“Guerra totale, collaborazionismi, resistenze”: da marzo il corso di formazione per docenti promosso da ISREC Lucca

L’Istituto Nazionale “Ferruccio Parri” e l’Istituto Storico della Resistenza e dell’Età Contemporanea in provincia di Lucca, in collaborazione con Domus Mazziniana, organizzano due corsi di aggiornamento a Lucca e Pisa, rivolti ai docenti di storia ma aperti anche ad uditori esterni: ogni corso prevede quattro incontri della durata di tre ore ciascuno (dalle 15.00 alle 18.00); la partecipazione ai corsi da parte dei docenti sarà riconosciuta con attestato valido ai fini della formazione in servizio. Obiettivo del corso è quello di fornire spunti di riflessione utili all’elaborazione di percorsi didattici relativi alla storia della Seconda guerra mondiale.

Per iscriversi: l’iscrizione è libera e gratuita, da effettuarsi inviando un’email all’indirizzo isreclucca@gmail.com entro e non oltre martedì 12 marzo 2019.

Per maggiori informazioni: tel. 0583 55540 – web www.isreclucca.it




L’impegno dell’Isrec Lucca per la conoscenza della storia del “confine orientale” italiano

Nell’ambito della Giornata del Ricordo, istituito con la Legge 92 del 30 marzo 2004, il cui testo recita:  «La Repubblica riconosce il 10 febbraio quale “Giorno del ricordo” al fine di conservare e rinnovare la memoria della tragedia degli Italiani e di tutte le vittime delle foibe, dell’esodo dalle loro terre degli Istriani, Fiumani e Dalmati nel secondo dopoguerra e della più complessa vicenda del confine orientale» si sono svolte in provincia di Lucca una serie di manifestazioni che vedono la presenza di relatori dell’ISREC. Nel capoluogo l’ 8 febbraio si è tenuta una manifestazione organizzata da Prefettura con l’intervento di Andrea Ventura Direttore dell’ISREC; il 9, presso il Real Collegio, Gianluca Fulvetti, docente di Storia Contemporanea all’Università di Pisa, ha tenuto l’orazione ufficiale e, in contemporanea, Stefano Bucciarelli, Presidente dell’ISREC e Armando Sestani, Vicepresidente, sono intervenuti  a Massarosa, nella Sala del Consiglio Comunale. Proprio il 10 Febbraio Sestani ha tenuto una conferenza a Seravezza, in occasione dell’intitolazione del nuovo parco pubblico “alle vittime delle Foibe e agli esuli istriani, fiumani e dalmati nella frazione di Querceta. Le commemorazioni si chiuderanno l’11 a Viareggio, nella Sala del Consiglio Comunale, con Fulvetti e Sestani e Forte dei Marmi, a villa Bertelli con Bucciarelli.

Il fil rouge di tutti gli incontri è stato quello di contestualizzare le foibe, drammatica vicenda per la popolazione italiana di Trieste e dell’Istria e oggetto di speculazioni politiche, nel più ampio contesto della storia del confine orientale. Se i confini fra gli stati sono sempre e ovunque luogo di elezione di guerre, destinati spesso a mantenere, anche dopo paci durevoli, frontiere culturali e mentali, quella con il mondo slavo balcanico è stata la più tormentata tra quelle italiane.  Fondamentale è il tema della narrazione odierna degli eventi occorsi su quel “laboratorio di storia del Novecento” che è stato il confine orientale Dal punto di vista storiografico conosciamo le dinamiche che portarono alle due stagioni delle foibe, resta invece un problema politico, prima di silenzio durante i primi decenni del secondo dopoguerra, poi di strumentalizzazione di queste vittime per alimentare l’odio e la ricerca a tutti costi di un capro espiatorio. Gli eccidi delle foibe hanno dovuto attendere a lungo per ottenere il riconoscimento del diritto alla commemorazione. In conseguenza del lungo oblio durante la guerra fredda, luoghi come Basovizza restano terreno di scontro politico e di contrapposizione nazionale. Oscurando la tragedia vissuta da migliaia di persone, i dibattiti pubblici con frequenza si concentrano sul numero, spesso strumentalmente accresciuto, delle vittime e sulla loro appartenenza politica.

