Giulio Guelfi, un sovversivo sullo scranno più alto del Comune di Cascina.

Tra le varie biografie di personaggi appartenenti al mondo socialista e comunista che hanno animato la vita sociale e politica della provincia pisana nel periodo che va dal 1919 fino all’avvento del fascismo, quella di Giulio Guelfi è tra le più significative ai fini della ricostruzione dell’immaginario collettivo dell’epoca, sia per i diversi ruoli che il personaggio ha assunto durante la sua militanza politica e sindacale, sia per gli incarichi istituzionali e la sua puntuale azione nella lotta antifascista in patria e poi in esilio. Ad un impegno militante e una fervente convinzione sul valore delle proprie idee, che manifesta nell’arco di tutta la sua vita, in Guelfi si evidenzia – elemento assolutamente non secondario – uno spirito ribelle, sovversivo, indomito, che ben racconta del carattere del popolano pisano di questi anni. È questa un’inclinazione che trova profonde radici nella storia popolare e sovversiva della provincia sin dai tempi della costituzione delle prime sezioni della Società democratica Internazionale[1].
Giulio Guelfi nasce a Cascina il 14 settembre 1888 da Riccardo e Liberata Bracci, di professione impiegato, poi commerciante. Vive la sua formazione umana e politica nei paesi di Casciavola e Navacchio (borgate ancora oggi nel Comune di Cascina) dove presumibilmente abbraccia gli ideali socialisti che sono particolarmente diffusi nella zona. Negli anni precedenti alla Prima guerra mondiale viene assunto come impiegato all’Ospedale di Piombino, rientrato a Cascina diventa ben presto uno dei promotori della sezione socialista di Casciavola e uno dei principali organizzatori della Camera confederale del Lavoro[2]. L’attività politica e sindacale di Guelfi è ricostruibile attraverso la lettura de «L’Ora nostra», il periodico della Federazione pisana del partito socialista che, tra il 1919 e il 1921 nelle cronache provinciali, riporta notizia di suoi numerosi comizi a supporto delle agitazioni contadine, bracciantili e operaie. Nello stesso periodo, secondo un profilo biografico della Prefettura pisana, Guelfi «aveva iniziata l’organizzazione delle squadre rosse e già aveva messo in funzione diverse squadre cicliste. Organizzò e fu sempre a capo di tutti i movimenti operai e sovversivi verificatisi dai primi del 1919 al 1922 nel Comune di Cascina»[3]. Lo stesso documento lo descrive «dotato di facilità di parola tanto che era riuscito ad acquistare tanto ascendente tra le masse operaie che lo seguivano ciecamente in qualsiasi violenza».
Le elezioni politiche del 1919 avevano premiato i partiti neutralisti, il PSI aveva superato il 41% dei voti ed era diventato il primo partito del collegio Livorno-Pisa e della provincia pisana[4]. Vanno nella stessa direzione le elezioni amministrative dell’autunno del 1920 che consegnano ai socialisti ben 26 comuni dei 42 della provincia, con punte di consenso straordinario a Pontedera dove ottengono il 78% dei voti[5]; l’eccezionale risultato elettorale dei socialisti si completa con l’assegnazione di 23 seggi sui 40 disponibili nel Consiglio provinciale.
Nelle elezioni amministrative dell’autunno del 1920 il PSI cascinese punta su Guelfi, che viene eletto consigliere comunale e poi Sindaco di Cascina. Il suo mandato, che dura dall’ottobre del 1920 al settembre del 1921, è un’esperienza breve ma particolarmente intensa e nella quale Guelfi riversa tutto il proprio portato umano, politico, sindacale[6] e non in ultimo il proprio carattere impulsivo e non incline alla sottomissione. Il ruolo istituzionale assunto esalta la sua figura di militante rivoluzionario e dallo scranno più alto del Comune detta la linea politica con la convinzione di preparare la strada ad un’imminente rivoluzione[7].
Il 16 ottobre è convocato il primo Consiglio comunale e i toni della seduta di insediamento ci aiutano a cogliere il clima di queste giornate; così come avviene in altri enti locali, anche nel Comune di Cascina si inneggia alla dittatura del proletariato e si propone come primo atto l’approvazione di un Ordine del giorno a favore della Russia rivoluzionaria e «pro condannati politici». L’ordine del giorno viene presentato dall’assessore Adolfo Mannocci che annuncia: «Noi percorriamo la strada che ci conduce verso il socialismo che affratella le genti pertanto la bandiera che qui abbiamo issato non l’ammaineremo giammai né per l’ambizione di un Re, né per la violenza dei governanti»[8]. Il Consiglio comunale chiede al Governo italiano l’immediato riconoscimento ufficiale della Russia dei Soviet e chiude la discussione di questo punto al grido di «Fuori dalle galere tutti condannati politici!». Nella stessa seduta, stimolato dagli interventi della minoranza che invitano la Giunta a «compiere atti di saggia e sana amministrazione», prende la parola anche il Sindaco Guelfi che annuncia e rivendica il ruolo politico della sua Amministrazione e, in risposta alla richiesta di illustrare il programma, replica: «La Direzione del Partito socialista impartirà le direzioni e noi le seguiremo […] Pel il bilancio 1921 […] colpiremo profondamente i proprietari […] governeremo e agiremo non curandoci delle pastoie delle leggi esistenti che muovono ingiustizia, faremo in odio e a dispetto della legge quello che riterremo giusto»[9]. Il Consiglio si scioglie con le conclusioni del Sindaco che ritorna sulla questione: «di programmi non ne abbiamo, so solo che abbiamo lottato, battuto e vinto in nome del Socialismo e legiferemo per il Socialismo e in nome di questo e del Popolo, che è il nostro re, dichiaro chiusa la discussione al grido di: Viva il Socialismo! Viva l’Internazionale!»[10].
Con le nuove giunte socialiste rivoluzionarie elette nell’autunno del 1920 arriva anche nella provincia pisana un nuovo cerimoniale che ha l’obiettivo di sostituire, anche nell’immaginario popolare, i simboli delle istituzioni: in alcuni Comuni viene rimossa la targa che riporta il Bollettino della Vittoria di Armando Diaz[11], il saluto alla Russia rivoluzionaria sostituisce il saluto al re e sulle facciate dei Comuni la bandiera rossa prende il posto del tricolore. Pratiche che scateneranno la reazione dello squadrismo fascista, dell’esercito[12] e i provvedimenti delle Prefetture. A Cascina la bandiera rossa sventola sulla Torre civica[13], Guelfi ha dato mandato di acquistarne una «con lo stemma dei Soviet e di quello del Comune medesimo»[14] e la spesa di £ 100,00, non prevista in bilancio, viene finanziata con un prelievo dal fondo di riserva del Sindaco.
Ad un massimalismo del linguaggio che inneggia ad una prossima insurrezione, Guelfi e i socialisti cascinesi fanno seguire un’attività amministrativa che mette in pratica le parole d’ordine che avevano animato la campagna elettorale: come primo atto la Giunta comunale incontra simbolicamente un gruppo di lavoratori fornai che chiedono un aumento del compenso giornaliero per raggiungere quello dei vicini colleghi pisani, senza che questo, sostengono durante l’incontro i lavoratori all’unisono con la Giunta, comporti un aumento del prezzo del pane[15].
Il Sindaco Guelfi caratterizza il suo mandato per interventi sociali ed economici volti ad una politica di redistribuzione delle ricchezze e al controllo dei prezzi dei beni di prima necessità e dà mandato agli uffici comunali di predisporre una «severa, precisa e improvvisa verifica»[16] sulla vendita dello zucchero alle persone ammalate e, per evitare speculazioni e lucri impropri, un attento riscontro dei buoni comunali emessi a favore degli indigenti. Si autorizza poi la vendita della carne agli ammalati anche nei giorni di chiusura dei negozi e si dà mandato all’Ente autonomo dei consumi del Comune di acquistare olio, baccalà e formaggio da rimettere in vendita a prezzo di acquisto per calmierare il mercato. Nella seduta consiliare del 9 dicembre il Sindaco Guelfi, nel valutare la situazione finanziaria dell’Ente e il disavanzo ereditato dalla precedente amministrazione[17], annuncia che non ricorrerà ad ulteriore indebitamento e dichiara che «i soldi dovranno darli coloro che li hanno» e che le tasse per l’anno 1921 saranno raddoppiate. Nella stesso consesso il Sindaco propone l’adesione alla Lega dei Comuni socialisti[18], motivando che questo percorso consentirà all’Ente di inserirsi in un progetto nazionale più ampio che porterà ad «ottenere l’applicazione dei principi socialisti, come ad esempio la progressività delle tasse superando il vecchio concetto dei massimi fiscali»[19].
Con la fine del 1920 si manifestano anche nella provincia pisana le prime violenze fasciste[20], siamo in un territorio che si inserisce a pieno titolo in quell’«Italia mediana» che ha visto sviluppare importanti laboratori politici ed ha assunto un ruolo centrale nell’affermazione della violenza fascista[21]. Nel dicembre 1920 gli squadristi pisani, con l’aiuto di squadre provenienti da tutta la regione, per ben due volte, impediscono l’insediamento del nuovo consiglio provinciale[22] che, una volta insediato, eleggerà presidente Ersilio Ambrogi[23] e vice presidente proprio Giulio Guelfi.
Nei mesi successivi le violenze fasciste arrivano anche nel piano cascinese e il primo omicidio politico avviene nel borgo di San Frediano a settimo, quando il 4 marzo Enrico Ciampi, segretario della prima sezione comunista costituitasi nel pisano[24], viene ucciso dal Marchese Serlupi, uno dei ras fascisti della zona[25]. Pochi mesi dopo, il 23 luglio, i fascisti fanno visita ad una casa colonica nella zona di Arnaccio, dove vive il consigliere socialista Oreste Bartoli e uccidono il figlio Archimede che reagisce alla bastonatura del padre.
Le parole di Guelfi all’insediamento, con le quali imprudentemente aveva annunciato che avrebbe governato non curandosi «delle pastoie delle leggi esistenti», incitano i controlli della Prefettura che già nei primi mesi di governo della giunta cascinese impugna e annulla una serie di delibere, tra questa anche quella che autorizza l’acquisto della bandiera con lo stemma comunale e la falce e martello in quanto, sostiene il Prefetto, «trattasi di spesa ispirata a criteri politici, mentre i consigli comunali non hanno dalla legge nessuna attribuzione a questo riguardo, ma devono limitarsi ad amministrare il Comune e provvedere ai servizi pubblici che dal Comune dipendono»[26].
La Giunta Guelfi continua a governare tra delibere annullate e proclami rivoluzionari basati su un marcato radicalismo verbale. Nei primi mesi del 1921 l’Amministrazione tratta l’acquisto del nuovo Teatro comunale, un’operazione sostenuta da una chiara scelta politica, afferma Guelfi in merito: «L’operaio, il lavoratore in genere deve progredire, istruirsi ed elevarsi e non essere più la macchina bruta che lavora e mangia per vivere e nelle ore di riposo gioca a carte nel proprio Circolo. Esso deve invece essere posto nelle condizioni di ricrearsi lo spirito andando a Teatro, giacché non è giusto che a Teatro possa andare il ricco che non lavora e l’operaio non possa permettersi neppure il cinematografo»[27].
L’esperienza da Sindaco di Guelfi si chiude presto, con i fatti del 18 settembre 1921. Per la giornata viene convocato, nel borgo cascinese di San Benedetto, un comizio tra le leghe confederate per organizzare la reazione sindacale ai licenziamenti e alla riduzione del salario dei lavoratori del piano di Cascina. I fascisti radunano oltre 400 squadristi, provenienti da varie parti della Toscana, con l’intento di impedire la manifestazione, intanto nel pomeriggio un folto gruppo di antifascisti parte in tram da Pontedera per raggiungere San Benedetto ma, passato l’aggregato urbano di Cascina, il convoglio viene aggredito da una scarica di colpi di rivoltella sparati da un piccolo gruppo di fascisti che, commesso il fatto, si dà alla fuga. Nell’aggressione rimangono uccisi Paris Profeti[28], segretario della sezione socialista di Pontedera, e Corrado Bellucci[29] di idee libertarie, mentre il comunista Medardo Cecconi[30] ferito viene portato all’Ospedale di Pontedera[31]. Le autorità, vista la tensione della giornata, vietano la manifestazione, nel contempo Guelfi ed altri socialisti cascinesi, non ancora a conoscenza del fatto, mentre si dirigono verso il luogo del comizio vengono assaliti a colpi di rivoltella da un gruppo di fascisti. I socialisti rispondono, ne scaturisce uno scontro a fuoco e l’unico arrestato della giornata è proprio Giulio Guelfi, con l’accusa di aver sparato un colpo di rivoltella contro i fascisti, e rinchiuso nelle Carceri di San Matteo a Pisa. Il Comune viene immediatamente commissariato e il 13 ottobre si svolge il primo consiglio comunale senza il sindaco Guelfi.
Intanto tra settembre e novembre le pressioni e le violenze fasciste nei confronti dei consiglieri socialisti e comunisti danno i propri risultati e al protocollo del Comune di Cascina giungono le dimissioni irrevocabili di gran parte degli eletti. Si tratta di comunicazioni che naturalmente non denunciano pressioni o violenza e adducono principalmente motivi personali, tra questi l’assessore Alfredo Vanni scrive che non ritiene «più opportuno ricoprire tale carica»[32], mentre solamente il consigliere comunale Modesto Marrucchi motiva le proprie dimissioni dichiarando di aver maturato la propria distanza dal Partito comunista. A queste dichiarazioni dei consiglieri comunali segue però un ultimo atto di resistenza istituzionale, una lettera di protesta inviata al Commissario prefettizio, che vede come primo firmatario Giulio Guelfi e di seguito tutti i consiglieri comunali socialisti e comunisti dimissionari. Nella nota i consiglieri comunali denunciano coraggiosamente le violenze fasciste subite: «Il fatto di aver alcuni di noi […] rassegnato le dimissioni non vuole significare la rinuncia ad amministrare, ma dette dimissioni devono essere la vibrata protesta contro chi minaccia le nostre persone e le nostre idealità […] Nel nostro Comune certo regna ancora il terrore e tutto si può commettere sotto gli occhi dell’autorità»[33].
Il 19 gennaio 1922 il re, che per lo Statuto Albertino è il garante delle istituzioni, firma il decreto di scioglimento del Consiglio comunale di Cascina[34].
Dopo la caduta dell’amministrazione da lui guidata Guelfi si trasferisce a Livorno dove assume compiti di direzione della locale Camera del lavoro. Nel febbraio del 1922 la moglie, Corinna Noccioli, è oggetto di un’imboscata a colpi di pistola nei pressi della stazione ferroviaria di Navacchio per mano di un gruppo di fascisti e la casa della famiglia è spesso oggetto di violazioni da parte degli squadristi locali. Nel marzo del 1922 Guelfi interviene al funerale di Comasco Comaschi[35], anarchico e ardito del popolo ucciso in un agguato da alcuni fascisti il 19 marzo 1922, denunciando il crimine fascista e pronunciando le seguenti parole: «Noi proletari siamo coloro che lavorano e che producono e non quelli che uccidono»[36]. La frase scatena l’ira degli squadristi locali che rispondono minacciosi dal settimanale «L’Idea fascista» facendo intendere che faranno pagare a Guelfi il suo ardimento: «Giulio Guelfi […] responsabile dell’assassinio di Zoccoli e Serlupi […] i Fascisti del comune di Cascina si impegnano pubblicamente, di fronte all’Autorità e ai cittadini, di ficcarlo in un sacco pieno di sterco»[37]. Guelfi nel suo ruolo di Sindaco subisce varie denunce e una violenta campagna stampa di denigrazione da parte dei fascisti locali e della stampa liberale che lo accusano di concussione nell’esercizio della sua funzione[38]. Per queste denunce subirà un processo che lo vedrà poi assolto dalla Corte di appello di Lucca insieme agli assessori Angelo Pasqualetti e Alfredo Vanni[39].
A Giulio Guelfi, come a gran parte dei primi antifascisti, non rimane che la strada dell’esilio, dopo un breve soggiorno a Genova si trasferisce con la famiglia a Parigi dove secondo la polizia fascista, in una nota dell’Ambasciata del 3 giugno 1926, è un membro attivo del «Comitato centrale antifascista»[40] e a seguito dell’espatrio è segnalato alla «Rubrica di frontiera» con indicazione di fermare e arrestare in caso di rimpatrio. Non è noto quando Guelfi aderisce al Partito comunista, ma già dalla metà degli anni Venti, durante appunto la sua permanenza in Francia, è segnalato come «comunista» e iscrive i propri figli alla scuola del partito a Ivry-sur-Seine: probabilmente la sua scelta matura nel 1924, a seguito dell’adesione al partito di Giacinto Menotti Serrati, faro del massimalismo socialista, che aveva illuminato la sua gioventù.
Nel 1929 Guelfi con l’intera famiglia si trasferisce a Vitry-sur-Seine, comune della Valle della Marna nella regione dell’Île-de-France, dove gestisce un piccolo albergo frequentato da noti sovversivi italiani e poco dopo si trasferisce definitivamente ad Arles dove rileva da un comunista cascinese, Giovanni Baroni, un locale che, secondo le carte di polizia, in breve tempo diventa un luogo di incontro di antifascisti. Guelfi è poi attivo nella propaganda a favore della Spagna repubblicana e nell’azione di ricerca di volontari da arruolare nelle Brigate internazionale, nelle cui file combatteranno i figli Ideale[41] e Silvano[42].
La polizia fascista mantiene un preciso controllo sulla vita di Guelfi e in un telespresso del Consolato generale di Marsiglia dell’agosto del 1937 lo definisce «il capo del movimento comunista e del soccorso rosso della regione»[43]. Giulio Guelfi muore improvvisamente ad Arles, poco dopo aver compiuto i cinquant’anni, il 7 febbraio 1939.
Dopo la Liberazione, una strada del borgo di Casciavola viene intestata al Sindaco “sovversivo” e antifascista, con la motivazione: «ex Sindaco del Comune di Cascina morto all’estero ove dovette fuggire per persecuzione politica da parte dei fascisti»[44]. La Giunta, si legge però nella delibera, si limita a prendere atto che l’intestazione è già avvenuta «per volontà popolare». All’interno del Comune di Cascina un lapide ancora oggi ricorda l’ultimo Sindaco eletto prima dell’avvento del fascismo: «I cittadini a ricordo di / Giulio Guelfi / Sindaco di Cascina (1920 -1921) / Combattente antifascista / Esule ad Arles (Francia) / Cascina 24 Ottobre 1971».

NOTE

1 Il 20 gennaio del 1871 viene approvato in Pisa lo statuto della Società Democratica Internazionale in Archivio di Stato di Pisa, Ufficio centrale della Pubblica Sicurezza b. 920. Sul periodo si v. A. Marianelli, Eppur si muove! Movimento operaio a Pisa e provincia dall’Unità d’Italia alla dittatura, Pisa, BFS, 2016; U. Sereni, Nel segno del liberato mondo. Vicende, culture, uomini e donne nel movimento operaio a Pisa tra Otto e Novecento, in La Camera del Lavoro di Pisa (1896-1980). Storia di un caso, a cura di G. Dinucci, Pisa, ETS, 2006, pp. 83-200; F. Bertolucci, Anarchismo e lotte sociali a Pisa 1871-1901. Dalla nascita dell’Internazionale alla Camera del Lavoro, Pisa, BFS, 1988; M. Bacchiet, Malfattori e birri nel fosco fin del secolo morente. Pisa 1872-1900, Pisa, BFS, 2023.

