Si è spento il prof. Klaus Voigt membro del Comitato scientifico della Fondazione Museo della deportazione e della Resistenza

Martedì 21 settembre vinto da un breve e terribile male, si è spento in ospedale a Berlino il Prof. Klaus Voigtcaro amico e dal 2018 membro del Comitato scientifico della Fondazione Museo della deportazione della Resistenza di Prato.

Partecipò ad una delle prime iniziative del Museo della Deportazione da quando fu fondato nell’aprile del 2002: venne, il 4 dicembre dello stesso anno, a presentare il suo libro appena uscito per i tipi de La Nuova Italia, “Villa Emma. Ragazzi ebrei in fuga, 1940-1945”. E’ da oltre vent’anni che Klaus Voigt era vicino al Museo mettendo a disposizione con generosità e vivo interesse per i nostri obiettivi, le sue conoscenze e i suoi contatti. Persona gentile e profonda, ci mancherà moltissimo.

Storico insigne e pietra miliare per lo studio dell’esilio ebraico in Italia e delle vicende di intellettuali ed esuli oppositori del Reich. Berlinese di nascita (1938), ma cosmopolita per relazioni e docenze, dopo il dottorato di ricerca presso la Libera Università di Berlino, era stato ospite di prestigiosi atenei in Francia (Parigi, Nancy) e negli USA (Cornell University).

Ma il legame più profondo, da sempre coltivato, Klaus Voigt l’ha intrattenuto con l’Italia. Soprattutto con la Toscana e con l’Emilia Romagna. Come docente, presso le Università di Siena e Bologna, e come assistente e borsista presso l’Istituto Universitario Europeo di Firenze.

Assiduo e prezioso interlocutore culturale delle nostre istituzioni (Consiglio Regionale, Provincia, Comune di Firenze, Istituti Storici della Resistenza) – in particolare nel primo decennio di questo secolo e in occasione del 60° anniversario della Resistenza e Liberazione in Toscana – ha proposto e curato mostre e iniziative accompagnate da pubblicazioni e cataloghi di grande interesse. Tra le tante ricordiamo la mostra Klaus Mann – Eduard Bargheer, Due esuli tedeschi nella Firenze liberata 1944-45, ospitata in Palazzo Vecchio nel 2004, e il libro “Un amico a Lucca. Ricordi d’infanzia e d’esilio” con lettere inedite di Don Arturo Paoli all’amico ebreo da lui salvato e divenuto un affermato intellettuale tedesco.

Oltre al fondamentale “Il rifugio precario” edito da La Nuova Italia, 1993-96, in due volumi, sull’esilio ebraico in Italia dal 1933 al 1945, è da ricordare l’approfondito studio della vicenda dei ragazzi ebrei di Villa Emma a Nonantola: “Villa Emma. Ragazzi ebrei in fuga 1940 – 1945”, edito da La Nuova Italia, Firenze-Milano 2002; lavoro che gli ha valso la cittadinanza onoraria di quel Comune.

Appassionato di arte, ha collaborato a lungo con la Akademie der Künste e con il Politecnico di Berlino. In questi ultimi mesi stava lavorando a un libro e alla realizzazione di una mostra, in collaborazione con la Galleria degli Uffizi e la nostra Fondazione Museo della Deportazione di Prato, sul pittore ebreo tedesco Rudolf Levy, arrestato a Firenze e ucciso ad Auschwitz.




La rivoluzione non è che un sentimento. Venti interviste a vent’anni dal G8 di Genova, presentazione a Pisa del libro a cura di Archivi della Resistenza

Presso la stazione Leopolda di Pisa, giovedì 16 Settembre alle 17 si è svolta la presentazione del libro La rivoluzione non è che un sentimento. Venti interviste a vent’anni dal G8 di Genova, a cura di Archivi della Resistenza, uscito per la collana Verba manent, racconti di vita e storia orale, diretta da Alessio Giannanti e Filippo Colombara -di cui è il terzo volume- con bellissima illustrazione in copertina di Sofia Figliè. Dal libro è stato tratto lo spettacolo teatrale, tenutosi il medesimo giorno alle ore 21,  Venti da Genova, messo in scena da Teatro dell’Assedio (regia di Michelangelo Ricci, con Alessio Lega e Davide Giromini, sonorizzazioni Rocco Marchi) canto teatrale per coro, due guardie e un clown.  Questo spettacolo di teatro-canzone trae ispirazione anche dalle testimonianze, quelle di Michelangelo Ricci, il cineoperatore che riprende la morte di Carlo Giuliani (alla presentazione egli definisce i fatti di Genova “un tentativo maldestro di colpo di stato”) e Alessio Lega, cantautore anarchico, poi diventato la “voce cantante” dei tragici eventi del G8, che paragona Genova 2001 al Cile 1973, ricordando i rivoli di sangue per le strade quando i poliziotti lavavano i manganelli. D’altro canto a Bolzaneto gli aguzzini cantavano “uno, due, tre viva Pinochet, quattro, cinque, sei morte agli ebrei, sette, otto, nove il negretto non commuove”.