Purtroppo nel nostro Paese la memoria è sempre parziale, soprattutto quella del periodo fascista. Infatti, parlando delle foibe, non si possono tacere i reati, le stragi, le offese contro la dignità umana da parte degli occupanti Italiani nella ex Jugoslavia (che non giustificano ma in parte spiegano i successivi infoibamenti). Quasi nessuno racconta che quella ingiustificabile carneficina operata dai titini era stata preceduta dai massacri compiuti dagli italiani agli ordini di Mussolini e alla creazione di una serie di campi di internamento per civili  jugoslavi come Gonars, Renicci, Monigo, Arbe, in cui il tasso di mortalità era del 15% come a Buchenvald.

E a tale proposito Sestani ha proiettato qualche spezzone del documentario The fascist Legacy, documentario realizzato dalla BBC nel 1989 e ancora censurato in Italia: i diritti dell’opera sono stati acquistati dalla RAI in modo tale che il documentario non fosse mai mandato in onda. Solo La7 ne ha trasmesso degli ampi stralci nel 2004.

Sempre Sestani ha trattato il tema dei profughi istriani, giuliani, fiumani e dalmati. Infatti egli, figlio di un esule da Pola a Taranto, è autore di Esuli a Lucca. I profughi istriani, fiumani e dalmati 1947-1956, pubblicato da Pacini Fazzi nel 2015. Attraverso lo studio del materiale d’archivio e delle tracce lasciate sulle testate giornalistiche dell’epoca, Sestani colma le lacune anche riannodando i fili della memoria personale e locale con quelli della grande storia.  Una ricerca documentata di numeri e date, ma anche un racconto evocativo di esistenze segnate e di incontri, che restituisce alla stessa comunità lucchese una parte della sua storia recente più profonda. Un altro passo verso il superamento di quella sorta di “amnestia” che ha accomunato per decenni un po’ tutto il paese nella dimenticanza e nella mancanza di attenzione ed empatia verso la storia e il dramma degli italiani esuli dall’Istria e dalla Dalmazia e anche un monito per l’oggi, rispetto ai migranti, agli esodi vecchi e nuovi con i quali la nostra comunità, che lo voglia o no, è costretta a misurarsi e mostrare al meglio le proprie qualità di solidarietà e inclusione sociale.




A Verciano (LU) incontro con Dante Unti e Davide Mattei, internati militari

Alle 18  di domenica 3 febbraio alla Casa del Popolo di Verciano (Lucca), si è tenuto la conferenza dal titolo Dialogando con la memoria. Incontro con Dante Unti e Davide Mattei, organizzata dalla società di Mutuo Soccorso Giuseppe Garibaldi, presieduta da Armando Sestani, vicepresidente dell’ISREC di Lucca.

I due vegliardi che narrano la loro storia hanno rispettivamente 99 e 97 anni e, come IMI, cioè internati militari italiani, sono stati imprigionati in campi di lavoro nazisti in Russia e in Germania.

Entrambi vengono dalla campagna lucchese e sono partiti militari nel ’39. L’8 settembre 1943 hanno scelto di non arruolarsi nella RSI. I soldati italiani in Jugoslavia che hanno fatto questa coraggiosa scelta furono circa 30.000. Ciò mostra che l’antifascismo ha avuto tante facce e tante funzioni.

Come avete saputo della fine della guerra?

Dante: “eravamo su una spiaggia a Dubrovnik e da una radio (clandestina) ho sentito: “attenzione, attenzione. La guerra è finita!”. La notte avvenne la scelta: andare in Germania come prigioniero o lottare? La seconda scelta prevalse, ma noi eravamo sbandati “pecore senza pastori”. Sconfitti, dopo tre giorni di viaggio, senza acqua, cibo, possibilità di fare i bisogni, su un treno a scartamento ridotto, mi ritrovo in un campo di concentramento sul Baltico, a Stablack, presso Könisberg.

Davide: “dopo due giorni di scontri, mi avevano portato con i camion in un lungo viaggio senza cibo, in un campo di internamento e qui mi viene chiesto se volevo tornare in Italia e combattere per la Repubblica di Salò o andare come prigioniero in Germania. La prima scelta avrebbe rappresentato combattere contro me stesso, quindi ho detto NO. Allora mi hanno attaccato ai vestiti un triangolo rosso e caricato su un treno”.

Come sono stati i primi giorni nel campo?