2 ACS, MI, Casellario politico centrale, ad nomen. Una biografia di Giulio Guelfi in Dizionario delle comuniste e dei comunisti della provincia di Pisa, in https://www.bfscollezionidigitali.org/entita/16235-guelfi-giulio?i=12 (consultato il 25/1/2025).

3 Profilo biografico della Prefettura di Pisa del 1927 in CPC, ad nomen.

4 Cfr. Il risultato delle elezioni, «Il Ponte di Pisa» 22-23 novembre 1919; F. Bertolucci, Alle radici della guerra civile a Pisa e nella provincia. Il nodo delle elezioni amministrative dell’autunno del 1920 e l’assassinio di Carlo Cammeo 13 aprile 1921, in «ToscanaNovecento», https://www.toscananovecento.it/custom_type/alle-radici-della-guerra-civile-a-pisa-e-nella-provincia/ (consultato il 27/1/2025).

5 In questa tornata elettorale l’affluenza a Pontedera è inferiore al 50% degli aventi diritto. R. Cerri, Pontedera tra cronaca e storia. 1859-1922, Pontedera, Bandecchi e Vivaldi, 1982, p. 256.

6 Intanto nel luglio del 1920 presso il Teatro Verdi di Pisa si tiene il congresso provinciale della Camera del Lavoro confederale, Guelfi relazione sui nuovi Patti coloniali e nella stessa sessione viene eletto membro della Commissione esecutiva camerale. Il Congresso provinciale della Camera del Lavoro Confederale, «L’Ora nostra», 31 Luglio 1920.

7 Sulle vicende amministrative della giunta Guelfi cfr. anche D. Sassetti, Tra storia e memoria. Il Comune di Cascina tra ventennio e Liberazione, Pisa, Pacini, 2025, pp. 9-17.

8 Archivio storico del Comune di Cascina (d’ora in poi ASC Cascina), Verbale seduta Consiglio Comunale del 16 ottobre 1920.

9 ASC Cascina,Verbale seduta Consiglio Comunale del 16 ottobre 1920.

10 ASC Cascina,Verbale seduta Consiglio Comunale del 16 ottobre 1920.

11 Sulla questione si rimanda ai fatti di Cecina del gennaio 1921, cfr. T. Barsotti, Il conflitto di Cecina in «ToscanaNovecento», https://www.toscananovecento.it/custom_type/il-conflitto-di-cecina/ (consultato il 30/1/2025).

12 Il 10 novembre 1920 a Livorno un gruppo di carabinieri e ufficiali dell’esercito entrano nel palazzo comunale e sostituiscono la bandiera rossa issata dopo la vittoria elettorale socialista, col tricolore. A seguito del fatto la Camera del Lavoro proclama lo sciopero generale, si registrano vari incidenti e una folla di lavoratori dei quartieri popolari riconquista il centro della città, ammaina il tricolore e al termine della giornata sul balcone del Comune rimane issata la sola parte rossa della bandiera. M. Rossi, La battaglia di Livorno, Pisa, BFS, 2021, p. 21.

13 La bandiera sventolerà sulla torre fino al 19 maggio 1921. Cfr. M. Piazzesi, Diario di uno squadrista toscano 1919-1920, Roma, Bonacci, 1980, p. 163.

14 ASC Cascina, Verbale seduta Giunta Comunale del 22 ottobre 1920.

15 ASC Cascina, Verbale seduta Giunta Comunale del 22 ottobre 1920.

16 ASC Cascina, Verbale seduta Giunta Comunale del 22 ottobre 1920.

17 La precedente Amministrazione era stata guidata, dal 1915, dal primo sindaco socialista, Massimo Palla (di professione calzolaio), in gioventù anarchico e tra i primi pisani a partire per il domicilio coatto, prima a Porto Ercole poi alle Tremiti, dove sconta due anni a seguito del processo avuto nel 1894 per «apologia dell’assassinio Caserio». La Giunta Palla non marca però il proprio mandato in termini socialisti rivoluzionali. Per una biografia di Massimo Palla si rimanda a M. Bacchiet, Riglione. Questa centrale e laboriosa borgata. Vita sociale e politica. 1861 – 1948, Pisa, BFS edizioni, 2017, pp. 70-71.

18 La Lega nasce nel 1910 su iniziativa della direzione del PSI per dare un indirizzo unitario alle amministrazioni comunali socialiste. Dopo le amministrative del 1920 alla Lega dei comuni socialisti, della quale dal 1916 è segretario nazionale Giacomo Matteotti, aderiscono oltre 2 mila amministrazioni delle 8 mila e ben 25 dei 75 Consigli provinciali.

19 ASC Cascina, Verbale seduta Giunta Comunale del 9 dicembre 1920.

20 Cfr. tra gli altri F. Fabbri, Le origini della guerra civile. L’Italia dalla Grande Guerra al Fascismo, 1918-1921, Torino, Utet libreria, 2009 e M. Franzinelli, Squadristi. Protagonisti e tecniche della violenza fascista. 1919-1922, Milano, A. Mondadori, 2003. Per un inquadramento locale anche F. Bertolucci, Stato fascismo e antifascismo in provincia di Pisa 1920-1922, in Atti della giornata di studi su L’antifascismo rivoluzionario tra passato e presente. Pisa, 25 aprile 1992, Pisa, Biblioteca Franco Serantini, 1993, pp. 99-127; P. Nello, Liberalismo, democrazia e fascismo. Il caso di Pisa (1919-1925), Pisa, Giardini, 1995; M. Piazzesi, Diario di uno squadrista toscano. 1919-1922, Roma, Bonacci, 1980; R. Vanni, Fascismo e antifascismo in Provincia di Pisa dal 1920 al 1944, Pisa, Giardini, 1967.

21 Cfr. A. Baravelli, Riflessioni sullo squadrismo, la comparazione regionale e l’Italia mediana, in 1921. Squadrismo e violenza politica in Toscana, a cura di Roberto Bianchi, Firenze, Leo S. Olschki, 2022, pp. 21-33.

22 Sulle violenze fasciste di questo periodo si vedano anche 1921. Squadrismo e violenza politica; Il biennio nero in Toscana. Crisi e dissoluzione del ceto politico liberale. Atti del convegno di studi. Sala del Gonfalone, Palazzo del Pegaso. 2-3 dicembre 2021, a cura di S. Rogari, Firenze, Consiglio Regionale della Toscana, 2022; «Piombo col piombo». Il 1921 e la guerra civile italiana, a cura di G. Sacchetti, Roma, Carocci, 2023. Per la zona pisana si rimanda anche a Emanuela Minuto, Squadrismo e violenza politica nella provincia di Pisa, in 1921. Squadrismo e violenza politica in Toscana, a cura di R. Bianchi, Firenze, Leo S. Olschki, 2022, pp. 66-68 e F. Bertolucci, Alle radici della guerra civile a Pisa e nella provincia. Il nodo delle elezioni amministrative dell’autunno del 1920 e l’assassinio di Carlo Cammeo 13 aprile 1921, in «Toscana Novecento», https://www.toscananovecento.it/custom_type/alle-radici-della-guerra-civile-a-pisa-e-nella-provincia/ (consultato il 27/1/2025).

23 Per il profilo biografico di Ersilio Ambrogi, cfr. F. Bertolucci, Dizionario Biografico degli anarchici italiani, vol. I, BFS Edizioni, Pisa, 2002, p. 32-33 e il Dizionario Biografico delle comuniste e dei comunisti della provincia di Pisa in
https://www.bfscollezionidigitali.org/entita/12902-ambrogi-ersilio (consultato il 28/1/2025). Su profilo biografico si rimanda anche a Federico Creatini, Ersilio Ambrogi: antifascista o informatore dell’OVRA? Il Partito comunista italiano e la clandestinità, in «Toscana Novecento», https://www.toscananovecento.it/custom_type/ersilio-ambrogi-antifascista-o-informatore-dellovra/#:~:text=Certo%2C%20le%20due%20parti%20in%20causa%20cercarono%20in,dei%20%C2%ABsovversivi%20attentatori%20o%20capaci%20di%20atti%20terroristici%C2%BB (consultato il 28/1/2025).

24 La Federazione pisana del partito comunista si costituisce a Pisa il 27 febbraio 1921. Pisa, «L’Ordine Nuovo», 20 febbraio 1921. Sull’argomento cfr. M. Bacchiet, Le origini del Partito Comunista d’Italia nella provincia pisana, in «Toscana Novecento», https://www.toscananovecento.it/custom_type/le-origini-del-partito-comunista-ditalia-nella-provincia-pisana/ (consultato il 29/1/2025) e M. Bacchiet, I primi comunisti. Per un dizionario biografico della provincia di Pisa (1921-1940), in Antifasciste e antifascisti. Storie, culture politiche e memorie dal fascismo alla Repubblica, a cura di G. Fulvetti e A. Ventura, Roma, Viella, 2024, pp. 229-242.

25 Per Ciampi Enrico, «L’Ora nostra», 11 marzo 1921. Per una biografia di Ciampi si rimanda al Dizionario delle comuniste e dei comunisti della provincia di Pisa in https://www.bfscollezionidigitali.org/entita/16079-ciampi-enrico (consultato il 29/1/2025).

26 Decreto del Prefetto della Provincia di Pisa del 14 dicembre 1920.

27 ASC Cascina, Verbale seduta di Consiglio Comunale del 13 febbraio 1921.

28 https://www.bfscollezionidigitali.org/oggetti/19415-paris-profeti-segretario-della-sezione-giovanile-socialista-di-pontedera-assassinato-dai-fascisti-nei-pressi-di-cascina-il-19-settembre-1921 (consultato il 30/1/2025).

29 https://www.bfscollezionidigitali.org/entita/15073-bellucci-corrado (consultato il 30/1/2025).

30 Per una biografia di Metardo Cecconi si rimanda al Dizionario delle comuniste e dei comunisti della provincia di Pisa in https://www.bfscollezionidigitali.org/entita/13748-cecconi-medardo (consultato il 30/1/2025).

31 Alla notizia dell’omicidio dei due antifascisti la Camera del Lavoro di Pontedera proclama lo sciopero generale fino al termine dei funerali. Il giorno delle esequie la camera ardente viene allestita all’interno della locale «istituzione operaia» e alla testa dell’imponente corteo funebre, per volontà delle varie organizzazioni, un solo gonfalone, quello del Comune di Pontedera del quale Profeti era consigliere. La bara di Profeti, riporta «L’Avanti!», è avvolta nella bandiera socialista, mentre il drappo rosso-nero del locale gruppo anarchico abbraccia il feretro di Bellucci. Gli imponenti funerali alle vittime dell’eccidio di Cascina, «L’Avanti!», 25 settembre 1921.

32 ASC Cascina, Elezioni amministrative 1920.

33 Ib.

34 Il decreto di scioglimento viene pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale del 6 aprile 1922.

35 Sul caso Comaschi, tra gli altri, si rimanda a F. Gori, 1922-2022. L’affaire Comaschi in «ToscanaNovecento», https://www.toscananovecento.it/custom_type/1922-2022-laffaire-comaschi/ (consultato il 28/1/2025)

36 Il fascismo in Provincia spezza e travolge gli ultimi avanzi della tirannide rossa. Da San Frediano. La solita sfacciataggine, «L’Idea fascista», 9 aprile 1922.

37 I segretari dei Fasci di Cascina, Ogni promessa è debito, «L’Idea fascista», 4 giugno 1922.

38 Nel 1924, nei mesi immediatamente precedenti le elezioni politiche, per motivare e favorire la propria candidatura nel Listone, Arnaldo Dello Sbarba, in una bozza di promemoria per dimostrare la sua vicinanza e adesione al primo fascismo, rivendica il ruolo assunto per destituire i “sindaci rossi”, tra questi Giulio Guelfi. Cfr. R. Dello Sbarba, Arnaldo Dello Sbarba, autonomia d’una caduta in «ToscanaNovecento», https://www.toscananovecento.it/custom_type/arnaldo-dello-sbarba-anatomia-duna-caduta/ (consultato il 20/3/2025)

39 Gli amministratori di Cascina. Assolti, «L’Avanti!», 3 luglio 1923.

40 ACS, MI, CPC, ad nomen.

41 Ideale Guelfi, Dizionario delle comuniste e dei comunisti della provincia di Pisa https://www.bfscollezionidigitali.org/entita/16129-guelfi-ideale (consultato il 25/1/2025)

42 Silvano Guelfi, Dizionario delle comuniste e dei comunisti della provincia di Pisa https://www.bfscollezionidigitali.org/entita/16128-guelfi-silvano (consultato il 25/1/2025)

43 ACS, MI, CPC, ad nomen.

44 ASC Cascina, Delibera della Giunta Comunale n. 287 del 15 novembre 1945. L’amministrazione comunale assume la proposta del CLN locale e prende atto che l’intestazione è «di fatto già avvenuta» per volontà popolare. La stessa strada durante il regime era stata intestata a Gino Salvadori, fascista pisano morto a Marina di Pisa durante uno scontro a fuoco tra la fazione “dissidente” di Bruno Santini e i sostenitori di Filippo Morghen. Sui fatti di Marina di Pisa cfr. Conflitto tra fascisti a Pisa, «Il Popolo», 20 settembre 1924 e Giudici, Giudizi e Giudicati, «Il Ponte di Pisa», 5-6 settembre 1925.




IL CANDIDATO DEL FASCISMO AGRARIO MAREMMANO

Profilandosi ormai chiaramente la minaccia fascista, i socialisti, non solo non presero nessuna misura per fronteggiarla, ma col loro atteggiamento tendevano a impedire che ci si organizzasse a difesa. Il fascismo era infatti considerato dai dirigenti socialisti come un fenomeno di mera provocazione, tendente a far intervenire, contro le masse, le forze repressive dello stato borghese. «Non accettare la provocazione» fu fino all’ultimo la parola d’ordine dei dirigenti socialisti. Come se di fronte a bande armate che bastonavano e uccidevano, bruciavano le sedi delle organizzazioni operaie e scioglievano con la forza le amministrazioni socialiste, fosse possibile restarsene passivi, per non fare il gioco dei «provocatori». Istintivamente le masse sentivano che bisognava far qualcosa…”.
(L. Bianciardi, C. Cassola, I minatori della Maremma)

La recentissima pubblicazione del libro di Franco Dominici e Silvio Antonini, Gino Aldi Mai. Il Candidato agrario. Tra il Biennio rosso e l’avvento del Fascismo nella Maremma e nella Tuscia (1919-1924), edito da Effigi, col patrocinio dell’Istituto Storico Grossetano della Resistenza e dell’Età Contemporanea, conferma la rilevanza del cosiddetto squadrismo agrario nella genesi politico-militare dei Fasci di combattimento e, in seguito, nella restaurazione economica-sociale delle campagne durante il regime fascista.
Dalla Lomellina al Molinellese, dal Polesine di Matteotti alle Puglie di Di Vittorio, il fascismo mussoliniano potè insediarsi, trovare finanziamenti e svilupparsi in territori in cui il padronato agrario, per lo più latifondista, aveva già una lunga “tradizione” di controllo e dominio della manodopera bracciantile e, più in generale, delle lavoratrici e dei lavoratori agricoli subordinati, attraverso l’impiego di propri “uomini” a cui erano demandati quei metodi violenti che non sempre potevano essere assicurati dai pur zelanti Carabinieri.
Secondo le zone, si trattava di piccoli eserciti privati formati occasionalmente da “guardie campestri”, sovrastanti, fattori, “caporali”, “factotum”, braccianti ingaggiati come crumiri, disoccupati assoldati alla giornata… che richiamavano i “bravi” di manzoniana memoria.
A loro era demandato il compito di fronteggiare proteste, scioperi ed occupazioni di terre, ma sovente erano anche la “longa manus” dei proprietari terrieri per “regolare conti” ed intimidazioni fuori dall’ambito lavorativo.

Foto della Squadra d’azione laziale, 1920, tratta da “Squadristi” di Franzinelli.

Le prime squadre fasciste s’inserirono quindi su questo terreno conflittuale, fornendo giovani votati alla violenza ed ex-combattenti per contrastare le Leghe – sia “rosse” che “bianche” – dei lavoratori della terra, compiere spedizioni punitive nei paesi non sottomessi, perpetrare persecuzioni individuali ed esecuzioni “mirate”.
L’intesa era nel reciproco interesse delle parti: i possidenti terrieri, per la tutela dei propri interessi e privilegi, potevano contare su una più efficiente guardia privata, operante come una forza politica, mentre i Fasci usufruivano di legittimazione e ingente sostegno economico, estendendo così la loro influenza, a spese del sindacalismo di classe e dell’associazionismo popolare.
Grazie alla disponibilità di camion e altri veicoli – ma in alcune zone anche di cavalli – lo squadrismo “tricolorato introdusse la tattica della “guerra di movimento”, ma risulta evidente la continuità funzionale con i pre-esistenti “mazzieri dell’Agraria”, così come appare evidente in alcune foto delle prime squadre fasciste nella campagne. Ai bastoni e alle doppiette da caccia si aggiungevano le armi da guerra, ma non vi erano ancora divise paramilitari ed elmetti e le rare camicie nere erano quelle “da fatica” allora normalmente usate dai contadini nel lavoro dei campi.
La situazione della Maremma, sia Toscana che Laziale, conferma perfettamente tale dinamica, seppure a fianco dell’importante realtà agricola vi erano non meno importanti insediamenti industriali e minerari che talvolta – come in Val di Cecina – vedevano un analogo “feudalesimo industriale”.

Non di meno, lo squadrismo «tricolorato» dovette fare i conti col forte radicamento socialista, anarchico e sindacalista, ricorrendo – con la connivenza delle forze dell’ordine e dei comandi militari – a metodi terroristici; basti pensare alla Strage di Roccastrada che nel luglio 1921 anticipò le rappresaglie nazi-fasciste “10 per 1”.
La compiacenza della forza pubblica anche nell’assalto fascista a Grosseto venne confermata da una testimonianza, pubblicata sul quotidiano anarchico «Umanità nova» del 6 luglio 1921, che riferì «dei reali carabinieri allineati fare il presentatarm allo stato maggiore fascista».
La biografia di Gino Aldi Mai, ricco proprietario terriero grossetano, prima liberale e poi decisamente fascista, che rivestì importanti cariche pubbliche e istituzionali (sindaco, podestà, senatore…), al centro del saggio degli storici Dominici e Antonini, appare in effetti paradigmatica per comprendere l’involuzione, dal paternalismo alla reazione, della borghesia agraria non solo in in Maremma, ma simile nel resto della Toscana e del Lazio, così come nella Valle Padana e nel Meridione.
Le “patriottiche motivazioni ideali” di tale passaggio al Fascismo, ebbero il loro riscontro durante il regime quando, come scrive Franco Dominici: «Il padrone tornava a essere tale a tutti gli effetti e delegava il fattore, o agente agrario. I vecchi usi e prestazioni di tipo medievale erano adesso codificati dalla legge; i mezzadri dovevano consegnare nuovamente al padrone gli animali da cortile, le uova, la legna e quelle che diventeranno le “massaie rurali” saranno obbligate a prestarsi ai servizi padronali. Le leggi sugli infortuni agrari vennero abrogate, così come la mutua dei “rossi” il patronato dei “bianchi”; la divisione degli utili dei dei diversi prodotti (latte, suini, monta, castagne, ma anche prodotti come tabacco, barbabietola e pomodori), precedentemente a favore dei mezzadri, fu riportata dalle leggi fasciste al 50% fra le due parti. Il colono tornava a condizioni di vita più misere, a un lavoro con minori certezza, alle angherie dei fattori ed a una dieta alimentare più povera».
La lettura del libro offre anche l’occasione di riflettere su come, prima sui giornali di destra e nei rapporti di polizia e in seguito nella narrazione epica dello squadrismo, il clima di guerra civile instaurato dagli «schiavisti agrari» (seconda una nota definizione dannunziana) venne mistificato come un’eroica e disinteressata battaglia per salvare l’Italia dal bolscevismo e dall’anarchia, con la conseguente glorificazione dei pochi “martiri fascisti” a fronte di migliaia di vittime, perlopiù inermi, della classe lavoratrice e la criminalizzazione di quanti impugnarono le armi per la difesa delle libertà sociali.
I necrologi commemorativi dei fascisti rimasti uccisi nel grossetano e nel viterbese, citati nel libro, forniscono un esempio dello stilema retorico utilizzato per trasformare gli aggressori in vittime e gli oppositori in criminali.
Lo squadrista ventunenne Rino Daus che, da Siena, era giunto a Grosseto per espugnare militarmente il rosso capoluogo maremmano, veniva quindi definito come un «giovinetto» che morendo avrebbe invocato «Italia! Mamma!», mentre Giovanni Migliori, «tutto dedito alla casa e la lavoro», fu ucciso in un’imboscata da «una bieca figura di comunista» a Giuncarico. Giovanni Dessy, fondatore del Fascio di Orbetello, cadde in una sparatoria con alcuni malviventi, ma la sua morte fu il pretesto per rappresaglie contro i “rossi”. Il fascista grossetano Ivo Saletti rimase ucciso al ritorno da una spedizione punitiva a Roccastrada, probabilmente colpito da un colpo partito accidentalmente da un camerata che si trovava a bordo del medesimo camion, causando per ritorsione l’eccidio indiscriminato di dieci inermi paesani. Invece, lo squadrista grossetano Andrea Agnelli, mortalmente accoltellato da uno sconosciuto e la cui uccisione fu subito attribuita «a odio di parte», a distanza di tempo fu escluso dal martirologio fascista. Nello stigmatizzare l’uccisione del fascista viterbese Amoroso Melito venne invece sottolineato il fatto che era un mutilato, ma tale condizione non gli aveva impedito di «prendere parte a parecchie spedizioni punitive».
Un ventennio dopo lo stesso schema sarebbe stato ripreso dalla propaganda della Repubblica sociale contro i partigiani: i «ragazzi di Salò», vittime dei «banditi», ed ancora oggi viene riproposto nel tentativo di riscrivere la storia, dimenticando anche Roccastrada.




