Conferimento della Laurea Honoris causa in Scienze per la Pace da parte dell’Università di Pisa alla Senatrice Liliana Segre

Nell’ambito delle iniziative per la Giornata della Memoria, martedì 2 Febbraio, nell’Auditorium Polo della Memoria San Rossore 1938 (non a caso) dell’Università di Pisa si è tenuta una manifestazione articolata in due parti: dapprima la presentazione del volume di Marina Riccucci e Laura Ricotti Il dovere della parola. La Shoah nelle testimonianze di Liliana Segre e Goti Herskovitz Bauer, poi la cerimonia di conferimento della Laurea Magistrale Honoris causa per la Pace alla Senatrice Liliana Segre.

La manifestazione si è tenuta parzialmente in presenza e su piattaforma telematica. A coordinare l’evento Fabrizio Franceschini, Direttore del CISE, Centro Interdipartimentale di Studi Ebraici.

Alle 11 si è aperta la cerimonia con i saluti istituzionali del sindaco di Pisa, Michele Conti, seguito dal prefetto Giuseppe Castaldo, il quale afferma “bisogna difendere la popolazione dal virus più terribile, quello della violenza e dell’intolleranza” e da Alessandra Nardini che definisce Liliana Segre “modello di donna libera e di pace” elogiandone “la generosità con cui ha lasciato alla generazione successiva i valori di giustizia e uguaglianza”. Poi aggiunge “abbiamo il dovere della memoria e anche quello di fare i conti con la nostra storia di Italiani e di Europei”. La ricorda come una bambina di otto anni “a cui è stata tolta l’infanzia” e conclude citando un episodio assai significativo, spesso citato dalla Senatrice a vita, relativo alla fuga delle SS dai lager e il loro tentativo di eclissarsi gettando divise e armi. “Quando anche il comandante di quell’ultimo campo vicino a me si mise in mutande, quell’uomo alto, sempre elegantissimo, crudele sulle prigioniere inermi, e buttò la divisa sul fosso, la sua pistola cadde ai miei piedi ed io ebbi la tentazione fortissima di prenderla e sparargli. Lo avevo odiato, avevo sofferto tanto, sognavo la vendetta: quando vidi quella pistola ai miei piedi, pensai di chinarmi, prendere la pistola e sparargli. Mi sembrava un giusto finale di quella storia, ma capii di esser tanto diversa dal mio assassino, che la mia scelta di vita non si poteva assolutamente coniugare con la teoria dell’odio e del fanatismo nazista; io nella mia debolezza estrema ero molto più forte del mio assassino, non avrei mai potuto raccogliere quella pistola, e da quel momento sono stata libera.” È poi la volta di Luciano Barsotti, presidente della Fondazione Livorno, che ha finanziato la pubblicazione del libro presso la casa editrice Pacini. Egli ricorda come la sua città, fin dalla fondazione, ha convissuto con la comunità ebraica, lì molto numerosa, traendo benefici da questo sincretismo culturale.

Inizia poi la cerimonia vera a propria. Il professor Fabrizio Franceschini spiega il nome dato al luogo dove si sta svolgendo l’evento. Inaugurato il 25 febbraio 2020, Il nome “Polo della Memoria San Rossore 1938”, fortemente voluto dal rettore, è stato scelto per richiamare alla memoria collettiva la “Cerimonia del ricordo e delle scuse” celebrata nel 2018 in occasione dell’80° dalla firma delle leggi razziali “Con la scelta di questo nome vogliamo rinnovare in modo solenne un impegno, quello di difendere e promuovere i valori della democrazia, della libertà, dell’eguaglianza, della fratellanza e del diritto alla dignità di ciascun essere umano”. “Vogliamo che i nostri studenti conoscano i nomi di alunni e docenti perseguitati, espulsi, uccisi per motivi razziali: 20 docenti e 280 studenti”.   “Questo polo – prosegue Franceschini – fa da pendant con l’altro geograficamente sito nella parte opposta del centro storico di Pisa, il polo Pontecorvo, all’interno della stessa area in cui, negli anni Trenta del secolo scorso, sorgevano gli impianti tessili della famiglia Pontecorvo”. Il polo è dedicato a Guido, Bruno e Gillo, che oltre ad essere esponenti di primo piano nei rispettivi campi della genetica, della fisica e dell’arte cinematografica, hanno subito, in quanto ebrei, le persecuzioni razziali nel ’38 e sono dovuti fuggire all’estero, Guido ad Edimburgo, Bruno negli USA e Gillo in Francia. Questo ultimo è tornato poi in Italia per aderire alla Resistenza, coordinando azioni partigiane in Piemonte e Lombardia.