Dante: “dopo tre giorni e la disinfestazione, mi dettero finalmente del cibo. Io ero sarto, quindi considerato utile per il lavoro. Si viveva in baracche e subivamo botte ogni volta che i nostri aguzzini si dovevano sfogare. Il cibo lo rubavamo, spesso bucce di patate dai bidoni della spazzatura, o ghiande dei boschi”.

Davide: “Io non so in quale campo fossi. Lavoravo in una fabbrica in cui si ricavava zucchero dalle barbabietole. Successivamente venni messo a costruire bombe -e l’ho fatto fino alla fine della guerra- e in esse mettevo tutto tranne la polvere da sparo! Alla notizia dell’avanzata degli americani, con altri mi sono dato alla fuga”.

Dante: “le condizioni della mia prigionia peggiorarono: mi portarono a scaricare sabbia, mattoni,  cemento dai vagoni e metterli in magazzino. Se ti cadeva il ballino di cemento in terra, tu non c’eri più”.

Come siete stati accolti al ritorno in patria?

Dante: “Una vergogna! C’era chi ti diceva: siete stati in villeggiatura! Chi diceva: ma sta’ zitto!

Ciò che colpisce della loro narrazione è la semplicità con cui questi signori raccontano fatti di drammaticità estrema, “cose che urtano il sangue che non si possono raccontare”.

Dalle vicende di Dante è stato tratto un libro: Dante Unti, Virginio Giovanni Bertini, Il sarto di Rughi. Ricordi e appunti di vita di un internato in un campo di prigionia tedesco, Carmignani Editrice, Pisa, ottobre 2017 e ora è in preparazione anche un film.

 




“Nel nome di Rosa”: una conferenza per ricordare Rosa Luxemburg a 100 anni dalla morte

Sabato 19 gennaio alle ore 17:30 presso la sala della Casa del Popolo di Lucca, la Società di Mutuo Soccorso Giuseppe Garibaldi ha organizzato la conferenza dal titolo “Nel nome di Rosa” , per ricordare la “compagna” Rosa Luxemburg a 100 anni dalla morte, o meglio, dell’assassinio per mano dei Freikorps, avvenuto il 15 Gennaio 1919 a Berlino, a seguito dalla fallita rivoluzione di quell’anno, alla quale aveva preso parte come fondatrice, insieme a Karl Liebknecht, della Lega di Spartaco.

Relatore è Massimo Cappitti, insegnante e saggista, curatore, tra l’altro, del volume “La rivoluzione russa” di Rosa Luxemburg (uscito postumo), edito dalla BFS, edizioni di Pisa, nel 2016. Coordina il presidente della Giuseppe Garibaldi, Armando Sestani.

Il tema centrale è il rapporto fra democrazia e rivoluzione e la Luxemburg, il cui vero obiettivo polemico è l’SPD, con grande lucidità, individua quale sarà il pervertimento della rivoluzione. Già nel 1905 ella aveva denunciato l’ultra centralismo bolscevico, che vedeva in continuità con lo spirito giacobino e, nel saggio succitato, denuncia il pericolo della burocratizzazione del partito, la cui avanguardia chiama le masse solo a ratificare decisioni già prese, rendendole così solo “masse di manovra”, che vengono portate ai congressi ad applaudire. Così viene meno la creatività delle masse, che invece sono il vero motore della rivoluzione. Non è il partito che deve guidare le masse, ma sono quest’ultime che devono indirizzare indirizzare il partito, altrimenti viene meno la creatività della Rivoluzione. “E’ compito storico del proletariato, quando arriva al potere, portare la democrazia socialista al posto della democrazia borghese, e non di abolire ogni democrazia”, scrive la Luxemburg. La rivoluzione non è solo il sovvertimento del tempo, ma una ridefinizione dell’umano, deve essere in grado di mettere in pista un potere del tutto alternativo, oppure non può vincere. Non ci può essere una rivoluzione infelice, perché essa è potenza di vita, incremento dell’essere. “Gli errori commessi da un movimento operaio veramente rivoluzionario sono, dal punto di vista storico, infinitamente più fecondi e preziosi dell’infallibilità del miglior comitato centrale”.

La conferenza si conclude con la domanda “perché occuparsi di Rivoluzione a distanza di 100 anni?”. Perché, come dice la Arendt “nel passato ci sono grumi di futuro” e la rivoluzione è un grumo incandescente, un qualcosa che può ancora generarsi.