Beatrice Giglioli, una donna sulla linea del fronte

1. I Giglioli di Pisa
Beatrice Elena Giglioli nasce a Portici (NA) il 5 febbraio 1892 da Italo[1] e Costanza Stocker[2]. I suoi due nomi richiamano due persone della storia della famiglia, uno per quella materna e uno per quella paterna. Grazie al Book IV. 1 dei Family Memorials of the Giglioli-Casella, scritte ad uso della famiglia da Maria Elena Casella (1888-1959), si apprende che Beatrice aveva una zia materna con lo stesso nome, Beatrice Alicia Ramsay Stocker[3], che nell’anno della nascita della nipote si imbarca per gli Stati Uniti per unirsi alle tribù dei Sioux come missionaria presbiteriana. Il secondo nome ricorre con continuità nel succedersi delle generazioni e si riferisce alla nonna paterna, Ellen Hillyer, per la devozione nei suoi confronti da parte di Italo, padre di Beatrice Elena[4].
La famiglia discende da Giuseppe Giglioli (1804-1865), figlio di Domenico (1775-1848) e Maria Luigia Palmerini (?-1862), patriota, membro della Giovine Italia e amico personale di G. Mazzini. Esule in Inghilterra, G. Giglioli aveva sposato Ellen Hillyer (1819-1894) e dalla loro unione erano nati cinque figli: Enrico (1845-1909), Augusto (1846-1901), Alfredo (1847-1897), Italo (1852-1920) e Elena (1858-1941).

Beatrice Giglioli nei primi anni venti. [Archivio Biblioteca Serantini]

Nel 1903 in seguito al trasferimento del padre Italo – già direttore alla Scuola superiore di agricoltura di Portici –, tutta la famiglia si stabilisce a Roma e dove Beatrice inizia gli studi superiori nel liceo ginnasio T. Tasso. Il suo percorso liceale si completerà al liceo classico G. Galilei di Pisa, perché nel 1904 il padre verrà nominato docente di chimica agraria alla locale Scuola superiore di agraria. Iscrittasi alla Facoltà di Lettere dell’Università di Pisa nell’ottobre del 1912, nel novembre 1913 sostiene l’esame al concorso per un posto di alunna aggregata senza sussidio alla Scuola Normale Superiore, classe di lettere e filosofia. La prova scritta di italiano a quell’esame si intitola L’opera di Dante considerata come sussidio alla conoscenza diretta e piena della Commedia. Vince il concorso e successivamente, per il merito dimostrato negli esami sostenuti, viene ammessa come alunna aggregata con sussidio.
Agli inizi della guerra, avendone conseguito il diploma il 6 aprile 1915, presta la propria opera di aiuto-infermiera della Croce Rossa Italiana. Il suo nome è anche nel 1° elenco dei soci del Club Alpino Italiano chiamati alle armi e il suo servizio sui treni ospedali inizia il 10 agosto 1915. Le infermiere volontarie e le aiuto-infermiere della CRI di Pisa svolgono servizio anche presso l’Ospedale militare di riserva, nel Palazzo Arcivescovile, nell’Ospedale succursale Pisa e negli istituti di rieducazione per soldati mutilati. In questo periodo Beatrice intrattiene corrispondenza con ufficiali e sottufficiali al fronte, quasi tutti studenti dell’Università di Pisa. Tra questi c’è Piero Pieri, in seguito tra i maggiori storici italiani della Prima guerra mondiale.
Nel giugno 1917 si laurea in lettere a pieni voti con una tesi su Il problema della decadenza dell’Impero romano negli storici moderni. Il relatore è Vincenzo Costanzi (1863-1929), ordinario di storia antica. Per nomina ministeriale, Beatrice viene incaricata dell’insegnamento di storia, geografia e diritti e doveri per l’anno scolastico 1917-18 nella Scuola tecnica Nicola Pisano di Pisa. Nel maggio 1918, presso l’Università di Pisa, supera l’esame di abilitazione all’insegnamento della lingua inglese per gli istituti d’istruzione media di 2° grado.
Nell’agosto 1918 si trasferisce a Londra, dove, il 26 dello stesso mese, ottiene per esame il posto di traduttrice al War Office (Ministero della guerra), con il compito di tradurre in inglese documenti e opuscoli italiani e francesi concernenti la guerra europea. Poche settimane dopo, il 21 settembre 1918, si dimette dall’incarico in seguito alla nomina ad assistente presso la Facoltà di Italiano dell’Università di Cambridge. Durante la sua permanenza in Inghilterra segue corsi di perfezionamento di filologia e letteratura inglese, tiene conferenze a Londra e a Edimburgo sulla storia e la letteratura italiana. Nel gennaio 1919 e per i due trimestri successivi assume l’incarico di insegnare lingua e letteratura italiana presso la stessa Università di Cambridge, impegno che prosegue fino al luglio successivo, quando è costretta a rientrare in Italia per l’aggravamento delle condizioni di salute del padre.
Nel frattempo, le profonde trasformazioni geo-politiche legate al riassetto seguito alla Prima guerra mondiale, generano tensioni politiche in tutta Europa. Il legame della famiglia Giglioli con la tradizione risorgimentale mazziniana e con il tema dell’autodeterminazione politica delle nazionalità, si manifesta nel sostegno alla spedizione fiumana di D’Annunzio, alle rivendicazioni dell’italianità della Dalmazia e all’indipendenza ceco-slovacca.
Nell’autunno del 1920 Beatrice diviene insegnante supplente di lingua inglese all’Istituto tecnico Antonio Pacinotti di Pisa, dove rimane negli anni scolastici 1920-21 e 1921-22. Vince il concorso generale a cattedre di lingua inglese per gli istituti tecnici e si trasferisce per un anno a Sassari, dove insegna all’Istituto tecnico Alberto Lamarmora. Dall’a.s. 1923-24 e 1924-25 insegna presso l’Istituto tecnico Germano Sommeiller di Torino, nel corso superiore della Sezione commercio e ragioneria. A Torino, nel 1925, per l’editore Paravia traduce dall’inglese la guida pratica di J.E. Russell, Lezioni intorno al terreno. A partire dall’a.s. 1925-26 torna a Pisa, al Liceo ginnasiale G. Galilei dove lei stessa aveva studiato e dove diventerà titolare di lingua e letteratura inglese dall’a.s. 1935-36. Dall’a.a. 1925-1926 è incaricata del lettorato di lingua inglese della Scuola Normale Superiore, incarico riconfermato fino al 1959. Presso la SNS sono conservati i registri delle sue lezioni a partire dall’anno 1932 e tra i testi da lei più utilizzati nei corsi compare Oliver Twist di C. Dickens.
Oltre che sul piano professionale, Beatrice è attiva anche su quello civile: quando il 13 febbraio 1926 viene fondata la Sezione di Pisa del CAI, risulta – insieme ai fratelli Irene e Giorgio, oltre che a Piero Zerboglio – tra i promotori e fondatori[5].
Il 25 febbraio 1933 firma il giuramento di “fedeltà” al Re e al regime fascista. Il verbale del giuramento riporta i nomi dei testimoni, Giovanni Gentile, direttore della SNS, e i docenti Francesco Arnaldi e Giovanni Ricci[6].

Ingresso Villa dei Giglioli, 1938 [Archivio Biblioteca Serantini]

Quella di Beatrice al fascismo non è un’adesione ideologico-politica, è invece un’adesione solo formale, dovuta alla necessità di rimanere come insegnante alla SNS, per poter continuare a provvedere a sé stessa e all’anziana madre. La sua precedente attività di volontaria della CRI nella Prima guerra mondiale e la partecipazione, insieme al padre, alla campagna a favore dell’indipendenza ceco-slovacca nel 1920, sono impegni pubblici di tipo “patriottico” nel segno della tradizione mazziniana, ma negli anni che vanno dal 1922 al 1933 non c’è nessuna sua presa di posizione in senso nazionalista. Del resto, nel libro sulla storia dei Giglioli scritto dalla madre di Beatrice e pubblicato nel 1935, benché l’argomento riguardi la tradizione risorgimentale della famiglia, non vi è traccia di alcun accenno al fascismo e al suo leader, in cui evidentemente l’autrice non riconosceva alcuna continuità con la storia del mazzinianesimo[7].
Dall’anno scolastico 1935-1936, oltre che al Liceo ginnasio G. Galilei, è nominata titolare di lingua e letteratura inglese anche alla scuola media R. Fucini di Pisa. Nel 1935 pubblica per R. Pironti di Napoli la traduzione di Much ado about nothing di W. Shakspeare.

2. Sulla linea del fronte: 31 agosto 1943-1° gennaio 1945
Durante gli anni di guerra con meticolosa puntualità Beatrice Giglioli annota su piccole agendine gli avvenimenti familiari e locali. Con la sorella Irene, Beatrice ha vissuto a Cisanello, sobborgo di Pisa, per gran parte del Novecento. Oltre alle notizie sugli eventi quotidiani, nelle sue agendine registra alcune dinamiche relazionali e sociali, che vengono alla luce, paradossalmente, per effetto dei bombardamenti su Pisa, che iniziano il 31 agosto 1943 e proseguono a lungo. Alla dimensione verticale delle bombe che cadono dall’alto e che producono morte e distruzione, subentra quella orizzontale degli effetti generati dalle esplosioni, a partire dai comportamenti di chi, sopravvissuto, si trova ad agire in una realtà fisica (edifici, ponti, strade) e umana (morti, feriti) drammaticamente colpita e dove la vita, per continuare, deve affrontare difficoltà inedite in una situazione che è mutata profondamente. Nella vita civile niente è più come prima: provvedere alle cure mediche per i malati e ora anche per i feriti, spostarsi da un luogo all’altro della città, a piedi, in bicicletta o con qualche altro mezzo, procurarsi cibo e rifornirsi di provviste, dare e avere notizie sulle persone care o conosciute, poter continuare o meno a svolgere il proprio lavoro, poter contare o meno sul funzionamento delle istituzioni, dei servizi postali, dei trasporti ferroviari e delle infrastrutture in genere, ecc. Le bombe, inoltre, producono anche un elevato numero di sfollati, le cui sorti sono esposte a grave rischio, costretti come sono a cercare ospitalità, un alloggio o almeno un riparo.

Bombardamento di Pisa, dicembre 1943 [The U.S. National Archives and Record Administration (NARA)]

Pochi giorni dopo il primo bombardamento, inoltre, in seguito all’armistizio con gli Alleati annunciato l’8 settembre, si determina un ulteriore cambiamento, che ha ripercussioni notevoli sulla società civile e rende ancora più precaria la situazione di Pisa e che peggiora con l’arrivo delle truppe d’occupazione naziste, alle quali gli uomini della RSI, sorta nel frattempo, sono del tutto subalterni.
Di tutto ciò si trova ampia traccia nei diari di Beatrice[8]. Quella che si raccoglieva nella villa di Cisanello prima dei bombardamenti era una fitta rete di rapporti fatta di legami parentali, amicali, professionali e culturali, sostenuta da una rete altrettanto fitta di vicini di casa, affittuari, conoscenti e persone provenienti per lo più dal territorio circostante per le collaborazioni domestiche (cucina, pulizie e lavori di casa) e per la fornitura di servizi (materie prime, cibo, servizi di manutenzione della casa, ecc.). A questi va aggiunta la cura dei numerosi animali (cani, gatti, galline, conigli, capre, api), e il conforto rappresentato dal giardino, con l’attenzione esperta ai fiori, alle verdure e alle piante da frutto, esito evidente delle competenze di Italo Giglioli trasmesse alle figlie. Dopo il bombardamento di Pisa, le sorelle Giglioli vogliono subito vederne gli effetti per valutarne la portata e si attivano per far fronte a tutto, a partire dal fatto che accorrono subito presso le macerie della casa degli amici Zerboglio, colpita in pieno da una bomba sul Lungarno Regio (odierno Lungarno Pacinotti), per mettere in salvo la maggior quantità possibile dell’archivio e dei numerosissimi libri che vi erano raccolti. La rete dei rapporti d’amicizia è un bene prezioso, che va tenuta attiva nei momenti difficili, come si vede quando il 23 settembre 1943, dopo aver saputo che l’amico Aldo Visalberghi (1919-2007) era stato ferito nella difesa di Roma, Beatrice Giglioli si affretta a informarne gli amici comuni della famiglia Barletta. La rete di solidarietà si manifesta accogliendo in casa sfollati, curando gli esseri umani e gli animali, continuando ad avere la stessa attenzione di prima anche per il giardino e ospitando amici e parenti a pranzo, a cena, per la notte o anche solo per il tè, cercando, procurando e distribuendo risorse alimentari e facendo di necessità virtù con quelle disponibili. Le sorelle Giglioli intendono in ogni momento ricostituire una comunità di fraternità e integrazione civile, il che rappresenta, per i loro interlocutori, una risorsa preziosa su cui contare. Fra gli amici ospitati più frequentemente a casa Giglioli ci sono persone di differente appartenenza religiosa, come anglicani e valdesi (il pastore Attilio Arias o l’insegnante e collega Laura Revel), o ebrei (alcuni esponenti della famiglia De Cori, Giulia Letizia Aghib, l’insegnante e collega Maria Sacerdotti), nonostante fossero in vigore le leggi razziali fasciste emanate nel 1938 e la persecuzione anti-ebraica si fosse inasprita dopo la nascita della RSI. È la storia stessa della famiglia Giglioli, con il suo ramo protestante inglese degli Hillyer e degli Stocker, a fornire esempio vissuto di costruzione comunitaria. Le Giglioli, del resto, non si fanno intimidire nemmeno dall’arrivo delle truppe tedesche nella loro casa, una prima volta ad aprile 1944 e poi altre due volte tra luglio e agosto.
Gli interlocutori delle sorelle Giglioli sono soprattutto insegnanti, colleghi di Irene e di Beatrice, la quale, insegnando sia nelle scuole secondarie che alla SNS, si trova a contatto con molti dei più noti intellettuali e scienziati attivi a Pisa (G. Gentile, L. Tonelli, L. Russo, S. Timpanaro sr. ecc.). Tra questi ci sono anche alcuni medici molto noti in città, come Francesco Niosi o Silvio Luschi, che prestano cure alle sorelle, amici e vicini. Nelle pagine di Beatrice si coglie bene anche il pesante impatto della guerra sulla vita della scuola. Il lavoro di Beatrice presso la SNS l’ha portata a essere insegnante di molti studenti poi noti nell’ambito delle professioni e che, come nel caso di Visalberghi, sono diventati anche amici. Alla costruzione di questa parte dei rapporti delle sorelle Giglioli con il mondo universitario ha anche contribuito la precedente attività di docente a Pisa del padre Italo, la cui amicizia con Adolfo Zerboglio, per esempio, ha portato all’amicizia fraterna tra le figlie di Giglioli e il figlio di Zerboglio, Piero, importante figura dell’antifascismo azionista toscano, il cui nome ricorre molto frequentemente nelle pagine del Diario. In effetti, dal Diario traspare la posizione antifascista delle Giglioli, tanto che la loro casa, oltre che un riferimento sicuro per Zerboglio, lo è anche per un altro esponente azionista, Carlo Ricci, frequente ospite a Cisanello, così come accadeva anche per altri antifascisti.

Arrivo soldati a Pisa settembre 1944 [The U.S. National Archives and Record Administration (NARA)]

Non sono solo le numerose presenze di persone e cose a caratterizzare il Diario, ma anche alcune assenze. Può sembrare strano che in quelle pagine, così attente ad annotare tutto ciò che va dalla minuta vita quotidiana ai grandi avvenimenti politici e militari, manchino due fatti di grande rilievo. In effetti, non c’è alcuna citazione dell’uccisione di Giovanni Gentile, avvenuta a Firenze il 15 aprile 1944, e nemmeno dell’eccidio per mano nazista avvenuto a Pisa il 1° agosto 1944 in casa di Giuseppe Pardo Roques, presidente della comunità ebraica pisana, che era stato amico di Italo Giglioli. È probabilmente la gravità dei due fatti a indurre in Beatrice un’evidente auto-censura a scopo precauzionale. È nella corrispondenza con la sorella Lilia, svolta attraverso scambi realizzati fuori dal circuito postale grazie a mani amiche, che i due fatti vengono citati e commentati.

Negli anni della guerra Beatrice Giglioli continua a lavorare come insegnante al Liceo G. Galilei e come lettrice alla SNS, dove la conferma del suo incarico giunge anche per l’a.a. 1943-44 da parte del nuovo direttore, Leonida Tonelli, rinnovato anche da Luigi Russo[9]. Dall’anno accademico 1942-1943 fino al 1948-1949 è docente incaricata di lingua e letteratura inglese all’Università di Pisa. A causa delle vicende belliche nell’a.a. 1943-44 inizia le lezioni il 1° febbraio 1944 e può tenere solo lezioni saltuarie fino ad aprile.
Dopo la fase dell’occupazione tedesca della città e i mesi di guerra dell’estate del 1944, riprenderà l’insegnamento alla SNS il 25 gennaio 1945. Uno dei suoi interlocutori è il meridionalista Giuseppe Isnardi (1886-1965), collaboratore dell’Animi, che dal 1928 al 1934 insegna al Liceo classico Carducci-Ricasoli di Grosseto e dal 1934 al 1951 a Pisa, dove insegna lettere al ginnasio G. Galilei, collega di Beatrice, insieme a G. Raniolo e a Ildebrando Imberciadori, che insegna lettere al triennio liceale.
Sull’esempio della madre, Beatrice si dedica alla cura dell’archivio di famiglia con l’aiuto della sorella Irene e della cugina Maria Elena Casella. Il ruolo di Beatrice nel conservare l’archivio di famiglia è ricordato proprio dalla Casella in alcuni passi delle sue Family Memorials: «The passage was marked by Italo Giglioli in the book found for me by Beatrice Giglioli at Cisanello, in September 1958» (p. 80); «I once found by chance, in Beatrice’s study, a notebook with some notes jotted down by Italo Giglioli» (p. 150).
Beatrice muore a Pisa il 7 febbraio 1988. Le ceneri per sua volontà sono state collocate nel cimitero di Pisa accanto a quelle delle sorelle Irene e Lilia. L’archivio è lasciato ad Antonio Ricci, che lo ha donato alla Biblioteca F. Serantini.