Giunge finalmente la presentazione del libro Il dovere della parola da parte delle autrici, Laura Ricotti e Marina Riccucci, che tra l’altro è anche membro del CISE, la quale spiega l’origine del libro che nasce dagli incontri e dalle conversazioni che hanno intrattenuto tra il 2017 e il 2020 con Liliana Segre e Goti Bauer. Il volume che si compone di quattro capitoli: nel primo Laura Ricotti ricostruisce il contesto storico dell’Olocausto, con riferimenti agli anni 1933-1945, dall’apertura del primo lager ai processi di Francoforte e di Norimberga. Il secondo capitolo verte sull’incontro a Milano tra Liliana Segre e Goti Bauer dopo la deportazione e il ruolo avuto dalla signora Goti nel processo che ha portato Liliana a farsi testimone. Il terzo è la prima biografia (autorizzata) di Goti Bauer, condotta sulla scorta delle parole e del racconto fatti da Goti alle due autrici, durante due incontri nel 2018 e nel 2020, entrambi a Milano. Il quarto, infine, è la storia di Liliana Segre riferita nell’intervista rilasciata a Marina Riccucci nella sua casa milanese nel marzo 2017, prima della nomina a senatrice a vita. Si tratta di un resoconto particolare, durante il quale Liliana Segre “ha parlato della sua vicenda di deportata ad Auschwitz con le parole di Dante, eleggendo termini ed espressioni dell’Inferno a vocabolario della sua testimonianza”. Il volume è corredato anche da videointerviste. La professoressa Riccucci, icasticamente, dice “dalla firma delle leggi razziali l’orizzonte aperto per gli ebrei è diventato quello chiuso di un vagone piombato e di una camera a gas” e conclude, spiegando il titolo del libro, “ogni frase pronunciata deve diventare una pietra di inciampo”.

In collegamento telefonico partecipa una delle testimoni, Goti Herskovitz Bauer, 96enne, sopravvissuta al campo di concentramento di Auschwitz e molto attiva nella memoria della Shoah. Originaria di Fiume, perde nell’Olocausto i genitori, un fratello, una sorella e un cognato. Ripercorrendo la propria vita dalla solitudine nel periodo delle leggi razziali, all’indifferenza e malvagità, Goti Bauer ricorda, con grande gratitudine, che tra la cattiveria generalizzata ci fu però anche un episodio di grande solidarietà: l’aiuto ed il conforto ricevuto dalla vicina di casa, la signora Angelina Braida, che, esponendosi a gravi rischi personali, fece murare un locale nella sua casa di vacanza a Laurana dove nascose oggetti di valore di tanti ebrei, tra cui anche quelli della famiglia di Goti. La cosa del lager che ricorda con più orrore è la frase “durch den kamin” (per il camino) alludendo ai formi crematori. Come per molti altri deportati, l’occasione della testimonianza per Goti arriva negli anni Novanta quando si riaccende nell’opinione pubblica l’interesse sulla Shoah e sui racconti dei sopravvissuti. Da allora la signora Bauer partecipa a numerosi incontri con le scuole e a manifestazioni pubbliche.

Alle 11:30 inizia la cerimonia di conferimento della laurea. Ad iniziarla è il Magnifico Rettore dell’università di Pisa, Paolo Maria Mancarella, che tiene un discorso intriso dei sentimenti che hanno animato la nostra costituzione. “E’ importante la memoria nell’Italia di oggi, che risulta divisa e incoerente di fronte ai valori che dovrebbero essere comuni -come il cielo nella filastrocca di Rodari: il cielo è di tutti, di ogni occhio è il cielo intero- e non calpestati da alcuni membri delle istituzioni per meri scopi elettorali, facendo leva sulla paura”. Poi introduce Liliana Segre con queste parole “ha imparato a parlare con dolcezza e intelligenza contro le barbarie del mondo” ed è proprio per questo che le viene attribuita la laurea honoris causa in Scienze per la pace.  La motivazione è letta dalla presidente del corso di laurea, Professoressa Eleonora Sirsi: “per il suo impegno nel contrastare gli hate speeches, promuovere una vera educazione alla cittadinanza, alla pace positiva e al ripudio della violenza”. La professoressa ripercorre poi la biografia di Liliana Segre, dall’infanzia con il padre, al precoce senso di ingiustizia a causa delle leggi razziali, fino al tentativo fallito di fuga in Svizzera con la famiglia, l’arresto e il carcere prima a Como e poi a San Vittore. Su quest’ultima esperienza la Senatrice ha però un ricordo dolce “eravamo noi due, io e mio padre, e in quella cella e ho vissuto momenti di felicità perché ero sola con lui”. Poi la deportazione a 14 anni ad Auschwitz, il numero di matricola 75190, il lavoro in una fabbrica di munizioni, il momento terribile in cui, trovandole un pidocchio, la rasano “avevo una consapevolezza nuova della mia nudità e del mio capo rasato…non ero mai stata così sola e infelice, avevo fame, freddo. In quella stanza c’era una bambina di circa 2 anni più grande di me, non parlava la mia lingua, credo che fosse ceca. Nei suoi occhi vedevo lo stesso orrore. Sfruttando il nostro latino scolastico, riusciamo però a dialogare. Non sapevo il suo nome, ma fra di noi nacque una intimità”. Quando torna a casa il 31 agosto 1945, a 15 anni, Liliana non ha voglia di ricordare. L’Italia di quel tempo non faceva della Shoah parte del racconto pubblico, una delle tante “amnesie della storia”, come le ha definite Remo Bodei. Negli anni ’70-’80 precipita nella depressione dalle quale esce grazie al lavoro (rileva la fabbrica paterna di tessuti) e all’inizio degli incontri pubblici e con gli alunni. Arrivano poi le onorificenze: a partire da quella di Commendatore al merito della Repubblica italiana, conferita da Ciampi nel 2004, alle 6 lauree honoris causa, di cui quella di Pisa è l’ultima, fino alla nomina a senatrice a vita nel 2018.