E perché ricordare Rosa Luxemburg? Innanzi tutto perché nella sua città natale, Zamosc, attualmente in Polonia, hanno perfino tolto la targa sulla sua casa natale, ed è dunque necessario preservarne la memoria; poi perché, nonostante ella parli ad un soggetto storico che non esiste più, cioè la prima classe operaia, quella morta nelle trincee, Rosa “è un tesoro nascosto”.

Dunque “non piangiamo il suo cadavere, celebriamo la sua vita”.




“Lettere dal fronte”: un’iniziativa dell’ISREC Lucca per riflettere sulla Grande Guerra

Mercoledì 12 dicembre, presso la splendida cornice di Villa Argentina, decorata in un peculiare stile Art nouveau  da Galileo Chini, a Viareggio, si è tenuta la conferenza “Lettere dal fronte”, tenuta dal Professor Luciano Luciani, direttore del Museo Del Risorgimento di Lucca. L’incontro è stato organizzato dall’istituto storico della resistenza è dell’età contemporanea di Lucca, in coda alle attività che si sono tenute nell’ultimo mese e mezzo per celebrare la fine della grande guerra.

Dapprima il relatore ha tratteggiato le caratteristiche che hanno reso peculiare la Prima Guerra mondiale,  come l’uso delle mitragliatrici e del filo spinato (che i tedeschi iniziano da elettrificare già durante il primo conflitto) che separava le trincee, a volte distanti fra di loro solo 13 m. Poi sono stati citati i nuovi strumenti tecnologici, come i gas usati per la prima volta dai tedeschi nel aprile del 1915 sia sotto forma di gas soffocanti che di gas che provocano ulcere non sanabili sulla pelle. Infine arriva il carro armato a tracciare la fine dell’area del filo spinato. In seguito Luciani  afferma che la Prima Guerra mondiale è terminata per esaurimento a causa della implosione dell’esercito austro-ungarico. Poi il professore Luciani è entrato nel vivo della questione, trattando sella memorialistica che si è diffusa negli anni successivi alla guerra che è andata quasi a creare un nuovo genere letterario. Da un lato di essa se ne appropria il fascismo, per mostrare gli “eroi” della grande guerra, in continuità con i futuri eroi fascisti. Il primo libro non apologetico e non collegato al fascismo è quello di Adolfo Omodeo, storico del Risorgimento, arruolatosi come volontario nella prima guerra mondiale 1915, autore della raccolta di testimonianze di guerra, intitolata Momenti della vita di guerra, pubblicata nel 1934. Spesso a scrivere di memorialistica sono ufficiali di complemento, così come Emilio Lussu che nel 1938 pubblica il  romanzo “Un anno sull’altipiano”.

Bisogna aspettare il ’68 affinché venga affrontata la questione della fucilazione e della decimazione dei soldati italiani uccisi dai loro comandanti e generali. Interessante è il saggio scritto da Enzo Forcella e Alberto Monticone dal titolo “Plotone di esecuzione’ pubblicato nel 1972 da Laterza. In esso sono riportati gli oltre 300.000 processi, da cui emergono dati agghiaccianti sulla attività repressiva dei tribunali militari: condanne alla fucilazione per autolesionismo e per fuga dinanzi al nemico; lunghi anni di carcere per ‘propaganda sovversiva’, per ‘disfattismo’, per banali espressioni di insofferenza. Una raccolta, questa, che ha dato l’avvio a nuove strade di ricerca e aperto a una corretta e completa memoria nella cultura civile e di storia sociale.

Infine, Luciani ha segnalato come la maggior parte degli intellettuali europei fosse a favore della guerra, sebbene per motivazioni diverse alcune di carattere irredentistico.

Perfino una persona schiva e pacata come Saba, scrive una poesia bellicista come Congedo.

Solo Trilussa è una voce fuori dal coro con la sua poesia filastrocca scritta e 1914 titolata “La ninna nanna della guerra”.




Il ruolo della memoria: ricerca e disseminazione della Shoah

Il 29-30 Novembre si è tenuto presso la Scuola di Alti Studi di Lucca, un convegno di due giorni, organizzato dall’IMT in collaborazione con il MIUR dal titolo “Il ruolo della memoria: ricerca e disseminazione della Shoah”, in occasione dell’ottantesimo anniversario delle leggi razziali. Le lezioni sono state tenute dai proff. Paolo Coen, dell’università di Teramo, e Ilaria Pavan, della Scuola Superiore Normale di Pisa, fra i massimi esperti a livello nazionale e internazionale sul tema.

