25 aprile: confronto “virtuale” a Pisa sulla Resistenza.

Virtualmente a Pisa si è svolto il dibattito sul 25 aprile che ha visto coinvolti il sindaco di Sant’Anna di Stazzema, Maurizio Verona, la Professoressa Anna Loretoni, docente ordinaria di filosofia politica presso la  Scuola universitaria superiore Sant’Anna di Pisa, Preside della Classe Accademica di Scienze Sociali, coordinatrice del Phd in “Politics, Human Rights and Sustainability”, il Professore Paolo Pezzino, professore emerito di storia contemporanea all’Università di Pisa e Presidente dell’Istituto nazionale Ferruccio Parri.

Dapprima è intervenuto il sindaco di Sant’Anna di Stazzema sulla proposta di legge di iniziativa popolare -di cui si è fatto promotore-  contro la propaganda fascista e nazista “Norme contro la propaganda e diffusione di messaggi inneggianti a fascismo e nazismo e la vendita e produzione di oggetti con simboli fascisti e nazisti”.

La nostra proposta è andata ben oltre le aspettative che erano quelle di raccogliere 50.000 firme. E’ straordinario essere riusciti a raccoglierne già 240 mila, oltretutto in una circostanza anomala come quella della pandemia e senza l’aiuto dei media ma solo con quello di tante associazione e di qualche sindacato. Le firme verranno consegnate il 29 aprile al Parlamento, sperando che non facciano la fine delle carte chiuse nell’armadio della vergogna, che hanno procrastinato di 60 anni il processo per la strage di Sant’Anna di Stazzema”.

Il sindaco sottolinea poi che la creazione della anagrafe antifascista è una iniziativa non politica ma del popolo come fu il movimento partigiano.

Prende poi la parola il Professor Pezzino dicendo che la Resistenza è un fenomeno così complesso che è meglio parlare di resistenze al plurale, perché non ci sono solo i partigiani combattenti la “guerra di guerriglia” ma ci sono state anche resistenze civili, le resistenze senza armi, come quella dei 600.000 IMI, come quella delle donne che Anna Bravo ha chiamato “manutentrici della vita”, gli antifascisti politici, i sacerdoti (basti pensare al parroco di Sant’Anna di Stazzema o ai monaci della Certosa di Farneta) i deportati razziali, i partecipanti agli scioperi del ‘44.

Sul ruolo delle donne nella Resistenza interviene anche la Professoressa Loretoni dicendo “nella resistenza sono diventate cittadine ancora prima di acquisire diritto di voto !”. Poi afferma che le partigiane hanno iniziato tardi a raccontare la loro esperienza, ad esempio che il loro ruolo di combattenti non sempre era ben visto, perché rompeva lo stereotipo della donna come “angelo del focolare”, quindi erano spesso relegate al ruolo di staffetta, o attive nella “cura della vita”, ma anche nella vita,  ad esempio lavorando nelle fabbriche.

Riprende poi la parola Pezzino dicendo che il merito della Resistenza è anche quello di aver mostrato che vi erano degli italiani disposti a rischiare la vita per la liberazione del proprio paese. Basti pensare al fatto che molte città furono liberate prima dei partigiani che dagli alleati.

Quanto ai nemici della Resistenza, sono stato in primis i fascisti repubblicani e poi coloro che si sono rinchiusi nella sfera privata rinchiusi nella “indifferenza” di cui tanto parla anche la senatrice Liliana Segre.

Abbiamo avuto tanti indifferenti anche nel ’38 di fronte alle leggi razziali, firmate proprio qui a Pisa, a San Rossore. Anche le autorità accademiche pisane di fronte alle leggi razziali, che espellevano studenti e docenti ebrei, hanno spesso avuto un comportamento indifferente se non deplorevole , e non solo non hanno solidarizzato con i colleghi ebrei espulsi, ma si sono spartite le loro cattedre e dopo la guerra non hanno agevolato rientro dei loro colleghi. Per fortuna a Pisa fra Scuola Normale Superiore e Università vi sono stati docenti come Calogero e Capitini, che hanno cercato comunque di influire sulle coscienze degli studenti. “E poi dobbiamo ricordare Cesare Salvestroni, che nel ‘27 è stato cacciato dall’Università di Pisa perché si era rifiutato di prendere la tessera del PNF. Avrebbe contribuito inseguito alla fondazione del Partito d’Azione in quella città e fatto parte del CLN. Venne arrestato l’11 marzo ’44 e rinchiuso nel carcere di Firenze dove sostenne numerosi interrogatori e torture, senza rivelare notizie compromettenti per la Resistenza. Fu perciò inviato prima nel lager di Mauthausen e successivamente in quello di Ebensee dove morì il 2 marzo ’45 a seguito dei maltrattamenti subiti”.

La professoressa Loretoni sottolinea come nel partecipare alla Resistenza ci sia stata una scelta soggettiva e personale, e cita il discorso di Aldo Moro a Bari nel 1975, in occasione del trentennale della Resistenza, da cui emerge la consapevolezza che la resistenza fu lo scatto di un popolo ribelle che volle riprendersi la sua libertà.

Purtroppo oggi la democrazia, ancora più di 10 – 20 anni fa, è sottoposta a tante sfide che ne minano le stesse radici, così come espresse dalla Costituente, perché la democrazia non è solo una forma di governo.

Prendiamo ad esempio il populismo che sfida l’istituzione del Parlamento e il concetto della democrazia rappresentativa”. Si nota una regressione nella valorizzazione delle differenze e del pluralismo; e questo non solo in Italia ma anche in Europa, basti pensare alla Ungheria di Orban e alla sua teorizzazione di una “democrazia autoritaria” e a molti paesi del gruppo di Visegrad. Adesso ls democrazia è in pericolo in molti paesi, apparentemente democratici, del mondo: la Russia, la Cina, la Turchia, l’India.

E ciò che più preoccupa è che i modelli che sfidano la democrazia fanno molta presa suoi giovani, che preferiscono  governi autoritari che non garantiscono diritti politici e ritengono ormai desueto andare a votare e mettere con una matita una croce su una scheda di carta”.

Pezzino aggiunge che oggi i nemici della Resistenza sono tutti coloro che si oppongono  al 25 aprile, considerandolo una data divisiva. Ma non è così. “La Resistenza è la festa di tutti, tanto che ha dato la possibilità di parola anche a coloro che ora denigrano il 25 aprile o non la riconoscono e non la vogliono celebrare”.

Ma proprio su questa conclusione si collega Bruno Possenti, Presidente provinciale della ANPI di Pisa, a dare una grave notizia che arriva come un cazzotto al ventre della democrazia e uno sputo in faccia alla libertà.

Come già nel 2017, lo stesso giorno , cioè il 23 di aprile, è stato divelto il primo dei pannelli di  “vialibera”, un percorso di 27 pannelli, creato a Pisa, nella memoria dell’antifascismo, della Resistenza, della liberazione e della ricostruzione.

Uno sfregio mirato ad orologeria”, lo definisce Possenti.

E capiamo ancora di più dopo questo gesto quanto bisogno ci sia ancora del 25 aprile.




“Come si diventa nazisti” Una nuova proposta didattica.