La laudatio è tenuta da Gadi Luzzatto Voghera e da Noemi Di Segni, rispettivamente direttore del CDEC, Centro di Documentazione Ebraica Contemporanea, e presidente dell’UCEI, Unione delle Comunità Ebraiche Italiane.

Il primo percorre gli studi essenziali, sia stranieri che italiani, sulla Shoah, a partire dall’opus magnum The Destruction of the European Jews, pubblicato da Raul Hilberg nel 1961 negli Stati Uniti, mentre nello stesso anno Renzo De Felice pubblica in Italia il molto discusso Storia degli Ebrei italiani sotto il Fascismo; gli esperimenti di Stanley Milgram negli anni ’70 che hanno in parte influenzato anche il saggio a Ordinary Men: Reserve Police Battalion 101 and the Final Solution in Poland di Christopher Browning del 1992; e Modernity and the Holocaust, pubblicato da Zygmunt Bauman nel 1989. Per la filmografia il monumentale documento di Claude Lanzmann Shoah del 1985. Questi studi creano un contesto culturale e civile che fa nascere “l’era del testimone” per dirlo con le parole di Annette Wieviorka.

La laudatio di Noemi Di Segni è all’insegna dell’importanza della memoria e della pace “l’impegno di memoria è un impegno morale per non precipitare nell’abisso del vuoto di umanità” e “il presupposto della pace sono la legalità e la consapevolezza del limite”.

Alle 13:20 avviene la consegna virtuale del diploma di laurea a Liliana Segre seguita dalla sua lectio magistralis. La Senatrice innanzitutto manda un abbraccio virtuale a Goti Bauer “amica e maestra di vita” e ringrazia per gli interventi le due scrittrici Riccucci e Ricotti. Poi, con grande umiltà si domanda “A volte mi chiedo come io possa aver ispirato tutto questo” e si definisce “nonna di me stessa, così come penso di esserlo stata per i tanti ragazzi che mi hanno ascoltato”. “Penso con pena infinita alla ragazzina che sono stata. Ero una bambina di 8 anni quando ascoltai dai miei cari, poi spazzati via dalla Shoah, che ero stata espulsa dalla scuola per la sola colpa di essere nata. Furono troppi quelli che accettarono le leggi razziali, anche per interesse personale, oltre che per indifferenza”. “Ma sono orgogliosa, credo, di essere stata utile nelle scelte di vita di chi mi ha ascoltato, cercando di trasmettere la forza che c’è in ognuno di noi. Ora sono una laureanda, molto matura e commossa”. “Continuerò, nei limiti delle mie forze, -ha concluso- nella mia opera di testimonianza e di costruzione di una società di pace, rispetto, responsabilità, dialogo, solidarietà ed accoglienza dell’altro“. Poi manda un abbraccio a tutti “con l’affetto di una nonna”.

La cerimonia si conclude con l’esecuzione del Kaddish di Maurice Ravel, nella produzione del Festival Nessiah.




“La frontiera contesa: il confine italo-sloveno dal fascismo al secondo dopoguerra fra storia e memoria.”

Nel quadro delle iniziative per il Giorno del Ricordo 2021, si terrà giovedì 4 febbraio a partire dalle ore 18.15 l’incontro promosso dal comitato provinciale ANPI di Lucca “La frontiera contesa: il confine italo-sloveno dal fascismo al secondo dopoguerra fra storia e memoria”. All’incontro parteciperanno Eric Gobetti (storico e regista, autore di “E allora le foibe?”, edito quest’anno da Laterza) e Armando Sestani (vicepresidente dell’ISRECLU, che nel 2015 ha pubblicato il volume “Esuli a Lucca” per Maria Pacini Fazzi); porterà i saluti dell’ANPI provinciale il presidente Filippo Antonini; coordinerà il dibattito Stefano Lazzari della redazione di ToscanaNovecento.

Sarà possibile seguire l’evento in streaming sulla pagina Facebook ANPI Comitato Provinciale Lucca.




Giorno della Memoria 2021: grazie a Regione Toscana, il treno “virtuale” della memoria è partito da Firenze.

Questo sarebbe stato il ventesimo anno dall’istituzione del Treno della Memoria, iniziativa (poi molto “imitata”) creata dalla Regione Toscana, prima in Italia. Ma a causa della pandemia, il treno questo anno non è potuto partire. E gli alunni non si sono potuti neppure riunione per ascoltare storici e testimoni al Nelson Mandela Forum, come si faceva ad anni alterni.

Ma, nonostante le difficoltà, la Regione Toscana, coadiuvata dal Museo della Deportazione e della Resistenza di Prato, ha comunque celebrato la Giornata della Memoria insieme agli studenti, che si sono collegati on line in 11.000, attraverso un viaggio ‘virtuale‘ di quattro ore nella storia, nei campi di sterminio e nei ricordi di vite vissute.

Manca anche la presenza fisica dei testimoni, pure loro collegati da casa, mentre sul palco del Cinema La Compagnia di Firenze è presente Ugo Caffaz, anima fin dall’inizio del Treno della Memoria toscano, che termina così il suo breve discorso “Si dice che senza memoria non c’è futuro, no, non c’è presente, altrimenti non pensiamo a ciò che ci sta intorno, non lo guardiamo e facciamo quello che ci pare”.

