On line la mostra “Per noi il tempo si è fermato all’alba. Storia dei Martiri d’Istia”

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A 77 anni esatti dalla fucilazione degli 11 ragazzi di Maiano Lavacchio, la mostra on line “Per noi il tempo si è fermato all’alba. Storia dei Martiri d’Istia” intende restituire attraverso fotografie e documenti d’archivio, molti dei quali inediti, la complessità di quegli eventi e il loro valore simbolico per il territorio maremmano, ricostruendo in sezioni tematiche il contesto e i fatti che portarono alla strage, le vicende successive con la richiesta di giustizia per le vittime e il consolidarsi di una memoria condivisa, alla quale hanno indubbiamente contribuito sia la rielaborazione da parte di artisti e cantori popolari, sia la presenza sul territorio, locale e non, di “memorie di pietra”.

Questo il link: https://martiridistia.weebly.com/




Eletta la Presidenza dell’ISRT. Confermata la Direzione.

l Consiglio direttivo dell’Istituto, insediatosi il 2 marzo, ha confermato alla presidenza Giuseppe Matulli. Arriva per la prima volta una donna alla vicepresidenza, Camilla Brunelli (dirige il Museo della Deportazione a Prato), che affiancherà Roberto Bianchi, al secondo mandato in questo ruolo. Confermato nell’incarico di direttore Matteo Mazzoni.

L’Istituto  è pronto a confrontarsi con il presente drammatico della pandemia che ha effetti in campo culturale e sociale pesantissimi: nello snodo tra presente e futuro è decisiva la consapevolezza della conoscenza storica. In ponte, pandemia permettendo, ci sono  – tra  i diversi progetti di studio  –  l’organizzazione di un confronto nazionale sull’Italia del 1940 e l’avvio di una ricerca finalizzata alla mappatura degli archivi delle fabbriche del territorio fiorentino che verrà condotta insieme alla Camera del Lavoro. Numerose le attività per la didattica, la formazione e per promuovere la  public history.

“C’è adesso una sfida che attende tutto il mondo nella trasformazione indotta dalla pandemia e che si riverbererà anche nel dopo-Covid: – mette in evidenza Giuseppe Matulli – si tratta di una rivoluzione del modo di operare, in quasi tutti i campi, che rafforza la necessità di presidi culturali per non consentire di perdere di vista il passato, nella libertà del dibattito storico, per affrontare le sfide del tutto nuovo del futuro che ci attende”.

La rete  provinciale degli istituti storici è attiva più che mai. . “Ancora di più in questa fase di grave crisi e profonde trasformazione, l’Istituto, nella sua identità plurale di ente di ricerca, conservazione, progettazione didattica e culturale, intende essere a servizio del territorio per promuovere consapevolezza e conoscenza storica”, sottolinea il direttore Matteo Mazzoni.

“L’istituto storico toscano della resistenza e dell’età contemporanea giunge a questa sfida storica del Covid, e del dopo pandemia, con la qualificazione costruita nel passato sulla affidabilità della sua ricerca storica e della sua divulgazione, per le numerose dimostrazioni di autonomia e libertà di ricerca ai sui temi più delicati, a cominciare da quello dei confini orientali – sottolinea ancora Matulli –  Questa qualificazione spiega come sia stato possibile ottenere la disponibilità di tante persone autorevoli e qualificate a partecipare alla elezione del nuovo organo direttivo dell’Istituto che a dimostrazione della credibilità dell’Istituto prestigio acquisito in passato e rafforzato dalle nuove adesioni”.




Paesaggi della memoria: percorsi didattici fra passato della Resistenza e presente

“Paesaggi della memoria: percorsi didattici fra passato della Resistenza e presente” è un piccolo progetto di comunicazione culturale rivolto alla scuola che si colloca nell’ambito della ricerca INDIRE volta a individuare possibili connessioni tra il nostro patrimonio storico, soprattutto quello considerato “minore”, e il mondo della scuola.

Con una serie di brevi interviste a curatori ed esperti di luoghi della memoria della Resistenza italiana la ricercatrice Pamela Giorgi percorre alcune tappe che si dipanano fra paesaggi della memoria, case museo di protagonisti dell’antifascismo, con il proposito di rafforzare nella scuola di base l’uso didattico di una tipologia particolare di patrimonio culturale, nel caso specifico, quello che in varie forme si riferisce ai luoghi simbolo della Resistenza italiana.

I Paesaggi della Memoria è una rete di luoghi della memoria italiana creata nel 2017 e che coinvolge 31 luoghi in 9 diverse regioni del paese. La finalità della rete è quella di dare un’identità propria al concetto di memoria, legata alla conoscenza della storia di questi luoghi.

In ognuno di essi infatti durante la seconda guerra mondiale sono avvenuti episodi importanti legati alla nostra Resistenza: rappresaglie, stragi, detenzioni. Alcuni sono più noti, altri lo sono solo a livello locale, ma per tutti, in questi anni, le associazioni che li custodiscono, hanno creato specifici percorsi didattici che consentono ai docenti di ricostruire – anche visivamente – i fatti che in quei luoghi sono accaduti, conservandone la memoria, passandola alle nuove generazioni.

Il progetto, a breve, coinvolgerà direttamente la regione Toscana!




Seminario di formazione USR Toscana sulla complessa vicenda del “confine orientale”

Mercoledì 24 febbraio si è tenuto sulla piattaforma zoom un seminario dal titolo “Il Giorno del Ricordo: la complessa vicenda del confine orientale”. L’iniziativa nasce dalla collaborazione dell’USR Toscana, rappresentato dalla Dottoressa Milva Segato -che ha introdotto l’argomento partendo dal testo di legge e citando due discorsi, quello del 2019 e quello del 2021 del Presidente della Repubblica italiana, Sergio Mattarella,- dall’Università di Firenze, ed in particolare il Dipartimento  di Formazione, Lingue, Intercultura, Letterature e Psicologia, rappresentato della Professoressa Silvia Guetta, Professore associato di Pedagogia generale e sociale, e dalla rete toscana degli Istituti Storici della Resistenza e dell’età contemporanea. Sono intervenuti la Professoressa Chiara Nencioni, il Direttore dell’Istituto della Resistenza Toscano Matteo Mazzoni e il Vivepresidente dell’Istituto Storico della Resistenza e dell’Età contemporanea di Lucca, Armando Sestani.

Si riporta di seguiti l’art. 1 della Legge 30 marzo 2004 n. 92, da cui il seminario ha preso titolo:

«La Repubblica riconosce il 10 febbraio quale “Giorno del ricordo” al fine di conservare e rinnovare la memoria della tragedia degli italiani e di tutte le vittime delle foibe, dell’esodo dalle loro terre degli istriani, fiumani e dalmati nel secondo dopoguerra e della più complessa vicenda del confine orientale».

La prima relatrice ha tracciato la storia del nostro “confine orientale” dalla Terza Guerra di Indipendenza all’invasione dei Balcani da parte italiana.

Nel 1866 in seguito alla guerra che vide confrontarsi la Monarchia Asburgica con il Regno di Prussia e il Regno d’Italia, venne a configurarsi un nuovo confine tra Austria e Italia. Il confine tra Italia e Austria fu stabilito con la Pace di Vienna del 3 ottobre 1866.

Tale confine risultò dall’annessione all’Italia delle province del Veneto; in particolare la provincia italiana a ridosso della linea confinaria era quella di Udine, mentre il territorio austriaco immediatamente confinante comprendeva due Länder: la Carinzia a nord, con capoluogo Klagenfurt, e il Litorale ad est, con capoluogo Trieste.

Nell’impero austro-ungarico le varie etnie presenti sul territorio avevano mantenuto una certa autonomia: vi era libertà di associazione ed era possibile frequentare scuole in cui le lezioni erano impartite nella propria lingua, anche se esse non erano sempre ben distribuite sul territorio, mentre gli istituti con lingua di insegnamento tedesca erano presenti ovunque.

Come si evince dal censimento del 1910 nella Venezia Giulia vivevano allora circa 400.000 sloveni, 100.000 croati, poco meno di 500.000 italiani.

Nel 1915 con il Patto di Londra, accordo segreto d’alleanza fra Italia, Gran Bretagna, Francia, Russia, l’Italia aderiva all’Intesa e si impegnava a entrare in guerra contro gli imperi centrali.

Gli accordi prevedevano come compensi territoriali a favore dell’Italia il Trentino, il Tirolo del Sud (Alto Adige), Trieste, Gorizia, l’Istria e la Dalmazia, ma escludevano Fiume, non riuscendo a immaginare un disfacimento totale dell’Austria-Ungheria.

Il patto prevedeva inoltre una partecipazione italiana alla spartizione dell’Albania e all’eventuale spartizione della Turchia e delle colonie tedesche in Africa.

Nel novembre 1918, alla conclusione della prima guerra mondiale, la Monarchia Asburgica cessò di esistere e al suo posto si formarono nuovi Stati, tra cui l’Ungheria e la Jugoslavia (che allora assunse la denominazione di Regno dei Serbi, Croati e Sloveni).

La definizione dei nuovi confini tra Austria e Italia fu definita alla Conferenza della Pace di Parigi, con il trattato di St. Germain (10.9.1919).

Dopo la prima guerra mondiale con il Trattato di Rapallo del 12 novembre 1920 ci fu l’annessione al Regno d’Italia di territori ampiamente popolati da sloveni e croati. La vittoria del regno sabaudo nel conflitto del ‘15-‘18 non poté non portare nella Venezia Giulia “redenta” alla rottura dell’equilibrio tra le diverse etnie costruito nei secoli precedenti.