Pur essendo il libro e lo spettacolo due oggetti culturali autonomi, sono in realtà fortemente intrecciati.

I curatori hanno indagato, insieme alla cronaca di quei giorni, le istanze politiche del movimento, le violenze di piazza, la repressione e la lunga ed estenuante ricerca di verità e giustizia. Non si sono però fermati alla sola dimensione fattuale, ma sono risaliti fino alle ragioni ideali, ai sentimenti e alle storie di vita che stanno dietro a quella moltitudine di uomini e donne, di diverse generazioni, provenienze e sensibiltà, che manifestò a Genova, nella comune convinzione che «un altro mondo è possibile». Giuseppe Lo Castro, docente di letteratura italiana all’Università di Cosenza, che modera la presentazione del libro definisce Genova “la più grande aggregazione dal dopoguerra . In tutto il mondo hanno aderito oltre 900 associazioni. Questo dà l’idea anche di quella che era diventata una presenza pulviscolare di persone che credevano che “un altro mondo è possibile”. È stato il primo movimento internazionale che si contrapponeva a un potere Global, da Seattle nel 1999, a Napoli nel marzo 2001, a Genova nel luglio di quello stesso anno. Il movimento portava avanti un nuovo lessico, un nuovo linguaggio, un nuovo modo di elaborazione politica”. “A Genova il sistema si scuote, si aprono certe fessure, si incontrano persone che non si sarebbero potute trovare” aggiunge il Professor Prosperi.

Simona Mussini, una delle curatrici, così descrive il libro: “è una raccolta di microstorie che ci aiutano a capire la macrostoria. È un documento di resistenza ai fascismi. È un libro collettivo, fatto da più mani e da più teste, anche quelle di chi nel 2001 nasceva, non solo dei soci fondatori del collettivo Archivi della Resistenza. È un tentativo di rappresentare l’ampiezza del movimento di Genova, non un racconto puntuale e preciso dell’evento, ma la narrazione di scorcio di un evento collettivo dal punto di vista del singolo. Per questo è un libro composito”. Alessio Giannanti, l’altro curatore, spiega la genesi del libro: “è frutto di tre-quattro mesi di videointerviste. Abbiamo cercato di ricreare i colori, gli odori (sangue e cordite), i rumori (manganelli e elicotteri) di Genova, tentando di evitare la retorica del vittimismo, del reducismo” . Il titolo del libro- spiega- è una citazione di Pasolini. Il Professore emerito  Adriano Prosperi, intervenendo alla presentazione, si è chiesto “la rivoluzione è solo sentimento? Marx dissentirebbe, lui che ha detto: la rivoluzione non è un pranzo di gala. Invece sì, la rivoluzione è il sentimento che questo mondo non va bene!”.

Il libro è frutto di una campagna di interviste sul movimento No Global e, in particolare, sulle manifestazioni di Genova del luglio 2001. La scelta dei testimoni non è casuale, ma è stata indirizzata dalla volontà di avere un gruppo il più possibile rappresentativo delle varie tipologie di manifestanti e delle culture politiche in campo: portavoci di associazioni e militanti dei centri sociali, anarchici e pacifisti, giornalisti e scrittori, mediattivisti e video-operatori, legali e infermieri, studenti e giovani dei centri sociali, religiosi, uomini e donne processati, vittime dei pestaggi, delle torture, dei diritti violati.  Per la stessa esigenza, la campagna delle interviste ha coinvolto deliberatamente sia personaggi più o meno famosi, sia attivisti comuni, che mai prima di oggi avevano raccontato quelle esperienze in pubblico. Le interviste non seguono una struttura fissa o una narrazione limitata alla cronaca dei tre giorni, poiché è stato adottato un baricentro variabile per ogni storia, ora più sbilanciato sull’infanzia e le pregresse esperienze politiche, ora più spostato sulla ricostruzione del prosieguo politico e dell’impegno attuale. Genova ha rappresentato per tutti gli intervistati un giro di boa nei propri sentimenti politici, c’è per tutti loro, un prima e un dopo Genova, una specie di perdita dell’innocenza, la fine di una lunga adolescenza politica.

Così dice Alessio Lega alla presentazione: “sono andato a Genova perché ero un militante ed un cantautore. Ne sono uscito diventando un’altra cosa, più antica, un cantastorie.  Ho voluto riflettere sul tema del potere, ricostruire quella avventura del dolore, attraverso un racconto in musica”.