In un periodo dell’anno scolastico in cui gli studenti delle classi quinte affrontano i temi storici inerenti i regimi totalitari, l’iniziativa promossa da A.P.I.S.) (Amore per il sapere) e l’Istituto Nazionale Ferruccio Parri (Rete degli Istituti della Resistenza e dell’età Contemporanea) offre un importante momento di riflessione per tentare di spiegare perché in tanti si sono riconosciuti in ideologie nazionaliste, razziste, antidemocratiche e si propone di fornire a studenti e docenti interpretazioni aggiornate sui regimi fascisti, per comprendere le cause del loro affermarsi nell’Europa del dopoguerra.

Il 12 Aprile 2021, dalle 11:00-12:00, si è tenuto un evento didattico in diretta streaming per le classi quinte delle Scuole Superiori dal titolo “Come si diventa nazisti?” a cui hanno aderito oltre 120 docenti, (dati toscani), per un totale di 3.000 studenti. Sono intervenuti gli storici Paolo Pezzino (docente emerito di Storia contemporanea presso l’Università di Pisa, già membro della Commissione storica italo-tedesca istituita nel 2008) e Daniel Lee (Docente di storia contemporanea presso la Queen Mary University of London).

La parte più ampia dell’incontro è stata costituita dalla lezione del Prof. Pezzino “Il primo dopoguerra in Europa e l’affermarsi dei regimi fascisti”.

Riassumiamo qui la relazione del Prof-Pezzino.

 La prima immagine del Novecento che balza agli occhi di chi lo osservi alla sua conclusione è quella di un secolo di enormi distruzioni, di grandi eccidi.

Il 1914, anno nel quale scoppiò il primo conflitto che fu poi definito ‘mondiale’, rappresenta indubbiamente una cesura.

La prima guerra mondiale fu dunque uno spartiacque non soltanto per il numero enormemente accresciuto dei morti e feriti, ma perché rappresentò il primo esempio di “guerra totale” in cui anche i civili diventano oggetto delle mire distruttive delle potenze avversarie.

La guerra del 1914-18 si concluse con circa 8,5-10 milioni di morti.

Ma non sono solo le guerre a caratterizzare il secolo come violento: al Novecento appartengono anche le stragi per motivi razziali, etnici e di classe, nonché lo sradicamento di intere popolazioni dalla loro terra per spostamenti di confini nazionali. Non è un caso che in questo secolo sia stato coniato il termine “genocidio”, per indicare lo sterminio programmatico di un gruppo etnico da parte di un potere statale.

Il primo genocidio “moderno” è rappresentato dalla strage di armeni compiuta dai turchi nel 1915-1916. Furono uccisi circa due terzi della minoranza armena vivente nel territorio dell’Impero ottomano: da un milione a un milione e mezzo di persone.

Indubbiamente il genocidio più “esemplare” è rappresentato dallo sterminio degli ebrei attuato dalla Germania nazista fra il 1941 e il 1945: oltre cinque milioni di ebrei assassinati, cioè circa i due terzi degli ebrei d’Europa. Ma non solo gli ebrei furono vittime della barbarie nazista, e non solo il nazismo attuò stermini di massa.

Sistemi politici fondati sull’uso generalizzato della violenza nei confronti di particolari gruppi etnici o di particolari gruppi sociali sono una caratteristica del ventesimo secolo. Ad esempio, in Unione Sovietica vennero deportati e sterminati interi gruppi sociali. per esempio, milioni di contadini a partire dal 1930, nel corso del processo di collettivizzazione forzata.

Ma massacri si sono ripetuti anche nella seconda metà del secolo: in Cambogia il regime comunista di Pol Pot ha sterminato, tra il 1975 e il 1979, da uno a due milioni di Cambogiani, su una popolazione stimata in 6-7 milioni.

In altri paesi sono stati i comunisti ad essere massacrati: così in Indonesia furono circa 500.000 i comunisti uccisi nel 1965 nel corso del colpo di Stato che portò al potere il generale Suharto.

I massacri a carattere etnico non sono un ricordo del passato: in Ruanda nel 1994 sono stati sterminate centinaia di migliaia di cittadini di etnia tutsi da parte dello stato controllato dall’etnia hutu, e nei territori dell’ex Jugoslavia, nel corso del processo di definizione dei confini dei nuovi stati sorti dalla disgregazione della Jugoslavia, sono state messe in atto, a partire dal 1992, operazioni di “pulizia etnica”, basti pensare al genocidio di Srebrenica.

Oggi ci sorprende che gli Stati nazionali abbiano potuto convincere milioni di persone a prestare servizio negli eserciti, e la guerra abbia trovato, almeno inizialmente, vasti consensi in quasi tutti i paesi. Il fatto è che ottenere la fedeltà alla nazione da parte di tutti i cittadini aveva rappresentato nel corso della seconda metà dell’Ottocento uno dei maggiori obiettivi degli Stati nazionali. L’aggressiva propaganda nazionalista che accompagnava le politiche imperialistiche delle grandi potenze era penetrata a livello di massa.

Un altro punto è l’identità: l’identità nazionale può fondare sentimenti di solidarietà nei confronti dei propri concittadini ma può essere concepita in maniera esclusiva, dando origine a gravi conflitti: in generale, più le identità sono percepite come forti ed integrali più sostengono comportamenti individuali e collettivi in cui alla solidarietà subentra l’esclusione di chi non condivide quell’identità, sia essa nazionale, ideologica, religiosa, etnica, e la capacità razionale dell’individuo viene offuscata dall’esaltazione di chi si sente protagonista di grandi processi storici: alla nazione subentra allora il nazionalismo, alla passione politica il fanatismo ideologico, alla fede l’integralismo religioso.

L’identità nazionale agli inizi del secolo era considerata in modo totalizzante ed esclusivo, non era sottoposta a considerazioni umanitarie. L’identità di un popolo si opponeva a quella degli altri. L’“altro” popolo diventava il nemico, da annientare in quanto tale. L’indifferenza per la vita delle popolazioni civili dei paesi avversari, quando non l’aperto disprezzo nei loro confronti, rappresentò perciò una costante nelle guerre del secolo.

Si fece strada l’idea che nella lotta politica si potesse usare contro l’avversario la stessa brutalità che in guerra era stata sperimentata contro il nemico. Il fanatismo della nazionalità sarebbe stato ben presto affiancato dal fanatismo dell’ideologia.

L’esperienza della guerra di massa causò, direttamente o indirettamente, l’emergere di sistemi politici fondati su ideologie che si definiscono totalitarie.

Il termine compare a partire dagli anni Venti, per individuare le caratteristiche dello stato fascista in Italia. Tuttavia viene utilizzato soprattutto per definire i caratteri della Germania nazista e dell’URSS staliniana.

Per totalitarismo si intende un regime politico caratterizzato dalla dittatura di un unico partito e dall’uso generalizzato del terrore. Nei regimi totalitari poi prevale la volontà di un capo assoluto, che controlla non solo il partito unico ma anche l’apparato statale, che perde ogni autonomia, e quello terroristico, rappresentato da una polizia segreta onnipotente.

I regimi totalitari sono guidati da un leader carismatico, e promuovono un’ideologia ufficiale, che riguarda tutti gli aspetti della società alla quale viene imposta, e pretende di costruire una società “nuova”. Essi si differenziano dalle dittature del passato perché puntano ad una mobilitazione continua delle masse, dalle quali vogliono ottenere un consenso forzato, compatto e monolitico, e presuppongono dei moderni mezzi di comunicazione di massa: infatti tutti gli strumenti di propaganda e comunicazione, dalla stampa alla radio e al cinema, sono controllati dal regime, e viene colpita qualsiasi forma di libertà di espressione.

