martelli G., Autobiografia, cit., p. 6.

[7] Giovanni Parodi (1889-1962) nasce in una famiglia operaia e diventa ben presto militante del PCd’I, viene arrestato nel 1927 dal Tribunale Speciale Fascista e gode dell’amnistia nel 1937. Fugge in Francia nel 1940 e viene arrestato l’anno successivo. Fortunatamente riesce ad evadere e a continuare il lavoro politico clandestino, nel dopoguerra fu membro del Comitato centrale del Partito Comunista Italiano e Segretario generale della Federazione Italiana Operai Metallurgici (in sigla, FIOM).

Giovanni Carsano (1891-1965): inizialmente operaio torinese, aderisce al PCd’I e partecipa al biennio rosso. Come Parodi viene arrestato nel 1927 e rilasciato dopo dieci anni, viene mandato al confino nel 1943 dove rimane fino alla liberazione. Dopo la guerra lavora presso i sindacati dei pensionati e presso l’Unione internazionale dei sindacati dell’Alimentazione.

[8] Tredici M., L’inchiesta, la spia, il compromesso, cit., p. 349.

[9] Ibidem.

[10] Tredici M., L’inchiesta, la spia, il compromesso, cit., p. 350.

[11] Intervista dell’autrice a Walter Martelli, svoltasi il 2 aprile 2024 presso l’abitazione di quest’ultimo a Livorno.

[12] Tredici M., L’inchiesta, la spia, il compromesso, cit., p. 350.

[13] Tra gli esponenti di spicco vengono arrestati Garibaldo Benifei e Aramis Guelfi.

Aramis Guelfi (1905-1977): inizialmente maestro d’ascia, viene condannato nel 1939 dal Tribunale speciale a scontare quattro anni di reclusione. Viene liberato anch’egli con l’Armistizio dell’8 settembre, ma continua a combattere nella zona di Volterra. Diventa esponente di spicco del Partito Comunista livornese, per poi aderire nel 1963 al Partito Socialista Democratico.

[14] Umberto Comi era vicedirettore del giornale fascista “Sentinella Fascista” e spesso scriveva articoli non proprio conformi all’ideologia fascista, ma erano spesso difficili da decifrare nei loro contenuti e, proprio per la sua adesione al Partito, si crearono delle divisioni all’interno del movimento.

[15] Martelli G., Autobiografia, cit., p. 9.

[16] L’area sottoposta al controllo di Giovanni Martelli è relativamente grande e comprendeva molte piccole città della provincia di Pisa, come: Lari, Cascina, Crespina, Terricciola, Chianni, Peccioli.

Articolo pubblicato nel maggio 2024.




Guido Cerbai, un percorso sghembo e coerente

Le stagioni più vivaci della sinistra italiana – quelle, diciamo, dagli anni Cinquanta agli anni Ottanta – sono state animate da soggettività molto diverse e sono state tante le figure che hanno attraversato questi anni con bagagli politico-culturali e lungo percorsi non convenzionali.
Una di queste figure è Guido Cerbai, nato a Galliano di Mugello nel 1934, vissuto dal 1946 al 1959 a Firenze e successivamente trasferitosi a Pisa, dove attualmente risiede.
Oggi, alle soglie dei novant’anni, Cerbai è una figura sempre presente e visibile nella vita politica cittadina come attivista e dirigente di Rifondazione Comunista, ereditando una fitta rete di relazioni intessuta nel corso di sessant’anni di attività dapprima sindacale e quindi nelle istituzioni e portando sempre nelle assemblee e nelle iniziative politiche una voce autorevole che si appoggia a una memoria precisa, lucida e colta.
Tutte queste caratteristiche hanno fatto in modo che diverse persone, indipendentemente tra loro, lo abbiano individuato nella seconda metà degli anni Dieci come testimone privilegiato di un lungo periodo di vita politica e sindacale cittadina. Questo riconoscimento si è materializzato nel febbraio 2019 in una lunga intervista di vita in video della durata di oltre quattro ore che è stata successivamente montata, suddivisa in sette scansioni cronologiche e caricata sulla piattaforma Youtube. Per favorire l’accesso all’intervista è stato quindi realizzato un apposito sito web (cerbairacconta.wordpress.com), dal quale è possibile anche scaricare una versione sintetica dell’intervista di poco più di un’ora.
È molto difficile se non impossibile individuare una fase saliente di questo lungo percorso di vita, in quanto in tutte le sue diverse fasi si ritrova lo stesso intreccio armonico tra universo affettivo, impegno politico e lavoro, segnato peraltro da una forte coerenza di fondo.
Ciò che cambia nel tempo sono gli scenari, raccontati con viva partecipazione emotiva e con ricchezza di particolari. Scenari molteplici e articolati ma che possono essere ricondotti a quattro fondamentali: la dura campagna mugellese della famiglia, dell’infanzia e degli anni della prima adolescenza, la Firenze della frequentazione della Madonnina del Grappa fino al compimento degli studi universitari, la vita di fabbrica a Pisa fino ai primi anni Novanta e infine l’impegno politico nel territorio, cioè nel quartiere e in città, prevalente negli ultimi decenni. Questi scenari si articolano poi internamente e si sovrappongono tra loro, come nel caso dell’impegno politico e di quello sindacale, entrambi intensi soprattutto a partire dal Sessantotto, oppure, più indietro nel tempo, come nel caso della vita all’interno della Madonnina del Grappa, dove la formazione scolastica e universitaria s’intrecciano con la vita dell’istituto ma anche con la vita politica fiorentina, fortemente segnata dalla presenza di grandi personalità del cattolicesimo progressista.

Roma, manifestazione per la pace 1991

Figura impegnata in prima fila e al tempo stesso osservatore analitico e capace di ricostruire il contesto storico e politico, Cerbai restituisce in modo altrettanto dettagliato e preciso gli eventi personali e quelli collettivi: i difficili anni del dopoguerra, la Firenze di Giorgio La Pira e di Don Lorenzo Milani, il clima oppressivo della fabbrica degli anni Sessanta, l’imprevista e galvanizzante svolta del Sessantotto, che sconvolge sia la sfera politica che quella culturale, il robusto impegno sindacale nella fase ascendente degli anni Settanta e poi in quella del lento regresso degli anni Ottanta e Novanta, ma segnata dallo straordinario successo costituito dalla salvezza dell’impianto pisano e di tutti i suoi posti di lavoro, il parallelo emergere di un impegno di partito che pur nelle successive formazioni non verrà mai meno e gli darà la possibilità di trasporre l’ispirazione democratica di base ereditata da Don Milani e da La Pira dal consiglio di fabbrica alla presidenza del consiglio di circoscrizione.
Questa interpretazione tenacemente radicale dell’impegno pubblico prende infatti varie forme e si traduce nell’adesione a diverse sigle, dalla Cisl al Movimento politico dei lavoratori, da Democrazia proletaria a Rifondazione comunista, ma non tradisce l’ispirazione di fondo maturata negli anni dell’adolescenza all’incrocio tra cattolicesimo progressista e un socialismo non burocratico, ma al contrario anzitutto autogestionario.
La testimonianza di Guido Cerbai permette di ripercorrere anche le trasformazioni economiche e sociali che hanno via via segnato gli anni della ricostruzione, quindi del miracolo economico e poi degli ultimi decenni e di osservare da vicino figure come quella di Don Giulio Facibeni o quella di Don Lorenzo Milani, oltre ad altri protagonisti della sinistra politica e sindacale pisana e nazionale.

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Adolfo Zerboglio e la Prima guerra mondiale*

«L’on. Adolfo Zerboglio si dichiara interventista»: così il 26 marzo 1915 apriva in prima pagina «Il Popolo d’Italia» diretto da Benito Mussolini, che ancora si dichiarava «quotidiano socialista». Venivano poi riportate le parole dell’onorevole:

Il mio interventismo non è motivato da ragioni peregrine da me scoperte: io sono interventista in forza di motivi, che pesano sulla coscienza di coloro che ritengono la guerra necessaria, per una seconda pace ulteriore, per il raggiungimento dei fini nazionali e per la necessità che l’Italia non perda ogni influenza e ogni simpatia, nell’avvenire, per la libertà[1].

Zerboglio criticava le posizioni neutraliste del Partito socialista, considerate «negazione di ogni aspirazione ideale, visione miope dell’oggi, senza orizzonti un po’ remoti» e concludeva affermando che «la guerra mi sembra però destinata a creare i mezzi e l’ambiente per mutazioni profonde dei rapporti economici, politici quali finora non ci ha dato il socialismo»[2], considerazione che evidenziava il distacco dell’esponente politico dal mondo socialista, maturato sin dalla crisi della Guerra italo-turca.
Una postilla redazionale ricordava infine le differenze di posizioni tra Zerboglio e la corrente rivoluzionaria che faceva capo al giornale. Si riconosceva che la presa di posizione «fra i più autorevoli e geniali rappresentanti del pensiero socialista in Italia», tra i «migliori» a entrare nel movimento interventista, non era in contraddizione con le «teorie socialiste» nel «sostenere la necessità che l’Italia intervenga nel conflitto europeo»[ 3].