Intervengono anche i rappresentanti istituzionali come Alessandra Nardini, assessora regionale all’istruzione, che invita a raccogliere l’eredità dei testimoni e a non abbassare la guardia di fronte ai rigurgiti nazisti e fascisti e ai negazionismo; Antonio Mazzeo, presidente del Consiglio regionale, che auspica che il Treno della Memoria possa partire non ad anni alterni ma tutti gli anni, e Eugenio Giani, presidente della Regione, che, con una metafora attuale, dice che il miglior vaccino contro il virus del razzismo è la memoria.

Ad animare il palco, e attraverso internet, i numerosissimi studenti collegati con i loro insegnanti dalle aule scolastiche, è l’Orchestra multietnica di Arezzo, nata nel 2007 da un percorso formativo, aperto alla partecipazione di musicisti italiani e stranieri e finalizzato alla conoscenza e all’approfondimento delle musiche tradizionali delle aree del Mediterraneo, per predisporre un repertorio basato sulla contaminazione.

Attraverso le parole e le note di Enrico Fink, ebreo, e di Alexian Santino Spinelli, rom, viene lanciato il messaggio che la cultura è fatta di incontri tra diversità e che cultura e musica significano pluralità, confronto e mescolanza. L’Orchestra apre e chiude l’evento e fa da intermezzo fra un intervento e l’altro. Questa celebrazione della Giornata della Memoria è anche l’occasione per lanciare l’ultimo disco, dal titolo Romanò Simchà, una crasi linguistica traducibile come “festa ebraica rom”. Così spiega Fink “lo scopo di questo disco è di raccontare in musica il fatto che la cultura italiana non è un blocco con dei confini a rischio di invasione, ma è sincretica, frutto anche delle minoranze. Il nostro mondo è fatto e arricchito dalla diversità”. Poi Spinelli “all’epoca dei miei genitori nascere Rom era un reato. Mio padre è stato internato da bambino in un campo per zingari vicino Potenza e ha subito la fame per la deportazione fascista”. E’ dunque giusto ricordare che ebrei e sinti e rom sono stati vittima dello stesso progetto genocidario nazifascista. Continua Spinelli “musica klezmer e rom si sono sempre mescolate, come i nostri popoli, anche quando si sono incontrati nelle segrete della Santa Inquisizione o nei lager“.

Sul palco, nella veste di conduttori, anche Camilla Brunelli e Luca Bravi, rispettivamente direttrice e collaboratore del Museo della Deportazione e della Resistenza di Prato.

Il primo testimone a parlare non è sopravvissuto all’olocausto, ma alla strage di Sant’Anna di Stazzema del 12 agosto 1944. E’ Enrico Pieri e proprio questo mese è stato insignito da Mattarella “Commendatore al merito della Repubblica”.

Pieri si presenta e racconta con semplicità e senza patetismo la sua vicenda: aveva 10 anni quando i nazisti -guidati dagli Italiani, sottolinea- hanno massacrato la popolazione e gli sfollati di Sant’Anna. Lui è sopravvissuto all’eccidio nascosto in un sottoscala, dove lo aveva tirato a sé un’altra bambina, Grazia Pierotti, e ha visto massacrare davanti a sé i suoi familiari ed incendiare la casa. E’ rimasto completamente solo: uccisi genitori, due sorelle, nonni, zii e cugini. Anche della famiglia Pierotti si sono salvate solo Grazia e la sorella minore. Le necessità economiche lo spingono, da adulto, ad andare a cercare lavoro in Svizzera e, sfruttando la sua esperienza di emigrato, Pieri parla dell’importanza della Europa unita e non ha parole di odio (all’inizio ammette di essere stato diffidente) verso i Tedeschi. “Quando emigrai in Svizzera capii che non si doveva e non si poteva più odiare e che mai bisogna generalizzare”. Conclude così: “facciamo dei futuri europei affinché non ci sia un’altra Sant’Anna di Stazzema”, e le sue parole ci ricordano come l’Europa nasca negli eccidi di civili, nei campi di concentramento ed in ogni altro luogo dove guerra, odio e violenza hanno creato devastazione.