Le ragioni sono evidenti: i fatti del G8 con il loro portato di delusione e ingiustizia rappresentano per molti un trauma che ha spesso i connotati della sconfitta, se non dell’annichilimento. E hanno segnato la fine di un sogno, quello di un fiero movimento pacifista ed ecologista che diceva “no” alla concentrazione delle risorse nelle mani di un ristretto gruppo di potenti neoliberisti. “La repressione ha dato inizio ad una delega delle libertà democratiche nei confronti dei grandi poteri economici globali”, interviene il Professor Lo Castro, anche lui presente a Genova in quei tre drammatici giorni. Il Professor  Prosperi ha parole vibranti contro la violenta repressione da parte delle forze dell’ordine condotta e guidata da esponenti di governo: “Il potere ebbe paura di questo movimento che affermava che un altro mondo è possibile, tanto da organizzare una repressione rimasta impunita con la scusa che in Italia non esisteva il reato di tortura”.

Ciò che colpì di più Michelangelo Ricci, testimone intervenuto alla presentazione, è che “il potere è riuscito in una costruzione del terrore organizzata, mettendo una città sotto assedio, carcerandola, creando una serie di imbottigliamenti e trappole. Tutto si filmava, tutto si vedeva in un gioco di specchi. Non un pestaggio segreto, come accade ancora nelle questure, ma un pestaggio in diretta. Eppure di fronte a tutta quella violenza non è successo niente”.

Eppure questo libro cerca di dimostrare che la storia non può finire e che lo spirito di Genova attraversa carsicamente il tempo per poter riemergere, oggi o domani, in ogni nuovo anelito di speranza, nella tenace volontà di trasformare lo stato presente delle cose.

Ciccio Auletta, all’epoca leader del movimento studentesco pisano, altro testimone intervenuto alla presentazione, ha ancora qualche parola di fiducia e celebra lo slancio di quei giorni, parlandone al presente e non al passato: “Genova è frutto di un percorso e di un’esperienza collettivi. Genova è tante cose in contemporanea (migranti, piazze , biotecnologie, brevetti, questione contadina), Genova è carsica, Genova è comunicazione (ad esempio la creazione di radio gap), Genova è espressione della dicotomia tra conflitto e consenso. Lo spirito di Genova è stare nelle piazze, mettere insieme esperienze e intelligenze”.

Il libro si interroga su cosa oggi si può ancora imparare dai fatti del G8, da questa educazione genovese che ha folgorato diverse generazioni di idealisti. Da allora sono passati vent’anni, che sono in realtà pochi ma sembrano un’enormità per come il mondo è cambiato nel frattempo. È venuto forse il momento di fare dei bilanci e continuare a raccontare quanto è successo a chi non era presente allora e a chi non era ancora nato. Per tutti questi motivi, La rivoluzione non è che un sentimento vuole essere sia un atto di denuncia nei confronti di quanto accaduto, sia un libro di progetto, rivolto al futuro e alle nuove generazioni, perché tra le righe di questi racconti si può leggere la storia sentimentale e politica dei nostri ultimi vent’anni.




Nuovo Presidente e nuova Vicepresidente dell’Isgrec

Il Prof. Paolo Passaniti, alla luce dei molti impegni professionali e della distanza geografica, si è dimesso dalla carica di Presidente dell’Isgrec, ritenendo di non poter assicurare la dovuta presenza e diligenza nella gestione quotidiana dell’Istituto, oltretutto in una fase particolarmente delicata come quella dei lavori per la sede. Il Consiglio direttivo, riunitosi venerdì 10 settembre, comprendendo le ragioni delle dimissioni, ha apprezzato la volontà di Passaniti di continuare a offrire la sua esperienza scientifica nell’ambito del Consiglio direttivo, esperienza quanto mai preziosa per i molti progetti che l’Istituto porta avanti.

Il Consiglio direttivo all’unanimità ha quindi nominato Lio Scheggi, già vicepresidente, nuovo Presidente. Elena Vellati è stata nominata vicepresidente, andando ad affiancare l’altro vice, Stefano Campagna.




“La manutenzione della memoria”, conferenza del prof. Pezzino presidente Istituto Parri