Note

  1. Italo nasce a Genova il 1° maggio 1852 da Giuseppe e Ellen Hillyer. Si laurea in agraria al Royal Agricultural College di Cirencester, contea di Gloucestershire. Muore a Pisa il 1° ottobre 1920.
  2. Costanza nasce a Roma il 2 ottobre 1856 dal reverendo anglicano Edward Seymour Stocker (1828-1900) e da Jean Hamilton Dunbar (1829-1862). Nel 1885 incontra Italo Giglioli e sarà suo padre Edward, il 26 agosto 1886, a celebrare il loro matrimonio a Londra. Oltre alla cura dei figli, Costanza coltiva le sue passioni e, grazie alla vicinanza del marito e alla conoscenza della storia della famiglia Giglioli, si interessa alle vicende del Risorgimento italiano, in particolare alle avanguardie democratiche e giacobine attive a Napoli tra la fine del Settecento e la prima metà dell’Ottocento. Da questi studi nasce il volume dedicato alla rivoluzione napoletana del 1799, pubblicato in Inghilterra nel 1903.
  3. Nata a Roma il 13 marzo 1858, Beatrice A.R. Stocker muore il 23 febbraio 1935 a Sonoma, in California, dov’è sepolta. Tracce molto interessanti della sua esperienza di missionaria si ritrovano in alcune lettere da lei inviate alla sorella Constance Giglioli Stocker, cfr. A Doorkeeper in the House of God: The Letters of Beatrice A. R. Stocker, Missionary to the Sioux, 1892-1893, a cura di A.M. Baker, «South Dakota History», vol. 22, n. 1, 24 marzo 1992, pp. 38-63.
  4. L’ultima figlia di Ellen Hillyer è stata chiamata Elena, così come quest’ultima ha voluto chiamare Maria Elena la sua unica figlia. Beatrice Elena non ha fatto a tempo a conoscere la nonna Ellen, morta nel 1894 in Abruzzo, a Chieti, dove risiedeva presso la famiglia del genero Raffaello Casella, marito di Elena Giglioli.
  5. «Notiziario» CAI – Sezione di Pisa, a. xxxvii, n. 1, 2017.
  6. SNS, Centro archivistico, fasc. Giglioli Beatrice. Dal fascicolo risulta che Beatrice Giglioli è iscritta al Pnf dal 31 luglio 1933, tessera n. 671151, e all’Afs (Associazione fascista della Scuola) dal 1934, tessera n. 022270.
  7. C. Giglioli Stocker, Una famiglia di patrioti emiliani. I Giglioli di Brescello, con appendice di 26 lettere inedite di patrioti del tempo, Milano [etc.], Società editrice Dante Alighieri, 1935.
  8. B. Giglioli, Diario 21 agosto 1943 – 1° gennaio 1945. Ricordi dell’estate 1944 di Antonio Ricci, a cura di F. Bertolucci, B. Cattaneo e G. Mangini, Ghezzano (PI), BFS edizioni, 2025.
  9. SNS, Centro archivistico, fasc. Giglioli Beatrice. L’incarico alla sns termina nell’a. a. 1959-60.



Nada. Tra Storia e Letteratura

Nada Giorgi

 

Nada da giovane

Nada Giorgi con Renato Ciandri

Nada Giorgi nacque il 25 gennaio 1927 a Pontassieve, in provincia di Firenze, da una famiglia di umili origini. Negli anni dell’adolescenza, durante la Resistenza, incontrò il partigiano Renato Ciandri, noto col nome di battaglia “Baffo”, modificato in Bube da Carlo Cassola nel romanzo La ragazza di Bube [1].  Dopo l”8 settembre 1943, lui, proveniente da Volterra, si era unito al gruppo di partigiani di Pontassieve. Era infatti sfollato a Torre a Decima, presso Molino del Piano, frazione di Pontassieve dove, tramite l’amico Pietro Verniani, conobbe Nada, anch’ella sfollata con la famiglia. Ciandri -durante la Resistenza- combatté infatti in varie formazioni (in special modo nel “Gruppo di Pontassieve” e nella “Ciro Fabbroni”) nella zona fra Pontassieve, Monte Giovi e Dicomano. Nel febbraio 1944, dopo essere riuscito a sfuggire all’arresto dei tedeschi, operava stabilmente sul monte Giovi con la formazione partigiana “Stella Rossa”. Pare abbia partecipato anche alla liberazione di Firenze rimanendo ferito nei pressi della stazione di Santa Maria Novella. Il 21 agosto 1944, quando le truppe alleate liberarono Pontassieve, Bube, come anche altri partigiani, rispose alla chiamata dei partiti antifascisti e si arruolò nel gruppo volontario 22° Fanteria “Cremona”. La disciplina e le regole militari però gli andavano strette, come viene raccontato nel libro di Massimo Biagioni; il suo temperamento e l’insofferenza per gli atti che non condivideva, gli fecero collezionare ben quattordici capi d’imputazione per insubordinazione; fu condannato poi amnistiato.

«Definito “ribelle fra i ribelli” per l’insofferenza verso la disciplina e i numerosi atti di insubordinazione, alla fine della guerra venne amnistiato di un totale di sedici anni di reclusione collezionati in pochi mesi come soldato nel “Cremona”[2]».

Dopo la guerra, la storia tra Renato a Nada proseguì e i due vissero per un periodo a Volterra, dove Renato trovò lavoro come guardia municipale.

Nel maggio 1945, tornarono a Pontassieve e per la Festa della Madonna del Sasso, evento molto atteso nella zona, dove avvenne il triste fatto che riportò nell’ombra della guerra e del dolore un’intera vallata, loro erano presenti.

I due giovani si dovettero presto separare: Renato venne, infatti, coinvolto nella sparatoria avvenuta il 13 maggio 1945, proprio in occasione di quella Festa. Al Santuario della Madonna delle Grazie al Sasso, non distante da Santa Brigida, sempre nel Comune di Pontassieve, furono uccisi un Carabiniere, il Maresciallo Carmine Zuddas e suo figlio Antonio. Il conflitto era da poco terminato, ma tra le macerie ancora visibili, la popolazione era divisa dalla guerra civile.

Ogni anno, la seconda domenica di maggio, veniva celebrata una solenne Messa cantata con l’offerta dei doni alla Madonna da parte dei vari compaesani dei paesi limitrofi, seguita dalla processione con la “benedizione della campagna”, e poi ancora, il pranzo. Seguiva nel pomeriggio la festa con musiche, danze e canti.

Processione della seconda domenica di maggio in Le Grazie e miracoli al Santuario https://www.conoscifirenze.it/toscana-firenze/517-le-grazie-e-miracoli-al-santuario.html

Una giornata di preghiera e di celebrazioni religiose, sfociò però nel caos. Fuori dalla chiesa, il Rettore del Santuario e tre giovani, ex partigiani, ebbero un acceso diverbio. Il motivo, apparentemente, pare fosse legato alle vesti succinte di questi, non adatte al contesto; stando, invece, ad altre testimonianze, i giovani avrebbero indossato il fazzoletto rosso al collo, simbolo inequivocabile e motivo di diverbio. Nella discussione intervenne il Maresciallo dei Carabinieri Zuddas, Comandante della Stazione dei Carabinieri di Molino del Piano, incaricato al servizio d’ordine, necessario per il regolare  svolgimento di una festività religiosa di ringraziamento per la fine della guerra, recatosi al Sasso con la moglie e il figlio diciassettenne. Chiese spiegazioni al prete, invitandolo a fare entrare i giovani, che avevano collaborato per liberare l’Italia dai tedeschi. Il figlio però, poco distante, non capendo forse bene cosa stesse succedendo e vedendo il padre accerchiato, seppur in modo innocui al momento, pare abbia estratto una pistola e abbia sparato, uccidendo uno dei giovani, il pollivendolo Luigi Panchetti. Stando, invece, ad altre ricostruzioni, pare che alcuni partigiani avessero tentato di disarmare il Carabiniere, dopo che questi aveva sparato un colpo in aria per ristabilire l’ordine, a causa del tafferuglio creatosi. Secondo la ricostruzione degli eventi, riportati in un dettagliato rapporto dell’Arma, coincidente con le notizie riportate dai giornali e con le testimonianze che hanno dato in seguito alcuni giovani incriminati, il figlio, visto il padre in pericoli, impugnata la pistola, avrebbe sparato in direzione di uno dei giovani, tale Panchetti, colpendolo a morte. Le persone attorno fermarono i due uomini, il Maresciallo e il figlio, rinchiudendoli in una stanza della canonica, fino all’intervento di alcuni partigiani, tra cui Renato Ciandri (Bube), presente assieme a Nada alla Festa e che -secondo le accuse- sparò contro il ragazzo, uccidendolo. Morirà assieme al figlio anche Carmine Zuddas [3].

Carmine Zuddas e la sua famiglia. Davide Batzella, Maresciallo Carmine Zuddas di Serramanna (dal libro di Cassola “La ragazza di Bube”), in ASerramanna, 22 Aprile 2013, https://www.aserramanna.it/2013/04/maresciallo-carmine-zuddas-di-serramanna-dal-libro-di-cassola-la-ragazza-di-bube-2/

Secondo Nada Giorgi, dopo che il diciassettenne Zuddas ebbe colpito a morte l’ex partigiano, gli altri membri della banda, che avevano nascosto precedentemente delle armi, al contrario di Ciandri, che era disarmato, correndo verso la chiesa, invitarono Bube a non tirarsi indietro, a restare fedele ai suoi ideali. Pare, perciò, che questi abbia tentato di disarmare il ragazzo e che, dopo una colluttazione, qualcuno abbia raggiunto il giovane con una raffica di mitra. Contemporaneamente, qualcuno aveva sparato anche al Maresciallo. A testimoniare l’innocenza del Ciandri, la Giorgi avrebbe presentato anche la deposizione della moglie del Carabiniere, Margherita Rotelli, unica sopravvissuta.

La vicenda non è tutt’oggi chiara: molte le versioni dei fatti, alcune delle quali vedono il Ciandri realmente coinvolto. Ogni protagonista di quel giorno ha raccontato dettagli diversi, che rendono difficile, oggi come allora, la ricostruzione di quella giornata di maggio [4].

I giovani trovati con le armi furono portati alle carceri a Firenze, in via Ghibellina. Renato e Nada tornarono invece a casa. Presto però, i compagni del Partito comunista, al quale Ciandri sarà sempre legato, lo invitarono a fuggire, a tornare verso Volterra, onde evitare di essere arrestato. Bube era infatti il più noto tra i ragazzi del Sasso. Inoltre, le elezioni del 2 giugno si stavano avvicinando e le tensioni politiche aumentavano.

Nonostante l’invito a consegnarsi, emersa anche la possibilità di esser scagionato, Bube si dette alla macchia. Dopo giorni passati in campagna, a Torre a Decima, sopra Molino del Piano, un amico camionista di Ellera lo aiutò a tornare verso Colle Val d’Elsa. Fu in quest’occasione che Nada e Bube conobbero Carlo Cassola, “comandante Carlino”, che era stato con i partigiani in montagna ed era il figlio del maestro di Ciandri. Si conobbero in un bar e i due raccontarono la vicenda del Sasso. Cassola ne rimase colpito e offrì a Bube una sistemazione momentanea a Volterra. Sembra che i tre abbiano passato anche la giornata del 2 giugno assieme [5].

Durante il viaggio verso quella cittadina, sul pullman (o meglio sulla sita), dove Ciandri si trovava con Nada, pare ci fosse Mons. Dolfi (Ciolfi nel libro), antipartigiano convinto. Alcuni passeggeri, inferociti, pare avessero addirittura minacciato il parroco, prima che, giunti a destinazione, Cassola e Bube non avessero portato il religioso in Caserma, salvandolo così dalle aggressioni della folla [6].

Bube riprese a vivere nel paese natio, ma presto i Carabinieri lo invitarono a presentarsi al tenente. Pareva convinto a consegnarsi, ma alcuni giovani dell’Anpi di Volterra, Ciaba e Niccolò, allertati dall’Anpi fiorentino, lo invitarono a non farlo. La notte una motocicletta andò a prenderlo: scappò prima verso Pisa, poi a Milano e infine in Francia, dove trovò lavoro come operaio tappezziere. Ottenne asilo politico come comunista, ma presto ebbe la condanna in Italia in contumacia a 19 anni di carcere. Per poter restare in Francia, doveva procurarsi i documenti: tentò così di arruolarsi prima nella Legione straniera, poi fuggì in Olanda e in Tunisia, per poi tornare in Francia e riprendere la sua attività di tappezziere. L’esilio di Ciandri durò fino al 1950, quando scoperto dall’Interpool, fu estradato in Italia. Rimarrà in carcere, prima a Torino, poi per un breve periodo a Pisa, poi ad Alessandria, a Bologna, all’Elba e, infine, a San Gimignano, dove rimase fino al 1961.

Il processo si era tenuto a Torino nel settembre 1946: alla difesa dei giovani contribuirono molti pontassievesi, con una raccolta fondi organizzata nella Casa del popolo di Santa Brigida. Il secondo giorno il processo verrà spostato negli ampi locali della Corte d’Assise, dove era presente anche una delegazione di operai della Fiat-Mirafiori.

Dopo il processo, infatti, erano state arrestate dieci persone, dopo le prime indagini, sette delle quali facenti parte del Corpo Volontari della Libertà. Tutti si dichiararono colpevoli, eccetto Bube, che si è sempre dichiarato innocente [7].

Nei giorni successivi alla Festa della Madonna, infatti, erano state molte le voci ad alzarsi. Membri del CLN si recarono sul posto. Molti capi delle formazioni partigiane tentarono di giustificare quanto era successo, come Romeo Fibbi, Lazio Cosseri, Giuseppe Maggi, commissario politico della brigata “Lavacchini” e futuro sindaco di Borgo San Lorenzo. L’evento, significativo di quel clima di passaggio, di tensione e di giustizia sommaria nel dopoguerra italiano, sconvolse un’intera comunità. Chiunque si riteneva portatore di giustizia, spesso in contrasto con altri. Qualcuno giustificò l’accaduto poiché il Carabiniere era stato antipartigiano e fascista, stando a certe voci. La vicenda stessa è caduta nell’oblio, già al tempo, complice il Partito Comunista di Pontassieve, reticente e forse -inconsciamente- desideroso di guardare al futuro nel clima di psicosi generale anticomunista, tipica degli ultimi anni Quaranta.

Il 26 agosto 1951, Ciandri e la Giorgi si sposarono nel carcere di Alessandria. Nada, infatti, gli era sempre rimasta accanto e aveva sempre cercato di mantenere i rapporti con il fidanzato prima e con il marito poi, tramite lettere, scambi di fotografie e, quando possibile, con i colloqui e le visite.

Intanto Renato in carcere frequentava la scuola, [8] mentre Nada lavora a Pontassieve come fiascaia.

Nel 1953 vennero scarcerati i compagni di Bube incriminati per i fatti del Sasso, ma con una condanna di minor durata. L’anno successivo Ciandri venne trasferito al carcere di Porto Longone, all’Isola d’Elba, a causa di un violento litigio con un altro detenuto [9]. Verrà poi trasferito a San Gimignano, dove Nada poteva andare più frequentemente. Come ricorda lei stessa nel libro di Biagioni, nessuno degli ex compagni di Partito, gli era rimasto vicino.

È in questo periodo che Bube, durante una visita in carcere, ricevette da Cassola la copia del libro. Alla storia di Nada e Renato, Carlo Cassola aveva dedicato le pagine del suo celebre romanzo, La ragazza di Bube, mettendo al centro della narrazione Nada, pur lasciando che nel titolo comparisse il nome del suo compagno, Bube appunto, rilegando la sua figura come secondaria. La Giorgi non apprezzerà perciò il romanzo, non sentendosi rappresentata dallo scrittore e non riconoscendo i suoi cari in quelle pagine. Dal libro emerge inoltre un Bube colpevole; per Nada, dunque, l’opera era un’eredità negativa dalla quale doversi liberare.

Potremmo dire che il romanzo non ricalca, infatti, la vera vita dei due protagonisti, sebbene prenda ispirazione dalle loro storie. La vicenda è ambientata in Valdelsa, poco dopo la Liberazione, e non nel Pontassievese, come nella realtà. I protagonisti sono due giovani, Mara Castellucci e Bube, ovvero Nada Giorgi e Renato Ciandri, detto Baffo. Mara è una ragazza di sedici anni che vive a Monteguidi insieme al padre, comunista militante, alla madre e a un fratello, Vinicio. La vera Nada il padre lo aveva conosciuto appena in quanto morì quando lei aveva solo tre anni.

In quel paese conosce Arturo Cappellini, detto Bube. Il giovane, amico e compagno di Sante, il fratellastro di Mara morto durante la Resistenza, si era recato nel paese dell’amico per conoscere la famiglia e in questo modo avviene il primo incontro con Mara. Tra i due nasce subito una simpatia e Mara, lusingata dall’interesse del ragazzo, inizia a scambiare lettere con lui. Tutta la trama, riproposta poi da Comencini nel celebre film, è un intreccio di fantasia e qualche riferimento reale.

Come lei stessa ha detto:

Non ho mai avuto un fratello nato fuori dal matrimonio: semplicemente non ho fratelli. Non ebbi mai amanti: tanto meno uno che si chiamava Stefano. Non feci l’amore con Bube nella capanna. So bene che Cassola scrisse un romanzo, una storia in parte inventata, ma la realtà sono io. La realtà è la mia famiglia, è mio figlio Moreno… Per lui, perché non avesse mai l’idea che suo padre fosse un assassino […] [10]

Secondo il libro, infatti, dopo il loro incontro, Bube e Mara si devono allontanare: Bube è, infatti, accusato di un delitto. Era accaduto che, mentre si trovava a San Donato con i compagni Ivan e Umberto, un prete aveva impedito loro di entrare in chiesa. Secondo i ragazzi, la ragione era il loro orientamento comunista. I giovani avevano allora iniziato a protestare, e un Maresciallo dei Carabinieri era intervenuto insieme al figlio a sostegno del prete. Bube e gli amici avevano inutilmente cercato di far valere le loro ragioni e, spinti dall’ira, avevano messo il prete contro il muro. Il maresciallo aveva perciò reagito sparando ad Umberto, uccidendolo. Per vendicare l’amico, Ivan, l’altro compagno di Bube, aveva ucciso il Maresciallo. A sua volta, Bube aveva rincorso fin su per una scalinata e ucciso il figlio del Maresciallo, mentre scappava.

Mara e Bube fuggono così verso Volterra, dove abita la famiglia di lui. A bordo della corriera si trova una donna che riconosce Bube e lo sprona a dare una lezione ad uno dei passeggeri: si tratta del prete Ciolfi, il quale durante la guerra aveva collaborato con i nazisti, causando così la morte del nipote della donna. Suo malgrado, dopo essere sceso, Bube viene praticamente costretto dai presenti a picchiare il prete per poter salvare la faccia: il suo ruolo nella zona era infatti quello del Vendicatore, appellativo con il quale viene talvolta ancora chiamato dagli abitanti del posto.