I regimi totalitari tendono a controllare anche l’attività economica del paese, tramite la statizzazione di tutti i mezzi di produzione, come nel caso dell’URSS, o l’obbligo a partecipare agli obiettivi economici fissati autoritariamente dallo stato, come in Germania

Il totalitarismo può essere quindi considerato una forma di dominio politico basato su un’ideologia ufficiale imposta alla società, su un partito unico, sul potere assoluto di un capo, sul terrore poliziesco e sul controllo dell’economia e dei mezzi di comunicazione di massa.

Attorno a questo concetto i popoli d’Europa si dilaniarono. Nonostante l’ostilità manifestata nei confronti di una nuova guerra dalle popolazioni ancora memori degli orrori della prima, gli stati liberali e democratici si convinsero a scendere in campo contro la Germania nazista e i suoi alleati quando apparve evidente qual era la posta in gioco: lottare contro il fanatismo della nazionalità, dell’ideologia della razza che volevano imporre nell’intero spazio europeo.

Gli ultimi 10 minuti dell’incontro sono stati dedicati alla presentazione del libroLa poltrona della SS – La vicenda di Robert Griesinger”, di Daniel Lee storico esperto della seconda guerra mondiale in Francia e Nordafrica. Il libro sembra insieme un romanzo, un giallo, un manuale di buon uso di metodo storico.

La vicenda parte dal ritrovamento fortuito dell’imbottitura di una poltrona di documenti appartenenti ad un membro delle S.S., Robert Griesinger.  Lee trova a casa di una signora olandese una poltrona riempita di documenti con svastiche; la proprietaria della poltrona era di Praga ma si era trasferita negli anni ‘70 in Olanda e lì aveva comprato mobilio usato, fra cui la poltrona ed era del tutto ignara del contenuto della imbottitura. Tutti i documenti appartenevano a un funzionario nazista che lavorava a Praga ma era di Stoccarda da parte di madre e americano da parte di padre.

Lee, da detective e storico insieme, si mette sulle tracce di Griesinger e riesce ad entrare in contatto con il ramo americano della sua famiglia. Viene così in possesso anche del diario della madre dal quale si capisce che il figlio nel ‘33 non era ancora nazista ma era interessato a partiti conservatori e odiava il comunismo. Si era poi sposato con una ricca industriale del caffè da cui aveva avuto due figlie: Ida e Barbara. Lee riesce a parlare anche con loro, anzi sono loro che, totalmente all’oscuro del passato del padre, morto nel ’45, fanno domande a lui e cercano di ricostruire chi era il padre una settantina di anni dopo. Si domandano «come mai nostro padre era nazista?», «come mai entrato nelle S..S.?»,  «Come mai era membro della Gestapo?».

Ovviamente Lee non può dare una risposta a queste domande…

Conclude l’intervento il Prof.Pezzino rispondendo ad un’alunna della Professoressa Nencioni, che ha realizzato il collegamento dal Liceo Chini Michelangelo di Lido di Camaiore (LU), che gli chiede «cosa vuol dire fare storia?».

«fondamentalmente per fare storia bisogna partire da documenti, poi si integrano con la storia orale. Bisogna sempre sottoporre la memoria a un vaglio critico e contestualizzare con onestà la propria ricerca e mai fidarsi di ciò che ti raccontano gli altri, soprattutto in epoca web di fake news».




A scuola di Europa! Un progetto didattico della Domus mazziniana

La Domus Mazziniana è un organismo pubblico di ricerca appartenente alla Rete degli Istituti Storici Nazionali, coordinata dalla Giunta Centrale per gli Studi Storici e svolge la propria attività didattica e formativa, in stretta collaborazione con l’Università di Pisa e il Ministero dell’Istruzione Università e Ricerca. A partire dall’anno scolastico 2018/2019 è operativo un Protocollo d’Intesa specifico tra la Domus Mazziniana e l’Ufficio Scolastico regionale della Toscana per la realizzazione di attività didattiche e formative su tutto il territorio regionale. L’Istituto svolge la propria attività didattica prevalentemente nell’ambito della Storia contemporanea, dell’Educazione Civica e della metodologia e didattica della storia.

 centrale è l’impegno per promuovere una più consapevole conoscenza dell’Europa e del valore del suo processo di unificazione. Gli sviluppi della recente epidemia di coronavirus hanno evidenziato una volta di più quanto l’Europa sia centrale nella vita di tutte e tutti noi. Eppure quanti cittadini conoscono l’effettivo funzionamento dell’Unione Europea e la storia del processo d’integrazione europeo dalla Giovine Europa e dal Manifesto di Ventotene sino alle recenti crisi che sembrano mettere in discussione le fondamenta stessa dell’UE. Il percorso didattico elaborato dalla Domus propone a partire da una riflessione sul concetto di Europa, una introduzione alle principali fasi del processo di integrazione europeo e del funzionamento delle istituzioni comunitarie.

Su libera e pregevole iniziativa dei rappresentanti degli studenti il liceo Chini-Michelangelo di Lido di Camaiore, coordinati dalla Professoressa Nencioni dalle ore 12 alle ore 13.45 si è tenuta la conferenza del Professore Pietro Finelli, a cui hanno partecipato in webinar 186 studenti, socraticamente consapevoli della loro ignoranza sull’Unione Europea, istituzione tanto fondamentale quanto biasimata e comunque troppo sconosciuta.

 La Prof.ssa Nencioni ha introdotto l’importante relatore: Pietro Finelli. Docente di materie letterarie alle superiori. Direttore della Domus Mazziniana. Ha studiato all’Università di Pisa, alla Scuola Normale Superiore, al Sant’Anna e all’ Ècole des hautes études en sciences sociales a Parigi.   E’membro del comitato scientifico cesue.eu spin off del sant’Anna che si occupa di politiche europee e global governace. Ha svolto attività di ricerca presso il centro studi sul federalismo di Torino. Si occupa di educazione alla cittadinanza europea.

 Il relatore, a dimostrazione dello scarsissimo interesse per l’UE, ha citato un dato del 2013: la famosa trasmissione televisiva Porta a Porta ha dedicato all’UE l’1,3% dei servizi andati in onda, mentre ben il 5,4 % al Mago Otelma!

Ad ulteriore dimostrazione della ignoranza dei giovani (e non solo) nessuno dei 158 studenti connessi nessuno ha saputo riconoscere le foto Charles Michel, Christine Lagarde, Ursula von Der Leyen, Davide Sassoli, cioè le più importanti cariche dell’UE: rispettivamente presente del Consiglio europeo, presidentessa della Banca Centrale Europea, presidentessa della Commissione europea e Presidente del Parlamento europeo.

 Eppure l’Europa è ben viva in mezzo a noi: il 30% delle leggi italiane sono norme approvate dall’UE e quasi i due terzi dei DCPM riguarda direttive o decisioni UE su Giustizia e Affari interni.

 Ma che cosa è l’Europa? Sono state tentate varie definizioni…. Geografia: ma se la continuità fra Europa e Asia è praticamente assoluta? Ma anche la definizione culturale per distinguere l’Europa è valida? NO! E neppure la definizione religiosa, basta sull’ unità cristiana, perché in Europa ci sono popolazioni musulmane, come gli Albanesi, e molti immigrati di varie fedi. Allora definiamo l’Europa la culla dei diritti umani? Ma essi sono universali! Come già sancito dalla della costituzione francese del 1799.