Le difficoltà derivavano dall’inconciliabilità delle richieste italiane, basate sul Patto di Londra  del 1915, con quelle del nuovo stato balcanico, fondate sulla presenza di popolazioni slovene e croate nell’ambito dei territori ex-asburgici rivendicati dall’Italia.

Le difficoltà non furono superate nemmeno dalla proposta del presidente degli Stati Uniti, Woodrow Wilson, di una linea di confine a carattere prevalentemente etnico.

Durante il dibattito parlamentare sul Trattato di Rapallo (24-27 novembre 1920) il governo italiano promise la tutela della minoranza slava ed il ministro degli Esteri, il conte Sforza, confermò tale intenzione, presentandola come una “questione d’onore e di ragionevolezza politica”. Di fatto, però, non si prese nessun impegno concreto nei confronti delle minoranze nazionali e anche per questo molti sloveni decisero di emigrare nel nascente regno dei Serbi, dei Croati e degli Sloveni (poi Jugoslavia), che era sorto oltre frontiera nei Balcani.

Una variazione rilevante nel tracciato dei confini nella zona dell’Alto Adriatico riguardò il territorio di Fiume, che fu annesso all’Italia, in base all’Accordo di Roma  del 27 gennaio 1924, tra Regno d’Italia e Regno dei Serbi, Croati e Sloveni. In base ad esso, parte del territorio settentrionale dello Stato Libero di Fiume e Porto Baross vennero ceduti alla Jugoslavia, mentre la città e una ridotta striscia costiera passarono all’Italia. Venne così costituita nel 1924 la Provincia di Fiume, costituita dal territorio fiumano annesso e da alcuni comuni già appartenenti alla provincia di Pola.

L’avvento del fascismo in questi territori segnò un momento di ulteriore impoverimento dei diritti nazionali sloveni e croati. Fu messa in atto un’italianizzazione forzata, accompagnata da persecuzioni e umiliazioni, in vista dell’assimilazione. A Trieste il 13 luglio 1920, fu incendiato il Narodni dom (La casa nazionale), edificio simbolo della presenza slava a Trieste, centro polivalente dotato di albergo, ristorante, caffè, teatro, banca, uffici, appartamenti. Successivamente la catena di eventi persecutori da parte di squadre fasciste nei confronti della popolazione slovena e croata della Venezia Giulia si intensificò: dopo l’incendio del Narodni dom di Trieste fu la volta di quello di Pola e di altri 134 edifici dell’intera Venezia Giulia distrutti entro il 1920. Le aggressioni e le spedizioni squadristiche ripresero dopo le elezioni del 1921, che videro a Trieste e in Istria il successo del Blocco Nazionale capeggiato dai fascisti. Tali violenze furono l’inizio di una dura politica di oppressione etnica che il fascismo e nazionalismo triestini e giuliani perseguirono per tutto il ventennio nei confronti della minoranza slava. Fu messa in atto un’opera di snazionalizzazione violenta e capillare, di italianizzazione e fascistizzazione della Venezia Giulia. Nel giro di qualche anno l’italiano divenne l’unica lingua ufficiale in tutta la Venezia Giulia. Il divieto di comunicare in sloveno e croato si estese dai pubblici uffici ad altri luoghi di lavoro (fabbriche, ditte private, trattorie, negozi) pena il licenziamento, ammonimento o ritiro dell’autorizzazione all’esercizio. Si imposero il divieto di pubblicare testate periodiche e lo scioglimento di circoli sportivi e culturali, istituti bancari, casse di credito e cooperative. Le autorità fasciste cercarono di proibire scritte slovene e croate anche sulle pietre tombali e sui nastri delle corone di fiori che accompagnavano il feretro. Con il Regio Decreto n. 800 del 29 marzo 1923 venne dato compimento all’opera di italianizzazione dei toponimi iniziata dalle autorità militari italiane subito dopo la fine della guerra: i nomi di paesi, città, località geografiche vennero italianizzati arbitrariamente, senza alcun criterio scientifico. La Riforma Gentile (1923) prevedeva l’introduzione obbligatoria dell’italiano in tutte le scuole del Regno. Come conseguenza fu gradatamente imposta la chiusura coatta delle scuole di tutti i gradi con lingua d’insegnamento slovena o croata. La scuola, pertanto, da ambiente multiculturale quale era stato sotto l’impero austro-ungarico, divenne un luogo chiuso e selettivo. Di circa un migliaio di insegnanti slavi ne rimasero solo una cinquantina e di questi solamente cinque nella Venezia Giulia. La proibizione dell’uso delle lingue “locali” fu affiancata dall’italianizzazione forzata dei cognomi. Il R.D. del 7 aprile 1927, estendendo alla Venezia Giulia il decreto emanato per l’Alto Adige il 10 gennaio 1926, imponeva la “restituzione in forma italiana dei cognomi originariamente italiani snazionalizzati”. Gli elenchi dei cognomi da italianizzare vennero completati fra il 1928 e il 1931.

Anche preti sloveni e croati furono vittime di aggressioni e violenze da parte di squadre fasciste.

Degli atti repressivi perpetrati dal regime fascista negli anni venti e trenta manca una statistica precisa: non si conosce il numero esatto di insegnanti, impiegati statali, sacerdoti trasferiti d’ufficio dalla Venezia Giulia nelle diverse regioni della penisola, oppure costretti al prepensionamento o alla scelta dell’esilio nel vicino Regno dei Serbi, dei Croati e degli Sloveni (poi Jugoslavia).

Saranno proprio l’élite slovena espulsa o emigrata nel Regno dei Serbi, dei Croati e degli Sloveni durante il ventennio, nonché gli strati più politicizzati della popolazione slovena rimasti nell’Italia fascista, a dare un ampio sostegno al movimento di liberazione e al progetto di annessione della Venezia Giulia alla Jugoslavia di Tito, in quanto spinti da sentimenti di rivalsa.

L’apice dell’attività terroristica della rete clandestina triestina, la Borba, ovvero “Lotta”, fu rappresentato dagli attentati al Faro della Vittoria e alla tipografia di “Il Popolo di Trieste”, l’organo del Pnf locale, avvenuti nel febbraio del 1930.

 Il 10 febbraio 1930 fu fatta esplodere una bomba alle 22.30, in un momento in cui si riteneva che la sede dovesse essere vuota. L’esplosione provocò una vittima, il redattore Guido Neri, che morì qualche giorno dopo, e tre feriti, membri del partito.

Nel settembre 1930 il Tribunale Speciale per la difesa dello Stato si trasferì a Trieste, con lo scopo di giudicare in un maxiprocesso i responsabili degli attentati e di stroncare definitivamente il movimento ribellistico nel triestino.

Dopo un breve dibattimento, durato meno di una settimana dall’1 al 5 settembre, alle 5.44 del 6 settembre 1930, quattro giovani di età compresa tra i 24 ed i 34 anni, 2 sloveni, 1 croato e 1 di madre italiana e di padre sloveno, ritenuti i principali colpevoli delle attività della Borba, furono portati al poligono di tiro di Basovizza e fucilati alle spalle da un plotone di esecuzione della 58° Legione della Milizia volontaria per la sicurezza nazionale. Dopo la liberazione dal nazi-fascismo, il 9 settembre 1945 fu inaugurato un monumento in memoria dei quattro “eroi di Basovizza”, divenuti un simbolo di libertà e di lotta, non solo per gli sloveni, ma anche per l’antifascismo italiano. Il confine del 1924 durò invariato fino al 1941, ma gli stati confinari mutarono denominazione e anche caratterizzazione ideologica: il Regno dei Serbi, Croati e Sloveni divenne tra il 1929 e il 1931 Regno di Jugoslavia e la Repubblica d’Austria nel 1938 venne annessa al Terzo Reich, con il nome di Ostmark.

 Riprende qui la complessa storia del confine orientale Matteo Mazzoni, che si concentra sull’argomento delle violenze nel periodo della seconda guerra, con un particolare approfondimento sulle foibe.

L’aggressione al Regno di Jugoslavia, iniziata il 6 aprile 1941 da parte dell’Italia, assieme alla Germania, all’Ungheria e alla Bulgaria segnò il legame più stretto delle responsabilità italiane con quelle del nazismo hitleriano. L’occupazione militare italiana di territori jugoslavi segnò la massima espansione del Regno d’Italia verso oriente; in particolare venne unito all’Italia un ampio territorio della Slovenia e della Dalmazia.

Le città di Lubiana, Novo Mesto e Kocevje, e il loro territorio, vennero a costituire la Provincia “italiana” di Lubiana. Anche la Provincia di Fiume venne ampliata con il territorio; più a sud lungo la costa Dalmata vennero annesse all’Italia con le stesse modalità le città di Spalato, di Cattaro e un’ampia porzione attorno alla città italiana di Zara; tale territorio venne denominato Governatorato di Dalmazia (comprendente tre province). Altre occupazioni italiane interessarono la parte più meridionale della Dalmazia, con l’ampliamento dell’Albania e con l’invasione del Montenegro.

Il Terzo Reich e l’Ungheria occuparono nel 1941 la parte settentrionale della Slovenia e altre regioni jugoslave. Nella parte centrale dei Balcani (Croazia e Bosnia) venne costituito un vasto stato collaborazionista, denominato Stato Indipendente Croato, affidato al capo ustaša Ante Pavelić.