La lezione del Prof. Coen ha avuto un taglio innovativo e perciò interessantissimo. Egli, infatti, è docente di Storia dell’Arte Moderna e insegna Storia e teoria del Museo. La sua relazione, dunque, ha coniugato la Memoria della Shoah e la museologia.

Il desiderio di commemorare la Shoah è nato mentre essa era in corso. Infatti gli Ebrei iniziarono a pensare all’arte come strumento di testimonianza, per trasmettere la memoria di ciò che stava accadendo. Finita la guerra, il ruolo di guida sul piano della museologia fu ricoperto dal neonato stato di Israele (anche quando era ancora protettorato britannico) fra il 1947 e il 1949 attraverso la fondazione del museo dell’Olocausto nella cosiddetta Ghetto Fighters’ House e ancor di più tramite la creazione dello Yad Vashem, che ancora resta il più grande complesso museale e centro di documentazione sulla Shoah al mondo. Vengono poi ripercorsi vari Musei dell’Olocausto nel mondo, passando per Parigi, Berlino, Washington (i musei fuori da Israele iniziano ad essere costruiti dagli anni ’60) ed arrivando in Italia. A tale proposito è stato citato Primo Levi (Coen arriva a dire che la sua più grande opera d’arte non sono gli scritti ma l’allestimento del blocco 21 di Auschwitz), che insieme a Belgioso e Samonà ha progettato il memoriale italiano all’interno di Auschwitz1. Tale memoriale ha avuto una storia travagliata: smontato e rimosso dal luogo per il quale era stato ideato, per volere del direttore del Museo, con la pretestuosa motivazione di non essere in linea con le normative che prevedevano “un allestimento di taglio pedagogico-illustrativo”, alla fine è approdato a Firenze, dove però verrà montato in una sorta di hangar nello spazio ex Ex3 del quartiere Gavinana, in una zona commerciale, fuori città. Sempre per l’Italia Coen tratta in tono di encomio del Museo del Deportato di Carpi e si auspica la fine della realizzazione del Muse a Villa Torlonia e Roma e del MEIS a Ferrara.

La conferenza di Ilaria Pavan, corredata di documenti e strumenti biografici e critici, è iniziata trattando dell’emanazione dei primi decreti antiebraici fascisti nel settembre del 1938, visti come punto di approdo di un processo politico e ideologico, elaborato dal regime nel corso dei mesi e degli anni precedenti. Infatti a partire dall’epopea imperialista nel Corno d’Africa, il regime aveva iniziato a redigere leggi e normative di stampo razziale e coloniale, come quella del 5 agosto 1936 che di fatto introduce l’apartheid o il decreto dell’aprile ’37 “sanzione per i rapporti di indole coniugale fra cittadini e sudditi” (per contrastare il madamato). L’entrata in guerra dell’Italia nel 1940 e l’istituzione della Repubblica Sociale di Salò nel tardo autunno del 1943 rappresentano poi altrettanti momenti di svolta e di ulteriore radicalizzazione di una legislazione antiebraica che si era dipanata e svolta nell’arco di sette anni.




“Curare la guerra a Lucca”: uomini, medici, partigiani

Guglielmo Lippi Francesconi, direttore del manicomio di Maggiano e oppositore del progetto
nazista di sterminio dei malati di mente, nonché amante dell’arte (fu amico di Lorenzo Viani e si
cimentò egli stesso come disegnatore, realizzando il manifesto del Carnevale di Viareggio del
1925); Carlo Romboni, il “dottorino dei poveri”, come era stato soprannominato nella sua città
natale di Camaiore per l’opera di assistenza – anche finanziaria – prestata alle famiglie più povere;
Mario Tobino, medico, scrittore e partigiano, formatosi agli ideali di libertà nelle frenetiche “tre
giornate” di Viareggio del 1920 che videro la proclamazione di un’effimera repubblica popolare; e
ancora tanti altri protagonisti, dal capitano Felice Montesanti – della cui partecipazione alla
Resistenza la famiglia verrà a sapere soltanto molti anni dopo la sua scomparsa – ai medici di
formazione mazziniana – come Enea Melosi, il “dottor Palmieri” del romanzo Il clandestino di
Mario Tobino – fino agli studenti provenienti dal liceo classico “Carducci” di Viareggio,
avvicinatisi all’antifascismo grazie alla figura del professor Giuseppe Del Freo. Persino un fascista,
il medico garfagnino Mario Bianchini, che cura i partigiani ma non li denuncerà mai ai tedeschi e
alla RSI. Senza dimenticare, come ha ricordato la professoressa Simonetta Simonetti
(ATVL/Società delle storiche), le donne, operatrici sanitarie al fianco dei medici e protagoniste
spesso silenziose e dimenticate loro malgrado.