Nell’ambito del Festival con_vivere che si è tenuto a Carrara dal 9 al 12 settembre, questo anno dedicato alla Manutenzione della vita, il professor Paolo Pezzino, Presidente dell’Istituto nazionale Ferruccio Parri. Ha tenuto una conferenza dal titolo la manutenzione della memoria.
L’intervento è stato introdotto dalle parole di Nando Sanguinetti, partigiano e presidente ANPI di Carrara, e moderato da Massimo Michelucci, direttore dell’Istituto storico della Resistenza apuana.
Sanguinetti ha avuto parole vementi contro l’equiparazione della memoria: “Quella dei partigiani non è come quella dei saloini. E non è vero che entrambi hanno combattuto e commesso anche nefandezze perché erano giovani idealisti”. Michelucci è d’accordo: “i morti sono tutti uguali ma da vivi furono diversi”.
L’anziano partigiano è sconcertato dalle manifestazioni costanti di neofascismo: steli, come quella su cui è incisa una poesia di Ubaldo Bellugi, potestà di Massa, che è stata inaugurata dalla giunta di destra della città il 21 Marzo 2019, monumenti, nomi delle strade. Viene citata infatti la proposta del leghista Durigon a Latina dell’inizio di agosto di intestare una piazza,che era dedicata a Falcone e Borsellino, ad Arnaldo Mussolini. È preoccupato dalle nuove ronde, come quella chiamata provocatoriamente SSS, acronico per “soccorso sociale sicurezza” come si è data nome a Massa Carrara su proposta del tre di maggio del 2021 del consigliere comunale di Forza Italia Stefano Benedetti. Conclude dicendo: “ora più che mai c’è bisogno di cura della memoria e di antifascismo resistente e attivo”.
Il professor Pezzino dà inizio alla sua conferenza dicendo che il termine memoria è inflazionato e cita tale proposito un recente saggio di Valentina Pisanty, dal quale emerge che le realtà nazionali in cui sono più violente le destre sono quelle nelle quali la politica della memoria è stata più implementata, perché si tratta di una memoria collettiva. “La memoria invece per sua natura è un qualcosa di selettivo”. E a tale proposito Cita Yerushalmi: “E’ comune ritenere che una società non possa esistere senza una memoria di quanto è avvenuto nel passato: la selezione degli elementi da conservare serve a trasmettere da una generazione all’altra un passato dotato di senso ed in quanto tale sostiene quel complesso di riti e di valori che costituisce per un popolo il senso della propria identità e del proprio destino. Diventeranno oggetto di trasmissione solo quei momenti tratti dal passato che vengano sentiti come educativi ed esemplari per la hallakhah (hallakhah è parola ebraica che indica il sentiero su cui si cammina, la Strada, ndr) di un popolo, così come è vissuta in quel momento; il resto della ‘storia’ cade, si può dire quasi letteralmente, fuori dal sentiero”. In altre parole, vi è una memoria che serve a fondare una comunità civile dotandola di unità di passato e di comunità di intenti, ed una memoria che invece si oppone alla stessa operazione, una memoria come “rimedio contro l’odio” ed una usata “per spargere odio” E tuttavia non è, naturalmente, un’operazione indolore: “La memoria e l’oblio – ha scritto Remo Bodei – non rappresentano […] terreni neutrali, ma veri e propri campi di battaglia, in cui si decide, si sagoma e si legittima l’identità, specie quella collettiva”. In questo processo vengono di solito utilizzate rimozioni, invenzioni, falsificazioni, cancellazioni della memoria, più o meno istituzionate”.
Bisogna iniziare a sostituire il termine memoria con quello di storia perché la storia è un antidoto”, sostiene Pezzino.
Lo storico si deve avvalere di un insieme di mezzi di analisi, tra cui le fonti, anche quelle orali, per ricostruire il passato, consapevole che non si possa ricostruire tutto. Lo storico deve essere animato da umiltà, modestia, tolleranza e deve stare ai fatti”.
Questo diceva Salvemini degli storici “Noi non possiamo essere imparziali. Possiamo essere soltanto intellettualmente onesti: cioè renderci conto delle nostre passioni, tenerci in guardia contro di esse e mettere in guardia i nostri lettori contro i pericoli della nostra parzialità. L’imparzialità è un sogno, la probità è un dovere”.
In conclusione Pezzino ritorna al tema dell’incontro: “Tornando alla domanda iniziale Come si fa la manutenzione della memoria? La si fa studiando la storia! E come si fa la manutenzione della storia? Attraverso la ricerca, con un efficiente sistema archivistico e bibliotecario (che in questo momento in Italia sono pessimi) e attraverso lo studio della storia nella scuola, anch’esso passato in secondo piano”.




La presentazione pisana del libro “I partigiani della Wehrmacht”.

Presso la Domus mazziniana, a Pisa, martedì 6 settembre alle ore 18, si è tenuta la presentazione del libro I partigiani della Wehrmacht. Disertori tedeschi nella Resistenza italiana, a cura di Mirco Carrattieri e Iara Meloni, Piacenza, Le piccole pagine, 2021, alla presenza dei curatori.

 Il libro è una raccolta di saggi, frutto di un lavoro collettivo di 16 ricercatori fra Italia e Germania, che hanno ricostruito tredici storie di diserzione individuale o collettiva: uomini che si unirono ai partigiani per convinzione, per stanchezza o per reazione alle stragi commesse dai nazisti.

L’iniziativa si svolge sotto il patrocinio di Domus Mazziniana, ANPI, Istituto per la Storia della Resistenza e l’Età Contemporanea di Lucca e Istituto Nazionale Ferruccio Parri.

Introduce l’evento Pietro Finelli, Direttore della Domus mazziniana, che presenta il libro, sottolineando già come il titolo sembri quasi un ossimoro. Bruno Possenti, in rappresentanza dell’ANPI, evidenzia come l’argomento trattato sia una pagina poco conosciuta della storia della seconda guerra mondiale ed un tema ancora poco discusso: “se pensiamo ai partigiani ci vengono in mente quelli delle bande”.

Francesco Fusi, collaboratore dell’ISRT, sottolinea che “il libro raccoglie la sensibilità di una tradizione storiografica recente, mettendo in luce come la Resistenza in Italia non fu un fenomeno esclusivamente nazionale”.