Zerboglio_Adolfo_deputato

Adolfo Zerboglio, nato nel 1866, d’origine piemontese ma toscano di adozione, era allora un giurista di fama internazionale: libero docente prima presso l’Università di Pisa, poi per un breve periodo a Roma e infine a Urbino – terminerà la sua carriera all’Università di Macerata -, era rappresentante di quel socialismo giuridico che ebbe tanta fortuna tra la fine dell’Ottocento e l’età giolittiana. Autore di numerosi volumi è promotore insieme a Alfredo Pozzolini e Eugenio Florian dei periodici, la «Rivista di diritto penale e sociologia criminale» e la «Rivista di diritto e procedura penale»[4]. Eletto deputato al Parlamento nel collegio di Alessandria per la prima volta nel 1904, collaboratore de la «Critica sociale» e di molti altri periodici socialisti nonché di molti quotidiani nazionali d’informazione, era uno dei riformisti più in vista del gruppo di Leonida Bissolati e Ivanoe Bonomi, amico personale di Cesare Battisti di cui condivideva in pieno gli ideali irredentisti[5].
Il 15 maggio 1915, pochi giorni prima dell’entrata in guerra dell’Italia, a Pisa un gruppo di studenti e professori universitari dopo aver votato un ordine del giorno contro il «traditore Giolitti» tentò d’inscenare un corteo diretto verso la prefettura; furono fermati e dispersi da una moltitudine di proletari e militanti socialisti e anarchici. La città in quei giorni viveva in stato d’assedio, con pattuglie di carabinieri e militari a presidiare i punti nevralgici e i palazzi del potere. Nonostante il divieto di una manifestazione antinterventista e antimilitarista convocata per il 19 maggio e impedita dall’intervento delle forze dell’ordine[6], le iniziative dei neutralisti si moltiplicavano in tutta la provincia, con comizi e cortei spontanei a rimarcare la netta separazione tra il mondo popolare e proletario e le élites «guerrafondaie» arroccate tra i docenti e studenti dell’università, i ceti commercianti, gli imprenditori della media e alta borghesia e i gruppi di nazional-patriottici. Al fronte interventista portava la propria benedizione anche il Cardinale Pietro Maffi[7], già sostenitore in precedenza della guerra italo-turca del 1911: alle posizioni espresse dal prestigioso prelato si adeguò l’intero mondo dell’associazionismo cattolico[8].
Come è stato rilevato dalla ricerca storica, profonda fu la frattura tra la «città patriottica» e la «città proletaria» e nella prima, grazie al prezioso intervento extra istituzionale dell’Università, si andava coagulando «un nuovo blocco politico-sociale», che sulla scelta bellicista auspicava una rinnovata forza politica d’ordine[9]. Zerboglio non fu il solo socialista riformista seguace di Bissolati in Toscana a scegliere decisamente di aderire al fronte interventista: anche altri “storici militanti” si schierarono per la guerra, come ad esempio il volterrano Arnaldo Dello Sbarba, il fiorentino Carlo Catanzaro[10], il senese Vittorio Meoni[11], il lucchese Quirino Nofri[12] e il pistoiese Pompeo Ciotti, allora segretario nazionale del Partito socialista riformista italiano[13]. Erano militanti della “vecchia guardia”, che avevano contribuito in maniera sostanziale alla genesi e alla storia del PSI in Toscana.
Lo spostamento in blocco di gruppi di intellettuali e militanti politici di lungo corso verso l’interventismo era un fenomeno sostanzialmente nuovo dal punto di vista politico, che però aveva radici lontane ben impiantate in alcuni settori del mondo culturale italiano. Questi gruppi svolsero un compito specifico, quello di “popolarizzare” la guerra, darle una forma ideale che poi si radicherà nell’immaginario collettivo dei decenni successivi[14].
Zerboglio, dunque, in questa scelta non era isolato: l’Università di Pisa, come ricordato, fin dall’inizio fu in gran parte schierata per l’intervento. Il rettore dell’Università, David Supino, già ai primi di maggio del 1915 aveva inviato al presidente del Consiglio Antonio Salandra una lettera di piena adesione alle scelte del governo[15]. Il coinvolgimento dell’Ateneo nella mobilitazione e partecipazione al conflitto fu impressionante: 37 furono i docenti e 68 gli aiuti e assistenti richiamati al fronte, 34 gli amministrativi, tecnici e inservienti, ma il grosso degli arruolati era composto dagli studenti, su 1.501 iscritti sono 1.484 coloro che vennero battezzati dal fuoco delle battaglie[16].
Come ricordò Ivanoe Bonomi, uno dei leader del socialismo riformista di destra, nonché volontario nel primo anno di guerra e che verrà dal primo ministro Boselli nel giugno del 1916 incaricato della gestione del ministero dei lavori pubblici, «i cinque anni di conflagrazione mondiale sono stati il periodo di educazione e di coltura della nuova gioventù italiana, e le lezioni della nostra guerra sono stati il solo libro della loro vita»[17]. Nell’aprile del 1917 anche il secondogenito di Zerboglio, Vincenzo comunemente chiamato Enzo, giovane studente universitario della facoltà di giurisprudenza poco più che diciottenne, partiva volontario[18].
Fu poi nei mesi successivi alla rotta di Caporetto, nell’autunno 1917, che Zerboglio maturò con ogni probabilità il suo definitivo distacco dall’area socialriformista, come testimonia una sua intervista rilasciata al «Nuovo giornale» nel dicembre del 1917. Il quotidiano aveva lanciato in quelle settimane un’inchiesta sulla situazione elettorale e politica, considerato che le ultime elezioni si erano tenute nel 1913. Era stato inviato un breve questionario ai deputati toscani per avere notizie sulla situazione del loro collegio, dei programmi dei loro partiti e sulle loro idee circa la Guerra di Libia, il Trattato di Losanna e la situazione internazionale.
Il giurista piemontese apriva la sua breve lettera dichiarando di non essere candidato di «nullo collegio», di aver abbandonato il partito socialista e non aver aderito a quello riformista, e, ormai di essere lontano dalla «politica militante». Si domandava poi con amarezza:

chi voterebbe per un originale, che crede antidemocratica una gran parte della odierna democrazia, in sé e nei suoi propositi? Che è tanto anticlericale da esserlo anche in confronto dei clericali… Rossi? Che odia la tirannide borghese, ma non ama la tirannide proletaria? Che mentre ha i suoi riveriti dubbi, così sulla utilità sociale come sulla efficienza sostanzialmente rivoluzionaria, di buon numero di moti operai, cari agli agitatori di professione, ritiene che sarebbe davvero benefica per tutti, e per la classe lavoratrice in specie, una lotta assidua contro i parassiti che si annidano nello stato ed intorno allo stato? Che considera primo obbligo di un deputato, sia quello di rifiutarsi al servizio di pressioni, di raccomandazioni presso il governo, che vincolando la sua libertà, moltiplica le ingiustizie, ed aumenta impiegati, funzionari ecc. a carico della collettività? Che …: ma questo sarebbe il programma per collegio che non esiste e che non nominerà mai a proprio rappresentante il di Lei dev.mo Adolfo Zerboglio[19].

Non ci fu in quei mesi iniziativa o dibattito a Pisa che non vedesse la partecipazione di Zerboglio, come durante la campagna lanciata dal governo per il prestito nazionale per finanziare le già esauste casse statali e sostenere lo sforzo bellico. Il docente, insieme ad altri colleghi, fece sentire la propria voce a sostegno delle scelte governative definendo il prestito un «buon affare» e la sua sottoscrizione una «buona azione patriottica» per garantire la «vittoria» e una «pace giusta»[20]. Questo ruolo, di attivista del fronte interno, propagandista e organizzatore portò il docente piemontese in tante località nel difendere la scelta interventista e nel sostenere lo sforzo bellico, anche con numerosi articoli su quotidiani e periodici. Più volte si recò al fronte portando aiuti alle truppe, soprattutto quando si trattava di ricordare e sostenere i propri studenti, vera avanguardia mobilitata in difesa della patria.
Con la fine della guerra e l’annuncio della vittoria, Adolfo Zerboglio, in qualità di presidente del Comitato di Resistenza, inviò un telegramma di congratulazioni al generale Diaz:

A Voi degnissimo duce di impareggiabili soldati, per la fede nei destini della Patria che serbammo incrollabile, in questi giorni di continuate, grandi, giuste vittorie, inviamo il più fervido omaggio di un’ammirazione infinita e di una gratitudine eterna[21].

Il 3 novembre 1918, in una Pisa imbandierata e festante, partecipò all’imponente manifestazione di giubilo per la vittoria indetta dalle associazioni combattentistiche che attraversò la città in un tripudio di folla e al suono della marcia reale, applaudendo la regina e il principe ereditario affacciatisi nel frattempo dal balcone del Palazzo Reale. Zerboglio, acclamato più volte, prese la parola, ogni intervento della manifestazione terminava con un corale «viva la Patria, viva il Re, viva l’esercito italiano», tanto che il «Messaggero toscano» scriveva di «deliranti dimostrazioni di Pisa per la vittoria e l’armistizio»[22].
Qualche giorno dopo, per Zerboglio e la sua famiglia l’entusiasmo per la vittoria venne funestato dalla notizia della morte dell’amato figlio Enzo. Il docente Italo Giglioli, nel commemorare il figlio dell’amico, sottotenente del Battaglione degli alpini «Aosta», caduto «eroicamente» il 26 ottobre 1918 sul Monte Solarolo, scriveva del legame ideale tra la sua morte a quella dei patrioti risorgimentali: egli era «l’ultimo della lunga serie (oltre un centinaio) degli studenti dell’Università di Pisa morti in questa guerra; la quale segna l’ultimo trionfo lontano dei combattenti di Curtatone e Montanara».
E parlando del padre e del figlio entrambi definiti «combattenti» rammentava che l’uno, vecchio lottatore per la giustizia sociale; ma non mai dimentico della patria e di quei principii di elevamento sociale, i quali nella solidarietà di patria e di razza, come nella santità e negli affetti della famiglia, hanno non crollabile fondamento. L’altro, giovane combattente dell’ora, puro volenteroso olocausto nella guerra immane per la libertà e il progresso sociale di Europa.
«Non vi parlo dalla casa di un morto, ma da quella di un vivo: di uno che mai fu tanto vivo come oggi» – diceva Adolfo Zerboglio nell’ultimo discorso di questi giorni al popolo pisano, adunato, nell’entusiasmo del trionfo nazionale, innanzi alla casa dove spirò Giuseppe Mazzini. L’oratore non sapeva che in quell’ora stessa, la parte più cara della propria vita, delle speranze, dei suoi più intimi affetti, non viveva più quaggiù, ma giaceva spento presso il Grappa glorioso[23].