Dalla Versilia alla Lucchesia alla Garfagnana: medici e studenti, partigiani combattenti e resistenti
civili, antifascisti, socialisti umanitari, laici di sinistra, comunisti, addirittura il fascista Bianchini;
storie attraversate da un filo rosso che ha accomunato tutti gli interventi del convegno promosso
dall’Istituto storico della Resistenza in collaborazione con l’Ordine dei medici e la Fondazione
“Mario Tobino”, tenutosi a Lucca in San Micheletto venerdì 5 ottobre; filo rosso che il
moderatore della serata, il professor Luciano Luciani (ISREC) ha individuato nella fedeltà al
giuramento di Ippocrate in un contesto disumanizzante come la guerra, dove la professione medica
diventa – per dirla con le parole del professor Roberto Rossetti – “cura della dignità umana offesa
dal nazifascismo”. Una scelta vissuta fino in fondo, spesso pagata al prezzo della propria vita: non a
caso infatti ancora Luciani, nel suo intervento conclusivo, ha ricordato la figura del comandante
Felice Cascione, autore delle parole della celebre canzone partigiana “Fischia il vento” e medico
chirurgo egli stesso, tradito dal fascista Michele Dogliotti, che durante la prigionia presso la banda
di Cascione era stato da questi curato e nutrito (“Ho studiato venti anni per salvare la vita di uomo e
ora voi volete che io permetta di uccidere?”, avrebbe detto “U megu” ai suoi compagni che
volevano giustiziare Dogliotti).

La scelta dei valori di umanità e fratellanza – “la parola fratello mai fu così viva”, scriverà Tobino –
contro la spirale di violenza e disumanizzazione prospettata dal Nuovo ordine europeo di Hitler e
Mussolini: una scelta rivolta a salvare, a risparmiare quante più vite possibile (il tratto essenziale, ha
scritto Ercole Ongaro, che distingue la Resistenza dalla guerra “scialo di morte”); soprattutto,
l’importanza di quella scelta che ci chiama a riflettere sull’oggi, sul nostro tempo, dove – ha
sottolineato l’assessore alla memoria Ilaria Vietina portando il saluto del comune di Lucca – la
violenza, il razzismo e l’esclusione sono rischi ancora presenti, rendendo impellente la necessità
da parte di tutti di attivarsi in direzione di una cittadinanza responsabile, base della democrazia.




Ottimo il bilancio della Summer school in preparazione al Treno della Memoria 2019

Si è chiusa ieri al Santa Chiara Lab a Siena la quinta edizione della Summer school, il seminario intensivo di cinque giorni organizzato dalla Regione in collaborazione con la Fondazione Museo della Deportazione e Resistenza di Prato, l’Istituto Storico Toscano della Resistenza e dell’Età Contemporanea, il Forum per i problemi della pace e della guerra e l’Ufficio Scolastico Regionale per fornire agli insegnanti selezionati, circa una sessantina, gli strumenti formativi e didattici per preparare gli studenti all’esperienza del viaggio sul Treno della Memoria, in programma il prossimo anno. Il corso quest’anno si intitolava ‘Razzismi di ieri e di oggi. Il buon uso della Memoria’. Nel corso delle diverse sessioni, i 60 insegnanti provenienti da tutte le zone della Toscana: dall’Elba alla Lunigiana, dal grossetano al pistoiese, da Firenze a Massa, da Pisa ad Arezzo, hanno potuto approfondire le conoscenze storiche sui fatti di oltre 70 anni fa e riflettere sui nodi del presente. Antisemitismo, razzismo, guerra totale, violenza non sono solo parole del passato ma problemi attuali con cui la scuola deve misurarsi nella sua instancabile azione di formazione dei cittadini del domani. Grazie all’impegno straordinario della Regione tutto questo è ancora possibile.