Viene poi proiettato Un treno per Auschwitz: memorie di un viaggio che dura 20 anni, un video a cura della Regione Toscana con la regia Tobia Pesci. Di fronte ai nostri occhi scorrono immagini del treno in partenza dalla stazione di Santa Maria Novella, intermezzate da brevissime testimonianze di Antonio Ceseri, IMI, Tatiana Bucci e Vera Michelin Salomon, ebree, che raccontano il momento della loro cattura. Andra Bucci, invece, parla della difficoltà di rifare il viaggio verso Auschwitz, perché si rivede ogni volta in quel vagone piombato che la portò ad Auschwitz la notte del 4 aprile 1944. Del viaggio anche Marcello Martini dice: “nel viaggio verso Mauthausen ho provato la prima paura vera della mia vita”. Poi Andra racconta il momento della “selezione” all’apertura del portellone, mentre di quel momento Maria Rudolf, deportata politica, ricorda le urla in una lingua incomprensibile. La sorella Tatiana ci fa accapponare la pelle quando dice che il ricordo più intenso che ha di Birkenau è la fuliggine anche quando era estate, e l’odore acre “che poi ho capito che era di carne bruciata”. L’immagine successiva è quella di Andra che mostra il tatuaggio, di cui è orgogliosa “perché non sono riusciti a distruggermi, ad annientarmi come volevano, ma sono qui per testimoniare. I bambini ebrei dovevano morire tutti e quando si distruggono mamme e bambini si distrugge un popolo intero”.  Il video prosegue con estratti dalla “cerimonia dei nomi”, cioè la lettura da parte degli studenti, davanti al Memoriale di Birkenau, di circa 600 nomi di deportati e dell’età in cui sono morti, cui seguono una preghiera cristiana e una ebraica. Poi le interviste ai ragazzi: “il mio sistema emotivo è rimasto come congelato” afferma una studentessa, “dovrebbe essere obbligatorio da parte dei governi far fare agli studenti questa esperienza”, dice uno studente mentre un altro, attonito, confessa “nemmeno essendo qui riesco a capire”.  Infine, in uno degli incontri nel cinema Krylov a Cracovia, si parla del momento della liberazione e Marcello ricorda il crollo psicofisico subito quando si sono aperti i cancelli di Mauthausen, mentre Andrà si rammenta di un soldato con una divisa diversa da quella dei suoi aguzzini che le dà una fetta di salame.

Dopo il video, prende la parola Camilla Brunelli che introduce i testimoni e ricorda le leggi razziali e le sofferenze che esse e la persecuzione politica hanno causato in coloro che sono dovuti fuggire o emigrare.

E così appare, in collegamento da Buenos Aires, Vera Vigevani Jarach: “Io ho due dittature sulle spalle, quella fascista, perché nella Shoah ho perso mio nonno a Auschwitz, e quella di Videla in Argentina, perché mia figlia, come tanti studenti e giovani, sono state vittime del suo regime”. Nonostante tutte le persecuzioni e i lutti subiti, Vera si dichiara “una ottimista incorreggibile” e aggiunge, riferendosi al presente “Anche la pandemia ci ha insegnato qualcosa: a usare le piattaforme virtuali. Dopo il covid dovremo rivedere tutto e occuparci della fame, della miseria, delle violenze. Non sono utopie, possono e devono diventare realtà perché siamo noi a dover costruire un mondo migliore, ed io ho fiducia nei giovani, per me sono importanti i giovani”.

E così questa straordinaria 93enne, che non esce da casa da marzo scorso a causa del coronavirus, si dimostra ancora una volta una forza della natura.

Riprende la parola Camilla Brunelli per introdurre la Shoah dei bambini (un milione e mezzo) e invita a riflettere su quale ideologia ha permesso che venissero uccisi: “non è inspiegabile follia, bisogna cercare le cause economiche, ideologiche. Fu un cammino graduale che portò al genocidio di un milione e mezzo di bambini per eliminare il futuro”.

Così inizia il collegamento con Kitty Braun, italiana di origine ebrea, nata a Fiume e deportata con la sua famiglia quando aveva appena 8 anni, prima nel campo di Revensbrück e poi in quello di Bergen-Belsen. Ed è proprio dalla liberazione da questo lager che Kitty inizia a raccontare. “Neppure i soldati inglesi si avvicinarono alla baracca, dal fetore. Io ero bambina ma non camminavo più perché mi si erano atrofizzate le gambe. Così venni presa in braccio dai soldati. Nei loro occhi vedevo l’orrore di ciò che vedevano“. “Non mangiavamo da 2 settimana, ci dettero dei fagioli in scatola (che hanno aggravato la nostra dissenteria), poi ci hanno messi su tavoloni di legno dove siamo stati lavati con il bruschino e con la sistola“. “La sensazione più bella che ricordo è quando poi mi hanno messo a dormire in un letto vero. Ancora ora quando entro nel letto, prima di toccare lenzuola, faccio la doccia, per entrare in un letto voglio sdraiarmi pulita“.  Poi con il pensiero torna indietro e ricorda il momento in cui con la famiglia lascia Fiume, cambia cognome in Ferri, per nascondersi in campagna in Veneto.  “Quello in campagna è stato bel periodo, perché potevamo correte liberi e, avendo una mucca, bevevo latte fresco”. Poi la mattina dell’11 novembre 1944 veniamo presi da due SS che vengono a bussarci con un signore (delatore) e ci portano in prigione a Venezia, dove conosciamo la generosità dei prigionieri comuni che ci danno cibo. Da lì a San Sabba, dove abbiamo saputo che saremmo stati deportati in Germania. Mia madre, che era modista, ricordo che cucì un paio di mutande calde, rosa a fiori. Me li ricordo ancora questi mutandoni, che ballavano alla finestra della baracca per cercare di tappare il freddo che entrava“. Il momento drammatico che, invece, le è rimasto più impresso è quando sua zia, dopo la morte del suo bambino, Silvio, che soffriva da giorni per motivi respiratori e aveva pianto tutta la notte, ha detto “finalmente”. “A che dolore si deve arrivare per indurre una madre a dire così alla morte del figlio?”. La dottoressa Brunelli la esorta poi a ricordare il suo ritorno a casa dopo la liberazione, perché Kitty, di nuovo a Fiume, subisce ulteriori traumi. I Braun trovano la loro casa occupata dalla loro domestica Danica, che li aveva denunciati durante la clandestinità per appropriarsene. Racconta Kitty: “Chi ci apre la porta, dice “speravo che foste morti”. Ma i genitori decidono di non denunciarla. Ma non finisce qui. Nel 1947 la famiglia Braun è costretta a un nuovo esodo e da profughi istriani si trasferiscono a Firenze dove Kitty vive ancora oggi.