La morte del figlio fu una cesura irreversibile per il giurista piemontese. Da questo momento in poi Zerboglio farà del ricordo del figlio[24] e dei valori della patria, rappresentati dalla guerra vittoriosa contro l’Austria, la bussola che orienterà ogni sua successiva azione politica[25]. Il figlio verrà insignito l’anno successivo della medaglia d’oro, sarà lo stesso Re in persona, in Piazza d’armi a Pisa, a consegnare al padre l’onorificenza[26].
Alcuni anni più tardi Zerboglio dedicherà al figlio un commosso ricordo, accostando il suo nome a quello di Enrico Toti, un altro «valoroso combattente» della Grande guerra . Verso la memoria del figlio, il docente piemontese avrà sempre una devozione inconsolabile che lo accompagnerà fino alla morte. Ogni anno, durante i giorni dell’anniversario della scomparsa, egli tornerà con la famiglia nei luoghi del Carso e sulla tomba del figlio nel cimitero di Crespano del Grappa, in una specie di rito laico familiare, un ritiro spirituale nel quale mantenere ad perpètuam rèi memòriam la figura del giovane Enzo.

* Questo articolo fa parte di un più ampio lavoro di ricostruzione della biografia intellettuale di Adolfo Zerboglio avviato dal alcuni anni dalla Biblioteca F. Serantini.

Note

  1. L’on. Adolfo Zerboglio si dichiara interventista, «Il Popolo d’Italia», 26 marzo 1915.
  2. Ivi.
  3. Ivi.
  4. Cfr. Sul socialismo giuridico si v. M. Sbriccoli, Elementi per una bibliografia del socialismo giuridico italiano, Milano, Giuffrè, 1976. All’interno del saggio, alle pagine 137-144, vi è una prima essenziale bibliografia delle opere di Adolfo Zerboglio edite tra il 1889 e il 1914.
  5. Si v. in proposito A. Zerboglio, Martirio di Cesare Battisti. Patriotta socialista. Commemorazione tenuta il 16 gennaio 1917 al Conservatorio G. Verdi di Milano per iniziativa del Circolo Trentino di Milano, Milano, Sede dell’Unione Generale degli Insegnanti italiani Comitato Lombardo, 1917.
  6. L’agitazione dei neutralisti pisani. Numerosi arresti, «Il Messaggero Toscano», 20 maggio 1915.
  7. Cfr. P. Maffi, Fede e patria. Discorsi patriottici per una più grande Italia, Pisa, Libreria Ecclesiastica, 1915. Inoltre, G. Cavagnin, La diocesi e il cardinale Maffi di fronte alla guerra, in I segni della guerra. Pisa 1915-1918. Città e territorio nel primo conflitto mondiale, a cura di A. Gibelli, G.L. Fruci, C. Stiaccini, Pisa, ETS, 2016, pp. 40-45.
  8. Il dovere dei giovani cattolici nel supremo cimento della Patria, «L’Eco del Popolo», Pisa, 23 maggio 1915.
  9. Sul dibattito e lo scontro tra neutralisti e interventisti a Pisa e provincia si v. C. Di Scalzo, Il dibattito in margine alla grande guerra a Pisa nei mesi della neutralità italiana, Tesi di laurea, Università di Pisa, a.a. 1978-79, relatore L. Gestri. Cfr. inoltre. G.L. Fruci, Pisa, in Abbasso la guerra! Neutralisti in piazza alla vigilia della Prima guerra mondiale in Italia, a cura di F. Cammarano, Firenze, Le Monnier, 2015, pp. 433-445. Id., La strana disfatta dell’interventismo pisano, in I segni della guerra. Pisa 1915-1918, cit., pp. 32-39. Cfr., anche. P. Nello, A chi la città? Pro e contro la guerra nella città “proletaria”, in La Toscana in guerra. Dalla neutralità alla vittoria, 1915-1918, a cura di S. Rogari, Firenze, Edizioni dell’Assemblea, 2019, pp. 125-135.
  10. Cfr. F. Taddei, Catanzaro Carlo, Movimento operaio italiano. Dizionario biografico, Roma, Editori riuniti, 1975, t. 1, p. 538.
  11. Cfr. T. Detti, Meoni Vittorio, Movimento operaio italiano. Dizionario biografico, Roma, Editori riuniti, 1977, t. 3, cit., pp. 427-428.
  12. Cfr. L. Guerrini, Nofri Quirino, Movimento operaio italiano. Dizionario biografico, Roma, Editori riuniti, 1977, t. 3, pp. 692-695.
  13. Cfr. M. Figurelli, Ciotti Pompeo, Movimento operaio italiano. Dizionario biografico, Roma, Editori riuniti, 1976, t. 2, pp. 45-47. Ciotti muore l’11 ottobre 1915, nell’agosto è stato sostituito nell’incarico di segretario generale da Mario Silvestri.
  14. Cfr. A. Asor Rosa, La cultura, in Storia d’Italia, v. 4, Dall’Unità a oggi, t. 2, p. 1313. Si v. anche Gli intellettuali e la Grande guerra, a cura di M. Mori, Bologna, Il mulino, 2020.
  15. Archivio storico dell’Università di Pisa, Lettera del Rettore D. Supino al presidente del Consiglio A. Salandra, Pisa, maggio 1915.
  16. Archivio storico dell’Università di Pisa, Fascicoli vari riguardanti le chiamate alle armi dei docenti e studenti per gli anni 1915-1918. Si v. anche Nella vigilia del cimento, «Il Ponte di Pisa», 23 maggio 1915.
  17. Cfr. I. Bonomi, Dal socialismo al fascismo, Roma, A.F. Formíggini, 1924, p. 124.
  18. Cfr. P. Zerboglio, [Memorie familiari], pro manuscripto, in Archivio Biblioteca F. Serantini, p. 27.
  19. Nostra inchiesta sulla situazione elettorale e politica. Il pensiero dei parlamentari toscani, «Il Nuovo giornale», 19 dicembre 1917.
  20. La concordia di Pisa per il Prestito Nazionale, «Il Ponte di Pisa», 2-3 febbraio 1918. Già l’anno precedente Zerboglio aveva partecipato alla raccolta dell’oro per le casse esauste del governo con la donazione delle sue due medaglie di deputato ottenute per la XXI e XXIII legislatura. Cfr. Offrite l’oro alla Patria, «Il Messaggero Toscano», 30 marzo 1917.
  21. Cfr. Omaggi al generale Diaz e all’esercito, «Il Messaggero toscano, 3 novembre 1918, 2. ed., p. 3.
  22. Cfr. Le deliranti dimostrazioni di Pisa per la vittoria e l’armistizio, «Il Messaggero toscano, 4 novembre 1918, p. 2. V. anche Le imponenti dimostrazioni di ieri. I reali nuovamente acclamati dal popolo, «Il Messaggero toscano, 5 novembre 1918, p. 2.
  23. I. Giglioli, Un eroe: Enzo Zerboglio, «Il Fronte interno», 11-12 novembre 1918, p. 2.
  24. La notizia della morte del figlio di Zerboglio, il 105° tra gli studenti universitari di Pisa, viene comunicata ai pisani anche dal periodico «Il Ponte di Pisa» con una breve nota nel numero del 10 novembre 1918. Altri ricordi del giovane sottotenente si possono leggere nel numero successivo, quello del 16 novembre, del periodico pisano (Cfr. A. di Vestea, Enzo Zerboglio, e M. Razzi, In memoria di Enzo Zerboglio).
  25. Il giurista firmerà il principale articolo della prima pagine de «Il Ponte di Pisa» in occasione dell’annuncio della vittoria. Cfr. A. Zerboglio, La vittoria, «Il Ponte di Pisa», 10 novembre 1918.
  26. Cfr. P. Zerboglio, [Memorie familiari], cit., p. 30. Si v. anche Per non dimenticare, «Il Giornale della donna», 20 novembre 1920.
  27. Cfr. A. Zerboglio [a cura di], Medaglie d’oro: Enzo Zerboglio, Enrico Toti, Milano, Imperia, 1923.