Modera il pomeriggio di studio Andrea Ventura, direttore dell’Istituto storico della Resistenza e dell’età contemporanea di Lucca, il quale ricorda che la bibliografia sui soldati tedeschi che scelgono di combattere per la libertà dell’Italia è scarsa e anche nella letteratura e nel cinema i tedeschi sono rappresentati come i “cattivi” per antonomasia, come il “nemico assoluto”. Chiede poi alla curatrice Iara Meloni chi fossero i partigiani della Wehrmacht. “È difficile tracciare un quadro generale, perché chi diserta non vuole lasciare traccia. Su un milione di soldati tedeschi in Italia circa 10000 subiscono processi per diserzione e di questi circa 1000 si uniscono ai partigiani, alcuni perché già prima di partire per la campagna di Italia avevano maturato posizioni antinaziste, altri per motivazioni religiose, altri ancora perché stanchi della vita militare, qualcuno anche perché aveva conosciuto una donna e voleva trascorrere una vita in pace con lei”. “Quasi nessuno di loro ha ottenuto onorificenze e attestati da partigiano, vuoi per la difficoltà, anche linguistica, della procedura per ottenerla, vuoi perché, una volta tornati in patria, non volevano mettere in luce la loro militanza con il nemico. Così la maggior parte dei Tedeschi che aveva scelto di fare il partigiano han chiuso le sue memorie nel cassetto, e sono solo i figli che le hanno tirate fuori”. “Chi di loro, tornato in patria ha parlato della esperienza partigiana, ha ammesso che essa sia stata importante e fondante per la propria vita successiva. Molti dei disertori tedeschi sono infatti rimasti in Italia e tanti vi sono morti.

La parola passa poi a Martina Mengoni, autrice di uno dei saggi, in cui è ricostruita la vicenda biografica di Heinz Riedt che è partigiano a Padova con la brigata trentina, noto in Italia perché ha curato la traduzione in tedesco nel 1959 di Se questo è un uomo, per la casa editrice Fischer di Francoforte. Lungo e ricco è il suo carteggio con Primo Levi. I documenti della sua storia partigiana sono stati causalmente rinvenuti in biblioteca a Padova. Riedt, di padre tedesco e madre francese, vive l’infanzia in Italia come figlio di un diplomatico tedesco. Tornato in Baviera nel 1939, viene arruolato dalla Wehrmacht e lavora in un campo di prigionieri in Alsazia come interprete. Chiamato come traduttore nella stesura del trattato di resa della Francia, non se la sente e, connivente un medico, si fa riformare. Nel 1942 arriva a Padova come studente universitario ed entra fra i partigiani con il nome di battaglia Marino, svolgendo mansioni di controspionaggio. Dopo la guerra, sceglie di vivere a Berlino est lavorando come traduttore di opere letterarie e di film e collaborando con Brecht.

La sua biografia è esemplare per chi ha scelto convintamente di combattere contro i compatrioti accecati dall’ideale nazista.

Interviene poi l’altro curatore, Mirco Carrattieri, Direttore dell’Istituto nazionale Ferruccio Parri, il quale sottolinea che le fonti sui disertori e sui partigiani tedeschi sono frammentarie e neppure il Ricompart può fornire dati esaustivi, anche se in esso sono citati circa 100 nomi di partigiani tedeschi e circa 400 di altre nazioni. Altre fonti sono le fotografie: nel libro ne sono state inserite una ventina. Sui disertori fonti utili sono quelle alleate.

La presentazione del libro è affidata a Paolo Pezzino, Presidente dell’Istituto nazionale Ferruccio Parri: “trovo il libro molto interessante, poiché è il primo che affronta in maniera organica la tematica dei disertori e partigiani tedeschi in Italia, sebbene nella forma di case studies e di raccolta di biografie, che conferiscono al libro una struttura polifonica”. Lutz Klinkhammer, nella prefazione, collega i partigiani della Wehrmacht al fallito colpo di stato contro Hitler del 20 luglio 1944.

Disertare non vuol dire diventare partigiani, che è una scelta estrema che compie l’1% dei soldati tedeschi, ma è comunque una scelta drastica, compiuta dal 10% dei membri della Wehrmacht (anche se il numero pare sottostimato), difficile per la comunicazione con le famiglie, per la paura delle ripercussioni su di esse e per le gravi sanzioni a cui loro stessi andavano incontro se ritrovati dagli ex commilitoni. Pavone sostiene in Una guerra civile che la diserzione per i tedeschi fosse l’unica strada di salvazione. Ma non sempre la diserzione è una scelta politica. A volte lo si fa per stanchezza della guerra, a volte anche per caso o per le circostanze, a volte per discriminazione da parte dei commilitoni. Talvolta i disertori hanno fatto anche il doppio gioco, infiltrandosi fra i partigiani. Quindi erano guardati con diffidenza.