Il successivo collegamento è con Tatiana Bucci da Bruxelles. E’ strano vederla per la prima volta senza la sorella Andra (sono state deportate insieme a Birkenau quando avevano rispettivamente 6 e 4 anni), che, per il fuso orario di 9 ore, non può esserci, perché adesso vive in California, ma manda un messaggio registrato.
Camilla Brunelli chiede anche a lei di parlare di ciò che è successo dopo la liberazione. Tatiana inizia molto emozionata, triste, piange e ci spiega il perché “stamattina a radio 3 ho sentito parlare dei campi profughi oggi in Bosnia. ll mio pensiero va a loro“.  Poi Tatiana comincia a raccontare dell’orfanotrofio a Praga, in cui lei e Andra hanno vissuto dal gennaio ‘45 “dove abbiamo dimenticato la nostra lingua e dove ci hanno mandate per la prima volta a scuola”. Poi ricorda “un giorno fanno un appello e ci chiedono “chi di voi è ebreo?”. Rispondiamo in 5; allora ci caricano su un aereo militare e ci portano in Inghilterra, in un paesino del Surrey. Era notte al nostro arrivo, ma vediamo davanti a noi un meraviglioso cottage ricoperto di edera. Là ci accolgono a braccia aperte e ci portano in un grande stanzone: la sala giochi! Sembrava il paese dei balocchi!” “Il periodo in Inghilterra è stato il migliore della nostra vita, perché lì siano rinate“.  Andra e Tatiana alle istitutrici, dirette da Anna Freud, raccontano che mamma e papà erano morti. Infatti così credevano, non avendoli più visti da anni. Ma un giorno viene mostrata loro una foto, in cui riconoscono i genitori. Iniziano così le pratiche per il rimpatrio, che le due bambine vivono però come un nuovo sradicamento. Tatiana racconta della partenza da Victoria Station, del viaggio in treno attraverso la Francia e dell’arrivo a Roma, che definisce “traumatico”. “Al binario ad aspettarci c’era tutta la comunità ebraica che ci mostrava decine di foto di bambini per chiedere se li avevamo visti. Ma non potevamo riconoscere nessuno; solo da adulte abbiamo realizzato che erano i bambini razziati dal ghetto il 16 ottobre 1944 e gasati all’arrivo al lager”.

Arriva infime il messaggio di Andra: “nel 2004 abbiamo ricevuto una telefonata dalla Toscana per chiederci se volevano partecipare a un Treno della Memoria; non abbiano risposto subito, un po’ ci spaventava l’idea di quel viaggio, ma poi abbiamo accettato e da allora la Toscana non ci ha mai abbandonato”.  Poi si rivolge al pubblico di alunni che, dall’altra parte del mondo, la stanno guardando: “voi giovani siete il futuro, ho fiducia in voi. Dovete pensare con la vostra testa e non con quella di chi magari urla di più, e dovete aiutare gli altri”.

Ora la storia delle sorelle Bucci è conosciuta in tutto il mondo, il loro libro è stato tradotto in tedesco, inglese e croato ed è stato creato anche un cartone animato: “La stella di Andra e Tati”.
Siamo in conclusione. Prende la parola Luca Bravi “per tanto tempo queste storie non sono state raccontate, perché non c’era un contesto di persone che volevano ascoltare”.
Poi vengono mostrati quattro lavori, fra i 14 selezionati, svolti da alcuni studenti dei duecento insegnanti che quest’anno hanno partecipato ai corsi on line di preparazione al Giorno della Memoria. Il primo contributo viene da Porto Ferraio: un video in bianco e nero, in muto, basato sulla gestualità, dal titolo “io sono il mio numero”. Il secondo giunge da San Sepolcro ed è incentrato sul tema dell’indifferenza, dalle leggi razziali a oggi, con immagini di barconi carichi di migranti, di mense dei poveri, degli esclusi di ieri e di adesso. Il terzo contributo, di una scuola di Prato, si intitola “Lettera di Lena” ed è letta da Floriana Pagano. La voce narrante è quella di una solare bambina ebrea di 11 anni che racconta la svolta fra la felicità della sua infanzia, in una famiglia unita, alla tristezza del viaggio senza ritorno in un vagone merci. Il quarto, infine, è del Liceo Chini di Lido di Camaiore. In esso gli studenti, attraverso un disegno animato, approfondendo il tema dell’Aktion T4, hanno narrato la storia di ragazzo jenisch, Ernst Lossa, ucciso nella clinica di Kaufbeuren.

L’evento si conclude con la musica dell’orchestra multietnica di Prato e le parole di Primo Levi

“La storia insegna ma non ha scolari”.




La SISLav e l’Istoreco Livorno aprono la terza edizione del bando Ortaggi destinato alle opere prime inedite di storia del lavoro.