Resistenza e Liberamuratoria

Nei primi mesi del 1954, Carlo Ludovico Ragghianti pubblicava il libro Una lotta nel suo corso [1], una raccolta ragionata di carte e documenti interni al Partito d’Azione, con la quale si proponeva di far luce sul contributo dato alla Resistenza dalla formazione politica azionista [2]. Il critico lucchese intendeva ovviare un ridimensionamento di alcune delle componenti resistenziali che più avevano sostenuto logisticamente e materialmente la lotta di liberazione, andando a rimarcarne i meriti e a definire i contorni di alcuni dei suoi protagonisti meno conosciuti. In tal contesto, alcune pagine della pubblicazione si soffermarono su un «industriale pratese, generosa tempra d’uomo e nobile patriotta, precocemente defunto»[3]: Adon Toccafondi. Ragghianti ne descrisse l’impegno per la Resistenza a Prato e a Firenze, ne chiarì la collaborazione con il CTLN e lo ricordò tra i primi amministratori dei mesi successivi alla liberazione regionale. Sindaco di Vernio, paese dell’Alta Valle del Bisenzio, Toccafondi si distinse per il suo impegno tanto nella cosa pubblica quanto nel tessuto associativo provinciale. Di estrazione democratica e repubblicana, antifascista di lungo corso, Adon fu iscritto alla Massoneria di Palazzo Giustiniani e, in questa veste, seppe dar nuova vita alla loggia “Giuseppe Mazzoni” di Prato, la prima ad essersi opposta al fascismo nel 1922. In tale veste, egli si configuròcome l’elemento particolare di passaggi oggi in parte dimenticati ma ben presenti nelle dinamiche resistenziali, quali i rapporti e la comunanza di valori tra Liberamuratoria e Resistenza, che non a caso conobbero alcune interessanti traiettorie, di cui Francesco Fausto Nitti e il repubblicano Menotti Riccioli furono tra gli esempi più conosciuti. In questa prospettiva deve essere letta la riscoperta di una figura quale quella di Adon Toccafondi partigiano, massone, primo sindaco della Vernio liberata. Massoneria e Resistenza, Lotta contro la dittatura e ricerca della Vera Luce si incontrano e si intrecciano in questa figura di partigiano che sempre si operò per il bene comune. Una figura in buona parte persa nelle nebbie della storia, il cui studio biografico sembra tutt’altro che un esercizio privo di valore.

Chi era dunque Adon Toccafondi? Adon Toccafondi nacque a San Quirico di Vernio, nell’alta Valle del Bisenzio, il 13 settembre 1902 da Alberto Lorenzo, ex carabiniere a cavallo e gestore di una cava di materiale edilizio e da Oliva Marchi [4]. Attraverso l’impresa del padre, la famiglia era in contatto con i noti industriali della vallata, Lemmo Romei e Angelo Peyron e fu molto probabilmente grazie a questo legame che il giovane Adon fu portato a studiare presso l’allora Regia Scuola delle Arti Tessili e Tintorie ovvero l’odierno Istituto Tullio Buzzi. Fu nel clima interventista dell’istituto che Toccafondi ebbe a sviluppare: da una parte una solida conoscenza della chimica tintoria; dall’altra, secondo le idee dello stesso direttore Tullio Buzzi, un patriottismo con intense sfumature repubblicane. Un patriottismo che, tuttavia, non sfociò mai nel becero nazionalismo ma che assunse tutta la caratura morale della democrazia, della concezione mazziniana dell’emancipazione del popolo. Caratteristiche queste di cui Toccafondi ebbe a dare prova in almeno tre ambiti: nella lotta contro il fascismo, nell’amministrazione della cosa pubblica (del comune) nell’opera interna all’Obbedienza.
Licenziato in chimica nell’ottobre 1920, egli ebbe ben presto a scontrarsi con la violenza squadrista [5]. Il caso avvenne nella vallata bisentina dei primi anni Venti, laddove le rivolte annonarie del 1919furono parallele a una ripresa dei lavori per la Direttissima Prato-Bologna. Nel contesto dell’alta valle, il cosiddetto “biennio rosso” si piegava nella prospettiva degli scioperi nei cantieri per le scarse retribuzioni e nella temporanea paralisi dei lavori nell’inverno 1920-1921. Posto che, in vallata, i prodromi del fascismo si manifestarono sin dall’estate del 1920, la reazione squadrista alle iniziative operaie si concretò a partire dal 17 aprile 1921, quando la prima vera spedizione in territorio pratese e bisentino causò due morti e numerose violenze. A Vernio e nell’intera Valle del Bisenzio, l’azione fascista proseguì senza soluzione di continuità e, già nel luglio successivo, la giunta socialista di San Quirico fu costretta a dimettersi sotto le pressioni delle camicie nere. Fu in tal contesto che il fascismo bisentino si interessò anche di Toccafondi. Le sue profonde convinzioni repubblicane lo resero un bersaglio per lo squadrismo verniotto. Nel giugno 1921, gli squadristi lo affrontarono in pubblico e gli strapparono il distintivo riportante l’effige di Mazzini. Un fatto identico si ripeté nel successivo settembre, nel contesto della repressione fascista contro lo sciopero tessile decretato in opposizione della riduzione dei salari.
Non sembra allora casuale che, pochissimi mesi dopo, egli trovasse lavoro nelle industrie del Nord Italia, prima a Monza, poi a Sesto San Giovanni, poi ancora sul Lago di Como (dove ebbe a instaurare una propria impresa) e, infine, nel Bergamasco, a Caravaggio. Ma non si trattò solo di un progresso professionale. Il Nord Italia portò anche a una sua maturazione personale e morale. Durante la sua permanenza in Lombardia ebbe a sposarsi ed a metter su famiglia. Ma, soprattutto, fu in Lombardia che Toccafondi entrò in maniera attiva nel movimento antifascista clandestino di Giustizia e Libertà, grazie al repubblicano Arnaldo Guerrini e a Carlo Ludovico Ragghianti.
Manifesto del Comune di Vernio 1 novembre 1944La Lombardia fu insomma la premessa alla lotta resistenziale. Tornato alla fine degli anni Trenta in Toscana fu grazie a Toccafondi che nel 1940 fu possibile riallacciare dei rapporti tra i gruppi socialisti e repubblicani tra Firenze e Prato. Lo stesso Ragghianti ebbe a ricordare l’“intemerato repubblicano” Toccafondi come uno dei protagonisti della locale Resistenza [6]. Adon fu tra i presenti al congresso di formazione del Partito d’Azione fiorentino e fu in contatto con tutti i suoi principali dirigenti. Assunto il nome di battaglia di “Leonardo”, egli dette un importante contributo alla stampa clandestina per la quale procurò sia macchinari, sia i materiali per la pubblicazione del periodico azionista «La Libertà». Come ugualmente ebbe rilevanza la sua collaborazione con radio Co Ra, la Commissione Radio guidata da Enrico Bocci, il cui ruolo di comunicazione con le forze alleate fece assumere all’attività di Adon contorni più marcati [7]. In particolare, il suo ruolo di collegamento assunse rilievo a margine della comunicazione tra il gruppo di Bocci e gli Anglo-americani, per l’invio da parte di questi ultimi di rifornimenti e munizioni. Fu il partigiano “Leonardo” che svolse il ruolo di collegamento tra il campo di ricezione degli aviolanci, nel Pratese, nei pressi di Montemurlo e il gruppo fiorentino. Per altro, la tragica fine della radio Co.Ra. gruppo Bocci, scoperta pochi giorni dopo la realizzazione del primo dei lanci di materiale e uomini, rischiò di colpire anche Adon. Toccafondi scampò di poco alla cattura tedesca grazie alla segnalazione di Vincenzo Cangioli, suo conoscente e datore di lavoro del fratello.
Il ruolo svolto da lui svolto all’interno della Commissione Radio rimandava all’importanza della sua figura nell’organizzazione della Resistenza nel Pratese. Almeno due sono i meriti da segnalare. Anzitutto, Adon Toccafondi fu il principale responsabile del reclutamento di personaggi chiave della Resistenza a Prato quali Mario Martini, il capo militare delle truppe partigiane, e l’intero gruppo dirigente del Partito d’Azione (Roberto Cecchi, Rodolfo Corsi, il prof. Salinari, Cesare Grassi…). Ma soprattutto, Toccafondi fu l’ufficiale partigiano di collegamento tra il CLN di Prato e il CTLN posto a Firenze. Quando, dopo i tragici fatti di Figline, Prato fu liberata, fu Toccafondi assieme a pochi altri a guidare le truppe alleate e partigiane nei territori del circondario. Di sicuro furono lui, il dott. Mensurati e Franco Calcagnini (entrambi appartenenti come Toccafondi al Partito d’Azione) ad entrare per primi a Vernio.
Il paese di Vernio fu il secondo contesto in cui si ravvide l’impegno di Toccafondi per la democrazia e la libertà. Qui egli fu nominato sindaco con l’accordo di tutte le forze del CLN locale su indicazione delle autorità refgionali. Egli si impegnò per la ricostruzione di un paese devastato che ebbe anche ad affrontare tragedie personali come il crollo della galleria di Saletto. Durante i lavori di ripristino della viabilità ferroviaria sulla linea Firenze-Prato-Bologna, all’imbocco della galleria di Saletto, un improvviso crollo travolse una cinquantina di operaie e operai provocando 32 vittime [8]. Adon si pose in contatto sin dal giorno successivo alla tragedia con il CTLN e il CLN di Prato per organizzare una raccolta fondi in memoria delle vittime, la quale produsse 25.000 lire, che il Comune impiegò in parte a saldo dei funerali. Ma egli ebbe anche meriti più generali. Sotto la sua amministrazione fu approntato un piano di recupero e di ricostruzione, fu garantito l’approvvigionamento alle popolazioni colpite dalla guerra, fu approntata la ricostruzione materiale delle strade e degli edifici, nonché del locale acquedotto. Lasciò l’incarico nel luglio 1945, ma a tutt’oggi la testimonianza di Carlo Rossi, tra i suoi successori, lo descrivono come «un uomo di valore» [9]. Di sicuro, nella sua qualità di amministratore, le carte archivistiche lo restituiscono come un uomo della collaborazione che seppe relazionarsi con tutte le forze politiche. Ed ancora oggi riluce una lettera del comunista Carlo Ferri in cui è definito il suo impegno per la Vallata come «impagabile» [10]. Del resto, «chiamato a più alto incarico» [11], Toccafondi fu posto sin dall’inizio del 1946 alla direzione provinciale della United Nation Relief and Rehabilitation Admnistration (UNRRA), l’organismo alleato rivolto al sostegno della locale Ricostruzione.
Adon Toccafondi inizio anni QuarantaMa Toccafondi fu anche appartenente alla massoneria e, in questa veste, espresse una volta in più la sua tenuta morale. Affiliato dal 1944 presso la loggia Michelangiolo di Firenze, si impegnò per il risveglio di quella che a livello nazionale fu la prima istituzione liberomuratoria ad essersi pronunciata pubblicamente contro il fascismo: la loggia “Giuseppe Mazzoni” di Prato. Adon riprese i contatti con antichi appartenenti come Amedeo Strobino e Nazzareno Cecconi e di concerto con il venerabile della Michelangiolo, Anton Giulio Magheri e con l’oratore, Menotti Riccioli, diede vita a un primo triangolo pratese da essa dipendente. Dalle carte d’archivio ben emerge come il triangolo dovesse evolvere in un’officina ispirata dai «principi che avevano informato la gloriosa Giuseppe Mazzoni» [12]. All’inizio del 1947, lo stesso Riccioli si aggiunse ad altri quattro fratelli Spartaco Turi, Italo Baragli, Salvatore Bucca, Cesare Conti per risvegliare la loggia Mazzoni. Una loggia che dalle biografie dei suoi stessi appartenenti assume un carattere intimamente antifascista e incardinato sui valori della democrazia e della libertà. Qui basti ricordare la lunga militanza di Menotti Riccioli nell’antifascismo repubblicano e aggiungere tra i primi aderenti all’officina pratese (successivi ai fondatori) Rodolfo Corsi, vicepresidente del locale CLN.
Di li a poco Adon sarebbe mancato in un terribile incidente stradale. Ma di lui sarebbe rimasto il ricordo che Menotti Riccioli ebbe a fare del suo «instancabile impegno» [13]. Toccafondi fu un personaggio che in ogni suo spunto biografico lottò per i valori di libertà, unità e democrazia. La commemorazione accorata fattane tanto in pubblico, «in una piazza San Marco completamente piena di gente» [14] quanto nei lavori di loggia vale a chiarirne «le sue nobilissime qualità»: «onestà, sincerità, immenso amore per la Famiglia, per la Patria, per l’umanità – poteva esser letto nei verbali dell’Obbedienza – ispiravano la sua vita pratica» [15], facendo di Adon «uno di quei vivi focolai d’umanità che tengono in alto i valori dello spirito».