Insomma, qualsiasi definizione è inadeguata per l’Europa! “Une sorte d’ object politique non identifiè” è questa è la risposta del presidente della Commissione europea Jacques Delors nel 1985 che tradotto vuol dire “un oggetto politico non identificato” cioè un UFO.

 Allora, seriamente, possiamo definire l’UE un’istituzione sovrannazionale sui generis. Ha elementi statuali e parastatuali (ed. es. la rappresentanza, la moneta, la rappresentanza)

 L’UE per il PIL è la più grande area economica del mondo; al secondo posto ci sono gli Stati Uniti ma con grandissimi divari economici al suo interno.

 E’ dopo la Seconda Guerra Mondiale che l’idea di Europa diventa un progetto concreto, nato dalla consapevolezza dei precedenti ma recenti fallimenti: quello della Società delle Nazioni, ma pure la sconfitta del Nazismo e Fascismo (ma possiamo anche la precoce fine di Giustizia e Libertà già meno di due anni dopo la Resistenza: perché per combattere contro il fascismo ci vuole unione).

Ed è da queste considerazioni che è nato il Manifesto di Ventotene, di cui adesso ricorrono gli 80 anni. Elaborato e scritto nell’isola di confino a Ventotene da intellettuali dal libero pensiero e per questo invisi al Regime: Spinelli, Colorni, Rossi e anche il futuro Presidente della Repubblica Pertini, che però non lo firmò.

L’idea di fondo è la realizzazione degli “Stati Uniti di Europa”, un’unione politica. Il suo obiettivo “la pace mondiale”.

 Il prof. Finelli mostra un video di circa 3 minuti di Schuman del 9/5/50, data che è divenuta simbolo scelto come Festa dell’Europa. Non a caso siamo nella fase più acuta della guerra fredda. Cosa dice Shumam? Propone di mettere insieme carbone e acciaio, proprio perché sono fonti per l’industria e pesante, quindi una scelta politica (non avere le fonti per fare la guerra) e non economica. Lo dimostra l’adesione del 6 paesi europeo che nel 1953 aderirono alle C.E.C.A., cioè la Comunità Europea del Carbone e dell’Acciaio: Benelux, Francia, Germania e l’Italia, non per quantità di queste fonti, perché vuole trasformare un’alleanza franco-tedesca in un progetto europeo.

Per creare la Comunità prima e l’Unione poi Europea c’erano tre vie:

·         la corrente federalista, secondo cui era necessario realizzare una confederazione europea che per essere efficace avesse un carattere federale: ovvero doveva trasferire la politica estera, la difesa, la politica economica e le monete ad istituzioni soprannazionali e quindi a un governo, un parlamento e a una corte di giustizia comuni.

·         La teoria funzionalista dell’integrazione soprannazionale ha in comune con quella federalista l’obiettivo del superamento della sovranità assoluta, ma ritiene che, per superare le resistenze nazionali, occorra scegliere la via dello sviluppo graduale della cooperazione internazionale in settori o funzioni limitati, ma via via più importanti dell’attività statale, in modo da realizzare uno svuotamento progressivo e quasi indolore delle sovranità nazionali.

·         La terza corrente dell’europeismo, nata nel periodo fra il 1914 e il 1948, è rappresentata dal confederalismo. La sua opzione fondamentale è un’Unione Europea fondata su meccanismi di mera cooperazione intergovernativa, che lascino intatta la sovranità statale assoluta, ma permettano ai governi nazionali di raggiungere decisioni concordate in alcune materie riconosciute di comune interesse.

Tra il 1952 e il 2009 abbiamo 7 trattati, di cui 5 fra il 1997 e il 2009. Ciò dimostra che alla fine degli anni ’80 l’UE entra in una fase di fibrillazione. E perché? Perché l’UE si allarga fino a 27 stati, quasi tutti dall’Europa orientale.

 Dal 2007 al 2020 l’UE si è trovata ad attraversare la prima grave crisi economica: quella dei debiti sovrani, per risposta ritardata, per responsabilità non condivisa, per incapacità autoregolativa del mercato, perché la politica comune è stata affrontata in maniera esclusivamente monetaria.

Sintetizzando, quali sono le ragioni della crisi della fiducia nell’Europa?

·         Il complesso della procedura decisionale

·         L’assetto istituzionale composto

·         L’asimmetria economica e sociale




8 aprile: Giornata internazionale dei rom, sinti e camminanti a 50 anni dal primo congresso mondiale del popolo Rom.

8 aprile “primavera brilla nell’aria e per li campi esulta” e in tutto il mondo si celebra il Romano Dives, la Giornata internazionale dei Rom, Sinti e Camminanti. Pensare che fino a quella data cigani, gipsy, Zigueuner erano termini usati in senso strettamente dispregiativo (beh, non è che tuttora, a 50 anni di distanza, le cose siano poi cambiate come vorremmo)

Perché l’otto aprile? Perché questa è la ricorrenza istituita per ricordare il primo congresso mondiale del popolo Rom, che si tenne a Londra nel 1971.

Esattamente 50 anni fa.

Niente obbligava a scegliere l’8 Aprile come data di apertura dell’evento se non, come scrive Grattan Puxon -allora presente all’evento- “the moral imperative and hunger for self-definition“!

In quella occasione la parola “Gipsy” era stata bandita dai tavoli delle conferenze e c’era una reale aspirazione di far valere la causa rom contro la destra riemergente e i neo fascismi che rifiorivano. Anche nell’Occidente, gli “zingari” venivano banditi dalle strade e i loro campi distrutti. Le eccezioni includono la Phralipe (Brotherhood) in Macedonia e the Pan-Hellenic Roma Association ad Atene che sopravvisse alla guerra.

Così nel 1971, carichi di legittimo senso di giustizia e di identità, i rappresentanti Rom si riunirono in una scuola nei sobborghi sud orientali di Londra. Molti di loro non si erano mai conosciuti prima di quel lungo weekend del 1971. Ma da esso erano usciti come i delegati del primo congresso mondiale e avevano dato vita non ad uno stato a nazione ma un percorso politico da seguire. Durante il summit di Chelsfield, vicino Londra, intellettuali e attivisti Rom si confrontano e si interrogano sulle basi della propria cultura e del proprio popolo, definendone i contorni.

Erano gli anni della Guerra Fredda e della Cortina di Ferro e non era affatto facile viaggiare ed incontrarsi per persone che si affermavano come una comune identità etnica, ma di diverse culture, di lingue spesso orali. Tentavi erano stati intrapresi in un congresso pre-guerra a Bucarest, ma un decennio dopo Margareta Matache, Direttore of the Roma Program ad Harvard, decise che i Rom dovevano avere uno stendardo, un simbolo di nazionalità, una bandiera per gli oltre 20 milioni di Rom in diaspora…e anche degli eroi.

Quel giorno si costituì la Romani Union, la prima associazione mondiale dei Rom, che sarà riconosciuta dall’ONU solo nel 1979 ma sarà solamente nel 1990, 11 anni dopo, durante il quarto congresso mondiale della International Romani Union, che verrà stabilita ufficialmente la data dell’8 aprile come la Giornata internazionale dedicata a Rom e Sinti.