Nelle zone occupate in cui era attivo il movimento partigiano, gli Italiani adottarono pratiche repressive estreme, compiendo crimini di guerra. Gli ordini impartiti, fra cui la circolare 3C del generale Roatta del marzo 1942, configuravano una vera e propria «guerra ai civili». Le azioni antiguerriglia prevedevano arresti, prese di ostaggi, fucilazione degli ostaggi medesimi, distruzione dei paesi, uccisione degli uomini e deportazione di donne e bambini. In particolare, nelle zone in cui l’esercito italiano non riusciva a venire a capo della ribellione, provvide a svuotare il territorio con la deportazione in massa della popolazione. I deportati furono alcune decine di migliaia, reclusi in un gran numero di campi di concentramento collocati sulle isole dalmate e nella penisola italiana. I più famigerati furono quelli di Gonars in Friuli e dell’isola di Arbe. ll campo di concentramento di Arbe fu creato nel luglio del 1942 nell’odierna isola di Rab ed ospitò complessivamente tra i 10.000 e 15.000 internati tra sloveni, croati ed ebrei diventando il più esteso e popolato campo di concentramento italiano per slavi raggiungendo i 21.000 internati nel dicembre 1942. Con l’arrivo della stagione autunnale la situazione nel campo divenne più difficile: le piogge provocarono più volte il riversamento del liquame delle latrine e la notte del 29 ottobre 1942 una violenta tempesta distrusse quattrocento tende e provocò l’annegamento di alcuni bambini. Il campo si caratterizzò per la durezza del trattamento riservato agli internati, dei quali un gran numero perì di stenti e malattie.

Qui la mortalità fu assai elevata per le pessime condizioni igieniche ed abitative e la sistematica denutrizione. Questi i cinici commenti del generale Gambara: «Campo di concentramento non significa campo di ingrassamento. Individuo malato = individuo che sta tranquillo».

Dal novembre 1942 il numero di internati diminuì per la partenza per altri campi di concentramento, soprattutto di donne e bambini destinati al campo di Gonars.

ll campo di concentramento di Gonars, realizzato dal regime fascista nell’autunno del 1941 in provincia di Udine in previsione dell’arrivo dii prigionieri di guerra russi, fu utilizzato dalla primavera del 1942 per l’internamento dei civili all’interno della “Provincia occupata di Lubiana”, rastrellati dall’esercito italiano e ritenuti potenziali oppositori. Il campo si si riempì nell’autunno inverno 42-43 di nuovo tipo di internati: uomini, donne, vecchi e bambini rastrellati dai paesi vicino fiume e prima deportati nell’isola di Rab. Nel campo di Gonars sono state internate circa 6000 persone di cui oltre 500 morirono di fame e di malattie. Come tutti gli altri campi italiani per internati jugoslavi, il campo di Gonars funzionò fino al settembre del 1943.

A partire dal 1942 anche nelle province giuliane di Fiume, Trieste e Gorizia le autorità italiane adottarono pratiche repressive. Va segnalata ad esempio la strage compiuta nel luglio 1942 nel paese di Podhum, nei pressi di Fiume, in cui vennero uccise una novantina di persone, cioè tutti i maschi adulti del villaggio. Sempre nel 1942 venne costituito l’Ispettorato speciale di pubblica sicurezza per la Venezia Giulia, specificatamente dedicato alla lotta antipartigiana mediante l’infiltrazione e la tortura. Dal settembre del 1943 l’Italia non fu più un paese occupante, ma occupato a sua volta dai Tedeschi nel corso dell’estate-autunno; nella parte nord orientale d’Italia l’occupazione tedesca ebbe conseguenze diverse rispetto ad altre regioni d’Italia, in quanto il territorio delle province di Udine, Trieste, Gorizia, Pola, Fiume e Lubiana venne escluso dal controllo politico e militare delle autorità italiane, cioè della Repubblica Sociale Italiana, lo stato collaborazionista costituito da Benito Mussolini. Mentre nelle altre zone di Italia, specialmente al centro-sud, si festeggiava l’armistizio e si nutriva la speranza di una liberazione, sul “confine orientale” l’8 settembre significò passare sotto il Reich, quindi orrore su orrore: oltre a quello della guerra, quello della feroce occupazione nazista.

Le del nord-est province, con il nome di “Zona di Operazione Litorale Adriatico”, vennero amministrate direttamente dalle autorità tedesche: Friedrich Rainer fu nominato Commissario Supremo. Una situazione analoga coinvolse le province di Bolzano, Trento e Belluno, denominate “Zona di Operazione Prealpi” e affidate al Commissario Supremo Franz Hofer. Proprio in corrispondenza del cedimento militare italiano, tra settembre e ottobre del 1943, nella parte mediana dell’Istria fu attuata un’insurrezione popolare (molto composita riguardo alle motivazioni), che ebbe come conseguenza l’uccisione di circa 500 abitanti, per lo più italiani (evento noto come “foibe istriane”); all’insurrezione popolare fece seguito una feroce rappresaglia delle truppe tedesche che provocò circa 2.500 vittime nel mese di ottobre.

Che cosa è una foiba? Dal latino fovea, sloveno e croato jama, vuol dire “inghiottitoio”. Geologicamente è tipica dei terreni carsici. L’imboccatura può essere larga da alcuni centimetri ad alcuni metri e il pozzo può sprofondare per molte decine di metri, anche con più salti. Nel solo Carso triestino ed in quello goriziano si trovano alcune migliaia di cavità di vario tipo ed il medesimo terreno è diffuso in Slovenia e Croazia.
Storicamente, le foibe sono state utilizzate episodicamente come depositi di materiali di scarto. Durante la seconda guerra mondiale ed il dopoguerra, sono state intensivamente adoperate per far sparire i cadaveri di caduti in combattimento e/o vittime di eccidi, data la difficoltà di scavare fosse comuni nel terreno roccioso. Tale uso in Croazia è attestato fin dal 1941. Nella Venezia Giulia sono state adoperate allo stesso modo nell’autunno del 1943 (particolarmente nota la foiba di Vines, in Istria) e nella primavera/estate del 1945 (note la foiba Plutone, vicino Trieste; le foibe di Gargaro e Zavni in provincia di Gorizia; la foiba di Costrena nei pressi di Fiume). Il termine foiba è correntemente usato per indicare le stragi dell’autunno 1943 in Istria e del maggio 1945 in tutta la Venezia Giulia per opera del movimento di liberazione jugoslavo (autunno 1943) e dello stato jugoslavo (primavera 1945), occasioni nelle quali i corpi delle vittime vennero spesso gettati nelle foibe, di solito dopo fucilazione collettiva. Va precisato che l’infoibamento non era una modalità di uccisione, ma di occultamento delle salme, legato in genere alla difficoltà nello scavo di fosse comuni. Risultano pochissimi casi in cui nell’abisso furono gettate persone ancora vive, specie per errori nella fucilazione. In secondo luogo, non tutte le vittime delle stragi conclusero la loro vita nelle foibe. Molti, forse la maggior parte, trovarono la morte in prigionia. La prima ondata di infoibamenti sono le cosiddette foibe istriane, definizione correntemente usata per indicare le stragi dell’autunno 1943 in Istria. Dopo la capitolazione italiana dell’8 settembre, per poco più di un mese la penisola istriana cadde per la maggior parte sotto il controllo del movimento di liberazione croato (jugoslavo), che vi applicò le pratiche di lotta che prevedevano nelle zone anche solo temporaneamente liberate, l’immediata eliminazione dei «nemici del popolo». Questa era una categoria che nel caso dell’Istria riguardava alcuni segmenti di classe dirigente italiana particolarmente invisi ai partigiani, per il loro ruolo svolto nel regime fascista (gerarchi, squadristi), nelle istituzioni (podestà, segretari comunali) e nella società locale (possidenti terrieri, commercianti ed artigiani accusati di strozzinaggio) o comunque ritenuti pericolosi per il nuovo potere.
Le nuove autorità organizzarono gli arresti, la concentrazione dei prigionieri in alcune località specifiche, come Pisino, i processi sommari e le conseguenti fucilazioni collettive, seguite dall’occultamento dei cadaveri nelle foibe o in cavità minerarie. Si trattò quindi di una violenza dall’alto, programmata e gestita dai quadri del movimento di liberazione croato (jugoslavo). Peraltro, essa fu gestita in un clima di grande confusione, segnato da forme di ribellismo dei contadini croati in una sorta di jacquerie -come afferma Mazzoni-, nel quale trovarono spazio estremismo nazionale, conflitti d’interesse locali, motivazioni personali e criminali, come nel caso di alcuni stupri seguiti da uccisioni, fra i quali assai noto quello di Norma Cossetto. Per le stragi del 1943 l’ordine di grandezza è delle centinaia (le stime variano da 500 a 700).

La durezza dell’occupazione tedesca nel Litorale Adriatico emerse dall’uso repressivo di una struttura industriale, già esistente, con la funzione di Polizeihaftlager (Campo di Detenzione di Polizia): si tratta della Risiera di San Sabba -l’unico campo di concentramento con un forno crematorio sul territorio italiano- al cui interno funzionò un forno crematorio per l’eliminazione dei cadaveri dei prigionieri uccisi (in gran parte politici e partigiani sloveni, croati, italiani). La Risiera fu usata anche come campo di transito per gli ebrei, da qui deportati verso i lager in territorio tedesco e polacco.

La fase conclusiva della seconda guerra mondiale aprile-maggio 1945 si presentò nell’area del Litorale Adriatico con due eserciti in movimento verso nord e in parte convergenti verso i centri urbani principali: dai Balcani la IV Armata jugoslava puntò decisamente su Trieste e su Gorizia, mentre dalla linea gotica partì l’offensiva anglo americana, con obiettivi strategici non limitati al nord Italia o alla Venezia Giulia, ma estesi anche all’Austria e alla Germania.