Arrivato a casa dai familiari, Bube viene avvertito dal compagno Lidori del rischio di essere arrestato per il delitto commesso e gli consiglia la fuga. Qualche giorno dopo, una macchina passa a prendere Bube per farlo rifugiare in Francia, mentre Mara ritorna a casa. Nel frattempo, qualcosa in lei è cambiato: non è più la ragazza spensierata di prima e si dimostra angosciata per la mancanza di notizie da parte di Bube.

Verso novembre, Mara decide di andare a lavorare come domestica in una famiglia a Poggibonsi. Qui stringe amicizia con una compaesana, Ines, con cui esce spesso e che le presenta Stefano. Mara, inizialmente fredda, lentamente comincia ad apprezzare la sua compagnia.

Dopo un anno, Bube, costretto al rimpatrio, viene arrestato alla frontiera ed è condotto a Firenze. Mara, accompagnata dal padre, si reca a sua volta nel capoluogo toscano per un colloquio con Bube. Durante l’incontro, la ragazza si accorge che il suo attaccamento a Bube era ancora molto forte, così decide che, da quel momento, sarebbe per sempre la sua donna. Bube viene condannato a quattordici anni di carcere. Mara, tornata a Poggibonsi, racconta a Stefano di aver preso una decisione: ha scelto Bube, che andrà spesso a trovare in carcere.  Il romanzo termina con Mara che attende la liberazione del suo amato.

«I primi tempi sono i più terribili, disse poi. Ma, in seguito, ci si fa quasi l’abitudine… sono passati questi sette anni , passeranno anche questi altri sette. E poi, io cerco di non pensarci. Conto solo i giorni che mi separano dal colloquio. Perché è tale una gioia quando lo rivedo [11]…»

Tale opera sarà un vero e proprio successo editoriale, che porterà Cassola a vincere il Premio Strega nel 1960. Venne tradotta in molte lingue, rendendo celebre la storia di Baffo e della Giorgi, divenuti Bube e Mara per i lettori, dove però la finzione supera la realtà [12].

Complici la fama del libro e l’eco ottenuta [13], grazie anche all’aiuto di Cassola stesso, che si mobilitò per aiutare Ciandri ad ottenere uno sconto di pena, il 22 dicembre 1961, Renato ottenne la libertà desiderata.

Entrambi i protagonisti, però, non si sentirono rappresentati dal libro di Cassola: Ciandri lamentava di essere stato dipinto come una figura a tratti negativa, che rinnegava i compagni, il Partito, gli ideali. La storia dei sentimenti, come affermò, non era in linea con la storia dei fatti, non fedele alla realtà. Neppure Nada si sentiva rappresentata, tanto che non riuscì nemmeno a finire il libro [14].

Pian piano i due ripresero una vita normale: Ciandri trovò finalmente un lavoro al Centro Carni e ne diventerà presto socio a tutti gli effetti.

Già pochi mesi dopo l’uscita del libro, Luigi Comencini, noto regista, aveva deciso di trarne un film dove apparirono come interpreti principali, attori della caratura di Claudia Cardinale e George Chakiris, rispettivamente nei panni di Nada (Mara) e Ciandri (Bube).

Claudia Cardinale e George Chakiris in una scena del film di Comencini

Anche le vicende attorno all’uscita del film sono controverse: Renato Ciandri non voleva che venisse proiettato, in quanto avrebbe contribuito a fissare, ancor più del libro, l’immagine già stereotipata che la gente si era fatta sulla sua persona. I produttori prima promisero ai Ciandri un ricco compenso per ottenere l’approvazione per la proiezione del film, poi – vista l’irremovibilità dei soggetti coinvolti- minacciarono Ciandri e la sua famiglia di querelarli. Non erano però le uniche querele: i Ciandri a loro volta ne firmarono una per non essere stati ascoltati, la sorella di Nada un’altra per informazioni false sulla figura del marito, scomparso durante la guerra, una, infine, da un figlio del Maresciallo Zuddas, critico sulla narrazione dei fatti, oltraggiosi per la memoria del padre e del fratello scomparsi e -a suo parere- poco fedeli ai fatti [15].

Nel frattempo, dall’unione di Nada e Renato nacque un figlio nel 1963, Moreno, autore, compositore e musicista.

Ciandri presto cambierà mansione e inizierà a lavorare in ufficio. Nel clima di rinnovata serenità, partecipa attivamente anche alle cerimonie degli eccidi della Seconda Guerra mondiale, agli anniversari e alle manifestazioni, continuando a coltivare gli ideali della Resistenza [16].

A metà degli anni Settanta, «Tuttolibri», il settimanale del quotidiano «La Stampa»,  rilegge il fortunato libro di Cassola. L’inviato Lamberto Furno incontra la coppia: è l’unica vera intervista di Ciandri [17].

Quando però la vita comincia a riprendere tranquillamente il suo corso, Renato scopre di avere un tumore, che il 6 novembre 1981 lo porterà alla morte [18]. Sentiti e partecipati i funerali. Venne sepolto presso il Cimitero di San Martino a Quona, a Pontassieve. Questa l’epigrafe sulla sua tomba [19]:

“Bube”

Renato Ciandri (3-3-1924/ 6-11-1981)

E voi imparate che occorre

vedere e non guardare in aria

questo mostro stava una volta

per conquistare il mondo

i popoli lo spensero

ma ora non cantiamo

vittoria troppo presto

il grembo da cui nacque

è ancora fecondo

Brecht

Alessandro Bargellini, 16-1-2009 https://resistenzatoscana.org/monumenti/pontassieve/sepolcro_di_ciandri/

La fama innescata dal libro non si arresta, anzi, ci saranno anche rappresentazioni teatrali sulla vicenda di Bube, come quella firmata dal registra Alessandro Gatto, di grande successo.

Nada, desiderosa di lasciarsi alle spalle gli anni della Guerra e della carcerazione del marito, ma volendone mantenere viva la memoria, comincerà a fare attività nelle scuole del territorio, per parlare ai ragazzi delle classi. Si spengerà il 24 maggio 2012 a 85 anni.

Negli ultimi anni di vita, Nada, per riabilitare la memoria del marito e per lasciare ai posteri la sua versione dei fatti, incaricò Massimo Biagioni, scrittore di Storia locale, giornalista pubblicista, oggi dirigente regionale di Confesercenti, con precedenti esperienze politiche, il compito di stendere in un secondo libro la sua biografia, da cui sono tratte molte delle informazioni qui riportate. Nada ha così scacciato la Mara del romanzo, e con Renato, è voluta tornare ad essere persona e non personaggio. «Ora posso anche morire!» disse a Biagioni, stringendo la prima copia uscita dalla Polistampa. Anche il figlio Moreno ha vinto il riserbo del padre che non ne aveva voluto parlare più, per dare spazio invece al volere della mamma [20].

 

Nada Giorgi, nominata cittadina onoraria del Comune di Pelago (FI) in News dalle Pubbliche Amministrazioni della Città Metropolitana di Firenze, http://met.provincia.fi.it/news.aspx?n=182704

Note

1.Sulla vita di Renato Ciandri e sulla sua attività di partigiano, prima del 13 maggio 1945, rimando alle pagine di Biagioni, pp. 27-46.

2. Giovanni Baldini, Renato Ciandri, “Bube”, in ResistenzaToscana, 14 luglio 2003, https://resistenzatoscana.org/biografie/ciandri_renato/ [consultato il 4 novembre 2024].

3. Per un’ulteriore ricostruzione della vicenda, si veda Dania Mazzoni, Attraverso la bufera: Pontassieve fra guerra, Resistenza e ricostruzione, 1943-1948, (con una nota introduttiva di Simonetta Soldani), Comune di Pontassieve, Pontassieve 1990, pp. 142-144.

4. Diversa la versione dei fatti esposta nell’articolo di Davide Batzella, Maresciallo Carmine Zuddas di Serramanna (dal libro di Cassola “La ragazza di Bube”), in ASerramanna, 22 Aprile 2013, https://www.aserramanna.it/2013/04/maresciallo-carmine-zuddas-di-serramanna-dal-libro-di-cassola-la-ragazza-di-bube-2/ [consultato il 5 novembre 2024]. Tale versione incolperebbe infatti Bube e la sua compagnia.

5. Massimo Biagioni, Nada, la ragazza di Bube, Polistampa, Firenze, 2006, pp. 51-52.

6. Rimando alle pagine di M. Biagioni, Nada, la ragazza di Bube, pp. 52-53, per la ricostruzione delle vicende antecedenti che vedono coinvolto Dolfi.

7. D. Mazzoni, Attraverso la bufera: Pontassieve fra guerra, Resistenza e ricostruzione, 1943-1948, pp. 144-144.

8.  M. Biagioni, Nada, la ragazza di Bube, p. 85

9. Ivi, p. 93

10. Da Sandro Bennucci, «Io, Nada, vi racconto la vera storia della ragazza di Bube», «La Nazione», 13 aprile 2006 in LeonardoLibri, [consultato il 4 novembre 2024, https://www.leonardolibri.com/recensione.php?i=3314]

11. Carlo Cassola, La ragazza di Bube, Oscar Mondadori, Milano, 2010, p. 217.

12. M. Biagioni, Nada, la ragazza di Bube, p. 100. Per la trama del libro, vedi anche pp. 98-100.

13. Ivi, pp. 100-103.

14. Ivi, p. 109.

15. Ivi, p. 129.

16. Ivi, pp. 133-137.

17. La minuta dell’intervista è riprodotta in M. Biagioni, Nada, la ragazza di Bube, pp. 141-144.

18. Ivi, p. 145.

19. Cfr. M. Biagioni, Nada, la ragazza di Bube, p. 150. Nella primavera del 2005 la salma di Ciandri venne traslata in un forno non distante dalla Cappella dei caduti e degli ex combattenti di tutte le guerre.

20. Michela Aramini, Cinque anni fa morì Nada, la “ragazza di Bube”: il ricordo di Massimo Biagioni, in il Filo – Idee e Notizie dal Mugello, 24 maggio 2017 [consultato il 4 novembre 2024, https://cultura.ilfilo.net/cinque-anni-fa-mori-nada-ragazza-bube-ricordo-massimo-biagioni/]

 

Bibliografia

Biagioni Massimo, Nada, la ragazza di Bube, Polistampa, Firenze, 2006

Cassola Carlo, La ragazza di Bube, Oscar Mondadori, Milano, 2010 [prima edizione, Einaudi, Torino, 1960]

Mazzoni Dania, Attraverso la bufera: Pontassieve fra guerra, Resistenza e ricostruzione, 1943-1948, (con una nota introduttiva di Simonetta Soldani), Comune di Pontassieve, Pontassieve 1990

 

Questo articolo è stato realizzato grazie al contributo del Consiglio regionale della Toscana nell’ambito del progetto per l’80° anniversario della Resistenza promosso e realizzato dall’Istituto storico toscano della Resistenza e dell’età contemporanea.

Articolo scritto nel mese di novembre 2024.




La storia ignota degli italo-greci a Firenze

Per i fiorentini non più giovani quell’area di fabbricati situata nella zona di Novoli, fra via Magellano e via di Caciolle, era considerata il quartiere dei greci, dove fra l’altro si potevano comprare sigarette di contrabbando sino agli inizi degli anni Ottanta. Per coloro che ci abitavano era invece Laspeica, in greco melma, un rione per decenni privo di strade e marciapiedi che nelle giornate di pioggia diventava un vero e proprio pantano, da cui il nome che gli era stato dato. Gli abitanti di questi appartamenti, costruiti nella prima metà degli anni Cinquanta, non erano propriamente greci ma italiani, la maggior parte di origine pugliese, che furono rimpatriati nel secondo dopoguerra. Erano quegli italiani che sul finire del XIX secolo, emigrati dalle coste pugliesi, raggiunsero la Grecia in cerca di una sistemazione economica migliore di quella che poteva offrire loro il nuovo Regno d’Italia. Molti si concentrarono nella città di Patrasso dove formarono una comunità di circa 3000 persone integrate perfettamente nel tessuto sociale greco [1]. Poi venne il 28 ottobre 1940 quando alle prime luci dell’alba le truppe italiane ricevettero l’ordine di attaccare la Grecia [2]. Con l’inizio della guerra lo sdegno e il rancore dei greci esplosero con il fragore della prima bomba che cadde proprio sulla scuola italiana di Patrasso “Santorre di Santarosa” facendo crollare la cappella adiacente al cortile dell’edificio: l’aereo volando ad altissima quota non poté certo distinguere la bandiera italiana che sventolava in quel mattino livido di pioggia [3]. Per fortuna era un giorno festivo (anniversario della marcia su Roma), vacanza per la scuola italiana, per cui non vi furono vittime innocenti.

Da quel momento l’armonia di un’integrazione naturale che nel corso del tempo si era creata fra la comunità italiana e i greci si sgretolò improvvisamente producendo ritorsioni su quei poveri italiani increduli di quanto stava accadendo, ma soprattutto innocenti per l’attacco militare che Mussolini aveva deciso contro quella terra in cui loro vivevano da generazioni in pace con sé stessi e con gli altri. Ma per i greci erano considerati corresponsabili dell’aggressione fascista e tutti i cittadini italiani, di sesso maschile, di oltre sedici anni, furono rinchiusi nei campi di concentramento di Goudì, Argos, Neakokkinià [4]. 

Con l’8 settembre del 1943 finì l’occupazione italiana della Grecia che passò direttamente sotto il controllo della Germania nazista e per la comunità italiana iniziò un nuovo calvario, oltre all’intransigenza ed alle mortificazioni messe in atto dagli ex fratelli greci, gli italiani dovevano ora subire anche la rabbia e le ritorsioni degli ex alleati tedeschi. Presi tra due fuochi la vita per gli italiani residenti in Grecia risultò sempre più problematica. Da una parte aumentarono le angherie ad opera dei greci perché li ritenevano i primi responsabili dell’occupazione, dall’altra iniziarono le deportazioni e le uccisioni ad opera dei nazisti, che manifestavano nei loro comportamenti maggiore ferocia verso gli italiani piuttosto che contro i greci. Finita la guerra il destino di queste persone di origine italiana pareva segnato; infatti, il governo ellenico aveva espresso al comando delle Forze Alleate l’intenzione di deportare in un ragionevole limite di tempo ai loro paesi di origine tutti i cittadini di Stati nemici ed ex nemici che si trovavano in Grecia, e di conseguenza il provvedimento riguardava anche gli italiani. A niente servì l’appello di Alcide De Gasperi alla Commissione Alleata per poter bloccare il rimpatrio degli italiani residenti in Grecia, e nell’autunno del 1945 iniziò l’esodo dei nostri connazionali…

La signora Angela aprì la porta di casa ritrovandosi dinnanzi un funzionario di polizia che gli intimava: mercoledì prossimo alle otto si faccia trovare al porto con tutta la sua famiglia per essere imbarcati sulla nave che vi porterà in Italia [5]. 

Più o meno le stesse parole furono proferite in quel novembre del 1945 a tutti gli abitanti di origine italiana che risiedevano a Patrasso da due o tre generazioni. Solo pochi giorni quindi per abbandonare la propria casa e i propri averi (fu consentito loro di portare solo poche e piccole cose). Si sta parlando di più di tremila persone integrate perfettamente nella società greca che, con lo scoppio della guerra, non solo subirono angherie, sopraffazioni ed insulti dai loro concittadini greci, ma alla fine del periodo bellico furono deprivati delle loro proprietà e cacciati malamente dal territorio ellenico. Sarebbe come se in un ipotetico scontro tra occidente e mondo arabo (e di questi periodi non è fantascienza…) si imbarcassero sulle navi tutti gli arabi residenti in Italia (molti dei quali con cittadinanza italiana) per riportarli in Africa.

Ecco di tutta questa storia degli italo-greci, della loro sofferenza nel lasciare una terra che ormai consideravano propria, delle loro difficoltà nel riadattarsi e nel reinserirsi nella società italiana che aveva lasciato alle spalle il Ventennio – di cui questi profughi conservavano un ricordo condizionato dalla propaganda fascista di assistenza agli italiani residenti all’estero – ecco che di questa vicenda la storiografia ufficiale sembra essersene dimenticata o forse neanche di conoscerla. È vero che si trattava della storia di poche migliaia di individui, storia che si configura come una goccia d’acqua nel mare delle profuganze che nel dopoguerra si muovevano per tutta l’Europa e nel mondo, ma si trattava pur sempre della vita di essere umani vittime di un destino scritto da altri di cui loro incolpevoli subivano le sorti.

 

Nave Patrai.

Per tutto il mese di novembre le corvette Patrai e Terrmoscopilichi fecero la spola tra Patrasso e Bari, portando a termine l’esodo dei nostri connazionali; dal capoluogo pugliese – dove molti decisero di rimanervi – risalirono la penisola con treni, spesso trovando posto su vagoni merci, con un interminabile viaggio su una linea ferroviaria rattoppata, giungendo finalmente a Bologna dove esisteva un centro di smistamento. Da qui i profughi presero principalmente due direzioni, verso il Piemonte, regione nella quale erano in funzione tre grandi complessi, la Caserma Passalacqua a Tortona, in provincia di Alessandria, la Caserma Perrone a Novara e le Casermette di Borgo San Paolo a Torino, o verso Firenze alla Caserma ex Genio dia via della Scala, dove trovarono alloggio circa 2000 italo-greci.

 

Veduta esterna della Caserma di via della Scala adibita a Centro profughi dal 1944 al 1956.

Questa grande struttura, originariamente un convento costruito alla fine del Duecento, nel corso dei secoli ha cambiato più volte uso di destinazione: ha accolto la prima stamperia a caratteri mobili nel 1472, successivamente dopo una restaurazione nel periodo rinascimentale è divenuta un educandato, dopo un conservatorio, per poi essere preso in consegna dall’esercito e dai carabinieri fino all’8 settembre del 1943 quando fu occupato dalle truppe tedesche. Dopo la Liberazione di Firenze nell’agosto del 1944 venne trasformato in Centro di raccolta per sfollati e profughi [6]. Artefice ed organizzatore del Centro fu il Capitano inglese Limbert che rimase al comando della struttura per circa un anno. Quando nel novembre del ‘45 giunsero ad ondate quei profughi provenienti dalla Grecia, molti locali della Caserma erano ancora occupati, nonostante i continui appelli ad abbandonare la struttura, dagli sfollati e dai fiorentini sinistrati, e gli italo-greci trovarono posto solo ammassandosi nelle camerate ancora libere e dentro un teatro e una chiesa sconsacrata all’interno dello stesso edificio.

Vivevano in grandi stanze, alcune senza finestre, dormendo per terra sopra pagliericci o ammassi di cenci che fungevano da materassi, una ventina di persone per camerata, dove ogni nucleo familiare trovava un proprio spazio innalzando coperte come divisori. Per queste persone ogni giorno si presentava come il precedente, sradicati dalla propria terra per colpe altrui, chiedevano soltanto che fosse concessa loro la possibilità di ricominciare, sia pure con fatica, a vivere. E in questo contesto di profondo degrado al Centro profughi all’inizio vi era solo il dolore, l’indecenza, l’abbattimento, vi era la totale sfiducia nelle istituzioni; nel cuore di questa gente sfortunata, piano piano, si faceva strada l’odio… ed era comprensibile. Gli avevano promesso un’accoglienza diversa in alloggi confortevoli e invece niente di tutto questo: “Venga a vederci signor Ministro” [7] scrivevano a Emilio Lussu allora in carica al Ministero dell’Assistenza postbellica. Queste persone avevano lasciato alle spalle le brutture, le persecuzioni, i morti sulle piazze di un’assurda guerra, avevano abbandonato piangendo la loro terra, le loro case, il loro mare, i loro animali come quella gattina di nome Xenià dagli occhi verdi che seguì fino al porto la sua padroncina, ma nella ressa e nella confusione venne scacciata e di lontano sulla banchina sembrava salutare quella bambina con le lacrime agli occhi che si allontanava dal porto di Patrasso imbarcata sulla nave che la portava in Italia [8].