La confederazione ha preso il nome di “Rom”, letteralmente “uomo” o “popolo degli uomini”, inclusivo di tutti i gruppi variamente denominati e presenti nel mondo: Sinti, Manouches, Kalderash, Lovara, Romanìchéls, Vlax, Domari, Nawar, Kalé, Ashkal, e tanti altri.

Una bandiera ed un inno si diffusero ovunque, in uno stato senza patria: come bandiera la ruota rossa in campo azzurro e verde (questi colori rappresentano il paradiso e la terra mentre la ruota con 16 raggi simboleggia lo spirito errante dei Rom) e come inno Gelem Gelem o Djelem Djelem di Yarko Jovanovich composto nel 1969 in lingua romanì su un’aria resa tradizionale dopo la Seconda Guerra Mondiale, con riferimenti al Porrajmos.

Per noi, il Romano Dives è non è solo l’occasione per tenere alta l’attenzione sui problemi e le discriminazioni subite, allora come oggi, dal popolo rom. Ad esempio secondo un’inchiesta condotta nel 2014 dal Pew Research Center in Francia, Germania, Grecia, Italia, Polonia, Regno Unito e Spagna, la maggior parte delle persone ha un’idea negativa delle minoranze che vivono nel loro paese: musulmani, ebrei e in particolare Rom. In testa alla classifica c’è, ahinoi, l’Italia.

E’ ovvio che siamo contenti che la futura strategia dell’UE a favore dei Rom per il periodo successivo al 2020 miri a promuovere e proteggere i diritti umani e a combattere l’antiziganismo e la discriminazione e che faccia piacere che il comitato ONU favorisca l’inclusione sociale dei Rom, Sinti e Camminanti (nell’ottica comune visti come NON cittadini,) come se si potesse prescindere dal rispetto dei principi di eguaglianza, di non discriminazione, di l’incitamento all’odio razziale.

Ma soprattutto noi vogliamo che questo cinquantesimo del Romano Dives anniversario serva per far conoscere, e, perché no?, anche per celebrale la nostra cultura rom, anzi il nostro mondo interculturale, con noi e attraverso di noi, non tramite open society, senza padroni ma con lo spirito democratico che ci ha sempre ispirati, quello di stare con la legalità e le pari opportunità

Ed è per questo che in questo mese si sono svolte diverse attività con e sui Rom, per valorizzare la loro multietnica e secolare cultura.

Il 1° marzo è partita la carovana pedagogica web; il 21 marzo è nata l’Accademia Nazionale Romanì, sotto lo slogan “Dalla conoscenza nascono il rispetto e la coesistenza”, in cui si terranno video lezioni gratuite da parte di docenti universitari di antiziganismo, romanologia, e cultura generale; fra il 21 e il 27 marzo, con il sostegno dell’U.N.A.R., è nato il PDF interattivo Antir∂zin∂, frutto di corpo e di menti che lottano con diversi strumenti e trovano nuovi modi di fare comunità, per un futuro libero da oppressioni e discriminazioni. Fra pochissimi giorni inizierà il seminario internazionale interdisciplinare per insegnanti universitari (dal 9 al 23 aprile).

Interessantissima iniziativa per il Romano Dives è quella dell’8 aprile “Razzismo brutta storia” che, in collaborazione con l’U.C.R.I , con il movimento Kethane e l’associazione Upre Roma propone in tutte le librerie Feltrinelli di Italia titoli, risorse multimediali, appuntamenti. E siccome la cultura parte in primis dalle scuole Eva Rizzin, ricercatrice dell’Università di Verona, e Luca Bravi, ricercatore dell’Università di Firenze hanno realizzato schede con risorse per docenti.

L’unico limite è la volontà di NON imparare

La bellezza delle comunità romanès è unione, solidarietà, competenza; la sua bellezza sta nella condivisione e nella crescita comune, nel far capire al mondo che ci sono Rom di fama internazionale e grandi intellettuali, sportivi, artisti. La condivisione della cultura è lo strumento più forte che abbiamo, non l’assimilazione

Forse anche per questo Moni Ovadia il 10.07.2008 ha proposto «IL NOBEL AI ROM: È L’UNICO POPOLO SENZA UNA GUERRA»




www.occupazioneitalianajugoslavia41-43.it una mostra storica necessaria nell’80° anniversario dell’aggressione nazista e fascista

Il 6 aprile ’41, l’Italia invadeva la Jugoslavia: le truppe tedesche, seguite a ruota da quelle italiane e ungheresi, distrussero il regno dei Karađórđević e spartirono il suo territorio fra i vincitori. 
Seguirono anni terribili. Diciamolo subito: la prima responsabilità dell’inferno in cui precipitò il Paese spetta a chi lo attaccò e scatenò una guerra di tutti contro tutti.
Poi fu il caos: guerra di liberazione contro gli occupatori; guerra civile fra ustašcia croati, četnici serbi, domobranci sloveni, partigiani comunisti; guerra rivoluzionaria per la creazione di uno stato socialista, feroci repressioni antipartigiane; sterminio degli ebrei, tentativi genocidari ai danni di popolazioni dell’etnia sbagliata.

Di quel vortice di violenza, le truppe italiane di stanza nei territori annessi o occupati, non furono semplici spettatrici, ma protagoniste. Si tratta di una delle pagine più buie della nostra storia nazionale, e anche una delle pagine meno illuminate. Sulla nostra invasione della Jugoslavia aleggia ancora il silenzio dell’“Italiano brava gente”, per dirla con le parole di Filippo Focardi (Direttore Scientifico dell’Istituto Nazionale Ferruccio Parri) che parla di una “mancata Norimberga italiana”. La mancata consegna dei 3.800 italiani elencati nella United Nation World Crime Commission per crimini di guerra e contro l’umanità mai estradati né processati. Non concessero l’estradizione né il governo Badoglio né quelli successivi di unità antifascista. E quando poi Tito perse l’aiuto di Stalin la richiesta di Tito verso la consegna dei criminali “evaporò”

E perché? Vari gli scopi: distinguersi da nazisti da guardare come i veri criminali, colpevolizzare i partigiani comunisti, non voler consegnare i prigionieri italiani sulla base di una clausola di reciprocità contenuta nell’allora codice militare di guerra, che alimentò la richiesta da parte degli Italiani agli Jugoslavi di avere consegnati i presunti responsabili di crimini commessi contro le nostre truppe.

Paolo Pezzino, Presidente dell’Istituto Nazionale Ferruccio Parri, afferma: “troppo tempo ci abbiamo messo per trattare di questo argomento, quello di una guerra di aggressione con strumenti e metodi assolutamente criminali, crimini di guerra, crimini contro l’umanità”, quei crimini di cui noi siamo stati vittima dei Tedeschi dopo l’8 settembre, ma ancor prima perpetratori, dall’Etiopia, alla Grecia, alla Jugoslavia.

Oggi, dopo ottanta anni, speriamo che finalmente sia venuto il momento di fare un po’ di chiarezza.

Per ora abbiamo dovuto proporre una mostra fotografica virtuale favorirne la fruizione anche non in presenza ma ci auguriamo che possa girare presto in Italia, anche nelle scuole”).