Accompagnato o preceduto da insurrezioni partigiane locali contro le forze naziste, il ritiro tedesco fu determinato dall’arrivo il 1° maggio 1945 dei militari della IV Armata jugoslava, che occuparono Trieste, Gorizia e la valle dell’Isonzo, e dalle truppe neozelandesi dell’esercito britannico giunte nello stesso territorio il 2 maggio. Il controllo delle città di Gorizia e di Trieste venne lasciato all’esercito jugoslavo, giunto per primo, ma senza determinare inizialmente una precisa linea di separazione delle zone di competenza dei due eserciti alleati. E’ in questo periodo che si verifica la seconda ondata di infoibamenti, le cosiddette foibe giuliane, definizione correntemente usata per indicare le stragi del maggio 1945 nella Venezia Giulia. Le truppe jugoslave che occuparono la regione il 1maggio vi rimasero fino al 9 giugno, data dopo la quale si ritirarono ad est della linea Morgan, mentre ad ovest della linea medesima fu instaurata un’amministrazione militare angloamericana. Durante l’occupazione si verificò l’estensione alla Venezia Giulia delle pratiche repressive tipiche della presa del potere in Jugoslavia da parte del fronte di liberazione a guida comunista, accompagnata da una grande ondata di violenza politica, che nell’arco di poche centinaia di chilometri fra l’Isonzo, la Slovenia e la Croazia fece circa 9.000 morti fra gli sloveni domobranzi, almeno 60.000 fra i croati ustascia ed alcune migliaia fra gli italiani. Nei territori adriatici quindi lo stragismo aveva finalità punitive nei confronti di chi era accusato di crimini contro i popoli sloveno e croato  (quadri fascisti, uomini degli apparati di sicurezza e delle istituzioni italiane, ex squadristi, collaboratori dei tedeschi); aveva sia finalità epurative dei soggetti ritenuti pericolosi, come ad esempio gli antifascisti italiani contrari all’annessione alla Jugoslavia, sia finalità intimidatorie nei confronti della popolazione locale, per dissuaderla dall’opporsi al nuovo ordine. Per le stragi del 1945 l’ordine di grandezza è delle migliaia. Gli arrestati nelle province di Trieste e Gorizia furono circa 10.000, ma la maggior parte di essi fu liberata nel corso di alcuni anni. Secondo una ricerca condotta a fine anni ’50 dall’Istituto centrale di statistica, le vittime civili (infoibati e scomparsi) nel 1945 dalle province di Trieste, Gorizia ed Udine furono 2.627. Probabilmente la cifra è leggermente sovrastimata. D’altra parte, a tale stima vanno aggiunte le circa 500 vittime accertate per Fiume e qualche centinaio dalla provincia di Pola. Una stima complessiva delle vittime si aggira fra le 3.000 e le 4.000 secondo il Rapporto finale della Commissione storico-culturale italo-slovena, redatto nel 2000. Simbolo di tutte le foibe della miniera di è divenuto Basovizza, che costituisce la sede privilegiata di cerimonie commemorative e patriottiche. In realtà non si tratta di una foiba (abisso carsico), bensì di una cavità mineraria (pozzo della miniera), di grandi dimensioni (larga una decina di metri, profonda più di 250). Nella prima decade di maggio del 1945 venne probabilmente utilizzata per gettarvi le salme di diverse centinaia di prigionieri italiani fucilati nei pressi. Testimonianze concordi parlano dei processi sommari tenuti nell’arco di un paio di giornate a carico di alcune centinaia di uomini arrestati a Trieste, pare in massima parte membri della Questura. Ai processi seguirono le fucilazioni collettive e l’occultamento dei cadaveri nel pozzo e forse anche in alcune altre foibe vicine. Nell’abisso vennero gettati anche i resti della battaglia svoltasi pochi giorni prima nel vicino paese di Basovizza, alle porte di Trieste, fra truppe tedesche e jugoslave, nonché altri materiali. Utilizzata negli anni ’50 come discarica di materiali inerti, è stata successivamente chiusa con una lastra di pietra, proclamata nel 1992 monumento nazionale e nel 2007 oggetto di un nuovo intervento di monumentalizzazione, che ha comportato anche la realizzazione di un centro visite.

Un primo accordo provvisorio per la spartizione del territorio tra gli eserciti vincitori portò alla divisione della Venezia Giulia in due parti delimitate dalla “linea Morgan”: la parte occidentale fu assegnata all’amministrazione dell’esercito anglo-americano (Zona A); la parte orientale assegnata all’amministrazione militare dell’esercito jugoslavo (Zona B). Alla Zona A fu assegnata anche la città di Pola, in Istria, con una limitata porzione territoriale. Zone A e B della Venezia Giulia furono amministrate dall’autorità militare occupante: Governo Militare Alleato (AMG) e Governo Militare Jugoslavo (VUJA). Tale demarcazione venne stabilita durante un incontro tenuto a Belgrado il 9 giugno 1945 tra i rappresentanti della Gran Bretagna e degli Stati Uniti con il Ministro degli Esteri jugoslavo. L’accordo di Belgrado prevedeva il controllo anglo-americano delle ferrovie e delle strade che si dirigevano da Trieste all’Austria, comprese le città di Gorizia, Caporetto e Tarvisio; divenne esecutivo il 12 giugno 1945, data in cui le truppe jugoslave si allontanarono da Pola, da Trieste, da Gorizia e, più a nord, ripiegarono sulla riva sinistra dell’Isonzo. La “linea Morgan” rispondeva principalmente alle esigenze militari anglo-americane, poiché il controllo delle vie di comunicazioni verso l’Austria era considerato di rilievo strategico per i rifornimenti delle truppe presenti in quel settore. La demarcazione attuata dalla “linea Morgan” cessò il 10 febbraio 1947, con la conclusione delle trattative di pace di Parigi e fu abbandonata definitivamente dal 15 settembre 1947, quando il nuovo confine fu segnato. Le discussioni durante le trattative si concentrarono su linee di confine sfavorevoli all’Italia, stato aggressore e sconfitto nella guerra appena conclusa, e si differenziarono per l’ampiezza del territorio destinato alla Jugoslavia. Le indicazioni più penalizzanti per l’Italia provennero dalla Jugoslavia e dall’Unione Sovietica in quanto prevedevano la cessione di Trieste, Gorizia, Tarvisio, Cividale, Grado e tutta l’Istria; le indicazioni meno punitive furono quelle inglese e statunitense, che seguivano nella parte settentrionale il confine che divideva fino al 1914 la provincia di Udine dal litorale austriaco, ma nella parte meridionale lasciavano all’Italia Trieste, Gorizia, Gradisca e l’Istria occidentale da Capodistria fino a Pola; alla Jugoslavia venivano cedute Fiume e Pisino. La proposta francese nella parte settentrionale seguiva le indicazioni degli alleati, ma riduceva il territorio istriano da mantenere all’Italia, che si fermava a Cittanova e al fiume Quieto. Il Governo italiano indicò una linea di confine che rinunciava alle città di Fiume e di Zara. Nessuna variazione fu introdotta al confine tra Italia e Austria. Il 10 febbraio 1947 venne firmato a Parigi il Trattato di Pace che stabiliva il nuovo confine tra la Repubblica Italiana, la Repubblica Socialista Federativa di Jugoslavia e la Repubblica d’Austria.

Il Territorio Libero di Trieste venne istituito il 15 settembre 1947 e prevedeva un Governatore nominato da Italia e Jugoslavia. Il territorio Libero di Trieste rimase, dunque, diviso in due parti, mentre il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite avrebbe garantito la sua integrità territoriale e la sua indipendenza. Questa situazione iniziò a cambiare l’anno successivo. Tra le condizioni che hanno determinato la scomparsa del Territorio Libero di Trieste, un ruolo determinante si deve attribuire ai mutati rapporti all’interno degli stati comunisti dell’est europeo: in particolare nell’anno 1948 si produsse una frattura di forte impatto politico, ideologico ed emotivo tra la Jugoslavia e l’Unione Sovietica. Se nel marzo 1948 Gran Bretagna, Stati Uniti e Francia si dichiarano favorevoli al ritorno di tutto il Territorio Libero di Trieste all’Italia, dopo il giugno 1948 (data della rottura tra Stalin e Tito) nella Zona B vennero abolite le barriere doganali con la Jugoslavia e fu estesa la legislazione jugoslava, evidenziando l’intento di annessione dell’area. Solo nel 1953, a seguito di una tensione crescente, con pressioni militari lungo i confini e soprattutto con la dichiarazione comune di Stati Uniti e Gran Bretagna sull’intenzione di ritirare le proprie truppe dalla Zona A del Territorio Libero di Trieste, furono avviati contatti determinanti per giungere ad una soluzione.

La cessione dell’Istria, di parte della Dalmazia e di parte del Friuli Venezia Giulia, prevista dal trattato di Trieste, comportò l’esodo di massa da quei territori in cui la popolazione italiana si ritrovò sotto la Repubblica di Jugoslavia.

Dell’esodo parla Armando Sestani, in qualità non solo di storico, ma anche e soprattutto di esule di seconda generazione, cioè nato in territorio italiano, a Taranto dove era stata collocata la sua famiglia dopo la scelta forzata di lasciare Pola.