Volendo far rimanere agile la lettura, si informa che laddove non indicato diversamente in nota, i riferimenti al testo sono ripresi da A. Giaconi, La vera luce della democrazia. Adon Toccafondi, antifascista, partigiano, massone, Firenze, Pontecorboli, 2022.

Note al testo:

[1] Una lotta nel suo corso. Lettere e documenti politici e militari della Resistenza e della Liberazione, a cura di L. Ragghianti Collobi e S. Contini Bonacossi, Venezia, Neri Pozza, 1954.

[2] Cfr. A. Becherucci, Le delusioni della speranza. Carlo Ludovico Ragghianti militante di un’Italia nuova, Milano, Biblion, 2021, pp. 154-155, 165-166.

[3] Una lotta nel suo corso, cit., p. 354.

[4] Comune di Vernio, Ufficio di Stato Civile, Registro degli atti di nascita, a. 1902, atto n. 186.

[5] Per i seguenti dati sul fascismo pratese e bisentino, cfr. A. Bicci, Prato 1918-1922. Nascita e avvento del fascismo, Prato, Medicea Firenze, 2014, pp. 120 e ss..

[6] C.L. Ragghianti, Disegno della Liberazione italiana, Pisa, Nistri Lischi, 1962, p. 307

[7] Sul ruolo e sulla vicenda della Co.Ra. gruppo Bocci, cfr. G. La Rocca, La “Radio Cora” di piazza D’Azeglio e le altre due stazioni radio, Firenze, Tip. Giuntina, 1985. Per un’efficace sintesi cfr. F. Fusi, Il servizio Radio CO.RA. e il suo contributo alla lotta di Liberazione, in «Toscana Novecento. Portale di Storia Contemporanea», https://www.toscananovecento.it/custom_type/il-servizio-radio-co-ra-e-il-suo-contributo-alla-lotta-di-liberazione/, ult. consultazione 14-11-2022.

[8] Cfr. La Direttissima ferita. La ferrovia Firenze-Bologna, 1944-1946, Vaiano, CDSE della val di Bisenzio, 2009, pp. 48-69.

[9] Testimonianza di Carlo Rossi, partigiano comunista e già sindaco di Vernio dal 1964 al 1983, del 24 aprile 2019.

[10] Istituto Storico Toscano della Resistenza e dell’Età Contemporanea, CLN di Prato, b. 5, f. 4, appunto di Carlo Ferri presidente del sottocomitato di Vaiano, novembre 1944.

[11] Testimonianza di Carlo Rossi, cit.

[12] Archivio Storico della Loggia “Meoni e Mazzoni”, Verbali della tenuta di primo grado, seduta del 2 febbraio 1947.

[13] Ivi, 15 gennaio 1948.

[14] Testimonianza di Carla Ignesti Toccafondi, figlia di Adon, il 28 novembre 2019.

[15] Archivio Storico della Loggia “Meoni e Mazzoni”, Verbali della tenuta di primo grado, seduta del 22 novembre 1947.

 




Il cardinale Maffi e il fascismo

Quello tra chiesa cattolica e fascismo è un rapporto complesso, che non può essere ridotto a mera strumentalizzazione reciproca, volta al rafforzamento del consenso e alla soluzione della «questione romana». Come ha spiegato Giovanni Miccoli, si trattò di «un’alleanza e un accordo non meramente tattici ma più intimi e sostanziali», basati su «consonanze essenziali» (il culto di valori come ordine, gerarchia, disciplina, autorità, obbedienza) e «nemici comuni» (su tutti, liberalismo e comunismo). Il dato appare con particolare chiarezza nel caso pisano, caratterizzato da una serie di elementi di particolare rilievo: la violenza estrema dello squadrismo, dilaniato da faide intestine e animato da personaggi brutali come Alessandro Carosi; la forza delle sinistre e in particolare del movimento anarchico, che vantava una lunga tradizione di militanza in città; e, non in ultimo, la presenza del cardinale Pietro Maffi, protagonista della vita intra- ed extra-ecclesiale della prima metà del Novecento italiano.

Nato a Corteolona (Pavia) nel 1858, Maffi fu nominato arcivescovo di Pisa nel 1903. Divenuto cardinale nel 1907, promosse lo sviluppo del movimento cattolico e instaurò rapporti cordiali con i Savoia, approfittando della prossimità della residenza reale di San Rossore. Ciò aumentò grandemente il suo prestigio in seno all’episcopato, al punto da sfiorare l’elezione al conclave del 1914. Durante la Prima guerra mondiale Maffi divenne il simbolo dell’unione tra fede e patria nell’Italia grigioverde, esortando i pisani all’obbedienza e contribuendo a contenere il malcontento attraverso iniziative di carattere assistenziale come la ricerca di informazioni sui militari dispersi o prigionieri negli Imperi centrali.

La ripresa della conflittualità politica e sociale dopo la fine del conflitto lo indusse a lanciare un appello alla pacificazione, auspicando un ritorno alla società cristiana; ciò detto, basta sfogliare «Il Messaggero toscano» – il quotidiano da lui fondato nel 1913 – per rendersi conto che, agli occhi del cardinale, il pericolo maggiore era costituito dal socialismo ateo. Non a caso, quando furono i cattolici a subire attacchi e intimidazioni da parte delle camicie nere Maffi tenne un profilo generalmente basso, cercando di calmare gli animi e di trovare un terreno d’intesa con l’aggressore nella celebrazione della memoria “eroica” dei caduti della Prima guerra mondiale: così accadde nel novembre 1921, durante la cerimonia per il Milite ignoto, e nel maggio 1924, con l’inaugurazione del monumento ai caduti nel cortile della Sapienza. I fascisti, però, volevano restare gli unici padroni della scena pubblica e nel gennaio 1925 distrussero la tipografia che stampava i fogli cattolici distribuiti a Pisa, Lucca, Livorno, Pontremoli e La Spezia. Il danno considerevole spinse Maffi a mutare registro, indirizzando prima un telegramma di protesta al ministro dell’Interno («Vescovo ne ho pianto, italiano ne ho arrossito»), poi una lettera pastorale ai pisani. Dedicata al quinto comandamento, essa conteneva frasi durissime contro chi si era macchiato di omicidio nei recenti scontri politici: «Guai alla mano che gronda sangue! Guai ai piedi che urtano in un cadavere! Oh, la dinastia di Caino! Continua puro; ma lo senta che, dove mancano gli uomini, Dio arriva, Dio che ai colpevoli non dà tregua e incessante li persegue e sopra di loro grida e sentenzia: Maledetto, maledetto! Maledetto nel tempo! Maledetto nell’eternità! Maledictus eris!».