Il libro contribuisce a far luce su una storia dimenticata e a smantellare gli stereotipi nazionali della memoria pubblica che si è rifiutata a lungo di riconoscere la presenza dei disertori nelle file della Resistenza anche perché smentisce la tendenza a demonizzare il “cattivo tedesco” utile ad assolvere il “bravo italiano”, per usare le parole di Filippo Focardi.




Lectio di Paolo Pezzino per la chiusura del Festival Fino al cuore della Rivolta 2021

“Questa domenica in Settembre” direbbe Guccini, il 5, “Fra i castagni dell’Appennino” (in realtà della Lunigiana) si è concluso il Festival Fino al cuore della Rivolta, presso il Museo audiovisivo della Resistenza a Fosdinovo.

Il gran finale ha coniugato cultura e musica, come è nell’anima del Festival. Sono stati celebrati i 700 anni dalla morte del Sommo Poeta con Maria Antonietta che ha magistralmente interpretato il Canto XXVII dell’Inferno con uno spettacolo dal titolo L’inferno di Guido. La musica è stata quella hard rock dei Little Pieces of Marmelade, conosciuti anche come LPOM, che sono stati capaci di attirare un pubblico giovanile.

Nella giornata conclusiva non poteva mancare Paolo Pezzino, Presidente dell’Istituto nazionale Ferruccio Parri, che ha un rapporto privilegiato con il Museo audiovisivo della Resistenza, di cui è il Direttore scientifico.

Il Professore ha tenuto una lectio brevis dal titolo Creare un museo nazionale della Resistenza in Italia: un’impresa impossibile? Questa domanda sembra apparentemente stupida, sostiene Pezzino.

A pensarci non c’è neppure un museo nazionale del Risorgimento. Anche se la Resistenza non è il secondo Risorgimento, come ancora qualcuno sostiene.

Gli elementi che ostano sono tre.

Il primo è che la Resistenza non è stato un momento di unità delle forze antifasciste dopo il ’45, non conservando la sua natura interpartitica. Questo perché dopo, nel clima di guerra fredda, alcuni partiti non hanno più rivendicato a partecipazione alla Resistenza ed essa è diventata un momento divisivo, come osservò Norberto Bobbio: “l’anticomunismo si è sostituito all’antifascismo”. Inizia addirittura una rivalutazione del fascismo e viene fondato l’MSI esplicitamente ispirato all’ultimo momento del fascismo. Poi l’antifascismo è passato di moda e ora c’è chi dice che Mussolini ha fatto anche cose buone. Berlusconi non ha mai celebrato il 25 Aprile tranne l’ultimo anno del suo governo. I 5 stelle sull’antifascismo non hanno mai detto una parola chiara, perché al loro interno convivono una anima di destra e una di sinistra, quindi non si indentificano con l’antifascismo. E ora ci sono forze politiche (Lega, Fratelli di Italia) che si richiamano, implicitamente o esplicitamente, all’esperienza fascista per rivalutarla.

Dunque, trattandosi di un museo nazionale, la spinta alla sua istituzione doveva venire dal governo, ma non è mai arrivata. Solo il Ministro Franceschini circa due anni fa ha annunciato a Milano un finanziamento per la creazione del Museo Nazionale della Resistenza.

Il secondo motivo “ostante” è che la Resistenza è stata per lo più un fenomeno locale, con bande che trovavano difficoltà a connettersi e a collegarsi a strutture più ampie, tranne che nell’ultimo periodo della lotta armata. Il ricordo che dunque se ne è voluto dare è localistico. Non si è sentito il bisogno di narrare complessivamente una storia così complessa. Questo spiega perché, sparsi sul territorio nazionale, ci sono decine di musei della Resistenza: uno è questi è quello di Fosdinovo, che pur essendo collegato alla realtà di Massa, Carrara, La Spezia, ha un afflato nazionale. Altri esempi sono casa Cervi, il museo della deportazione di Carpi, quello di Via Tasso, il museo diffuso di Torino… Insomma, la frammentazione rispecchiala realtà italiana.

E veniamo al terzo punto: il museo della Resistenza deve essere storico, non un memoriale dei partigiani e nel costituirlo, bisogna tenere conto della sua estrema complessità. Della Resistenza si è fatto il braccio armato del popolo italiano che dopo il 25 Aprile si era svegliato antifascista. Questa è una celebrazione retorica, non storica. Per allestire un museo storico della Resistenza deve essere affrontata la complessità di essa, quella complessità che ha magistralmente individuato Claudio Pavone parlando di tre guerre: una di liberazione nazionale, una civile, una di classe (quest’ultima in alcune zone di Italia, soprattutto in Emilia Romagna). La Resistenza non è sempre uguale cronologicamente né geograficamente. Molto diverse sono state anche le bande: comuniste, socialiste, del partito di azione, autonome, composte principalmente da militari, cattoliche etc.