Per esodo si intendono “quei casi in cui un gruppo di abitanti fu indotto a fuoriuscire dai confini politici del territorio in cui viveva a causa di pressioni esercitate dal governo che lo controllava, sia in termini di violenza diretta sia in termini di privazione di diritti, soprattutto in corrispondenza di un radicale mutamento politico che investe le relazioni tra stati (conflitti bellici, crolli e costruzioni di stati)”. L’esodo quindi è un particolare tipo di spostamento forzato di popolazione, diverso nelle modalità di attuazione rispetto alla deportazione ovvero all’espulsione, ma che giunge al medesimo risultato. Molti degli Italiani di Fiume e dell’Istria optarono per la cittadinanza italiana (come previsto dal Trattato di pace) trasferendosi nella Penisola. Tale scelta ebbe molteplici motivazioni: lo “spettro” delle foibe faceva sentire la popolazione italiana poco protetta mentre si verificavano una serie di abusi, prevaricazioni e violenze. Le politiche jugoslave di confische (abitazioni, botteghe, officine, proprietà agricole, strumenti di produzione, tecnologie anche minime) delle collettivizzazioni, dei rifornimenti di beni di prima necessità, delle politiche culturali, scolastiche e religiose, della formazione dei giovani, del lavoro volontario e coatto senza dubbio contribuirono a scegliere di lasciare la propria terra e di andare in Italia. Le autorità jugoslave tentarono a loro modo di frenare l’esodo, in base a diversi presupposti: il timore di uno svuotamento dell’Istria e il conseguente smacco politico che ne sarebbe derivato; la convinzione che la maggior parte dell’italianità istriana fosse fittizia, frutto di processi di snazionalizzazione che andavano corretti; la necessità di mantenere le piccole e grandi professionalità possedute dagli Italiani ; l’utilità di trattenere «italiani onesti», che sostanziassero le parole d’ordine della fratellanza italo-slava.  L’esodo non fu un evento unico ma un processo di abbandono lungo l’arco cronologico 1943-1956. I distacchi furono diversificati per motivazioni e tempistiche. L’esodo da Zara fu il primo in ordine cronologico: iniziato già nel 1941 con una prima ondata di 10.000 partenze, proseguì nel 1942, al ritmo delle devastanti incursioni aeree alleate; si intensificò con l’ingresso delle truppe jugoslave nell’ottobre 1944, per concludersi nei primi anni ’50: nell’intero periodo la città perse il 70% della popolazione residente nel 1942, circa 43.670 persone (vittime incluse). A Fiume l’esodo per più di 20.000 italiani iniziò nel maggio 1945 ed entro il gennaio 1946 si raggiunsero circa 36.000 abbandoni.

Armando Sestani si concentra sull’esodo da Pola, città da cui proveniva la sua famiglia. Egli arricchisce il suo racconto con la presentazione di preziosi documenti di famiglia, quali l’elenco delle masserizie da trasportare, la scelta (scritta in italiano, croato e inglese, di suo padre di abbandonare l’Istria, le carte di identità dei genitori in 4 lingue).

 A Pola, nel luglio 1946, su 31.700 residenti, 28.058 dichiararono di voler lasciare la città in caso di definitiva cessione alla Jugoslavia. La strage di Vergarolla del 18 agosto (l’esplosione dolosa di una ventina di bombe posizionate sulla spiaggia fece 65 vittime e una quarantina di feriti) fu vissuta dalla popolazione come strategia terroristica jugoslava per mettere in fuga gli italiani e per convincere coloro che già avevano optato per l’abbandono della loro terra di aver fatto la scelta giusta. A dicembre si aprì un movimento di massa che coinvolse circa 30.000 persone. Così migliaia di istriani presero posto sui piroscafi -celeberrimo il Toscana, in spola fra Pola ed Ancona, su cui salirono anche i genitori di Armando Sestani, che ne mostra una foto- messi a disposizione dal Comitato esodo dal Governo italiano. Le immagini dell’imbarco sul piroscafo Toscana sarebbero divenute icona di tutto il movimento dell’esodo.

Tra gennaio e aprile 1951, la riapertura dei termini per opzioni consentì l’espatrio 6.580 persone. La prima e principale ondata di esuli, quella relativa all’esercizio del diritto di opzione dopo il Trattato di pace del 1947, non ebbe per meta principale Trieste (dove comunque alla vigilia del Memorandum gli esuli erano già oltre 30.000) ma la penisola italiana.

Concentrandosi sulla città di Pola: Già nel marzo 1946 a Pola la popolazione italiana organizza una manifestazione spontanea per ribadire il netto rifiuto nei confronti di ogni ipotesi annessionistica della città alla Jugoslavia di Tito. Nel luglio 1946 a Trieste il CLN dell’Istria propone di indire tra la popolazione istriana un plebiscito. Contemporaneamente inizia a Pola la raccolta delle dichiarazioni di esodo in caso di cessione della città alla Jugoslavia: i dati annunciano come, su un totale di 31.700 abitanti, almeno 9.496 capifamiglia avrebbero intrapreso la via dell’esilio. Nel dicembre 1946 a Pola il locale CLN dichiara ufficialmente aperto l’esodo e nel febbraio 1947 la motonave Toscana, messa a disposizione degli esuli dal governo italiano, intraprende il suo primo viaggio. Ne farà altri 12 tra Pola e Venezia e Pola e Ancona fino al 20 marzo, data dell’ultimo trasporto.

 In Italia, l’accoglienza pubblica ai giuliano dalmati avvenne nel quadro di altre categorie di profughi, entro 92 strutture, dislocate in 43 città italiane, che giunsero a essere 109, nel corso degli anni ’50. La loro gestione era dipendente dal Ministero dell’Interno e dall’ Assistenza Post-Bellica, che cooperavano con le autorità comunali. Altri aiuti giunsero dall’Opera per l’assistenza ai profughi giuliani e dalmati. Sorti per fornire asilo temporaneo, molti campi divennero la residenza dei giuliano dalmati per periodi anche lunghi, nonostante le dure condizioni di vita: temperature proibitive, mancanza di igiene, epidemie, promiscuità, frantumazione delle famiglie. Alcune migliaia di esuli non ressero un tale esperienza e presero la via dell’emigrazione in America ed Oceania. Quanto all’accoglienza da parte della società italiana, si intrecciarono gare di solidarietà ed atti di rifiuto. Questi ultimi ebbero spesso matrice politica, dal momento che la propaganda comunista dipinse gli esuli come fascisti in fuga da un paradiso socialista. Superata la prima emergenza, autorità pubbliche e soggetti privati avviarono un’ampia gamma di iniziative a favore dei profughi. Interventi legislativi e provvedimenti in materia di ricovero dei minori, occupazione, assegnazione di alloggi, funzionarono da acceleratore ai processi di inserimento. A partire dal 1952 era stato varato il piano di edilizia nazionale per la nascita di «borghi» giuliani in 42 città italiane, mentre a Trieste entrava in una fase operativa la costruzione di abitazioni nella cintura periferica cittadina e sul Carso. Infatti, avere una casa era il sogno più grande degli esuli, costretti a trascorrere molti anni in campi -ad esempio nel Villaggio San Marco, all’interno del campo di concentramento di Fossoli, dove i profughi rimasero fino al 1970-, alloggi di fortuna o edifici dismessi, come il Reale Collegio di Lucca, citato da Sestani.

La permanenza degli Italiani nei territori ceduti fu poco visibile. I «rimasti» erano due volte minoranza: rispetto alla scelta maggioritaria dell’esodo e di fatto minoranza nazionale nella Jugoslavia di Tito. Dal primo censimento ufficiale jugoslavo (1948) che definiva la cifra provvisoria di 79.575 italiani nella zona attribuita alla Jugoslavia dal Trattato di Parigi, la popolazione italiana fu in continuo decremento: nel 1981 si censivano solo circa 15.000 presenze. Le comunità italiane si adattarono, impararono a vivere nei ter- mini di normalità la scomparsa dei compaesani, la desertificazione dei luoghi, l’innesto di altre etnie, l’anomalia del passaggio da una condizione egemonica a quella di minoranza, lottarono per non scomparire come identità nazionale. Grave e protratto fu l’isolamento rispetto alla nazione madre; per una rete strutturata di scambi con l’Italia si dovette attendere la metà degli anni Sessanta.
Il 5 ottobre 1954 venne firmato a Londra il Memorandum tra Italia e Jugoslavia in base al quale si stabilì l’assegnazione della Zona A all’amministrazione italiana e della Zona B a quella jugoslava. Con il Memorandum di Londra iniziò il “grande esodo dalla zona B” che si concluse ufficialmente nella primavera 1956, con circa 40.000 partenze, pari ai 2\3 della popolazione. Le stime attuali indicano un flusso complessivo di 280.000- 300.000 persone.

Il superamento del Territorio Libero di Trieste venne definitivamente confermato dal Trattato di Osimo (10.11.1975), che pose fine alle incertezze. La formazione di nuovi Stati sul territorio della Jugoslavia dopo il 1991 non modificò i precedenti confini con la Repubblica italiana o con la Repubblica austriaca, ma determinò la comparsa di nuove formazioni statali, in particolare della Slovenia e della Croazia. La Repubblica di Slovenia a seguito di un referendum (23.12.1990) dichiarò la propria indipendenza dalla Jugoslavia e approvò una nuova costituzione il 25 giugno 1991. L’intervento dell’esercito federale jugoslavo diede avvio ad un conflitto con le forze armate slovene che si protrasse dal 26 giugno all’8 luglio 1991 e si concluse con il ritiro dal territorio della Slovenia di tutte le forze armate federali nel successivo mese di ottobre. La Repubblica di Croazia organizzò un referendum (19.5.1991) e proclamò la propria indipendenza il 25 giugno 1991.

Significativi cambiamenti nei rapporti tra gli stati dell’Alto Adriatico sono legati all’Unione Europea, di cui fanno parte con l’Italia (membro costituente fin dal 1958 della Comunità Economica Europea) anche l’Austria (dal 1° gennaio 1995) e la Slovenia (dal 1° maggio 2004).