Pietro_Maffi_cardinaleDavanti al pericolo di perdere il sostegno di uno dei membri più illustri dell’episcopato, le cose iniziarono a mutare. Complici la fine della faida tra Bruno Santini e Filippo Morghen e l’ascesa di Guido Buffarini Guidi, l’atmosfera andò rasserenandosi e le relazioni tra Chiesa e fascismo entrarono in nuova fase. Nel maggio 1926, lo stesso Mussolini venne in città per assistere all’inaugurazione del restaurato pergamo di Giovanni Pisano nella cattedrale e si lasciò fotografare al fianco del cardinale, quasi a proclamare alla cittadinanza la ritrovata armonia tra le due autorità. L’evento fu un brutto colpo per i fascisti più ostili a Maffi, che dovettero rassegnarsi. Negli anni successivi, nessun incidente turbò i rapporti tra cattolici e camicie nere, che celebrarono insieme la memoria “eroica” del 1915-1918. Ad esempio, nel novembre 1928 il decennale della vittoria fu celebrato in duomo all’insegna della continuità tra guerra mondiale e fascismo: Buffarini lesse il bollettino della vittoria, l’ex cappellano militare Ezio Barbieri celebrò la messa e Maffi benedisse il tumulo imbandierato e circondato da soldati e fascisti; tutti intonarono infine la Marcia reale, l’Inno del Piave e Giovinezza.

Come si vede, alla vigilia della conciliazione il cardinale non esitò a legittimare il regime che si voleva erede di Vittorio Veneto; il culto dei caduti, tuttavia, fu solo l’aspetto più evidente di una convergenza profonda che, come attesta il bollettino diocesano, si manifestò nell’approvazione delle misure varate dal governo per l’incremento della natalità, del numero delle questure sul territorio e, soprattutto, della produzione cerealicola, funzionale al ritorno alla vita “devota” dei campi.

Per quanto importanti, questi elementi impallidiscono di fronte a quello che, a buon diritto, può essere considerato il sogno di una vita: la conciliazione tra Stato e Chiesa del febbraio 1929, che segnò la fine dell’annosa «questione romana» e il culmine della parabola politico-religiosa di Maffi. Pur non avendo avuto parte attiva nei negoziati, egli volle manifestare la propria soddisfazione con tre lettere di ringraziamento dirette al papa Pio XI, al re Vittorio Emanuele III e al dittatore che «con mano sicura e forte» teneva le redini del Paese. Non si trattava di sentimenti affettati: nel comunicare la notizia al clero diocesano, infatti, il presule annunciò con toni trionfali la fine della vecchia Italia dominata da «massoneria, liberalismo, scuole atee e corruzione».

Gli ultimi anni furono ricchi di soddisfazioni per Maffi, chiamato a Roma nel gennaio 1930 per celebrare il matrimonio tra il principe ereditario Umberto e Maria José del Belgio a Roma. Nella circostanza, egli fu insignito del collare dell’Annunziata, che gli dava il titolo di cugino del re.

La morte lo colse nel marzo 1931, mentre la crisi tra regime e Azione cattolica entrava nella fase più acuta. A riprova delle tensioni mai del tutto sopite, il necrologio de «L’Idea fascista» (organo del fascio pisano) precisò che, al di là dei meriti innegabili acquisiti nel corso della sua carriera, lo scomparso non aveva compreso né apprezzato fin da subito l’importanza del fascismo. I detrattori, però, dovettero mordere il freno davanti alla solennità dei funerali che, oltre alla partecipazione di undici vescovi e del maresciallo d’Italia Guglielmo Pecori Giraldi, ebbero l’adesione del re, del segretario di Stato vaticano Eugenio Pacelli e di Mussolini. Quest’ultimo plaudì in un telegramma all’«illustre cardinale Maffi che durante vita operosa seppe armonizzare religione, patria, scienza» e si fece rappresentare al rito dal sottosegretario di Stato al ministero di Giustizia e affari di culto Giuseppe Morelli. La resa dei conti, però, era solo rimandata. Ancora in ottobre, quando la tempesta sembrava ormai alle spalle, «L’Idea fascista» tornò ad accusare lo scomparso di antifascismo.

La presenza di una figura del calibro di Maffi, decisamente inusuale per una diocesi periferica e dalle dimensioni modeste come quella pisana, contribuì a dare agli eventi locali una risonanza notevole non solo nella penisola ma anche all’estero, facendo della Pisa degli anni Venti una sorta di osservatorio da cui scrutare i punti di forza e le criticità della politica ecclesiastica del fascismo. Soprattutto, la vicenda di Maffi evidenzia un dato cruciale. A dispetto di divergenze, tensioni, moniti, incidenti e intimidazioni, i responsabili ecclesiastici non smisero mai di cercare o, dopo il 1929, di difendere la conciliazione. Le leggi razziali causarono certamente un raffreddamento dei rapporti tra le due autorità, anche perché violavano le disposizioni concordatarie in materia di matrimonio; ciò detto, furono soltanto le sconfitte inanellate dall’esercito nel corso della Seconda guerra mondiale a segnare il distacco definitivo della Chiesa da un regime entrato ormai nella sua fase terminale.




Oberdan Chiesa. Un uomo, una vittima, un mito.

Una delle frasi più famose della narrativa italiana sulla Resistenza è quella del partigiano Kim, tra i protagonisti de Il sentiero dei nidi di ragno di Italo Calvino, «E basta un nulla, un passo falso, un impennamento dell’anima e ci si ritrova dall’altra parte»[1]. Lo stesso Claudio Pavone, nel suo Una guerra civile. Saggio storico sulla moralità della Resistenza utilizzò questo passo letterario per spiegare le ragioni attorno ai diversi schieramenti di campo all’indomani dell’8 settembre 1943, non sempre semplici e spesso legate al caso. Ecco, a me sembra che la frase di Calvino calzi anche per descrivere, almeno in parte, e la scelta antifascista di Oberdan Chiesa – e forse anche del fratello Mazzino, a cui Stefano Gallo ha già dedicato uno studio[2] – anticipata di quasi un ventennio rispetto all’ambientazione originaria della storia, cioè al momento dell’instaurazione del regime fascista. Il «nulla» che colpì i fratelli Chiesa – comunque cresciuti in un ambiente familiare imbevuto di idee repubblicane e socialiste – fu una spedizione squadrista contro il loro quartiere, consumatasi quando entrambi erano degli adolescenti. Ma procediamo con ordine.

La famiglia Chiesa era composta dai genitori, Garibaldo e Ada Cini, e da quattro figli, Corrado-Giovanni, Mazzino, Oberdan e Mazzina. Già i loro nomi tradivano l’orientamento politico che si respirava al numero 54 di via Giuseppe Garibaldi, l’arteria principale del quartiere livornese “Il Pontino” – uno dei centri “sovversivi” della Livorno contemporanea – dove vivevano. Ma dalle memorie dei protagonisti emerge ancora più chiaramente come la spinta alla loro decisa presa di posizione contro il fascismo avvenne nell’ottobre del 1924. Bisogna ricordare come in seguito all’omicidio Matteotti il partito di governo sembrò sbandare, anche sull’onda della costernazione dei circoli conservatori che avevano supportato l’ascesa di Mussolini. La reazione dei fascisti fu contraddistinta da un uso diffuso della violenza squadrista, la stessa del biennio 1921-1922, che si riversò anche su Livorno[3]. Quella sera un gruppo di squadristi invase la fiaschetteria dei fratelli Sirio e Gino Spagnoli, noti repubblicani da poco convertiti al comunismo, per dargli una lezione. I due non si fecero intimidire ed estrassero le armi che tenevano sotto al bancone, ferendo tre degli aggressori e mettendo in fuga gli altri[4]. Come ritorsione un folto gruppo di fascisti si diresse verso il loro appartamento, che era esattamente dal lato opposto a quello dei Chiesa:

Durante la notte mia madre è venuta in camera – chi parla è Mazzino, che ricordava  quell’episodio a mezzo secolo di distanza – terrorizzata, mi ha svegliato dicendomi che i fascisti erano giù e volevano entrare in casa […] Non c’è stato bisogno di andare ad aprire perché avevano già abbattuto la porta ed erano entrati dentro. Sono entrati [sic] in camera dove io dormivo con mio fratello [Oberdan] e tra questi “masnadieri” ho visto uno […] che ha detto “No, no, non sono quelli che stiamo cercando”[…] Quando sono andati via, allora, mi sono alzato [mi sono affacciato alla finestra] e ho assistito ad una scena terrificante: da ogni parte c’era un incendio. Per vendicarsi, siccome i fascisti non avevano potuto trovare quelli che avevano sparato, avevano dato fuoco ai pagliai, perfino a delle pine […] per   fare il fuoco […] e dettero la via ai maiali […]. Come al solito la reazione dei fascisti si riversò nei confronti degli inermi e degli ultimi[5].

Oberdan Chiesa, Barcellona, 1936

Oberdan Chiesa, Barcellona, 1936

L’episodio, per quanto risoltosi in maniera fortunata per i due fratelli Chiesa, fu il trauma – lo affermò lo stesso Mazzino nell’intervista audio –  che decise per un loro percorso di vita votato all’antifascismo. Il primo ad impegnarsi nella lotta aperta contro il partito di governo fu Mazzino, il quale aderì formalmente alla federazione giovanile comunistamettendosi a distribuire manifestini in città e ad aiutare nell’organizzazione comizi clandestini[6]. Oberdan decise di rimanere ancora per un po’ nell’ombra, evitando di esporsi pubblicamente e interiorizzando la propria opposizione al fascismo. Di lì a poco anche lui avrebbe fatto sentire la sua voce, costringendo la polizia politica a mettersi sulle sue tracce. Soprattutto all’estero.