Non bisogna dimenticare che alla Resistenza italiana hanno partecipato anche molti non italiani. A questo proposito si veda, ad esempio, il recente libro curato da Mirco Carrattieri e Iara Meloni Partigiani della Wehrmacht. Ma alla Resistenza italiana hanno aderito anche stranieri, ad esempio partigiani russi e cecoslovacchi, così come Italiani hanno partecipato alla Resistenze all’estero. Bisogna pure ricordare che c’è stata una Resistenza armata, una direzione politica che si esprimeva nei comitati di liberazione nazionale, e una resistenza civile.

Insomma, quello sulla Resistenza è un discorso complesso che necessità di una grande sforzo scientifico, e un grave impegno finanziario per costituire un museo storico nazionale che sia degno di tale nome.

Attualmente è in gestazione a Milano un museo nazionale della Resistenza, che dovrà sorgere accanto alla Fondazione Feltrinelli. È stato creato Consiglio di supervisione che comprende due rappresentanti del Comune di Milano, due del segretariato regionale per la Lombardia dei Beni Culturali in rappresentanza del Mibac, dell’Istituto nazionale Ferruccio Parri che dovrà curare la progettazione scientifica. C’è poi un comitato di esperti nominato dalle varie associazioni, con il quale condividere il progetto museale.

Nonostante la volontà del Ministro Franceschini, per la creazione del museo permangono alcuni problemi organizzativi e finanziari: 25milioni di euro sembrano tanti, ma non lo sono se si considera che bisogna costruire un edificio nuovo. Inoltre bisognerà prevedere, come in tutte le principali realtà europee, un importante centro di documentazione con archivio e biblioteca.

Nonostante tutto, il Museo Nazionale della Resistenza dovrebbe venire alla luce nel 2024-2025.

Speriamo di realizzare una struttura all’altezza dei musei nazionali che troviamo all’estero, in grado di parlare a livello europeo di queste tematiche.




Presentato a Pisa “Il tempo senza Storia” di Prosperi.