Dal 20 dicembre 2007 il confine tra Italia e Slovenia ha perduto ogni carattere di filtro burocratico, con la eliminazione delle strutture di controllo doganale e l’abbattimento di gran parte degli arredi presenti sui valichi di confine (sbarre, guardiole, ecc.).




Dopo una partecipata Assemblea sociale, eletto il nuovo Consiglio direttivo dell’ISRT

L’Istituto storico toscano della Resistenza e dell’età contemporanea ha un nuovo consiglio. Eletti lunedì 15 febbraio da un’assemblea dei soci per la prima volta convocata in modalità online, i 18 nuovi titolari delle cariche sociali sono in prevalenza storici, con una presenza molto qualificata e variegata della società fiorentina e toscana.

Ecco anzitutto i consiglieri eletti in rigoroso ordine alfabetico: Franca Maria Alacevich, Pier Luigi Ballini, Leonardo Bianchi, Roberto Bianchi, Luca Brogioni, Camilla Brunelli, Pietro Causarano, Francesca Cavarocchi, Paul Corner, Valeria Galimi, Stefano Grassi, Gianluca Lacoppola, Giuseppe Matulli, Andrea Morandi, Mario Rossi, Irene Stolzi, Diana Toccafondi e Luigi Tomassini. Al voto sei sono presentati 25 candidati, come prevede lo Statuto, 12 consiglieri uscenti e 13 nuovi all’esperienza operativa nell’Istituto.

“I neoconsiglieri dovranno misurarsi con i nuovi scenari del XXI secolo. Non solo pandemia sanitaria, ma pandemia “populista”, nuove culture e nuovi sistemi di valore – sottolinea il presidente dell’IRST Giuseppe Matulli nel suo messaggio all’assemblea – L’Istituto deve diventare più flessibile ma tenere saldamente la barra di una politica della storia che contrasti il rischio di impoverimento culturale in un mondo caratterizzato dal progresso tecnologico”.

Il direttore Matteo Mazzoni ricorda i risultati ottenuti nell’ultimo difficile anno di pandemia, nonostante le criticità legate alle chiusure e alla riduzione dei finanziamenti. “La prospettiva strategica dell’Istituto, che riunisce ambiti ed attività spesso suddivisi fra enti diversi (dalla tutela del patrimonio, alla ricerca storica, dalla didattica alla divulgazione), parte dal lavoro di coordinamento degli istituti provinciali realizzato in questi anni e dalla competenza e passione di tutti coloro che vi lavorano e vi collaborano”.

Matulli e Mazzoni hanno poi sottolineato il ruolo importantissimo di Simone Neri Serneri e della sua lunga gestione prima come direttore e poi come presidente ed evidenziato la particolarità dello stretto rapporto tra ISRT e Regione Toscana nel contesto della politica della memoria sempre fondata su un rigoroso approccio storico. Entrambi confidano che la Regione, pur nell’eccezionalità della situazione, confermi i contributi previsti così da poter mantenere tutte le attività culturali a servizio del territorio.

L’assemblea ha visto una larga partecipazione dei soci, più di 65 gli intervenuti che hanno animato un confronto di grande qualità insieme all’assessora regionale alle Politiche della memoria Alessandra Nardini, che ha ringraziato l’ISRT e la rete degli istituti provinciali della Resistenza e dell’età contemporanea per il loro fondamentale ruolo di “presidio” culturale in un periodo di revisionismi e sovranismi, confermando anche l’impegno finanziario della Regione.

Il confronto in assemblea ha messo in evidenza la necessità per l’ISRT di lavorare ancor più decisamente, in rapporto con le istituzioni, per “storicizzare la memoria” e per incidere sulla cultura del territorio. Grande attenzione è stata dedicata anche alla questione dell’educazione alla cittadinanza, nuova materia per le scuole italiane, e del ruolo dell’Istituto come punto di riferimento per il mondo della scuola e per l’educazione permanente degli adulti.




Rinnovo degli organismi statutari dell’Isgrec

Nell’Assemblea dei soci del 14 gennaio è stato eletto il nuovo Consiglio direttivo dell’Isgrec.

ELENA VELLATI, già consigliera nel precedente cd, storica dell’arte, archivista professionista e docente di lettere e storia in distacco presso l’Isgrec. Ha collaborato in passato con l’Archivio di Stato di Grosseto, curando lo studio e una prima descrizione di importanti fondi archivistici. Collabora con l’Associazione archeologica maremmana. Tra le numerose pubblicazioni ricordiamo la curatela con Mariagrazia Celuzza del volume “La grande Trasformazione. Maremma tra epoca lorenese e tempo presente” (collana Isgrec/Effigi) e “Il Convento di Santa Chiara di Grosseto tra storia ed arte. Recupero di un monumento urbano” pubblicato nel 2004 con la Dott.ssa Francesca Putrino, recentemente scomparsa. Dal 2014 fa parte della redazione di Novecento.org, rivista on line di didattica della storia della “Rete Parri”. Confermato anche STEFANO CAMPAGNA, il più giovane tra gli 11 membri. Laureato in storia all’Università di Pisa, è attualmente dottorando di ricerca presso l’Università di Parma con un progetto sull’uso dei mezzi di comunicazione di massa nella scuola elementare fascista tra anni Trenta e Quaranta. Si occupa in particolare dei rapporti tra cinema e Storia, della cultura di massa di epoca fascista, dei processi di ricezione e adattamento locale delle narrazioni mediatiche. Collabora con l’Istituto dal 2016. Anche FLAVIO AGRESTI è al secondo mandato; già sindaco del Comune di Scarlino dal 1970 al 1980, dal 2016 è presidente dell’ANPI provinciale “Norma Parenti” di Grosseto. Secondo mandato anche per ROBERTO COSTANTINI, membro dell’Accademia dei Georgofili dal 2017, si occupa soprattutto di produzione di cartografia, collaborando anche con il MIBACT alla realizzazione di sistemi informatizzati per la gestione dei vincoli architettonici, archeologici e paesaggistici. Nel periodo 2014-2018 è stato membro del Comitato Tecnico Scientifico del Polo Universitario Grossetano. Riconferma anche per LIO SCHEGGI, già Assessore del Comune di Grosseto dal 1993 al 1997 e Presidente della Provincia dal 1999 al 2009.

Sono invece al primo mandato 5 consiglieri. ENRICO ACCIAI, storico esperto di storia europea tra ‘800 e ‘900, con un particolare interesse per la storia del volontariato transnazionale in armi in epoca contemporanea, già ricercatore in Spagna e nel Regno Unito e professore associato presso l’Università di Copenaghen, è attualmente ricercatore dell’Università di “Tor Vergata”; collabora da anni con l’Isgrec, con il quale ha pubblicato due volumi della collana ISGREC/Effigi ed è stato membro del Comitato scientifico. Anche VINZIA FIORINO è al primo mandato; insegna Storia contemporanea all’Università di Pisa. Si è occupata prevalentemente di storia politica delle donne, di storia sociale e culturale della psichiatria e di storia delle amministrazioni locali. Fa parte della SISSCO, della Società italiana delle storiche (SIS) ed è membro del consiglio direttivo del Centro interuniversitario di Storia culturale dell’Università di Padova. Prima esperienza anche per MARCO GRILLI, storico, specializzato con un master in Storia e storiografia multimediale dell’Università Roma3; alla tesi di master è stata riconosciuta la medaglia d’argento della Camera dei Deputati. Giornalista pubblicista dal 2011, dal 2006 è ricercatore dell’Isgrec; si è occupato di fascismo locale, stragi nazifasciste e Resistenza ed ha pubblicato nella collana Isgrec/Effigi “Per noi il tempo si è fermato all’alba. Storia dei Martiri d’Istia” e un saggio in “Il fascismo a Grosseto. Figure e articolazioni del potere in provincia (1922-1938)”. Sue le schede riguardanti le stragi di civili in Maremma per il progetto “Atlante delle stragi naziste e fasciste in Italia”, finanziato dal governo tedesco e promosso dall’Istituto nazionale Parri. Anche GIACOMO PACINI collabora con l’Isgrec da più di un quindicennio; è uno studioso dell’Italia Repubblicana, specializzato in storia dei Servizi segreti con particolare riferimento all’eversione e ai poteri occulti. Lavorando su archivi rimasti per anni inesplorati si è occupato di violenze contro i civili nella seconda guerra mondiale, sulle attività segrete dell’Ufficio Zone di Confine lungo il fronte orientale, su vicende di violenza politica e terrorismo nell’Italia Repubblicana; ha studiato la vicenda dell’organizzazione segreta Gladio pubblicando sull’argomento con Einaudi nella prestigiosa collana “Storica”. È appena uscito, sempre per Einaudi Storia, “La spia intoccabile. Federico Umberto D’Amato e l’Ufficio Affari riservati”, giunto in meno di una settimana alla seconda ristampa. Un altro collaboratore di lunga data dell’Isgrec è entrato a far parte del Direttivo: LUIGI ZANNETTI, videomaker e fotografo, dal 2002 realizza cortometraggi e documentari, alcuni dei quali hanno vinto prestigiosi premi. Ha collaborato con i principali media nazionali e con Istituzioni pubbliche e private, risultando vincitore o finalista di importanti Festival cinematografici e concorsi fotografici. Per l’Isgrec ha realizzato documentari storici tra cui: La strage di Niccioleta (2006), La nostra storia è la storia degli altri (2011), Tutte le speranze d’un epoca (2013), Fu la loro scelta (2014), Maremma come Mediterraneo (2015), Tirar su una città non è cantare una canzone (2018), La conoscenza scaccia la paura (2018-19).