Questa, dice l’ideatore e responsabile Raoul Pupo, è una mostra corale, è una mostra plurale, nel tentativo di una “purificazione della memoria”, cioè di un atto di fiducia nella capacità di recuperare l’analisi di fatti che sono stati ignorati, evitati, nascosti, alterati perché disturbano le logiche del paese.

 La mostra è molto vasta, per un totale di 54 pannelli, 200 immagini,  testimonianze d’epoca e  interviste ai maggiori studiosi dell’argomento.

Dopo un video introduttivo, la mostra si articola in 10 sezioni (molte delle quali con sotto sezioni e pannelli) ed una conclusione.

 I. La guerra
II. Ribellione e rivoluzione

III/1. Slovenia

III/2. Dalmazia
IV. Croazia
V. Montenegro
VI/1. Le grandi operazioni: Slovenia
VI/2. Le grandi operazioni: Croazia e Montenegro
VII. La repressione
VIII. I campi d’internamento
IX. La fine
X. La rimozione
Conclusioni

I testi dei pannelli sono puramente descrittivi, perché “Quando le fonti gridano, è bene che gli storici parlino sottovoce”.

Alcuni esempi:

La prima sezione ha tre pannelli e inizia significativamente con i “bombardamento di Pasqua” dei Tedeschi su Belgrado, non senza ricordare che Mussolini aveva già espresso l’intenzione di occupare la Jugoslavia già nel ’40, per poi finire con la spartizione dei Balcani.

La terza sezione in due dei tre paragrafi ci mostra come le autorità italiane anche estendono alla provincia di Lubiana la legislazione volta a cancellare l’identità nazionale slovena e a circondano Lubiana dal filo spinato, in un surreale immenso lager.

La sezione 7 è quella forse che ci lascia più un pugno nello stomaco: il pannello 1 riporta il testo completo della famigerata circolare C, del Generale Roatta, quella che nel 1 marzo 1942 scriveva :” Il trattamento da fare ai partigiani non deve essere sintetizzato dalla formula: “dente per dente” bensì da quella “testa per dente”, sulla sua scia nel pannello 2 il Generale Robotti conclude la sua sorta di decalogo con la frase -in grassetto- SI AMMAZZA TROPPO POCO. E poi gli altri 4 pannelli: senza pietà, i prigionieri, le razzie, le stragi sono precedute dall’avviso “Attenzione, le immagini che seguono potrebbero urtare la vostra sensibilità”. Cosa aspettarsi da un articolo che riporta le parole di Mussolini nel luglio 1942: “Deve cessare il luogo comune che dipinge gli italiani come sentimentali incapaci di essere duri quando occorre. Questa tradizione di leggiadria e tenerezza soverchia va interrotta” e nel 1943 così si rivolge ai soldati: “So che a casa vostra siete dei buoni padri di famiglia, ma qui voi non sarete mai abbastanza ladri, assassini e stupratori.”
I soldati obbediscono e in qualche caso bruciano villaggi e sparano ai civili solo per ingannare il tempo. Atrocità vengono compiute da tutte le parti in lotta.

Le immagini dei prigionieri non lasciano indifferenti: molte di esse sono inedite e ritraggono donne in attesa di essere fucilate

La sezione 8 riguarda il sistema concentrazionario italiano: Le truppe italiane, non riuscendo ad aver ragione dei ribelli, procedono all’evacuazione delle zone ad alta densità partigiana. L’intera popolazione viene rastrellata ed i villaggi rasi al suolo per fare terra bruciata …

Nascono così i campi di concentramento italiani per popolazione slava (Arbe, campo di Molat, Gonars, Renicci) e viene riportata anche un’intervista alla sopravvissuta Marija Mahnič, al campo di Fraschette di Alatri.
L’ultima , la 10, si intitola significativamente la rimozione, in un palleggiarsi fra accuse jugoslave e strategia difensiva italiana, depistaggi, mancati processi.

In calce alla mostra virtuale una nota linguistica, bibliografia orientativa, riferimenti iconografici, sigle a rendere fruibile a tutti il contenuto.




L’ISRT è una tappa del progetto Paesaggi della Memoria Laboratorio didattico tra passato della Resistenza e presente, curato da INDIRE

A partire dal lavoro di ricerca “Archivi e memoria come mezzo per una comunicazione culturale che abbia un impatto sociale”, e in vista del 76° anniversario della Liberazione, INDIRE propone una serie di dialoghi sui Paesaggi della memoria, luoghi simbolo dell’Antifascismo, della Deportazione, della Seconda Guerra Mondiale, della Resistenza e della Liberazione in Italia.

Partito dall’esperienza di Memoranda, laboratorio didattico sui luoghi della Resistenza piemontese, il progetto biennale Paesaggi della Memoria. Laboratorio didattico tra passato della Resistenza e presente, che ha preso il via nel 2020, prevede cicli di laboratori, sperimentazioni didattiche e visite “immersive” finalizzati a coinvolgere in particolare i giovani, nella memoria dei luoghi storici del proprio territorio.

Link al progetto: https://www.raiscuola.rai.it/percorsi/paesaggidellamemoria?fbclid=IwAR1f5y77U6oJ0yviSrUogFgH3zKjuDPfoH-K8Jl7xf3CndM4KQF9cCVAunM

Il progetto, curato dalla dott.sa Pamela Giorgi, ha coinvolto anche la realtà degli Istituti della Resistenza e dell’età contemporanea con l’intervista al direttore dell’ISRT.

L’intervista al direttore dell’Istituto storico toscano della Resistenza e dell’età contemporaneas: dott. Matteo Mazzoni:

https://www.raiscuola.rai.it/storia/articoli/2021/03/Matteo-Mazzoni-df85edef-ebbb-46c6-aae2-95c912774c9d.html




Le proposte dell’ISRT ai Cantieri della Didattica dell’Istituto nazionale Ferruccio Parri

Venerdì 19 marzo 2021, purtroppo on line, si è svolta la seconda edizione dei Cantieri della Didattica, organizzata dalla Rete Parri sul tema della Educazione Civica.
L’iniziativa, valida anche come corso di aggiornamento sulla piattaforma SOFIA Numero identificativo 56139
È volta a promuovere una riflessione sulle proposte della Rete Parri sull’insegnamento dell’Educazione Civica, a partire dalle attività svolte dagli Istituti. E’ stata l’occasione per avviare un confronto interno sulle metodologie adottate, sugli obiettivi prefissati e quelli raggiunti, sulle considerazioni disciplinari e sulla costruzione di uno specifico percorso.

Durante la giornata di studio, si sono tenute 20 relazioni, da parte di quasi un terzo degli Istituti membri della rete. L’ISRT ha avuto ben due relazioni, quelle delle insegnanti “distaccate” Monica Rook e Francesca Di Marco, e quella della insegnante e collaboratrice Chiara Nencioni.

La Professoressa Francesca Di Marco, anche a nome della collega, ha illustrato il progetto “CoImmunitas”, dal sottotitolo di “Formazione, di prossima cittadinanza”. Si tratta di un corso di Educazione Civica rivolto principalmente (ma non solo) a docenti della scuola secondaria di primo e secondo grado a partire dalle Linee Guida ministeriali (D.M.35 del 22 giugno 2020), con particolare riguardo alla cittadinanza digitale.