Nel settembre del 1933, all’indomani del servizio militare di leva, Oberdan espatriò per Bona, in Algeria, dove fece il suo battesimo politico partecipando, col fratello – allora già da qualche tempo esule ed agente del Pcd’I clandestino –, all’aggressione al direttore della scuola italiana di quella città[7]. Per quell’episodio fu processato ed espulso dalla colonia francese spostandosi prima a Marsiglia, poi ad Ajaccio, dove risiedette dal gennaio all’agosto 1936, ed infine a Grenoble[8]. In quest’ultima città rimase poco tempo perché, lo stesso giorno del suo arrivo, ebbe modo di parlare con altri emigrati che gli parlarono di cosa stesse accadendo in Spagna. Non sapeva veramente nulla riguardo l’ammutinamento del generale Francisco Franco contro la giovane repubblica? Pur nutrendo alcuni dubbi su questa dichiarazione – che fece lui stesso al momento del rimpatrio – non mi è stato possibile scoprirlo, ma è certa la sua partenza per Barcellona dei giorni seguenti. Partecipò alla Guerra Civil prima tra i ranghi della centuria “Gastone Sozzi”, poi nelle Brigate internazionali e, infine, nella Marina da guerra repubblicana. Nel 1939, al momento della sconfitta, fu costretto a lasciare la Spagna finendo recluso nei campi di prigionia francesi per gli ex volontari. L’ultimo campo fu quello di Vernet, dal quale venne liberato nell’estate del 1941 per essere rimpatriato in Italia. Raggiunse Livorno a settembre, rimanendovi per poche settimane. Iscritto al Casellario politico centrale dal 1934, fu condannato al confino, che scontò sull’isola di Ventotene. All’indomani della caduta del regime fascista venne liberato, rientrando nella sua Livorno solo alla fine del mese di agosto. La città che si trovò di fronte non era certo quella lasciata anni prima, avendo già subito i due grandi bombardamenti del 28 maggio e del 28 giugno 1943[9].

La sua permanenza fu tutto sommato breve, dato che dopo la notizia dell’armistizio con gli angloamericani e l’avvio dell’occupazione nazifascista, trascorsero pochi mesi prima del suo arresto. Oberdan venne fermato dalla squadra politica della Questura di Livorno il 22 dicembre 1943, e quello che fece in questo lasso di tempo, ahimè, non è testimoniato da nessuna fonte. Sicuramente ebbe un ruolo nell’organizzazione della Resistenza livornese, ma non certo così centrale come è stato dipinto nel dopoguerra. Questo emerge abbastanza chiaramente sia nella documentazione prodotta durante il processo ai suoi assassini – sebbene gli inquirenti non dedicarono ampia attenzione ad approfondire le modalità del suo arresto – sia nelle memorie di alcuni tra i principali animatori della lotta partigiana nel livornese. Anche la sua scelta come vittima delle rappresaglia che si consumò per ordine della Prefettura di Livorno sulla spiaggia di Rosignano Solvay il 29 gennaio 1944 conferma questa lettura, a cui è importante aggiungere come in occasione del suo arresto venne fermato anche il principale rappresentante della Resistenza comunista livornese in quelle prime settimane di occupazione, vale a dire Vasco Jacoponi[10]. Al di là di queste interpretazioni – che ci tengo a ribadire come siano del tutto personali, sebbene ancorate ad un ampio scavo archivistico e bibliografico – resta il fatto che quella mattina del gennaio 1944, in risposta ad un attentato fallito contro il maresciallo comandante la stazione dei carabinieri di Rosignano Solvay di poche ore prima, Oberdan venne fucilato da un plotone della Guardia nazionale repubblicana (Gnr) composto da ex militi della Milizia volontaria per la sicurezza nazionale e carabinieri. La sua esecuzione era l’esempio concreto di quella guerra civile che si combatté tra il 1943 e il 1945 in Italia, per cui il ricordo dell’episodio non poteva perdersi tra quelli che costellarono quei mesi. Alla formazione di una solida memoria “popolare” della morte di Oberdan contribuì indubbiamente il processo che venne celebrato nell’estate del 1947 – dopo più di due anni di istruttoria e decine di testimonianze raccolte – contro la catena di comando fascista-repubblicana che aveva ordinato, ed eseguito, la rappresaglia. Sul banco degli imputati finirono: Edoardo Serafino Facdouelle, capo della provincia di Livorno tra il dicembre 1943 e il giugno 1944; Giampaolo Mannelli, segretario particolare di Facdouelle e dirigente dell’ufficio politico della Prefettura di Livorno; Fernando Gori, federale del Partito fascista repubblicano di Livorno tra il dicembre 1943 e il giugno 1944; Renato Simoncini, commissario del fascio repubblicano di Quercianella; Giovanni Giampieri, ispettore federale e commissario del fascio di Piombino; Giuseppe Bartolini, tenente colonnello della Gnr e comandante della 88ª legione di Livorno tra gennaio e aprile 1944; Michele Cioffi, capitano dei carabinieri e comandante del gruppo di Livorno tra l’estate 1942 e quella del 1944; Luigi Carocci, squadrista e capitano della Gnr; Luigi Porquieur, capitano della Gnr e comandante dell’ufficio politico dell’88ª Legione; Luigi Cardile, tenente della Gnr; e Eugenio Bartolini, Sirio Lami e Marino Piga, tutti e tre militi della Gnr livornese. Facdouelle e Mannelli, entrambi latitanti, vennero puniti con l’ergastolo; a Gori furono inflitti 26 anni e 8 mesi di reclusione; a Carocci, latitante anche lui, 20 anni e 8 mesi; a Giuseppe ed Eugenio Bartolini, Cardile, Piga e Lami 13 anni, 9 mesi e 10 giorni; mentre a Cioffi 11 anni, 1 mese e 24 giorni. Tutti furono condannati a pagare le spese processuali e a risarcire la madre di Oberdan, costituitasi parte civile e assistita dall’avvocato Augusto Diaz. In virtù dell’amnistia del 22 giugno 1946, nota come “amnistia Togliatti”, vennero immediatamente condonati 8 anni e 10 mesi a Gori, mentre 5 anni ai due Bartolini, Cardile, Piga, Lami e Cioffi[11].

Livorno, 1947. Foto scattate al processo per l'uccisione di Oberdan.

Livorno, 1947. Foto scattate al processo per l’uccisione di Oberdan.

Ho definito la memoria scaturita dal processo come “popolare” non per caso, in modo da far emergere la differenza con quella “istituzionale” che rese il 29 gennaio una data topica del calendario laico dei livornesi. Perché accadde ciò? A partire dal 1945 la neonata federazione labronica dell’Associazione nazionale partigiani d’Italia pose una stele commemorativa sul luogo dell’esecuzione di Oberdan quale punto di riferimento soprattutto per gli abitanti di Rosignano Solvay. Nel capoluogo di provincia, invece, gli venne dedicata una via e intitolata una sezione del Pci. A partire dal 1948, a causa del mutato clima internazionale, le cose iniziarono a cambiare e le celebrazioni annuali in sua memoria assunsero un chiaro orientamento politico. A ciò si aggiunse l’offensiva giudiziaria antipartigiana che si aprì nel dicembre 1947 e che investì anche la figura di Oberdan[12]. In questo clima si svolse il processo ad alcuni componenti della banda partigiana “Danesin” – dal nome del suo comandante Sante, e che operò tra i comuni di Rosignano Marittimo, Castellina Marittima e Riparbella – imputati quali autori dell’attentato del 27 gennaio 1944 che portò alla rappresaglia contro Oberdan, ma anche del tentato omicidio del commissario prefettizio di Montecatini Val di Cecina Oreste Giglioli, e degli omicidi dell’ex squadrista di Rosignano Solvay Arturo Gaiozzi, dell’ex podestà di Castellina Marittima Francesco Renzetti, e del maresciallo dei carabinieri di Riparbella Lugi Scordo. Non mi soffermo sulla complessità di questo processo – col primo grado celebrato dalla Corte d’assise di Pisa, il secondo dalla Corte d’appello di Firenze e il terzo dalla Cassazione – ma per comprenderla è sufficiente sapere come solo il dibattimento durò dal 16 febbraio al 30 marzo 1953, e che i principali imputati furono portati in carcere già a partire dal luglio 1951. Il significato del processo, per quanto risoltosi in maniera tutto sommato favorevole a Danesin e ai suoi compagni di lotta, non fu tanto quello di far giustizia di fatti di sangue risalenti a quasi un decennio prima, quanto quello di attaccare ancora una volta l’attività partigiana, cercando di screditarla in un’aula di tribunale. In questo scontro tra le parti finì schiacciata la memoria di Oberdan, che fu completamente riabilitata solo dopo la fine di questa seconda fase di processi. Il 19 luglio 1959, in occasione del 15° anniversario della Liberazione di Livorno, si tenne la consueta orazione del sindaco del capoluogo per commemorare l’evento. Dopo le dimissioni di Furio Diaz, primo cittadino dal 1944 al 1954, le funzioni erano passate a Nicola Badaloni. Nel suo discorso ufficiale, ricordò il nome di Oberdan, ponendolo in continuità con i valori risorgimentali della città e affiancandolo, unico civile, ai numerosi militari livornesi decorati di medaglia d’oro al valore militare[13]. L’inedita attenzione di Badaloni verso la figura di Oberdan non era assolutamente di facciata, ma sintomo di un diverso interesse rispetto a prima per la sua triste vicenda, e il significato pedagogico che avrebbe potuto assumere per tutto il contesto livornese: Oberdan era la figura attorno alla quale coagulare l’antifascismo di una provincia nei suoi vari passaggi dal 1922 al 1945, esaltando l’esperienza del fuoriuscitismo, dell’intervento internazionale in Spagna, del confino fascista e della guerra partigiana. Si spiega così perché in occasione del 18° anniversario della fucilazione di Oberdan, i giornali livornesi pubblicarono, per la prima volta contemporaneamente, il testo di una lettera inviata dall’avvocato Campi a sua madre alcuni anni prima, in cui ricambiava ai ringraziamenti per aver ricordato il figlio nella seduta del consiglio comunale del luglio 1954, tenutasi per decidere sull’apposizione di una targa commemorativa il decimo anniversario della Liberazione nella sala consiliare del municipio[14]. D’altro canto, poi, anche la considerazione del principale esponente della famiglia Chiesa ancora in vita, Mazzino, stava cambiando. Dopo un’iniziale contestazione trasversale a tutte le scelte politiche della federazione comunista, Mazzino “l’anarcoide” era stato escluso dalla vita del Pci. Nel 1957 aveva addirittura rifiutato la tessera perché «nemmeno un gatto della federazione» era intervenuto al funerale della madre. Grazie però ad una lenta mediazione dello stesso sindaco Badaloni si convinse a tornare tra le fila comuniste, avvallando così l’uso pubblico della figura del fratello[15]. A partire dal 1964, in occasione del 20° anniversario della morte Oberdan, la data 29 gennaio si affermò definitivamente nella serie delle celebrazioni annuali della Resistenza in tutta la provincia Livorno.