Infine, PAOLO PASSANITI, che vanta già una lunga esperienza di collaborazione con l’Isgrec, prima come membro del Consiglio direttivo (2016-2019), poi in qualità di membro del Comitato scientifico. È professore di Storia del diritto medievale e moderno presso l’Università di Siena.  Tra le numerose pubblicazioni si segnalano: “Filippo Turati giuslavorista. Il socialismo nelle origini del diritto del lavoro” del 2008 (premio Matteotti 2010), “Diritto di famiglia e ordine sociale. Il percorso storico della società coniugale in Italia” (2011), “Lavoro e cittadinanza femminile. Anna Kuliscioff e la prima legge sul lavoro femminile” (2016). Le ultime monografie riguardano la mezzadria (“Mezzadria. Persistenza e tramonto di un archetipo contrattuale”, 2017) e il paesaggio (“Il diritto cangiante. Il lungo Novecento del paesaggio italiano”, 2019). È anche membro del cda e del comitato scientifico della Fondazione di studi storici Filippo Turati, del consiglio direttivo della Biblioteca del circolo giuridico dell’Università di Siena. È stato tra i soci fondatori della Società italiana di storia del lavoro.

Nel corso della prima riunione del Consiglio direttivo, il 13 febbraio, è stato eletto il nuovo Presidente; al Prof. Luca Verzichelli succede alla guida del CD una figura altrettanto autorevole della stessa Università, il Prof. Paolo Passaniti. Eletti anche due Vicepresidenti, Lio Scheggi e Stefano Campagna. La direzione è stata invece affidata a Ilaria Cansella, dottora di ricerca presso l’Università di Siena, con alle spalle una lunga collaborazione con l’Isgrec per l’attività di ricerca e formazione, coautrice di due numeri della collana Isgrec/Effigi, “Storie di indesiderabili e di confini. I reduci antifascisti di Spagna nei campi francesi (1939-1941)” e “Volontari antifascisti toscani nella guerra civile spagnola”.

Un impegno consolidato, quello dell’Isgrec, che si colloca oggi nel difficile contesto dell’avvio dei lavori per la ristrutturazione e il recupero della sede storica e della nuova sfida della progettazione culturale e scientifica per “far vivere” la Casa della memoria al Futuro a Maiano Lavacchio.

Tanti i progetti a breve e medio periodo per l’Isgrec, la cui attività, nonostante le difficoltà imposte dal contesto pandemico, ha continuato a rivolgersi alla scuola, con una collaborazione sempre più stretta con gli insegnanti del territorio che si avvalgono dei corsi di aggiornamento e dei laboratori per gli studenti. Prosegue anche l’attività di ricerca, con un progetto editoriale dedicato alla Resistenza in Maremma, che ha ricevuto il plauso e il contributo finanziario del Mibact. L’attività dell’Istituto continua ad essere rivolta alla cittadinanza, non solo attraverso l’organizzazione di eventi culturali come in occasione delle recenti celebrazioni del calendario civile, ma anche attraverso il servizio pubblico offerto dalla sua biblioteca e dall’archivio.




Presentazione del volume di Giacomo Pacini “La spia intoccabile. Federico Umberto D’Amato e l’Ufficio Affari Riservati” (Einaudi Storia, 2021)

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«Sapeva quasi tutto di tutti e quello che non sapeva, tutti pensavano che lo sapesse», si dice di Federico Umberto D’Amato: “anima nera” della Repubblica, per i suoi detrattori; il più grande uomo di intelligence che l’Italia abbia mai avuto, per i suoi estimatori. Per tutti un uomo temutissimo, a capo tra l’inizio degli anni Sessanta e la metà degli anni Ottanta dell’organismo informativo del Ministero dell’Interno, quell’Ufficio Affari Riservati (UAR) al centro dei più grandi misteri italiani durante gli anni della guerra fredda. La sua figura è al centro del nuovo volume dello storico Giacomo Pacini, “La spia intoccabile. Federico Umberto D’Amato e l’Ufficio Affari Riservati”, appena uscito per Einaudi Storia e subito balzato in testa nelle classifiche dei libri più venduti.

Pacini, già autore nel 2010 di “Il cuore occulto del potere. Storia dell’ufficio affari riservati del Viminale (1919-1984)”, pubblicato con l’editore Nutrimenti, e di “Le altre Gladio: La lotta segreta anticomunista in Italia. 1943-1991”, pubblicato sempre nella collana Einaudi Storia nel 2014, ricostituisce attraverso un apparato documentale imponente la storia dell’UAR e l’operato di Federico Umberto D’Amato che ne era a capo; ne esce il quadro di un organismo responsabile di una spregiudicata e capillare opere di infiltrazione all’interno di partiti politici, sindacati e movimenti extraparlamentari, una “polizia parallela” del tutto autonoma rispetto alle forze di pubblica sicurezza, in grado di gestire e tenere a libro paga centinaia di informatori in tutta Italia. L’UAR era un ente, quindi, che agiva come un vero e proprio servizio segreto al di sopra delle leggi e del Parlamento, non troppo conosciuto alla stampa, alle forze politiche e alla stessa magistratura. Lo stesso Federico Umberto D’Amato, per anni detentore di un potere talmente pervasivo da permettergli di condizionare le scelte politiche dei vari ministri dell’Interno, è un personaggio oscuro e poco conosciuto, sul quale Pacini riesce finalmente a far luce.

Venerdì 12 febbraio alle ore 17.30  ne discuteranno con l’autore i giornalisti e scrittori Paolo Morando e Fabio Isman nel corso di un incontro on line nella pagina facebook e nel sito internet dell’Istituto storico grossetano della Resistenza e dell’età contemporanea. L’evento è organizzato dall’Isgrec in collaborazione con Giulio Einaudi editore. Info: ISGREC, 0564415219, segreteria@isgrec.it, www.isgrec.it, www.facebook.com/isgrec.istitutostoricogr




Conferimento della Laurea Honoris causa in Scienze per la Pace da parte dell’Università di Pisa alla Senatrice Liliana Segre

Nell’ambito delle iniziative per la Giornata della Memoria, martedì 2 Febbraio, nell’Auditorium Polo della Memoria San Rossore 1938 (non a caso) dell’Università di Pisa si è tenuta una manifestazione articolata in due parti: dapprima la presentazione del volume di Marina Riccucci e Laura Ricotti Il dovere della parola. La Shoah nelle testimonianze di Liliana Segre e Goti Herskovitz Bauer, poi la cerimonia di conferimento della Laurea Magistrale Honoris causa per la Pace alla Senatrice Liliana Segre.

La manifestazione si è tenuta parzialmente in presenza e su piattaforma telematica. A coordinare l’evento Fabrizio Franceschini, Direttore del CISE, Centro Interdipartimentale di Studi Ebraici.

Alle 11 si è aperta la cerimonia con i saluti istituzionali del sindaco di Pisa, Michele Conti, seguito dal prefetto Giuseppe Castaldo, il quale afferma “bisogna difendere la popolazione dal virus più terribile, quello della violenza e dell’intolleranza” e da Alessandra Nardini che definisce Liliana Segre “modello di donna libera e di pace” elogiandone “la generosità con cui ha lasciato alla generazione successiva i valori di giustizia e uguaglianza”. Poi aggiunge “abbiamo il dovere della memoria e anche quello di fare i conti con la nostra storia di Italiani e di Europei”. La ricorda come una bambina di otto anni “a cui è stata tolta l’infanzia” e conclude citando un episodio assai significativo, spesso citato dalla Senatrice a vita, relativo alla fuga delle SS dai lager e il loro tentativo di eclissarsi gettando divise e armi. “Quando anche il comandante di quell’ultimo campo vicino a me si mise in mutande, quell’uomo alto, sempre elegantissimo, crudele sulle prigioniere inermi, e buttò la divisa sul fosso, la sua pistola cadde ai miei piedi ed io ebbi la tentazione fortissima di prenderla e sparargli. Lo avevo odiato, avevo sofferto tanto, sognavo la vendetta: quando vidi quella pistola ai miei piedi, pensai di chinarmi, prendere la pistola e sparargli. Mi sembrava un giusto finale di quella storia, ma capii di esser tanto diversa dal mio assassino, che la mia scelta di vita non si poteva assolutamente coniugare con la teoria dell’odio e del fanatismo nazista; io nella mia debolezza estrema ero molto più forte del mio assassino, non avrei mai potuto raccogliere quella pistola, e da quel momento sono stata libera.” È poi la volta di Luciano Barsotti, presidente della Fondazione Livorno, che ha finanziato la pubblicazione del libro presso la casa editrice Pacini. Egli ricorda come la sua città, fin dalla fondazione, ha convissuto con la comunità ebraica, lì molto numerosa, traendo benefici da questo sincretismo culturale.

Inizia poi la cerimonia vera a propria. Il professor Fabrizio Franceschini spiega il nome dato al luogo dove si sta svolgendo l’evento. Inaugurato il 25 febbraio 2020, Il nome “Polo della Memoria San Rossore 1938”, fortemente voluto dal rettore, è stato scelto per richiamare alla memoria collettiva la “Cerimonia del ricordo e delle scuse” celebrata nel 2018 in occasione dell’80° dalla firma delle leggi razziali “Con la scelta di questo nome vogliamo rinnovare in modo solenne un impegno, quello di difendere e promuovere i valori della democrazia, della libertà, dell’eguaglianza, della fratellanza e del diritto alla dignità di ciascun essere umano”. “Vogliamo che i nostri studenti conoscano i nomi di alunni e docenti perseguitati, espulsi, uccisi per motivi razziali: 20 docenti e 280 studenti”.   “Questo polo – prosegue Franceschini – fa da pendant con l’altro geograficamente sito nella parte opposta del centro storico di Pisa, il polo Pontecorvo, all’interno della stessa area in cui, negli anni Trenta del secolo scorso, sorgevano gli impianti tessili della famiglia Pontecorvo”. Il polo è dedicato a Guido, Bruno e Gillo, che oltre ad essere esponenti di primo piano nei rispettivi campi della genetica, della fisica e dell’arte cinematografica, hanno subito, in quanto ebrei, le persecuzioni razziali nel ’38 e sono dovuti fuggire all’estero, Guido ad Edimburgo, Bruno negli USA e Gillo in Francia. Questo ultimo è tornato poi in Italia per aderire alla Resistenza, coordinando azioni partigiane in Piemonte e Lombardia.