Dai primi tempi del loro insediamento nella caserma di via della Scala gradatamente siamo passati tramite provvedimenti comunali e della Prefettura, con decreti legislativi, e soprattutto con le continue rivendicazioni sfociate spesso in rivolte di queste persone che niente avevano da perdere, ad una situazione di vita un po’ più decorosa di quella iniziale ma sempre al di sotto della normalità. Anche una certa propensione nel sapersi arrangiare, caratteristica dei patrassini e più in generale di tutti gli abitanti del bacino del Mediterraneo, giungendo perfino a contravvenire alla legge con la pratica del contrabbando, va inserita nel computo di tutti quegli elementi che contribuirono ad un qualche miglioramento delle condizioni di vita di questi profughi.

 

Giovani residenti al Centro di via della Scala, archivio privato famiglia Stella.

Famiglia italo-greca al Centro di via della Scala, archivio privato famiglia Croce.

E infatti solo dopo pochi mesi di vita al Centro, i profughi organizzarono in modo autonomo un mercato montando le bancherelle in via della Scala, una tra le strade meno movimentate di Firenze era diventata una delle più animate. Il Centro Profughi aveva creato un ambiente cosmopolita, in perpetuo movimento, «tanto che bastava affacciarsi ai cancelli per avere l’impressione di un grande alveare. E piano piano, lungo i marciapiedi della via erano cominciate le bancarelle. Naturalmente avevano attecchito quelle dei commestibili e delle cianfrusaglie, tanto che chi passava si godeva uno spettacolo vivo di colori,  poponi, cocomeri e altra frutta di ogni sorta esposti in pieno sole per un lungo tratto» [9]. Non era difficile scovare in mezzo ai banchi del mercato anche chi ti offriva di nascosto sigarette di contrabbando, naturalmente ad un prezzo inferiore rispetto a quello imposto dal monopolio di Stato. Questa attività illegale era nata quasi per caso perché venivano rivendute le sigarette che i soldati americani generalmente donavano alla popolazione: «avevo dieci anni e nascondevo i pacchetti di sigarette regalate dagli americani sotto il maglione per venderle sotto i portici di fronte a Piazza della Repubblica» [10].

Il contrabbando di sigarette, inizialmente tollerato dalla Guardia di Finanza, coinvolse sempre più i profughi facendo diventare il Centro di via della Scala il più grande punto cittadino di smistamento e smercio di sigarette [11]. La cronaca della stampa locale di quegli anni fa riferimento a continue ispezioni della polizia e soprattutto della Guardia di Finanza nei locali del Centro alla ricerca di sigarette che puntualmente scovavano nei posti più impensati.

Il contrabbando assunse dimensioni sempre più grandi sino a divenire una nota distintiva per i profughi “greci”, anche quando lasciarono il Centro di via della Scala per andare ad abitare nelle case popolari in via di Caciolle. Qui all’interno del rione, fra le stradine che collegavano le abitazioni con quelle tipiche scale esterne, è proseguito per tutti gli anni Settanta e l’inizio degli anni Ottanta. Il rione dei greci – molti clienti ignoravano la loro origine italiana – è stato sempre conosciuto dalla cittadinanza fiorentina come il luogo di approvvigionamento per quei fumatori che volevano risparmiare sul costo del pacchetto di sigarette. E se la Guardia di Finanza inizialmente aveva ricevuto precise disposizioni di tollerarlo, perché i profughi dovevano cercare pur di rifarsi una vita, poi intervenne duramente perché appunto questo fenomeno aveva assunto proporzioni molto più vaste – tutti passavano “dai greci” per le sigarette – con conseguenti danni al monopolio di Stato. Non tutti i profughi però continuarono questa pratica illegale, per molti fu solo all’inizio della loro avventura italiana, per poi cercare altre occupazioni: un lavoro che avrebbe dato loro la possibilità di un sostentamento economico per sperare in un futuro migliore. E non essendoci nella Firenze postbellica un’abbondanza tale di richieste per accontentare tutti, si specializzarono in attività di artigianato quali l’elettricista, il sarto, il falegname… Vi erano poi coloro che avevano trovato lavoro proprio all’interno del Centro nei laboratori di biancheria e calzoleria, locali annessi al Centro stesso, per la confezione di materiale assistenziale. Solo più tardi con l’inizio degli anni Cinquanta cominciarono le assunzioni in alcune fabbriche fiorentine che avevano ripreso la produzione industriale dopo la guerra: alcuni entrarono nella Pignone altri nella Gover. Ma ci furono anche coloro che decisero di raggiungere il nord Italia, soprattutto Torino, dove la Fiat aveva iniziato a richiamare emigranti da tutta la penisola. Queste persone che avevano lasciato Firenze si riunirono agli altri profughi che nel viaggio dalla Grecia a Bologna decisero di continuare per il nord.

Con il passare degli anni, oltre al lavoro, il problema più impellente per i profughi era riuscire a trovare una sistemazione in alloggi esterni dal Centro. A livello nazionale vi era l’esigenza da parte delle autorità statali di smantellare i centri di raccolta, o perlomeno di liberarli dalla presenza di quei profughi che soggiornavano ormai da anni in queste strutture a carico dello Stato. I vari Ministeri che si occupavano dei profughi avevano anche la necessità di reperire nuovi spazi per poter contenere le ondate dei rimpatriati dalle regioni giuliano-dalmate che continuavano a giungere in Italia sino alla fine degli anni Cinquanta. I tentativi messi in atto dai funzionari dello Stato non dettero però buoni risultati in merito: venivano elargite somme di denaro abbastanza consistenti per liberare i posti all’interno dei centri di raccolta, ma i profughi una volta acquisita la liquidazione continuavano a rimanervi perché non trovavano nessuna sistemazione all’esterno. Il Decreto-legge del 19 aprile 1948 n. 556, che imponeva la cessazione dell’assistenza ai profughi entro il 30 giugno 1949 tramite una liquidazione di 50.000 lire a persona, non dette assolutamente i risultati ipotizzati [12]. Il 30 giugno ‘49 almeno a Firenze nel Centro Profughi di via della Scala non si liberò nessun posto, anzi a leggere l’articolo del Nuovo Corriere del 7 ottobre 1949 sembra che la situazione abbia assunto toni da farsa pirandelliana perché quei soldi ricevuti allo scopo di trovare una sistemazione al di fuori delle mura del Centro – a sentire i profughi – furono subito spesi per acquistare tutti quegli oggetti, brande, coperte, pagliericci e il corredo per il vettovagliamento che furono loro ritirati al momento della liquidazione [13].

Per avviare realmente lo sfollamento del Centro di via della Scala si dovrà attendere la metà degli anni Cinquanta con le assegnazioni degli alloggi popolari: a parte qualche nucleo familiare che si staccò dalla comunità italogreca trovando sistemazioni nei nuovi quartieri dell’Isolotto e di Sorgane, gli altri furono dislocati sia nel già citato quartiere “dei greci” di via di Caciolle, sia alle Gore sopra Careggi, che – in un numero minore – a Coverciano in via Gelli. Nel novembre del 1956 con l’ultima famiglia traslocata nella casa popolare assegnata, il Centro profughi cesserà la sua attività e riprenderà la funzione di caserma militare. In via della Scala non vi sarà più il mercato multicolore che aveva reso piena di vitalità una strada meno frequentata e dai cancelli della caserma non si avrà più l’impressione di una grande alveare. E iniziava così per i profughi usciti dal Centro un nuovo – inverso – percorso di acculturazione: l’inserimento nella società italiana, fiorentina in specie.

 

Città di Firenze – Case per i profughi. Legge 4 marzo 1952 n. 137.

 

A distanza di quasi ottant’anni molti protagonisti dell’esodo dalla Grecia sono scomparsi, altri sono ormai anziani, quasi tutti hanno lasciato le case dei rioni di via di Caciolle e via delle Gore, e negli anni gli appartenenti alla comunità si sono sposati con donne e uomini italiani perdendo progressivamente le caratteristiche della loro grecità, soprattutto la lingua che era rimasta nei primi tempi come elemento di forte distinzione. A Laspeica – nessuno ormai chiama più così il rione di via Caciolle – per le strade non si sente più parlare greco e neanche sentiamo più gli odori tipici della cucina greca, i venditori di sigarette erano già scomparsi da tempo e in questo quartiere ormai i segnali del passaggio della comunità patrassina stanno sfumando, inghiottiti da quel processo di integrazione che sembra abbia lasciato molto poco della loro storia e tradizione. La storiografia italiana che ha iniziato ad interessarsi delle profuganze del secondo dopoguerra contribuirà a non disperdere questa storia e concedere alle loro vicende un posto, seppur piccolo dato l’esiguo numero dei protagonisti, nel panorama della storia italiana del XX secolo. Altrimenti si correrebbe il rischio di appiattire, non conoscendolo, il loro viaggio “andata e ritorno”, come se non fosse mai avvenuto, come se dalla Puglia non fossero migrate volontariamente alla ricerca di un futuro migliore migliaia di persone alla fine dell’Ottocento verso la penisola greca, e da lì ritornare in Italia, cacciate malamente per colpe non loro e costrette a lasciare ogni loro avere costruito faticosamente su quella terra in circa settant’anni. Senza il soccorso della storiografia la loro speranza emigrando dalla Puglia, l’integrazione, la sofferenza, il dolore, l’emarginazione, e di nuovo la speranza e nuovamente la reintegrazione nella società italiana, che costituiscono la storia di questi uomini e donne, svanirebbero negli anni rimanendo semmai nei racconti orali tramandati di generazione in generazione che probabilmente con il tempo andrebbero persi. È un dovere quindi portare alla luce pagine di vicende umane del tutto o quasi ignorate o di storie già dimenticate al fine di rendere cosciente l’intera comunità che anche le vicende di pochi individui, come quella degli italo-greci, reclamano un posto nella storia ufficiale.

 

NOTE

[1] Insieme a Patrasso erano Atene, Corfù e Salonicco, affacciate sulle sponde del Mare Egeo, le città greche ad avere le comunità italiane più numerose, costituite per lo più da migranti meridionali soprattutto pugliesi. Anche a Zante vi era una piccola comunità di italiani di origine meridionale, che poco prima della Grande guerra non superava le 100 unità; meno numerosa era la presenza italiana a Cefalonia, dove agli inizi del Novecento si contavano nell’isola 19 famiglie, in prevalenza pugliesi, Cfr. Giulio Esposito, Esuli in patria: il caso degli italo-greci in Puglia, in Giulio Esposito e Vito Antonio Leuzzi (a cura di), La Puglia dell’accoglienza. Profughi, rifugiati e rimpatriati nel Novecento, Progedit, Bari 2015, p. 223.

[2] Sui recenti studi storici dell’occupazione italiana della Grecia cfr. i saggi di Paolo Fonzi: Oltre i confini. Le occupazioni italiane durante la seconda guerra mondiale (1939-1943), Le Monnier, Firenze 2020; Fame di guerra. L’occupazione italiana della Grecia (1941-43), Carocci, Roma 2022.

[3] Mario Conti, Gli italo-greci di Patrasso durante il periodo fascista (1930-1945), Ibiskos, Empoli 1988, p. 19.

[4] Cfr. Santarelli Lidia, La violenza taciuta. I crimini degli italiani nella Grecia occupata, in Paolo Pezzino e Luca Baldissara (a cura di), Crimini e memorie di guerra: violenze contro le popolazioni e politiche del ricordo, 2004. Nei documenti consultati presso l’Archivio di Stato di Firenze sulle richieste dei certificati di qualifica di profugo emerge come la maggior parte degli italo-greci giunti a Firenze furono, durante la guerra, internati civili in quei campi per circa 6/7 mesi, in Archivio di Stato di Firenze (ASFI), fondo prefettura, serie certificati qualifica di profugo, Fascicoli da n. 1 a n. 80, classifica 3A/2/14.

[5] Intervista a Cosimo S., a cura di Camilla Conti, Firenze, 28 ottobre 2021.

[6] Sulla storia della Caserma di via della Scala, convertita in Centro profughi dall’agosto del 1944 al novembre del 1956, cfr. il fondo dell’Ente Comunale di Assistenza (ECA) presente all’Archivio Storico del Comune di Firenze, dove sono raccolti in perfetto stato molti materiali sull’Ente dalla sua istituzione alla sua chiusura.

[7] Come si vive al centro profughi? Centinaia di ricoverati scrivono una lettera aperta al ministro Lussu – Il testo del documento – Dichiarazioni dei dirigenti, «La Patria», 22 novembre 1945.

[8] Mario Conti, Gli italo-greci di Patrasso, cit., p. 48.

[9] Mercanti bianchi e neri in via della Scala, «La Nazione», 31 agosto 1947, p. 2.

[10] Intervista a Cosimo S., a cura di Camilla Conti, Firenze, 28 ottobre 2021.

[11] Sul contrabbando di sigarette degli italo-greci a Firenze, oltre all’analisi della stampa locale del periodo, sono interessanti le relazioni degli assistenti sociali sui minori italo-greci che svolgevano tale attività, in ASFI, Direzione dei centri per la giustizia minorile, servizio sociale per i minori, anni 1951-1955.

[12] Giulio Montelatici, Lo sgombero… dei profughi, «Il Nuovo Corriere», 3 giugno 1949, p. 2.

[13] Ibid.

 

Questo articolo è stato realizzato grazie al contributo del Consiglio regionale della Toscana nell’ambito del progetto per l’80° anniversario della Resistenza promosso e realizzato dall’Istituto storico toscano della Resistenza e dell’età contemporanea.

Articolo pubblicato nel giugno del 2024.




Giovanni Martelli: storia di un antifascista livornese

Come affermato in precedenza, Giovanni Martelli viene arrestato a Livorno l’11 giugno 1932, ha solo diciannove anni e definisce negli anni quell’evento come «un duro colpo».[1] Allo stesso modo, il 1932 rappresenta un anno difficile per la riorganizzazione della Federazione comunista livornese, in quanto molti militanti adulti e di spicco vengono arrestati.

Dapprima, Martelli viene fermato e perquisito da un poliziotto dell’OVRA, successivamente gli viene trovato un biglietto che testimonia la sua attività nell’organizzazione del Soccorso rosso.[2] Viene interrogato alla Questura Centrale dal Commissario dell’OVRA Parlagreco, il quale deduce che non solo egli militava nel PCd’I, ma che addirittura apparteneva alla Federazione insieme ad altri esponenti che erano già stati arrestati nei giorni precedenti. Martelli è costretto a riconoscere ed a identificare gli altri compagni di partito, come Leonardo Leonardi, Roberto Vivaldi e Giovanni Tardini. Martelli affermò che non conosceva nessuno, se non qualche individuo adulto dell’organizzazione comunista. Resistere però non è sempre facile e si può comprendere dalle parole usate nell’Autobiografia, in cui egli stesso racconta:

«[…] Pur insistendo a negare […], essi mi fecero uscire e dopo poco fui di nuovo chiamato e così mi trovai di fronte al Vivaldi, il quale – disgraziato – era in uno stato da fare pietà.

Mi domandarono: lo conosci?

No, risposi, non l’ho mai visto.

Essi allora si rivolsero al Vivaldi il quale mi disse: è inutile Martellino, non negare, sanno tutto, essi sanno e conoscono tutto del nostro movimento e quindi non vale la pena insistere, del resto hanno confessato tutti.

Per la verità rimasi molto colpito, non riuscivo a comprendere come esso avesse capitolato così; tuttavia, continuai a negare […]»[3]

Successivamente, viene sottoposto a una perizia calligrafica per vedere se davvero fosse stato lui l’autore del biglietto sul Soccorso rosso. Il biglietto conteneva un prestito in denaro da fare ad alcuni esponenti del Partito ed era stato realizzato da un altro militante, Iedo Tampucci. Martelli non rivelerà mai il nome dell’autore e il contenuto del biglietto.

Durante l’interrogatorio scopre che la denuncia era stata avanzata dal dirigente della Federazione, Roberto Vivaldi. Vivaldi era stato costretto a denunciare proprio perché, come si legge nell’Autobiografia, l’OVRA aveva scoperto l’organizzazione comunista. Effettivamente, molte cose erano cambiate all’interno della Federazione durante l’arresto di questi esponenti: l’organizzazione sembrava essersi sfasciata e sembrava aver smarrito le linee guida necessarie per ricostituirla. L’unica speranza era quella di riedificare il movimento con una nuova linfa, ma i militanti rimasti si rifiutavano di prendere parte a questo processo in quanto temevano l’intervento della polizia fascista.

Nel luglio 1932 Martelli viene mandato in prigione presso il carcere S. Leopoldo e denunciato al Tribunale speciale con l’imputazione prevista dall’articolo 270 del Codice Penale. Viene poi trasferito al carcere dei Domenicani e liberato nell’ottobre dello stesso anno in occasione dell’amnistia per il decennale dalla Marcia su Roma. Quell’arresto fu uno dei più grandi realizzati dall’OVRA, non solo per il numero di arrestati, ma anche perché raggiunse i compagni che stavano espatriando. Con la scarcerazione poco sarebbe cambiato nella vita di Martelli, perché sa che la condizione di vita in clandestinità e la lotta al fascismo sarebbero continuate. Lui stesso racconta:

«[…] La libertà era certo bella per tutti noi tuttavia, quasi spontaneamente, una parte di noi giovani decise di dare continuazione alla propria attività clandestina. Dico una parte perché, sia nel campo giovanile come in quello degli adulti non pochi si ritirarono a vita cosiddetta privata. Non ce ne facemmo motivo di scandalo. Pertanto ci rimettemmo a lavoro […] con una maggiore attenzione […]».[4]

Nel 1933 prende parte alla rifondazione del movimento comunista, un’iniziativa profondamente sostenuta dai giovani livornesi come Renzo Tamberi, Garibaldo Benifei, Otello Frangioni, Marte Corsi, Angiolo Giacomelli. In quel breve periodo, Martelli realizza dei volantini di propaganda e contribuisce alle attività della stampa clandestina.

A nove mesi dalla scarcerazione, il 1° agosto 1933 viene fatto salire su un’automobile in cui lo attendevano tre fascisti. Martelli è tranquillo perché sa che i materiali eversivi del PCd’I sono rimasti a casa sua e viene accompagnato nella sede rionale fascista di Barriera Garibaldi, un luogo tristemente noto per esser teatro di interrogatori e di torture che i fascisti infliggevano agli oppositori politici. Successivamente, viene bendato e portato in una stanza dove ad attenderlo c’è il tenente Gagliano. Il motivo della cattura è il seguente: Gagliano ha scoperto chi è l’autore dei volantini sovversivi, vuole sapere con chi collabora e dove sono custoditi. Il tenente gli mostra i volantini che effettivamente erano stati realizzati da lui e Tamberi, ma Martelli continua a negare tutto.

Gagliano lo invita a spogliarsi ed esamina le sue mani con una lente di ingrandimento. A quel punto, dei giannizzeri iniziano a picchiare violentemente Martelli soprattutto sulle mani, considerate il vero «corpo del reato».[5] Però, la polizia fascista non si limita a interrogare Martelli e decide di indagare su Tamberi. A seguito di diverse indagini compiute nelle settimane precedenti, la polizia fascista aveva scoperto che Martelli e Tamberi collaboravano insieme alla realizzazione dei volantini eversivi.