 *Giovanni Brunetti (Cecina, 1997) è laureato magistrale in Storia e Civiltà presso l’Università di Pisa (maggio 2021), dove ha conseguito anche la laurea triennale in Storia (giugno 2019). Attualmente sta frequentando il biennio 2019-2021 della Scuola di Archivistica, Paleografia e Diplomatica dell’Archivio di Stato di Firenze. Dottorando del XXXVII⁰ ciclo di studi (2021-2024) in Scienze archeologiche, storico-artistiche e storiche presso l’Universita degli Studi di Verona.

[1] Cfr. I. Calvino, Il sentiero dei nidi di ragno, Einaudi, Torino, 1964 (ed. or. 1946), p. 146

[2] Cfr. S. Gallo, Mediterraneo antifascista. Sovversivi e porti mediterranei durante il Ventennio, in Salvatore Capasso, Gabriella Corona e Walter Palmieri, Il Mediterraneo come risorsa. Prospettive dall’Italia, il Mulino, Bologna, 2020, pp. 1-17. La ricerca è stata pubblicata anche su questo portale col titolo Mazzino Chiesa, un uomo in mare. Sovversivi e porti mediterranei durante il Ventennio https://www.toscananovecento.it/custom_type/mazzino-chiesa-un-uomo-in-mare/ (consultato il 28 febbraio 2022).

[3] Cfr. T. Abse, Sovversivi e fascisti a Livorno. Lotta politica e sociale (1918-1922). La lotta politica e sociale in una città industriale della Toscana, Quaderni della Labronica, Livorno, 1990; M. Rossi, La battaglia di Livorno. Cronache e protagonisti del primo antifascismo (1920-1923), Bfs, Pisa, 2021.

[4] Cfr. Nicola Badaloni e Franca Pieroni-Bortolotti, Movimento operaio e lotta politica a Livorno, 1900-1926, Editori Riuniti, Roma, 1977, pp. 169 e 201.

[5] Pochi mesi prima di morire Mazzino Chiesa rilasciò una lunga intervista audio a Iolanda Catanorchi, per un progetto di raccolta delle memorie di 7 figure storiche dell’antifascismo livornese. Cfr. Mazzino Chiesa, intervista audio di I. Catanorchi per il progetto dal titolo Livornesi sovversivi nel ventennio fascista, 1974, 1.18.00 (d’ora in poi Intervista a Mazzino Chiesa, 1974).

[6] Nel novembre 1926 Mazzino venne arrestato per la prima volta a Napoli, mentre si trovava su una nave proveniente dal Canada, per il ritrovamento di alcuni materiali del “Soccorso rosso” a casa. A tradirlo era stata una lettera alla madre intercettata dalla polizia, già sulle sue tracce per via degli stretti legami con altri comunisti livornesi. Archivio di Stato di Livorno (ASLi), Questura, A8, b. 1398, fasc. «Mazzino Chiesa», verbale di perquisizione del 18 settembre 1926 e sgg. Per una narrazione più precisa della sua attività in questo periodo della sua vita rimando all’intervista a Mazzino Chiesa, 1974, 00.05.00.

[7] Oberdan si dichiarò innocente a più riprese – anche nell’interrogatorio del 1941 al suo rientro dall’esperienza spagnola, scagionando pure il fratello – ma contro di lui le autorità francesi poterono far valere l’espatrio clandestino e l’assenza di un qualsiasi documento d’identità. Archivio Centrale dello Stato, Min. Interno, Cpc, b. 1303, fasc. 47130 «Oberdan Chiesa», verbale di interrogatorio ad Oberdan (28 ottobre 1941).

[8] Si trattava di Leo Franci, un comunista di Colle Vall d’Elsa emigrato a Marsiglia da pochi mesi dopo una fuga rocambolesca dall’Italia. Volontario in Spagna dall’ottobre del 1936, divenne commissario politico della 1° compagnia, 2° battaglione del «Garibaldi», e fu ucciso a Villanueva de Pardillo (nei pressi di Madrid) nel luglio 1937. I. Cansella e F. Cecchetti (a cura di), Volontari antifascisti toscani nella guerra civile spagnola, Effegi, Arcidosso, 2012, p. 198.

[9] Cfr. E. Acciai, Una città in fuga. I livornesi tra sfollamento, deportazione razziale e guerra civile (1943-1944), ETS, Pisa, 2016.

Rosignano Solvay, 1988. Celebrazione dell'anniversario della fuciliazione di Oberdan di fronte al nuovo monumento. Sulla destra è visibile il cippo originale.

Rosignano Solvay, 1988. Celebrazione dell’anniversario della fuciliazione di Oberdan di fronte al nuovo monumento. Sulla destra è visibile il cippo originale.

[10] Jacoponi aveva aderito da subito alla svolta comunista del 1921, divenendo segretario della Federazione giovanile comunista di Pisa e Livorno nel 1924. Fu arrestato due anni più tardi, processato dal Tribunale speciale per la difesa dello Stato e assegnato al confino a Lipari. Riuscì a fuggire dall’isola emigrando clandestinamente in Francia e mettendosi al servizio del Pcd’I. Nel 1940 fu rimpatriato dalle autorità francesi, processato una seconda volta e confinato a Ventotene. Nel dopoguerra ricoprì vari incarichi in seno alla Cgil e al sindacato dei portuali di Livorno, risultando eletto alla Camera dei deputati nel 1948, nel 1953 e nel 1958. Cfr. I. Tognarini, Là dove impera il ribellismo. Resistenza e guerra partigiana dalla battaglia di Piombino (10 settembre 1943) alla liberazione di Livorno (19 luglio 1944), Esi, Napoli, 1988, p. 158.

[11] ASLi, Tribunale, Corte d’assise speciale, b. 855, fasc. «1947», sentenza del processo per l’uccisione di Oberdan Chiesa (16 luglio 1947).

[12] Cfr. Guido Neppi Modona, Il problema della continuità dell’amministrazione della giustizia dopo la caduta del fascismo, in Luigi Bernardi (a cura di), Giustizia penale e guerra di liberazione, Milano, Franco Angeli, 1984, pp. 11- 39; Guido Neppi Modona, La giustizia in Italia tra fascismo e democrazia, in Giovanni Miccoli, Guido Neppi Modona, Paolo Pombeni (a cura di), La grande cesura. La memoria della guerra e della resistenza nella vita europea del dopoguerra, Bologna, il Mulino, 2001, pp. 223-228; Michela Ponzani, L’offensiva giudiziaria antipartigiana nell’Italia repubblicana (1945-1960), Aracne, Roma, 2008; Simeone del Prete, «Fare di ogni processo una lotta politica». Gli avvocati difensori nei processi ai partigiani del secondo dopoguerra, «Contemporanea», articolo in early access  https://www.rivisteweb.it/doi/10.1409/102810 (consultato il 28 febbraio 2022).

[13] Le biografie di questi personaggi erano state raccolte pochi anni prima e pubblicate unitariamente in «Rivista di Livorno. Rassegna di attività municipale a cura del Comune», ed. “Decennale della Resistenza” (1955), fasc. I-II, pp. 17-22. ASLi, Prefettura, b. 37, copia del verbale del consiglio comunale del 14 luglio 1959.

[14] Ricordo del sacrificio di Oberdan Chiesa, «Il Telegrafo», 26 gennaio 1962. Lo stesso articolo fu pubblicato anche su un altro giornale locale con una presentazione alla lettera leggermente diversa, di cui ho trovato solo il ritaglio effettuato dalla polizia senza alcuna indicazione. ASLi, Questura, A4b (1965-1980), b. 497, ritaglio di articolo di giornale Ricordo di Oberdan Chiesa (26 gennaio 1962).

[15] Intervista a Mazzino Chiesa, 1974, 03.19.55. In questo passaggio Mazzino spiegò come quella era la prima volta in cui raccontava come si fossero svolti realmente i fatti, spesso ricondotti alla diaspora di molti comunisti dal partito nel 1956 dopo l’invasione dell’Ungheria da parte dell’Urss.