Giunge finalmente la presentazione del libro Il dovere della parola da parte delle autrici, Laura Ricotti e Marina Riccucci, che tra l’altro è anche membro del CISE, la quale spiega l’origine del libro che nasce dagli incontri e dalle conversazioni che hanno intrattenuto tra il 2017 e il 2020 con Liliana Segre e Goti Bauer. Il volume che si compone di quattro capitoli: nel primo Laura Ricotti ricostruisce il contesto storico dell’Olocausto, con riferimenti agli anni 1933-1945, dall’apertura del primo lager ai processi di Francoforte e di Norimberga. Il secondo capitolo verte sull’incontro a Milano tra Liliana Segre e Goti Bauer dopo la deportazione e il ruolo avuto dalla signora Goti nel processo che ha portato Liliana a farsi testimone. Il terzo è la prima biografia (autorizzata) di Goti Bauer, condotta sulla scorta delle parole e del racconto fatti da Goti alle due autrici, durante due incontri nel 2018 e nel 2020, entrambi a Milano. Il quarto, infine, è la storia di Liliana Segre riferita nell’intervista rilasciata a Marina Riccucci nella sua casa milanese nel marzo 2017, prima della nomina a senatrice a vita. Si tratta di un resoconto particolare, durante il quale Liliana Segre “ha parlato della sua vicenda di deportata ad Auschwitz con le parole di Dante, eleggendo termini ed espressioni dell’Inferno a vocabolario della sua testimonianza”. Il volume è corredato anche da videointerviste. La professoressa Riccucci, icasticamente, dice “dalla firma delle leggi razziali l’orizzonte aperto per gli ebrei è diventato quello chiuso di un vagone piombato e di una camera a gas” e conclude, spiegando il titolo del libro, “ogni frase pronunciata deve diventare una pietra di inciampo”.

In collegamento telefonico partecipa una delle testimoni, Goti Herskovitz Bauer, 96enne, sopravvissuta al campo di concentramento di Auschwitz e molto attiva nella memoria della Shoah. Originaria di Fiume, perde nell’Olocausto i genitori, un fratello, una sorella e un cognato. Ripercorrendo la propria vita dalla solitudine nel periodo delle leggi razziali, all’indifferenza e malvagità, Goti Bauer ricorda, con grande gratitudine, che tra la cattiveria generalizzata ci fu però anche un episodio di grande solidarietà: l’aiuto ed il conforto ricevuto dalla vicina di casa, la signora Angelina Braida, che, esponendosi a gravi rischi personali, fece murare un locale nella sua casa di vacanza a Laurana dove nascose oggetti di valore di tanti ebrei, tra cui anche quelli della famiglia di Goti. La cosa del lager che ricorda con più orrore è la frase “durch den kamin” (per il camino) alludendo ai formi crematori. Come per molti altri deportati, l’occasione della testimonianza per Goti arriva negli anni Novanta quando si riaccende nell’opinione pubblica l’interesse sulla Shoah e sui racconti dei sopravvissuti. Da allora la signora Bauer partecipa a numerosi incontri con le scuole e a manifestazioni pubbliche.

Alle 11:30 inizia la cerimonia di conferimento della laurea. Ad iniziarla è il Magnifico Rettore dell’università di Pisa, Paolo Maria Mancarella, che tiene un discorso intriso dei sentimenti che hanno animato la nostra costituzione. “E’ importante la memoria nell’Italia di oggi, che risulta divisa e incoerente di fronte ai valori che dovrebbero essere comuni -come il cielo nella filastrocca di Rodari: il cielo è di tutti, di ogni occhio è il cielo intero- e non calpestati da alcuni membri delle istituzioni per meri scopi elettorali, facendo leva sulla paura”. Poi introduce Liliana Segre con queste parole “ha imparato a parlare con dolcezza e intelligenza contro le barbarie del mondo” ed è proprio per questo che le viene attribuita la laurea honoris causa in Scienze per la pace.  La motivazione è letta dalla presidente del corso di laurea, Professoressa Eleonora Sirsi: “per il suo impegno nel contrastare gli hate speeches, promuovere una vera educazione alla cittadinanza, alla pace positiva e al ripudio della violenza”. La professoressa ripercorre poi la biografia di Liliana Segre, dall’infanzia con il padre, al precoce senso di ingiustizia a causa delle leggi razziali, fino al tentativo fallito di fuga in Svizzera con la famiglia, l’arresto e il carcere prima a Como e poi a San Vittore. Su quest’ultima esperienza la Senatrice ha però un ricordo dolce “eravamo noi due, io e mio padre, e in quella cella e ho vissuto momenti di felicità perché ero sola con lui”. Poi la deportazione a 14 anni ad Auschwitz, il numero di matricola 75190, il lavoro in una fabbrica di munizioni, il momento terribile in cui, trovandole un pidocchio, la rasano “avevo una consapevolezza nuova della mia nudità e del mio capo rasato…non ero mai stata così sola e infelice, avevo fame, freddo. In quella stanza c’era una bambina di circa 2 anni più grande di me, non parlava la mia lingua, credo che fosse ceca. Nei suoi occhi vedevo lo stesso orrore. Sfruttando il nostro latino scolastico, riusciamo però a dialogare. Non sapevo il suo nome, ma fra di noi nacque una intimità”. Quando torna a casa il 31 agosto 1945, a 15 anni, Liliana non ha voglia di ricordare. L’Italia di quel tempo non faceva della Shoah parte del racconto pubblico, una delle tante “amnesie della storia”, come le ha definite Remo Bodei. Negli anni ’70-’80 precipita nella depressione dalle quale esce grazie al lavoro (rileva la fabbrica paterna di tessuti) e all’inizio degli incontri pubblici e con gli alunni. Arrivano poi le onorificenze: a partire da quella di Commendatore al merito della Repubblica italiana, conferita da Ciampi nel 2004, alle 6 lauree honoris causa, di cui quella di Pisa è l’ultima, fino alla nomina a senatrice a vita nel 2018.

La laudatio è tenuta da Gadi Luzzatto Voghera e da Noemi Di Segni, rispettivamente direttore del CDEC, Centro di Documentazione Ebraica Contemporanea, e presidente dell’UCEI, Unione delle Comunità Ebraiche Italiane.

Il primo percorre gli studi essenziali, sia stranieri che italiani, sulla Shoah, a partire dall’opus magnum The Destruction of the European Jews, pubblicato da Raul Hilberg nel 1961 negli Stati Uniti, mentre nello stesso anno Renzo De Felice pubblica in Italia il molto discusso Storia degli Ebrei italiani sotto il Fascismo; gli esperimenti di Stanley Milgram negli anni ’70 che hanno in parte influenzato anche il saggio a Ordinary Men: Reserve Police Battalion 101 and the Final Solution in Poland di Christopher Browning del 1992; e Modernity and the Holocaust, pubblicato da Zygmunt Bauman nel 1989. Per la filmografia il monumentale documento di Claude Lanzmann Shoah del 1985. Questi studi creano un contesto culturale e civile che fa nascere “l’era del testimone” per dirlo con le parole di Annette Wieviorka.

La laudatio di Noemi Di Segni è all’insegna dell’importanza della memoria e della pace “l’impegno di memoria è un impegno morale per non precipitare nell’abisso del vuoto di umanità” e “il presupposto della pace sono la legalità e la consapevolezza del limite”.

Alle 13:20 avviene la consegna virtuale del diploma di laurea a Liliana Segre seguita dalla sua lectio magistralis. La Senatrice innanzitutto manda un abbraccio virtuale a Goti Bauer “amica e maestra di vita” e ringrazia per gli interventi le due scrittrici Riccucci e Ricotti. Poi, con grande umiltà si domanda “A volte mi chiedo come io possa aver ispirato tutto questo” e si definisce “nonna di me stessa, così come penso di esserlo stata per i tanti ragazzi che mi hanno ascoltato”. “Penso con pena infinita alla ragazzina che sono stata. Ero una bambina di 8 anni quando ascoltai dai miei cari, poi spazzati via dalla Shoah, che ero stata espulsa dalla scuola per la sola colpa di essere nata. Furono troppi quelli che accettarono le leggi razziali, anche per interesse personale, oltre che per indifferenza”. “Ma sono orgogliosa, credo, di essere stata utile nelle scelte di vita di chi mi ha ascoltato, cercando di trasmettere la forza che c’è in ognuno di noi. Ora sono una laureanda, molto matura e commossa”. “Continuerò, nei limiti delle mie forze, -ha concluso- nella mia opera di testimonianza e di costruzione di una società di pace, rispetto, responsabilità, dialogo, solidarietà ed accoglienza dell’altro“. Poi manda un abbraccio a tutti “con l’affetto di una nonna”.

La cerimonia si conclude con l’esecuzione del Kaddish di Maurice Ravel, nella produzione del Festival Nessiah.