Il corso, causa covid, si svolge da remoto ed è articolato in tre videoconferenze e tre workshop ad esse collegati per fornire suggerimenti operativi al lavoro in classe e materiale per un immediato uso didattico.
I temi trattati sono: sapere, web, storia pubblica; differenza, inclusione, antifascismo; relazione, genere, tecnologia.
In poche parole “Sapere, differenza, relazione al tempo dell’onlife”. L’azzeccatissima definizione “onlife” è stata creata dal filosofo oxoniense Luciano Floridi. Questo neologismo sta ad indicare la vita all’epoca del digitale, per descrivere l’esperienza che si vive in un mondo iper-connesso, dove non esiste più la distinzione fra essere on line e essere offline.
La prima sezione del corso, conformemente al terzo asse delle linee guida della Legge 20 agosto 2019, n. 92, che prevede l’educazione alla cittadinanza digitale, è stata dedicata a “Sapere, web, storia pubblica” ed è stata curata dal Dottor Igor Pizzirusso, responsabile informatico dell’Istituto Nazionale Ferruccio Parri e capo redattore dalla rivista Novecento.org. I due incontri hanno avuto come oggetto Dentro Wikipedia: risorse e limiti dell’enciclopedia online e Costruire informazione: leggere e scrivere Wikipedia a scuola.
La seconda sezione del corso è dedicata al primo asso, cioè quello che ha come perno la nostra Costituzione (diritto -nazionale e internazionale-, legalità e solidarietà).
Questa parte, dal titolo “Differenza, inclusione, antifascismo” ha visto come relatrice Giorgia Bulli, dell’Università degli studi di Firenze, con un incontro dal titolo Differenze culturali e convivenza sociale a partire da una ricerca nelle scuole secondarie, e Orlando Paris, dell’Università per stranieri di Siena sul tema dei Nuovi razzismi: un approccio semiotico ai discorsi dell’odio. Il Workshop è stato curato dalla Prof.ssa Francesca Cavarocchi, dell’Università degli studi di Firenze, che ha in modo laboratoriale discusso con gli iscritti il problema di Costruire anticorpi al fascismo e ai razzismi, attraverso una proposta didattica.
Il terzo punto di questo percorso didattico dell’ISRT, che si deve ancora concludere, si intitola Relazione, genere, tecnologia e vede come relatori Silvia Semenzin, dell’Università Complutense di Madrid che tratterà di Violenza, genere, tecnologia, e Antonio Branchi, attore e formatore, collaboratore del progetto Maschio per obbligo, che il 25 marzo.

Nell’ambito dell’offerta didattica e di formazione dell’ISRT relativa all’educazione civica, la Prof. Nencioni ha elaborato e realizzato un progetto didattico collegato all’indagine sul fenomeno dei nuovi razzismi e della radicalizzazione dell’intolleranza nella Regione Toscana in particolare sull’antiziganismo, molto diffuso in tutta Italia (benché Sinti, Rom e Camminanti siano meno del 2% della popolazione), tanto che l’UE ha parlato per l’Italia della necessità di combatterlo, perché diffuso e propagandato dai media e da fazioni politiche trasversalmente unite nel sostenere il pregiudizio anti-Rom.

Il progetto verte sulla didattica con e su Sinti e Rom, cui la docente si è avvicinata entrando nell’UCRI (Unione delle Cominità Romanès in Italia), pur essendo una gagì (il termine gagé indica nella lingua romanì “il non essere rom o meglio il non appartenere alla dimensione romanì”). Il forte stigma sociale è dovuto anche alla nostra ignoranza. Innanzi tutto, è necessario introdurre chi sono Sintin e Rom. Tutti ne hanno paura ma nessuno li conosce. Perseguitati e diversi da sempre. Una comunità, anticamente proveniente dalla India del Nord, diffusa in tutta Europa (circa 11 milioni di persone in tutti i Paesi). Quanti sanno che divi e personaggi famosi che hanno segnato questo secolo sono “zingari? Qualche nome: nel campo delle arti e dello spettacolo Charlie Chaplin, Yul Brynner, Micheal Caine, Antonio Banderas, Rita Hayworth, Elvis Prersley, Moira Orfei, Django Reinhardt e anche il calciatore Zlatan Ibrahimovic. Tuttavia il numero ufficiale è incerto in tanti paesi, anche perché molti di loro rifiutano di farsi registrare come etnia rom per timore di subire discriminazioni.

In Italia ci sono circa 170mila romanì per la gran parte cittadini italiani di antico insediamento con un grado di inclusione assai ampio, ma invisibile agli occhi. Le comunità rom e sinte sono ormai ferme da decenni (lo si dovrebbe dire, invece si continua a parlare di “nomadi”, cfr. Meloni il 6/3), così come si dovrebbe ricordare che molti Rom hanno combattuto nella Resistenza. Dobbiamo prima connotare meglio chi siano i Rom, perché altrimenti si producono immagini distorte: in Italia, soltanto il 20% di Rom e Sinti vive nei campi nomadi, mentre l’80% vive esattamente come il resto della popolazione italiana ed è scarsamente visibile ai nostri occhi, perché evita di dichiararsi Rom o Sinto per non doversi difendere dai pregiudizi (voi lo dareste lavoro ad una persona che si dichiara Rom? il 96% della popolazione italiana non lo farebbe); 4 Rom su 5 non stanno nei campi eppure c’è il costante richiamo a considerarli solo un popolo di ghettizzati e nomadi; impareremo che è l’effetto dei nostri stessi censimenti che rappresentano un po’ la profezia che si autoavvera, perché con i paraocchi del razzista democratico, noi diciamo “Rom” e pensiamo “campo nomadi” oltre a zingaro, ladro, delinquente ecc.

Proprio perché tuttora oggetto di discriminazione, si interessa alla questione dei Rom e Sinti anche l’ U.N.A.R., Ufficio Nazionale Antidiscriminazioni Razziali,  l’ufficio deputato dallo Stato italiano a garantire il diritto alla parità di trattamento di tutte le persone e la rimozione delle discriminazioni fondate sulla razza o sull’origine etnica. Esso è responsabile nazionale della Strategia di inclusione di Rom, Sinti e Caminanti, nell’ambito del progetto  del 2018 “To.Be.Roma – Towards a better cooperation and dialogue between stakeholders inside the National Roma Platform”, presentato all’interno del Programma Rights, Equality and Citizenship della Commissione europea.

Questi gli obiettivi:

·         Rafforzare la partecipazione di Rom, Sinti e Caminanti (RSC) nei processi decisionali nazionali e locali

·         Sviluppare le competenze e le conoscenze sulle politiche di riferimento mediante processi di empowerment di giovani e donne RSC, per una maggiore capacità di contrasto all’antiziganismo e all’hate speech

·         Sviluppare un modello gestionale integrato, flessibile, partecipativo e condiviso sulle politiche di inclusione locali in grado sia di rispondere ai bisogni delle persone RSC, sia di ridurre il conflitto nei contesti urbani

Vediamo alcuni strumenti didattici per decostruire lo stereotipo:

·         Materiali sulla storia di Rom, Sinti e Camminanti forniti dall’U.N.A.R., in particolare piccole dispense tematiche: le origini, nel Medioevo, in età moderna, i campi di concentramento fascisti, il porrajmos…

·        Documenti prodotti e attività del progetto To.Be.Roma (in particolare le guidelines) reperibili sul sito dell’U.N.A.R.  http://www.unar.it/cosa-facciamo/azioni-positive-e-progetti/progetto-to-be-roma/

·       Il saggio dello scrittore e attore Pino Petruzzelli, Non chiamarmi zingaro, Milano, Chiarelettere, 2008. L’autore va a cercare storie e opinioni di persone in Italia, Romania, Francia, Bulgaria, si avvicina alle vergogne dell’intolleranza e alle tragedie degli incendi, facendo sentire la voce di chi le subisce; fa conoscere chi ha un ruolo sociale importante e nasconde la sua origine o la ostenta pagandone le conseguenze: La zingara medico che sorveglia sulla nostra salute, lo zingaro responsabile degli antifurti di una banca, l’insegnante, il prete, le migliaia di bambini che vanno a scuola, realtà che sembrano straordinarie ma che appartengono alla vita quotidiana.