Per sostenere lo sviluppo di nuove ricerche sui temi della storia del lavoro, la Società Italiana di Storia del Lavoro (SISLav) e l’Istituto Storico della Resistenza e della Società Contemporanea nella provincia di Livorno (Istoreco Livorno) hanno istituito nel 2016 un premio intitolato alla storica Simonetta Ortaggi, scomparsa nel 1999, studiosa e autrice di alcuni tra i più importanti e sistematici studi italiani di storia del lavoro. La terza edizione del premio è aperta alle monografie inedite che rappresentino opere prime per gli autori. Sono ammesse anche tesi di laurea e di dottorato, discusse nel triennio 2018-2020.

Il premio consiste nella pubblicazione dell’opera presso la collana “Lavori in corso” delle edizioni SISLav-NDF. Il volume sarà liberamente disponibile in versione elettronica sul sito dell’editore e acquistabile in quella cartacea.

L’opera può essere redatta (o integrata da una traduzione fedele all’originale) in una delle seguenti lingue: italiano, francese, inglese, portoghese, spagnolo, tedesco. La lingua della pubblicazione finale sarà l’italiano; l’eventuale traduzione sarà a carico dell’autore.

Condizione imprescindibile è che l’opera non sia né edita né in corso di pubblicazione e che il candidato non abbia già pubblicato altri lavori in forma monografica. Non vi è alcun vincolo, né di natura cronologica né territoriale, circa l’argomento oggetto della monografia: possono essere presentate ricerche relative a qualsiasi periodo storico, dall’età antica alla contemporanea, e a qualsiasi area territoriale.

La candidatura deve essere presentata entro il 1 marzo 2021 compilando il facsimile allegato e spedendolo all’indirizzo e-mail storialavoro@gmail.com, allegando copia elettronica della tesi o della monografia, un abstract in italiano di massimo 4.000 caratteri, un breve curriculum vitae utile a contestualizzare la ricerca nell’ambito degli interessi del candidato e una lista delle eventuali pubblicazioni.

Per rendere definitiva la candidatura è necessario inviare una copia cartacea della tesi o della monografia entro la data del 1 aprile 2021 al seguente indirizzo:

Società Italiana di Storia del Lavoro
c/o Dipartimento di Scienze Storiche, Geografiche e dell’Antichità DiSSGeA
Università degli Studi di Padova
Via del Vescovado, 30, 35141 Padova

Farà fede il timbro dell’ufficio postale di partenza. La copia cartacea della tesi non sarà restituita al termine della selezione ma conservata presso la sede della SISLav. Entro il 30 settembre 2021 un’apposita Commissione valuterà insindacabilmente la tesi vincitrice del premio. La Commissione sarà formata da cinque membri: tre nominati dal Direttivo SISLav e due nominati dall’Istoreco Livorno. La composizione della commissione verrà comunicata sul sito della SISLav (http://storialavoro.it) entro il 15 marzo 2021.

La Commissione comunicherà l’esito a tutti i candidati. A suo insindacabile giudizio, qualora nessuna delle opere concorrenti risulti adeguata sotto il profilo tematico e/o qualitativo, il premio potrà non essere assegnato. La Commissione si riserva inoltre di attribuire una menzione speciale a favore della pubblicazione di opere non vincitrici ma ritenute comunque meritevoli.

Il vincitore è tenuto a inviare all’indirizzo email storialavoro@gmail.com – entro quattro mesi dalla comunicazione dell’esito – una versione rivista della sua opera:

– tenendo conto delle indicazioni editoriali e scientifiche della Commissione;
– redatta secondo le norme editoriali della collana “Lavori in corso” delle edizioni SISLav-NDF;
– in lingua italiana, dunque se necessario tradotta a cura e a spese dell’Autore.

Per la revisione della tesi il vincitore potrà avvalersi di due interlocutori indicati dal Direttivo SISLav.

L’Autore rinuncerà ai diritti sulle vendite e avrà diritto a 20 copie cartacee del volume.
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Ci ha lasciato Aristeo Biancolini, partigiano senese.

Ieri è venuto a mancare Aristeo Biancolini, una delle figura più lucide del partigianato senese. Nato a Chianciano nel 1924, da una famiglia di antifascisti, a diciotto anni entrò nelle prime bande che iniziarono a costituirsi tra la Val d’Orcia e la Val di Chiana già a partire dalla fine del novembre del 1943.

Di ideali socialisti, nel Secondo dopoguerra divenne sindaco di Chianciano e per tutta la sua esistenza non ha cessato mai di raccontare, in modo chiaro e sereno, la sua vicenda ai giovani.

fantacciQuando Aristeo descriveva la propria esperienza di combattente per la libertà, lo faceva sempre in modo semplice e privo di retorica accostando con naturalezza gli episodi di rilievo, per esempio il sabotaggio della centrale di amplificazione telefonica di Abbadia San Salvatore (10 marzo 1944), a momenti profondamenti umani tra cui quello della mancata fucilazione di un milite fascista la cui pesante situazione familiare (quattro figli piccoli e la moglie malata di tisi) spinse i partigiani a un atto di misericordia.

Con la sua morte perdiamo un testimone di una delle pagine più significative della Resistenza italiana, ossia quella dei valori etici e morali di centinaia di ragazzi che decisero di rischiare la propria vita, anziché nascondersi, per creare un mondo diverso la cui essenza può essere riassunta dal titolo del libro “Non saremo mai come loro” (a cura di Andrea Fantacci e Monica Tozzi) all’interno del quale Aristeo raccontava la sua esperienza.