Quando si consultano delle autobiografie, ciò che sorprende sono sia le emozioni che possono produrre anni dopo sullo stesso lettore, che i minimi dettagli che vengono raccontati. L’Autobiografia di Martelli è un vero e proprio racconto dettagliato di tutte le vicende e le torture subite durante il Ventennio fascista, ma forse non è la minuziosità del racconto a sorprendere un qualsiasi lettore, quanto il pathos che trasmette quando narra le torture subite dagli amici e dai compagni di Partito, i giorni in carcere, la difficoltà a comunicare e a mantenersi in contatto con loro. Durante quell’interrogatorio, Martelli non vedrà mai arrivare Tamberi e crede che l’amico possa aver fatto dei nomi di altri militanti, che possa aver tradito tutti e che sia ceduto davanti alle violenze fasciste. In realtà, Tamberi non verrà interrogato nella sede rionale fascista di Barriera Garibaldi, ma direttamente a casa sua.

Martelli non sa che fare, continua a dire che non era a conoscenza di niente, ma a che scopo? Col passare delle ore e con l’aumento delle percosse subite ha anche egli paura di non farcela, di non saper resistere e di non sapere per quanto potrà mentire. La coercizione fascista era in grado di permeare la psiche di molti giovani e antifascisti che erano stati catturati. Martelli vede l’interrogatorio come una sfida in cui non vuole cedere, anche perché non ha un’altra scelta: deve resistere alla violenza per tutelare non solo l’organizzazione, ma anche i suoi compagni di Partito.

Il militante livornese seppe resistere a quelle brutalità, ma non per questo va raffigurato (e non avrebbe mai voluto definirsi) come “eroe”, piuttosto seppe assolvere le mansioni perché credeva fervidamente a un sistema valoriale basato su libertà e resilienza, così come altri compagni di Partito che cedettero alle violenze. Il raccontare determinati dettagli sulle attività o sulle organizzazioni considerate come eversive, non era sinonimo di “codardia”: non era facile resistere alle violenze e alle percosse che i fascisti infliggevano alle persone col fine di estorcere con mezzi disumani la verità.

L’interrogatorio durò sette ore e l’arrestato venne ripetutamente percosso dal maresciallo Niccoletti, verrà interrogato alla Questura di San Leopoldo e lì vi rimarrà in prigione per diverse settimane. A tre giorni dall’arresto alcuni suoi compagni della stessa organizzazione vengono arrestati e scoprirà che la denuncia era partita dal militante Sirio Vincensini. Vincensini aveva confessato da chi aveva avuto il manifesto originale, ovvero da Garibaldo Benifei che a sua volta aveva fatto il nome di altri militanti. Lo stesso Martelli racconta:

«[…] il Vincensini (un altro militante) informò il fascio che tanto io come il Tamberi quella sera eravamo a stampare, però non sapendo il luogo indusse i fascisti ad attendermi. Preso me, essi pensavano di cavarmi di bocca sia il luogo ove eravamo stati a stampare, come il nome Tamberi, questo per salvare il delatore […]».[6]

Insieme agli altri militanti livornesi, egli promise che avrebbe evitato di compromettere la posizione degli altri compagni, altrimenti il processo sarebbe andato avanti all’infinito.

Il 9 dicembre del 1933 Martelli viene condannato a due anni e cinque mesi di reclusione da scontare alla Casa di pena di Civitavecchia. Il periodo di detenzione non è così duro, a detta di Martelli stesso, perché le condizioni igienico-sanitarie in cui viveva erano buone, aveva diritto due ore di aria invece che una, e poteva prendere parte a laboratori di scrittura e di traduzione. Questa esperienza costituisce un punto di svolta nella sua formazione politica nella quale potrà sperimentare delle nuove forme di mobilitazione politica ed attività pratiche che non aveva mai testato a Livorno. All’interno della cella stipula delle relazioni con esponenti di spicco come Giovanni Parodi e Pietro Carsano, i quali gli trasmettono i principi fondamentali del comunismo e lo avviano a un vero e proprio percorso di formazione sul comunismo.[7] A Civitavecchia, Martelli studia dalla mattina alla sera ed è sottoposto a una disciplina ferrea, perché «il Partito pretendeva che i giovani fossero preparati nel migliore dei modi».[8] L’obiettivo prefissato dal PCd’I era quello di insegnare varie discipline concernenti il materialismo storico, l’economia politica, la letteratura.

Il capo della cella era Giovanni Parodi, ma vi erano comunque altre celle separate dove vi erano esponenti illustri del Partito. Tra una cella e l’altra avvenivano degli scambi di informazioni grazie alla complicità di alcune guardie carcerarie, le quali si rendevano disponibili allo scambio di «farfalle», ovvero biglietti scritti su cui venivano annotati gli argomenti di discussione da trattare nelle ore di aria.[9]

Nel settembre del 1934 viene scarcerato grazie ad un indulto concesso straordinariamente in seguito alla nascita della prima figlia di Re Maggio, il luogotenente dell’epoca della Casa di pena di Civitavecchia. Martelli sa bene che niente sarebbe stato più come prima, perché non vuole più essere il semplice ragazzo che diffonde volantini eversivi ed ha capito che per rovesciare il regime è necessario agire diversamente.

Nel febbraio del 1935 il padre muore e deve far fronte a una difficile situazione economico-finanziaria che travolge tutta la famiglia, tenta più volte di poter far rientro ma senza successo. Dapprima viene mandato al settantacinquesimo di Fanteria di Siracusa, un reggimento di disciplina composto dai criminali più disparati (ladri, stupratori, pochi antifascisti e qualche renitente alla leva) e poi viene assegnato alla scuola di Allievi Ufficiali.[10] In quel breve periodo cerca più volte di tornare a Livorno dai suoi cari, ma senza successo. Nei suoi tentativi di rientrare a casa viene ostacolato perché non aveva completato i corsi premilitari in età adolescenziale che soltanto gli avrebbero permesso di tornare nella città di residenza. Il 5 marzo dello stesso anno viene inserito nel corpo di spedizione in partenza per l’Africa Orientale, per l’Abissinia.  Secondo il figlio, Walter Martelli, la sua esperienza nella Guerra in Africa Orientale non fu completamente negativa per il padre, in quanto non prese parte a delle iniziative militari e riuscì a stabilire delle buone relazioni con gli abitanti del luogo.[11] Martelli ha raccontato ai suoi figli di aver diffuso nei villaggi dei consigli medici e delle nozioni generali per migliorare le condizioni igienico-sanitarie.

Al suo rientro a Livorno, avvenuto nel 1936, molte cose erano cambiate. Alla fine del 1936 venne assunto presso i Cantieri Orlando, un’esperienza positiva che l’autore definì come una «grande conquista».[12] Lo stabilimento racchiudeva la storia del movimento operaio antifascista livornese e, per queste ragioni, riuscì a mettersi nuovamente in contatto con i compagni antifascisti che aveva conosciuto durante la clandestinità. La rete dei rapporti tra i militanti comunisti venne prima stabilita all’interno del cantiere e poi estesa al di fuori, ed era retta proprio dallo stesso Martelli.

A livello nazionale, il PCd’I abbandonò il precedente carattere settario che negli anni precedenti aveva portato il movimento ad isolarsi rispetto alle iniziative di altri partiti antifascisti. Tra il 1934 e il 1938 venne creato un Fronte popolare, in cui erano riunite tutte le forze politiche in aperta opposizione al regime. Questa fu anche la fase in cui i due partiti operai – il Partito Socialista e il Partito Comunista – ripristinarono delle forme di dialogo e di collaborazione dopo anni di scissione, culminate con la stesura di un patto di unità di azione nel 1934.

A livello locale, la Federazione livornese si ricostituì con esponenti di spicco e di varia provenienza come militanti storici, intellettuali, teorici, professori, figure pubbliche e notorie della comunità labronica. Un lieve passo avanti che venne messo di nuovo a dura prova da un’ondata di arresti senza precedenti.[13] Grazie alla rete di relazioni che Martelli aveva edificato ai Cantieri Orlando col militante comunista Mario Galli, l’organizzazione potè stabilire delle relazioni con intellettuali del calibro di Vittorio Marchi, Antonio Maccaroni, Aldo Balducci, Giorgio Stoppa. Le riunioni del nuovo partito si tenevano presso la casa dell’intellettuale Umberto Comi ed affrontavano temi svariati, come il rapporto tra il fascismo e la guerra, la Germania nazista, l’utilizzo della cultura e degli ideali comunisti come unica soluzione davanti alla violenza.[14] Mentre, Martelli e altri esponenti di partito che avevano vissuto direttamente sulla loro pelle la condizione proletaria, si facevano portavoce di altre tematiche, come i problemi della fabbrica e dello sfruttamento dei lavoratori.

Martelli non condivideva la nuova struttura della Federazione perché «nonostante i nuovi componenti si dichiarassero comunisti erano ben lungi dall’esserlo».[15] Secondo il militante di adozione livornese, gli ideali che quest’ultimi condividevano erano ideali social-liberali e poco affini ai principi marxisti-leninisti. Inoltre, a suo giudizio, esisteva una profonda differenza tra chi studiava il marxismo dalla cattedra e chi conosceva il marxismo perché apparteneva alla classe operaia.

Nel 1939 non gli viene riconosciuto più l’esonero dalla leva, riconosciutogli nel 1935 in quanto orfano di padre e unico capofamiglia, ed è per questo motivo che lascia il suo impiego ai Cantieri Orlando. L’ingegnere Bechi, all’epoca direttore dei Cantieri Orlando, si oppone al suo trasferimento inviando una lettera alla Questura di Livorno, ma senza successo. Inizia quindi a lavorare per un’azienda che produceva bombe a mano a Fiume, nota come Motofides. Durante quel periodo lavora alla realizzazione dell’Incrociatore San Giorgio, prende parte ad azioni di insubordinazione dalla catena di montaggio e viene licenziato nel 1942, perché considerato politicamente pericoloso.

Nel 1943 viene mandato a Torino alla Caserma Marmora ma, in seguito ai bombardamenti, viene mandato a Massa Marittima, una città in provincia di Grosseto. In quel piccolo centro rafforza il proprio legame con altri militanti comunisti locali e lì vi rimane fino alla ratificazione dell’Armistizio di Cassibile. Grazie all’aiuto di un militante locale, riesce a scappare dalla città grossetana e a raggiungere la famiglia sfollata ai Bagni di Casciana, dove si trovava anche sua moglie insieme alla sua famiglia. Si unisce alle formazioni partigiane locali nate dopo l’8 settembre e fa parte del Partito del Comitato militare ed ha come compito quello di organizzare i vari nuclei di partigiani della zona prima dell’arrivo del fronte di liberazione.[16]

NOTE

[1] Martelli G., Autobiografia, cit., p. 2.

[2] Il Soccorso rosso, noto anche come “Soccorso rosso internazionale per i combattenti della rivoluzione” in sigla MOPR, è stata un’organizzazione internazionale legata all’Internazionale Comunista con il compito di fornire supporto ai prigionieri comunisti e alle loro famiglie. Il Soccorso rosso è rimasto attivo tra gli anni Trenta e la Seconda guerra mondiale e condusse campagne di solidarietà sociale, di supporto materiale e umanitario, a sostegno dei prigionieri comunisti.

[3] Martelli G., Autobiografia, cit., p. 2.

[4] Tredici M., L’inchiesta, la spia, il compromesso. Livorno 1935: processo ai comunisti. Livorno: Media Print, 2020, p. 346.

[5] Come compare sul dizionario Treccani, originariamente il giannizzero era un soldato di un corpo scelto di truppe a piedi dell’impero Ottomano, spesso adibito alla guardia del corpo del sultano. Nel periodo fascista si indicavano invece tutte quelle persone al servizio di qualche personaggio illustre della milizia fascista. Ma lo stesso termine può anche esser usato in senso dispregiativo per indicare uno scagnozzo o tirapiedi, forse questo è il significato a cui fa riferimento Martelli nella sua Autobiografia. La citazione compare in: Martelli G., Autobiografia, cit., p. 4.

[6] Martelli G., Autobiografia, cit., p. 6.

[7] Giovanni Parodi (1889-1962) nasce in una famiglia operaia e diventa ben presto militante del PCd’I, viene arrestato nel 1927 dal Tribunale Speciale Fascista e gode dell’amnistia nel 1937. Fugge in Francia nel 1940 e viene arrestato l’anno successivo. Fortunatamente riesce ad evadere e a continuare il lavoro politico clandestino, nel dopoguerra fu membro del Comitato centrale del Partito Comunista Italiano e Segretario generale della Federazione Italiana Operai Metallurgici (in sigla, FIOM).

Giovanni Carsano (1891-1965): inizialmente operaio torinese, aderisce al PCd’I e partecipa al biennio rosso. Come Parodi viene arrestato nel 1927 e rilasciato dopo dieci anni, viene mandato al confino nel 1943 dove rimane fino alla liberazione. Dopo la guerra lavora presso i sindacati dei pensionati e presso l’Unione internazionale dei sindacati dell’Alimentazione.

[8] Tredici M., L’inchiesta, la spia, il compromesso, cit., p. 349.

[9] Ibidem.

[10] Tredici M., L’inchiesta, la spia, il compromesso, cit., p. 350.

[11] Intervista dell’autrice a Walter Martelli, svoltasi il 2 aprile 2024 presso l’abitazione di quest’ultimo a Livorno.

[12] Tredici M., L’inchiesta, la spia, il compromesso, cit., p. 350.

[13] Tra gli esponenti di spicco vengono arrestati Garibaldo Benifei e Aramis Guelfi.

Aramis Guelfi (1905-1977): inizialmente maestro d’ascia, viene condannato nel 1939 dal Tribunale speciale a scontare quattro anni di reclusione. Viene liberato anch’egli con l’Armistizio dell’8 settembre, ma continua a combattere nella zona di Volterra. Diventa esponente di spicco del Partito Comunista livornese, per poi aderire nel 1963 al Partito Socialista Democratico.

[14] Umberto Comi era vicedirettore del giornale fascista “Sentinella Fascista” e spesso scriveva articoli non proprio conformi all’ideologia fascista, ma erano spesso difficili da decifrare nei loro contenuti e, proprio per la sua adesione al Partito, si crearono delle divisioni all’interno del movimento.

[15] Martelli G., Autobiografia, cit., p. 9.

[16] L’area sottoposta al controllo di Giovanni Martelli è relativamente grande e comprendeva molte piccole città della provincia di Pisa, come: Lari, Cascina, Crespina, Terricciola, Chianni, Peccioli.

Articolo pubblicato nel maggio 2024.




Giovanni Martelli: storia di un antifascista livornese

Introduzione
Giovanni Martelli è stato un antifascista, militante comunista e sindacalista livornese. Ha dedicato la sua vita ai lavoratori e agli ideali di libertà, in cui credeva fervidamente. È stato vittima delle violenze fasciste, di incomprensioni da parte dei suoi stessi compagni di Partito e dei dirigenti dei sindacati, di un sistema politico che cambiava costantemente e in cui si identificava sempre meno.
Questo articolo vuole ripercorrere una parte della vita di Martelli, dalla sua precoce militanza nel Partito Comunista d’Italia fino alla detenzione nelle carceri [1]. Verranno esaminate anche tutte quelle persone che hanno assistito Martelli nel proprio percorso politico, come alcuni antifascisti e militanti livornesi, partigiani attivi nella Resistenza all’occupazione nazifascista, politici e sindacalisti della Prima Repubblica. Tale ricerca non può esser scissa da un’analisi complessiva sul contesto nazionale che ha fatto da sfondo alla sua vita, un contesto segnato dal fascismo prima e dalle tematiche del secondo dopoguerra.
Il progetto è nato sulla base della consultazione dell’Autobiografia e delle note autobiografiche redatte da Giovanni Martelli stesso, e successivamente è stato esteso grazie a degli approfondimenti attuati su altri documenti conservati dal militante. Fino ad oggi la biografia e le esperienze di vita di Martelli sono state poco note alla comunità livornese odierna ma, grazie ad un lavoro di ricerca attuata personalmente presso l’Istituto Storico della Resistenza e delle Società Contemporanee della provincia di Livorno (in sigla, ISTORECO), adesso sarà possibile ricostruirle passo dopo passo. Martelli non era di origini livornesi, eppure il suo impegno politico è sempre stato rivolto alla città labronica fin da quando aveva diciassette anni, fin dal 1930.
L’articolo illustra non solo la sua figura, il suo impegno politico e sociale, ma anche i valori che ha condiviso e che lo hanno contraddistinto in tutti i suoi anni di militanza. Perché al di là della figura, c’è stato un uomo che ha creduto negli ideali di libertà, solidarietà, verità, lavoro. Martelli è stato proprio questo: un militante che ha corso dei rischi per i valori in cui credeva, ed è proprio partendo da questi valori che sarà possibile definire con maggior chiarezza la sua figura.
Per la realizzazione dell’elaborato sono stati consultati i documenti redatti e conservati da Martelli stesso, come ad esempio: le note autobiografiche, la propria biografia, lettere e opuscoli, articoli di giornali, comunicati. Le fonti sono state dapprima analizzate analiticamente, approfondendo i contenuti e gli eventi riportati, e successivamente sono state esaminate complessivamente col fine di tracciare un filo rosso che le ponesse in correlazione. Le persone non decidono casualmente di conservare determinati documenti, il tutto dipende dal grado di importanza che per essi rivestono; oppure, ogni individuo conserva un determinato oggetto perché lo rappresenta intrinsecamente. I documenti accumulati da un essere umano non sono mai agenti neutrali della storiografia, ma vanno osservati con attenzione e cautela.
Per esaminare questa storia particolare ed affascinante, l’elaborato è stato suddiviso in tre brevi paragrafi (pubblicati in tre articoli distinti).
Il primo paragrafo (pubblicato qui di seguito) illustra i primi anni di militanza di Giovanni Martelli nel Partito Comunista d’Italia durante il regime fascista e il suo incontro precoce con la classe operaia. Come afferma nella sua autobiografia, Martelli incontra la politica in età giovanile e quasi per caso, senza rendersi conto di cosa significasse aderire a un partito costretto alla clandestinità durante un regime totalitario. Si accorge delle responsabilità che ricopre solo quando vivrà sulla propria pelle la perquisizione e l’arresto.
Il secondo evidenzia i suoi due periodi di detenzione nelle carceri fasciste e le difficili condizioni psico-fisiche in cui ha vissuto. Nonostante gli arresti, Martelli apporterà un contributo significativo alla causa dell’antifascismo livornese e della Resistenza.
Il terzo ripercorre l’ultimo periodo di detenzione avvenuto prima presso il carcere di Don Bosco a Pisa e poi presso il carcere di Sant’Eufemia a Modena. L’ultimo arresto segnerà in maniera indelebile la vita del giovane antifascista di adozione livornese, soprattutto perché temeva di non poter più far ritorno a casa.