Alle ore 18 di venerdì 3 settembre, presso il circolo Arci Pisanova, a Pisa, si è tenuta la presentazione dell’ultimo libro di Adriano Prosperi, Il tempo senza storia Torino, Einaudi, 2021.
Introduce Franco Bertolucci -direttore scientifico della BFS-, modera Stefano Gallo -ricercatore CNR- intervengono l’autore Adriano Prosperi – professore emerito di Storia moderna presso la Scuola Normale Superiore di Pisa e Paolo Pezzino -presidente dell’Istituto Nazionale F. Parri-.
Il pubblico, molto numeroso, si è mostrato attento fino alla fine, con una evidente soddisfazione di poter riprendere questi incontri in presenza, avendo a disposizione un ampio spazio all’aperto che ha consentito il distanziamento.
L’iniziativa segna quello che Gallo definisce il “nuovo corso” di vita della Biblioteca Franco Serrantini, diventata Istituto di storia sociale, della Resistenza e dell’età contemporanea, alla sua prima iniziativa come associato all’Istituto nazionale “Ferruccio Parri”, Rete degli Istituti storici della Resistenza dell’età contemporanea.
Dopo i saluti, prende la parola Gallo che, parlando del libro di Prosperi, afferma “interpreta il senso di fare storia”. Prosperi spiega che questo suo ultimo libro è la trascrizione di una conferenza tenuta a Genova di fronte al Palazzo Ducale, quasi due anni fa (la pubblicazione ha subito ritardi a causa del covid) mentre persone affogavano nel Mediterraneo nella totale noncuranza. “A me questo ha fatto venire in mente la Shoah (confronto improprio, lo so) in cui tutti sapevano ma non vedevano e non sentivano”. Da qui il bisogno di interrogarsi sul senso della storia della memoria nella realtà contemporanea.
Gallo poi propone dei punti di riflessione: il primo è il rapporto fra storia e memoria.
A tale proposito Pezzino ribadisce l’ovvia distinzione fra storia e memoria, riprendendo una frase del saggio di Prosperi “la prima è conoscenza accertata del passato, la seconda funzione psichica, viva e palpitante, finestra mentale più aperta all’errore e alla falsificazione”. Aggiunge poi “le memorie dei protagonisti sono fondamentali per ricostruire l’elaborazione del passato ma di quel passato ci dicono appunto quello che il soggetto ricorda dopo anni e anni di rielaborazione E non possono essere utilizzate per ricostruire in maniera solida i fatti di cui si porta ricordo”. La memoria, infatti, è selettiva e più sottoposta all’oblio.
Prosperi concorda: “Io sono nato, direbbe Orazio, Benito consule, ma non oserei raccontare i miei ricordi, perché la memoria è influenzata dal contesto sociale, dalla coscienza civile ed è fatalmente labile, falsificabile. Basti pensare che gli Italiani hanno mistificato di essere stati nella stragande maggioranza fascisti!”.
Il secondo spunto è “la storia come legittimazione del potere politico”.
Pezzino afferma che il primo condizionamento sta già nella selezione dei dati da ricordare. “Anche la storia è selettiva. Lo dimostra, ad esempio, la cancellazione e la sostituzione della storia delle popolazioni conquistate, come quella dei nativi Americani o delle civiltà precolombiane”. E continua: “Nel corso dei secoli si è elaborato un metodo storico che basa l’interpretazione sulla documentazione e su un’analisi critica di tutte le fonti disponibili ed è questo metodo che oggi può fare dello storico un decostruttore delle falsificazioni del potere. Davanti alla falsificazione della storia voluta dal potere politico e diffusa dai mass media, il nostro lavoro di storici, di verifica e di rimando ai dati essenziali e di contestazione appare debole. Ma la sedimentazione di ciò che noi cerchiamo io spero che prima o poi dia i suoi frutti, altrimenti dovremmo ritenere che il lavoro dello storico è del tutto inutile”. E Prosperi aggiunge: “la storia significa etimologicamente ricerca, chi fa questo mestiere non lo deve dimenticare”.
L’ultimo spunto di riflessione, sollevato dalle parole in apertura di Prosperi sulla Shoah, riguarda la celebrazione della Giornata della Memoria.
Pezzino sostiene che la celebrazione “forzata” ed eterodiretta di essa abbia banalizzato la Shoah. “Già la definizione italiana di Giornata della Memoria è discutibile: lascia fuori alcune categorie di vittime, inserisce gli Italiani buoni che hanno salvato”. Ecco il testo: La Repubblica italiana riconosce il giorno 27 gennaio, data dell’abbattimento dei cancelli di Auschwitz, “Giorno della Memoria”, al fine di ricordare la Shoah (sterminio del popolo ebraico), le leggi razziali, la persecuzione italiana dei cittadini ebrei, gli italiani che hanno subìto la deportazione, la prigionia, la morte, nonché coloro che, anche in campi e schieramenti diversi, si sono opposti al progetto di sterminio, ed a rischio della propria vita hanno salvato altre vite e protetto i perseguitati.
Critica poi la definizione ufficiale di antisemitismo proposta dall’IHRA e ripresa da molti governi tra i quali quello italiano, non tanto per il testo in sé (“L’antisemitismo è una certa percezione degli ebrei che può essere espressa come odio per gli ebrei. Manifestazioni di antisemitismo verbali e fisiche sono dirette verso gli ebrei o i non ebrei e/o alle loro proprietà, verso istituzioni comunitarie ebraiche ed edifici utilizzati per il culto”), quanto per gli esempi contemporanei di antisemitismo nella vita pubblica, nei mezzi di comunicazione, nelle scuole, al posto di lavoro e nella sfera religiosa, che vengono citati dopo tale definizione, che danno un preponderante peso alle critiche verso la politica israeliana.
A proposito dell’importanza di ricordare la Shoah, Prosperi cita, prendendone le distanze, un articolo di Berardelli in cui si afferma “non è necessario ricordare la Shoah, bisogna andare avanti. Le stragi e le distruzioni di popoli sono ricorrenti nella storia”. Confronta poi questa affermazione con quelle di uno storico cattolico di grande fama che, sul più letto giornale tedesco, proprio negli stessi giorni in cui è uscito il suo libro, ha scritto: “la storia è anche dimenticare, non si può collegare per sempre l’Olocausto al popolo tedesco”, mostrando la pervicace tendenza di questo popolo di prendere le distanze dal passato nazista.
La shoah è il punto massimo dell’evoluzione culturale, scientifica e tecnica del mondo moderno”. Conclude Prosperi “e per questo non possiamo lasciarcela alle spalle”.
A conclusione dell’incontro, entrambi gli studiosi concordano sul fatto che è in atto un “attacco alla storia” e che le responsabilità sono da ricercarsi nello scarso peso data ad essa nella scuola, nella crisi delle biblioteche e degli archivi italiani, quasi sempre chiuse le prime, allo sfascio i secondi. “Ma la storia si fa sui documenti!” inveisce Prosperi, “se i giovani studiosi non possono accedere agli archivi che ricerca fanno?”.
Amareggiato conclude il suo intervento così: “Per un paese che non investe in scuola, luoghi di cultura, ospedali e carceri io non sono ottimista”.




Una nuova donazione arricchisce l’Emeroteca ISRT con 2 riviste della prima metà del Novecento..

L’Emeroteca dell’ISRT – che raccoglie quotidiani, riviste, periodici storici del secolo scorso e le principali riviste di storiografia – ha ampliato il proprio patrimonio nel corso degli anni anche grazie a importanti donazioni da parte di privati.

Recentemente il patrimonio si è arricchito di due importanti riviste della prima metà del Novecento grazie alla donazione compiuta dalle signore Maria Rita e Roberta Ammannati in memoria della madre Clotilde Vesco.

Sono state infatti donate le collezioni complete e rilegate di “La lettura” rivista mensile del “Corriere della Sera” dal 1901 al 1952 e di “Noi e il mondo” rivista mensile de “La Tribuna” dal 1912 al 1931.