Per far toccare con mano agli alunni il problema dell’integrazione e della discriminazione, con una V Liceo Linguistico è stato messo in pratica un piccolo ma significativo abbattimento delle barriere e del pregiudizio, trascorrendo un sabato con i suoi alunni in un campo Rom, a Prato, dove vivono in totale 108 romanì. Sono stati ospitati e guidati nella visita al campo da Ernesto Grandini, che è anche Presidente dell’associazione Sinti Italiani di Prato e membro dell’U.N.A.R., un pozzo di conoscenza e un divulgatore di cultura sinta. Lui non ha problemi a dichiarare di essere un italiano di minoranza culturale sinta, perché è uno scafato e un chiacchierone, ma riconosce che per un Sinto dire chi sei richiede coraggio. Racconta cosa è stato nascere in Italia nel 1955, da padre italiano, e mamma sinta, ed essere messo nelle scuole speciali, quelle dedicate ai bambini rom, che aprivano negli scantinati quando non era orario di lezione per gli alunni “ordinari”; come è stato essere guardato con sospetto e paura oppure sentir parlare della sua gente solo come spauracchio nelle campagne elettorali. Poi Ernesto lascia la parola alle due sue nipoti, Nancy, studentessa di 17 anni e Margherita, operaia di 24, affinché gli studenti, pongano loro domande, in una conversazione fra pari. Gli alunni son subito colpiti dall’abbigliamento alla moda delle due ragazze, dal parlare correttamente l’italiano, insomma dal fatto che non le distingueresti mai da un “gagé.
E così iniziano le domande: ad es. Chi sono i Sinti? Siete nomadi? Come vi trovate a scuola? Siete ladri? E’ vero che vi sposate molto presto e con matrimoni combinati? Avete famiglie allargate? Le donne vivono in una condizione di sudditanza? Che ne pensate delle zingare che si vedono in giro con la gonna lunga a chiedere l’elemosina? E le ragazze rispondono, vestite all’occidentale, con i loro i-phone, del tutto uguali agli alunni in visita. Rispondono con naturalezza e senza sdegno. Ad uno ad uno si sfatano i pregiudizi, si notano le similarità mai pensate, si decostruiscono gli stereotipi.

L’intervista alle due giovani sinte è pubblicata sul portale “Toscana Novecento”: Un’esperienza didattica nel campo Sinti di Prato www.toscananovecento.it/custom_type/spiegare-il-porrajmos-a-scuola/

Conoscere le storie di Rom e di Sinti fa uno strano effetto. Iniziando a conoscere la loro cultura si comincia a vedere lo “zingaro” da un diverso punto di vista. Il suo. Si comincia a capire qualcosa di una “etnia più misconosciuta che conosciuta”. Una?! Rom, Rom Lovari e Kalderasa, Rom Rudari, Carnerm, Sinti, Manouche, Kalè, Jenish, Khorakhanè, Kanjarja, Sufi …. Un variegato mondo di comunità.




CORSO ON LINE “Dalla celluloide al vinile: forme e contenuti della comunicazione di massa nel Novecento”

Corso di aggiornamento per insegnanti ma aperto anche ai non insegnanti

(codice corso sulla piattaforma Sofia del MIUR: 56654)

>> Volantino corso

Lo sviluppo dei mezzi di comunicazione di massa è un fenomeno imprescindibile per comprendere la storia contemporanea e in particolare quella del Novecento. Grazie a tecnologie come la stampa, il cinema, la radio e la televisione, gli esclusi dai circuiti della “cultura alta” poterono per la prima volta essere raggiunti da contenuti culturali di vario genere, prodotti da agenzie dello Stato, che specie nei regimi totalitari miravano alla costruzione del consenso, ma soprattutto da soggetti imprenditoriali privati, interessati a vendere i loro prodotti sul mercato e a colonizzare gli immaginari dei consumatori. Caratterizzate da un costo contenuto, da una semplificazione narrativa e argomentativa e da un altro grado di standardizzazione – necessario a permetterne la fruizione anche da parte di chi possedeva un’istruzione appena rudimentale -, queste produzioni culturali ebbero, a partire dai primi decenni del secolo, un impatto profondo nelle società occidentali, agendo sulla costruzione delle identità individuali e collettive.

A queste tematiche, spesso poste ai margini dei programmi scolastici e per lungo tempo scarsamente valorizzate dalla storiografia, l’Isgrec dedicherà un corso di approfondimento che si propone di analizzare alcuni esempi di comunicazione di massa del Novecento, ricostruendone i contesti e i contenuti in prospettiva diacronica e in relazione ai fenomeni di intermedialità.    

6 aprile 2021 | ore 18

Alberto Mario Banti (Università di Pisa)

Aspetti della cultura di massa mainstream

 

13 aprile 2021 | ore 17.30

Maurizio Zinni (Università La Sapienza)

Cinema, storia e memoria nell’Italia repubblicana

20 aprile 2021 | ore 17.30

Alessandro Portelli (Università La Sapienza)

Musica e comunicazione nel secondo dopoguerra

 

Iscrizione:

Il corso prevede una quota di partecipazione di € 30.

Gli insegnanti possono iscriversi:

  1. a) tramite la piattaforma SOFIA del MIUR  (codice corso: 56654) utilizzando la Carta del docente fino al 5 aprile
  2. b) presso l’Isgrec (uff. amministrativo: Viale Europa 11 B) in contanti o con buono creato con la Carta del docente                                            
  3. c) tramite bonifico c/c intestato a Istituto storico grossetano della Resistenza e dell’età contemporanea IBAN: IT98W0885114301000000008002

I non insegnanti possono iscriversi: pagando in contanti presso l’ufficio amministrativo Isgrec o con bonifico.    

In tutti i casi è obbligatorio inviare una mail a segreteria@isgrec.it specificando l’indirizzo di posta elettronica dove si vuole ricevere le comunicazioni riguardo al corso e il link alla piattaforma on line che ospiterà le lezioni.

Riconoscimento dei crediti formativi pari a 6 ore

L’Istituto storico grossetano della Resistenza e dell’età contemporanea è parte della Rete degli istituti associati all’Istituto Nazionale Ferruccio Parri (ex Insmli)   riconosciuto agenzia di formazione accreditata presso il Miur (DM 25.05.2001, prot. n. 802 del 19.06.2001, rinnovato con decreto prot. 10962 del 08.06.2005, accreditamento portato a conformità della Direttiva 170/2016 con approvazione del 01.12.2016 della richiesta n. 872) ed incluso nell’elenco degli Enti accreditati 

INFO: Isgrec | 0564415219 | segreteria@isgrec.it | www.isgrec.it