La presa di consapevolezza (novembre 1913-giugno 1932).
Giovanni Martelli nasce il 17 novembre 1913 a Castelfiorentino in una famiglia di umili origini: suo padre è operaio presso la Metallurgica Italiana e sua madre è casalinga. Per questioni lavorative il padre si trasferisce col resto della famiglia a Livorno, quando Martelli era molto piccolo. Lo stesso padre era nato e domiciliato a Livorno.
Vista la difficile situazione economica in cui viveva la famiglia, Martelli è costretto a lavorare non appena ha terminato le scuole elementari. Il suo primo impiego è presso l’ufficio telegrafico, dove vende a domicilio i telegrammi in arrivo, e a quindici anni lavora alla Cristalleria Torretta. Conosce il mondo del lavoro molto presto, quando è poco più che un bambino. Il contatto precoce con questa realtà lo segna così tanto nel profondo che le battaglie proletarie rimarranno al centro dei suoi interessi e delle sue discussioni.
Fino ai diciotto anni svolge più impieghi: diventa manovale edile, costruisce i blocchi di Shangai, svolge degli incarichi presso l’impresa Feltrinelli[2]. Successivamente, inizia a lavorare presso la ditta francese Mathon in uno stabilimento di materiali refrattari[3]. L’autore descrive la difficile condizione lavorativa in cui viveva, il difficile rapporto col sistema di produzione industriale fordista e la scarsa remunerazione che riceveva. Martelli racconta quella realtà con le seguenti parole:

«[…] Lavorai in quella fabbrica per circa due anni e fu in essa che conobbi veramente la durezza del lavoro e delle condizioni imposte all’operaio. In questo stabilimento, costruito secondo i moderni criteri dell’epoca, nonostante il paternalismo di quella direzione, le condizioni del lavoratore erano subordinate alla “salute” dei materiali […]. La condizione [in] cui si trovava l’operaio addetto alla macinazione del materiale refrattario, immerso per ore e ore permanentemente [nel] nuvolo di polvere e così via. Una forte percentuale di quegli operai, che per anni avevano dovuto lavorare a quelle condizioni, veniva colpita da malattie tubercolari o da gravi forme di silicosi […]»[4].

Quelle difficili condizioni lavorative gli fecero capire l’importanza della formazione, dell’istruzione e della scuola, di quei percorsi che aveva dovuto abbandonare a causa della povertà. Martelli comunque tra i diciotto e i ventuno anni riesce a frequentare delle scuole serali di avviamento professionale, dove si specializza in motori e in aviazione.
Sempre all’età di diciotto anni, Martelli si avvicina alla politica e al PCd’I quasi per caso. Nella sua Autobiografia racconta che non si è mai spiegato il perché a quell’età nutrisse una «profonda avversione verso il sistema fascista» e una «certa simpatia per il Partito comunista»[5]. In realtà, esisteva una motivazione di fondo che spiegava i suoi sentimenti contrastanti: come altri giovani cresciuti durante il Ventennio, era costretto a frequentare dei corsi premilitari che detestava nel profondo.
L’attività politica di Martelli si inserisce proprio in un periodo storico molto complesso. Nel 1931 si iscrive alle organizzazioni giovanili della Federazione comunista livornese a Iedo Tampucci e Leonardo Leonardi ma, a causa della sua giovane età, inizialmente non ricopre dei ruoli di rilievo politico all’interno della federazione e svolge altre attività, come: azioni di propaganda, organizzazione delle cellule, distribuzione e lanci dei manifesti di propaganda, preparazione dei materiali da discutere nelle riunioni. Aderire a un movimento considerato come eversivo in un regime autoritario, significava prender parte consapevolmente alla vita clandestina.
Un anno dopo entra a far parte del Comitato federale dei giovani e conosce molti giovani comunisti livornesi, tra cui Otello Frangioni e Garibaldo Benifei[6]. È necessario precisare che questi giovani non solo svolgeranno dei ruoli di rilevanza all’interno della lotta al regime nazifascista, ma continueranno anche a ricoprire degli incarichi di spicco all’interno del Partito dopo la guerra. Inizialmente prendono parte a riunioni su argomenti concernenti i presagi di una guerra imminente e la possibile partecipazione del fascismo ad essa, e successivamente svolgono il ruolo di trasmissione all’interno dell’organizzazione delle inaudite difficoltà che stava vivendo il Partito a livello nazionale. Inoltre, svolgeranno azioni di proselitismo clandestine nelle fabbriche e nelle giornate di festività dei lavoratori, come il primo maggio abolita dal regime e realizzeranno dei volantini inneggianti lavoro, pace e libertà.
Il 1932 è un anno che segnerà in maniera irreversibile la vita di Martelli in quanto viene arrestato l’11 giugno dall’OVRA, la polizia politica e segreta del regime che aveva il compito di reprimere l’antifascismo. Fino al 1944, Martelli verrà arrestato complessivamente tre volte e verrà denunciato al Tribunale speciale, come compare anche nella scheda biografica del Casellario Politico Centrale[7].
Le torture subite, gli arresti, le condanne e i trasferimenti, cambieranno le scelte di vita di Martelli che da militante per caso, divenne sinceramente convinto delle proprie scelte e continuerà ad opporsi al regime con un coraggio senza precedenti. È proprio con queste esperienze difficili che Martelli acquisirà una maggior consapevolezza e coscienza su cosa vuol dire esser militanti in un partito di opposizione durante un regime totalitario.

Note

  1. D’ora in avanti il Partito Comunista d’Italia verrà indicato con la sigla PCd’I.
  2. Presso l’impresa Feltrinelli, Martelli lavora allo scarico e carico del legname. Per un’impostazione generale sul tema, vedi: Martelli G., Nota autobiografica, Livorno, gennaio 1985, p. 1.
  3. Lo stabilimento qui menzionato è la “Società toscana per lo sfruttamento di cave e miniere C. Mathon”, attiva in tutto il territorio toscano e collocata a Livorno all’epoca in Piazza San Marco. Per un approfondimento sul tema, vedi: Camera di commercio della Maremma e del Tirreno, Fascicolo delle Società cessate, b. 838.
  4. Martelli G., Nota autobiografica, cit., p. 3.
  5. Martelli G., Autobiografia, Direzione del Partito Comunista Italiano (Sezione Quadri), 20 marzo 1945, p. 1.
  6. Otello Frangioni (1913-1952): è coetaneo di Martelli, con cui stringe un solido rapporto di amicizia. Anche lui si iscrive al Partito Comunista quando è giovanissimo e nutre un interesse profondo per le questioni proletarie. Sposerà una delle sorelle di Martelli e diventerà suo cognato. Muore in un incidente stradale a Scandicci insieme a altri militanti livornesi, come Leonardo Leonardi e Ilio Barontini.
    Garibaldo Benifei (1912-2015): Nasce in una famiglia antifascista, composta dal fratello anarchico Rito e dal fratello socialista Antonio. Nel 1933 viene arrestato con Martelli e condannato a un anno di reclusione presso il Palazzo dei Domenicani a Livorno, dove conobbe Sandro Pertini. Dopo l’arresto nel 1939 viene condannato a sette anni di carcere, ma viene liberato con l’Armistizio dell’8 settembre 1943. Tornato a Livorno aderisce al CLN e prende parte attivamente alla guerra di liberazione. Nel dopoguerra ha continuato a lavorare come operaio ed è stato esponente di spicco del Partito Comunista livornese.
  7. Casellario Politico Centrale, Giovanni Martelli, b. 3092, < http://dati.acs.beniculturali.it/CPC/ >, data di consultazione: 18 marzo 2024.

Articolo pubblicato nell’aprile 2024.




Il lavoro femminile a Campo Tizzoro

La Società Metallurgica Italiana – Smi – nacque il 14 aprile 1886 a Roma. Già a partire dall’anno seguente iniziarono ad aprire i primi stabilimenti in Toscana e di particolare rilevanza furono quelli della Montagna Pistoiese: Limestre, Mammiano e Campo Tizzoro. La costruzione di quest’ultimo iniziò nel 1910 e divenne operativo a partire dall’anno seguente. Campo Tizzoro, trovandosi in un fondovalle isolato e stretto tra ripidi monti, veniva considerato un posto protetto da possibili attacchi, era inoltre una zona in cui era presente abbondante «manodopera a basso costo, di provenienza rurale e perciò non ancora politicizzata o sindacalizzata».

L’arrivo della Smi sull’Appenino toscano produsse numerosi cambiamenti a livello sia sociale che culturale: migliaia di persone vennero inserite nel lavoro salariato in zone rurali e montane, inoltre, nel 1915, la Smi contribuì alla costruzione della Ferrovia Alto Pistoiese e anche al finanziamento della rete telefoninca sulla montagna. Ciò che caratterizzava gli stabilimenti della Smi nella zona della Montagna era «l’autoritario disciplinamento delle maestranze, la volontà di consolidare nei lavoratori un sentimento di appartenenza all’azienda e di acquietare insubordinazioni», cose che vennero conseguite sia all’interno che all’esterno della fabbrica. Se da una parte la Smi era dunque centro propulsore del miglioramento delle condizioni di vita degli abitanti e oprattutto degli operai della zona, dall’altra imponeva una presenza quasi autoritaria. A tal proposito, la Società realizzò numerose infrastrutture sociali che avevano lo scopo di pianificare la vita dei dipendenti e della comunità a vari livelli: culturale, ricreativo, sportivo, didattico. A Campo Tizzoro – zona deserta prima dell’avvento dello stabilimento industriale – venne per esempio creato quello che fu battezzato “Villaggio Orlando”, che racchiudeva istituti scolastici, impianti sportivi, ma anche un museo, una biblioteca, una chiesa, oltre a numerosi alloggi per le famiglie. Venivano organizzati corsi serali di scuola elementare per gli operai e le operaie analfabeti, oltre al cinematografo e alla filodrammatica.

Durante la Prima guerra mondiale, la Smi fu la principale fornitrice delle munizioni per l’esercito e la marina, in quel periodo venne inoltre avviata la costruzione del nuovo impianto di Fornaci di Barga, che cominciò a produrre nel giugno 1916. In occasione dei periodi bellici, la Società metallurgica era stata dichiarata «industria ausiliaria», per questa ragione usufruì non solo di agevolazioni nell’approvigionamento di materie prime e di privilegi relativi alla manodopera, ma anche dell’esonero delle maestranze maschili dal servizio militare, cosa che ebbe sicuramente delle conseguenze nella vita delle comunità locali.

Negli anni Venti, la produzione della Smi non fu costante: nel 1926, in seguito a un momento di crisi, recuperò, per poi retrocedere nuovamente con la crisi del ’29, tanto che a Campo Tizzoro le maestranze erano circa 700 nel 1927, mentre nel 1930 passarono a essere solo 126.

Per quel che riguarda il rapporto della fabbrica di Campo Tizzoro con il fascismo, soprattutto nel periodo dalla guerra di Spagna, emerse l’avversione verso il regime, tanto che nel 1943 cominciarono i rallentamenti per sabotare la produzione di munizioni e in seguito la S.A.P. – Squadra di Azione Patriottica – utilizzò le gallerie sotterranee della fabbrica per trafugare viveri, armi e munizioni destinate ai partigiani. Anche a Fornaci si registrano posizioni antifasciste tra gli operai.

Seguì, nel secondo dopoguerra, un momento di crisi e una diminuzione della manodopera, che portò a numerose mobilitazioni e proteste nel pistoiese in opposizione ai licenziamenti. Complice sicuramente anche il clima che si respirava a livello nazionale e internazionale in quegli anni, ci fu un inaspriamento del rapporto tra lavoratori e direzione aziendale, oltre a forti discriminazioni in base all’appartenenza politica: per esempio a Campo Tizzoro i comunisti furono i primi a essere licenziati.

Nel 1976, la Metallurgia Italiana si dotò di una nuova organizzazione finanziaria e le imprese produttive vennero concentrate nel gruppo La Metalli Industriale S.p.A (Lmi), così che la Smi diventò holding di un gruppo industriale metallurgico internazionale.

Una particolarità dell’industria metalmeccanica della zona della Montagna Pistoiese fu la forte presenza femminile, soprattutto a partire dal periodo del primo conflitto mondiale: nel 1918 le donne a Campo Tizzoro rappresentavano il 44,7% della manodopera, ma già da prima della Grande Guerra vi era comunque una partecipazione femminile considerevole all’interno dell’industria. Nonostante il brusco calo dell’occupazione delle donne nel secondo dopoguerra, il ruolo avuto dalle operaie precedentemente aveva permesso loro di creare un rapporto molto stretto con la fabbrica, di conseguenza iniziarono a ottenere ruoli sempre più importanti e maggiori responsabilità all’interno degli stabilimenti.

Fu proprio a Campo Tizzoro che Gabriella Venturi – sindacalista attiva tra fine anni ’60 e inizi 2000 – mosse i primi passi all’interno della fabbrica. Le vicende che hanno caratterizzato la sua vita sono ricostruibili attraverso i pochi documenti di archivio conservati, ma anche grazie alle parole di chi l’ha conosciuta personalmente: amici, compagni e parenti.

Gabriella nacque il 29 dicembre 1942 a Pistoia e visse tutta la vita a Pracchia, in via Fontana, dove, non essendosi mai sposata, abitò con i genitori. Non si ha una data precisa del suo ingresso alla Smi di Campo Tizzoro come operaia, probabilmente ciò avvenne attorno ai diciotto anni. Per quel che riguarda l’istruzione, sappiamo che Gabriella portò a termine il perscorso della scuola media, ma non frequentò mai le superiori, e, presubilmente, prima di iniziare il suo percorso nell’industria metallurgica, svolse qualche lavoro saltuario.

Proveniente da una famiglia profondamente credente, inizialmente s’iscrisse alla Cisl, in quanto sindacato più vicino al mondo cattolico e quindi alla sensibilità con la quale era cresciuta. In seguito avvenne il passaggio dalla Cisl alla Cgil, nei primi anni Settanta, un passaggio che, nelle loro interviste, Renzo Innocenti e Simonetta Bartoletti descrivono come qualcosa che avvenne in maniera naturale e repentina[1]. La nipote Simonetta sottolinea il fatto che la svolta, quindi il passaggio dal sindacato cattolico alla Cgil, all’interno della famiglia di Gabriella aveva avuto un certo peso, quasi come se la donna avesse tradito alcuni ruoli e alcuni valori con i quali era cresciuta. Simonetta racconta che il padre di Gabriella si ritrovò presto a dover fare i conti con la realtà e ad adeguarsi a essa: i tempi erano cambiati e le cose «stavano andando avanti più vivacemente rispetto a quello che lui aveva vissuto». La trasformazione di Gabriella fu radicale: non solo entrò nella Cgil, ma si iscrisse al Partito comunista italiano nel 1974. Oltre a essere iscritta al Pci, la nipote Simonetta riporta che Gabriella, nel 1984, era iscritta anche all’Anpi. Purtroppo non ci sono elementi che permettono di attestare se fosse iscritta anche precedentemente.

Venne licenziata, per motivi non del tutto chiari, dalla Smi di Campo Tizzoro probabilmente nel 1983 o nel 1984, infatti le ultime attestazioni della sua presenza nella fabbrica trovate in archivio risalgono al 27 gennaio 1983, quando venne eletta, come anche precedentemente, nel reparto Nastro[2]. Nei primi anni Ottanta, all’interno della Lmi vennero eliminati migliaia di posti di lavoro, tanto che si passò dai circa 7’000 occupati nel 1980 ai 3’000 nel 1985. Dopodichè la ritroviamo assunta in Cgil il 2 gennaio 1985 e Simonetta Bartoletti afferma che Gabriella è stata la prima donna in Segreteria Confederale, cosa che, purtroppo, non si può confermare attraverso i documenti consultati.

Renzo Innocenti – segretario provinciale quando Gabriella faceva parte della segreteria Fiom – nella sua intervista racconta che il suo primo incontro con Venturi avvenne nel periodo dell’autunno caldo, in occasione di un’occupazione – probabilmente la prima – dell’Istituto tecnico industriale di Pistoia frequentato dallo stesso Renzo. Gabriella, già dipendente della Smi di Campo Tizzoro, arrivò alla scuola con una delegazione. Si tratta di un evento che conferma il fatto che anche a Pistoia il movimento degli studenti aprì un fronte di confronto e unità con gli operai. Innocenti afferma che, fin dall’inizio, Gabriella gli diede l’impressione di essere una combattente, una persona molto concreta, pragmatica, tenace e una donna che emergeva in un mondo di uomini. Del suo animo guerriero si hanno delle attestazioni grazie ai documenti di archivio. A tal proposito, colpisce un evento in particolare: durante le assemblee di fabbrica del 20 ottobre 1971, viene indetto, attraverso il volantino «No! Ai 400 licenziamenti», uno sciopero per il giorno seguente. In quell’occasione, insieme ad alcuni compagni, Gabriella venne accusata di aver organizzato una manifestazione non autorizzata, di aver ostacolato la libera circolazione e di avere usato violenza contro alcune guardie giurate. Per queste ragioni, venne citata a comparire il 21 novembre 1973.

Gabriella aveva inoltre un’attenzione e un legame profondo nei confronti della Montagna Pistoiese, sentiva la necessità di scommettere su un suo ruolo più forte e visibile, in modo tale da contribuire a contrastare la perdita del ruolo industriale e manifatturiero dovuto al ridimensionamento della presenza della Smi, ma voleva anche impedire la chiusura di aziende occupate in altri settori nella zona della Montagna. Nonostante Renzo Innocenti non ricordi che Gabriella abbia mai seguito le lavoratrici a domicilio, in un documento risalente al 21 maggio 1985 e a lei destinato, emerge che la donna era stata nominata come componente della Commissione Comunale per il lavoro a domicilio «per il comune di San Marcello Pistoiese in rappresentanza dei lavoratori».

Il rapporto di Venturi con il movimento femminista è interessante, dal momento che, a partire dal secondo dopoguerra, in Italia ci fu un radicale mutamento all’interno dei sindacati, sia della partecipazione femminile, sia dell’organizzazione delle strutture delle donne. La maggior parte della nuova generazione delle sindacaliste aveva preso parte alle vicende che avevano caratterizzato il loro tempo: avevano beneficiato della scolarizzazione di massa e in molte avevano preso parte al movimento del 1968. Si erano inoltre distanziate e avevano iniziato a guardare con scetticismo alcune posizioni delle loro precorritrici. Dall’intervista di Renzo Innocenti emerge però il fatto che Venturi non sembrerebbe aver mai avuto stretti rapporti con il femminismo, anzi, in diverse occasioni pare abbia criticato alcune posizioni radicali del movimento. Simonetta Bartoletti ricorda che Gabriella era spesso in giro, in diverse occasioni si recava anche all’estero, e più che cercare di trovare un proprio spazio in quanto donna all’interno del sindacato, con i suoi tempi e le sue differenze, sembrava piuttosto voler adeguarsi a uno stile di vita che solitamente caratterizzava la sfera maschile. Era sicuramente molto legata alla famiglia, ma allo stesso tempo era sempre sui fronti, passava poco tempo in casa. Non erano molte le donne disposte a dedicare tutto il loro tempo a un impegno così totalizzante e questo fu sicuramente un elemento che colpiva tutti coloro con i quali si trovava a confrontarsi Gabriella. Nonostante questa presa di distanza dal movimento femminista, Gabriella era comunque consapevole delle difficoltà, delle differenze e delle disparità di genere all’interno del movimento sindacale per i ruoli di responsabilità e di direzione.

Andata in pensione nei primissimi anni 2000, Gabriella si spense nel 2002, ma il suo ricordo è sopravvisuto a lei. Una prova dell’affetto e dell’importanza che ha avuto la donna all’interno del sindacato si ha in occasione della tredicesima edizione di CGIL INCONTRI del 2009, che si svolse tra il 23 giugno e il 5 luglio. L’incontro del 2 luglio con i ragazzi del campo di lavoro Liberarci dalle Spine s’intitolava «….dedicato alla Lella (Gabriella Venturi) “Racconti di lotte al femminile”», coordinato da Maria Cangioli e con la partecipazione di Anna Goretti.

Martina Lopa studia storia all’Università di Firenze, dove sta lavorando a una testi di laurea sulle prime organizzazioni femminili e l’animalismo nell’800, e collabora con la Fondazione Valore Lavoro, per la quale sta curando una mostra sul 70° anniversario della prima Conferenza nazionale della donna lavoratrice svoltasi a Firenze il 23-24 gennaio 1954.