Nuovo numero di “Farestoria” dedicato alla scuola

É uscito il nuovo numero della rivista “Farestoria”, nuova serie, n. 1 gennaio-giugno 2020, dal titolo “La storia nella scuola, la scuola nella storia” a cura di Chiara Martinelli e Alice Vannucchi.

Riscoprire le radici storiche e le poste in gioco della scuola risulta tanto più importante in un periodo come questo, in cui la questione scolastica è drammaticamente salita alla ribalta e i suoi problemi, volente e nolente, sono diventati argomento di riflessione e dibattito collettivo.

Il fascicolo affronta, in un’ottica interdisciplinare, alcuni nodi fondanti della storia della scuola e della didattica della storia: l’annosa questione tra accentramento e decentramento, la disoccupazione intellettuale, la posizione degli insegnanti nei confronti dello stato, le riforme degli anni Settanta e le loro ricadute sulla scuola d’oggi. La sezione di didattica della storia tematizza contenuti, strumenti e modalità d’applicazione, evidenziando le potenzialità della disciplina per la crescita dell’individuo e della collettività.

Per info e acquisti: ispresistenza@tiscali.it

 




E’ scomparso il partigiano Valerio Puccianti

È con grande dispiacere che l’Istituto storico della Resistenza di Pistoia ha appreso della scomparsa del partigiano Valerio “Enzo” Puccianti, avvenuta nella tarda serata di ieri. Vogliamo salutarlo ricostruendo brevemente i passi di una vita straordinaria, che Valerio ha vissuto sempre di corsa, senza fermarsi mai.

Ultimo di 5 figli, Valerio nasce nel 1922 a Bardalone, nel Comune di S. Marcello-Piteglio. Dopo aver frequentato la scuola professionale della SMI di Campo Tizzoro entra poi a lavorare nella fabbrica giovanissimo, a 12 anni, come calibrista. Ed è proprio nella fabbrica, grazie al contatto con antifascisti di vecchia data, che Valerio inizia a maturare la sua coscienza politica comunista e antifascista. Entra così a far parte della Brigata “Gino Bozzi”, dove ricoprirà il ruolo di Vice Commissario col nome di battaglia “Enzo”, in omaggio al fratello morto in giovane età.

Dopo la liberazione di Campo Tizzoro nel settembre del ’44, Valerio sceglie, nella primavera del 1945, di continuare a combattere nel ricostituito Esercito cobelligerante italiano: parte quindi per il fronte di Bologna, poi a Brescia e Bergamo fino alla fine del conflitto.

Terminata la guerra, Valerio partecipa agli scioperi contro i licenziamenti indiscriminati messi in opera dalla SMI e, nel 1948, è presente alla “Marcia della fame”. Entra a far parte del Consiglio comunale di S. Marcello e lavora come sindacalista presso la Camera del Lavoro di S. Marcello. Si occupa anche, insieme ad altri suoi compagni della “Bozzi”, della ricostruzione della ex Casa del fascio di Maresca (bombardata dagli Alleati durante la guerra), che da allora diventa la Casa del popolo del paese montano. Avendo da sempre la passione per la scrittura, diventa corrispondente de «La Voce» (il periodico della Federazione del PCI di Pistoia); alcuni suoi articoli sono pubblicati anche su «L’Unità».

Le condizioni di miseria sulla montagna pistoiese sono però tali che, nel 1952, Valerio è costretto a emigrare assieme alla sua famiglia: dopo una serie di peripezie, si stabilisce infine a Parigi, dove, grazie alle sue qualifiche di operaio specializzato, trova impiego presso la casa automobilistica Citroën, dove lavorerà per i successivi trent’anni fino alla pensione.

Nonostante la distanza, Valerio non ha mai dimenticato Maresca: durante l’estate, ogni anno, è sempre tornato nel suo paese, dov’era conosciuto da tutti anche per la sua attività sportiva di corridore. Infatti, oltre alle innumerevoli gare a cui ha preso parte nel corso degli anni, ha partecipato per ben 12 volte consecutive alla corsa podistica Pistoia-Abetone.

Sarà ricordato così Valerio Puccianti, col suo fazzoletto rosso al collo e con le ali sempre ai piedi.




È uscito il n. 3/2020 dei “Quaderni del Circolo Rosselli” la rivista diretta da Valdo Spini edita da Pacini Pisa

Il numero è dedicato a “Paolo Barile a vent’anni dalla sua scomparsa”, (2000-2020) con i contributi di Enzo Cheli, Stefano Grassi e Valdo Spini, (Quest’ultimo ricorda la comune esperienza nel Governo Ciampi.) Il nucleo principale della pubblicazione è costituito dal saggio di Marco Cannone “Paolo Barile: Il giurista delle libertàÌ”, L’autore, ripercorre la storia di Barile giovane magistrato, militante di Giustizia e Libertà, partigiano del partito d’Azione e poi allievo di Piero Calamandrei nell’avvocatura e nell’insegnamento universitario, fino a diventare il grande costituzionalista a tutti noto. Il saggio di Cannone comprende anche una ricerca originale e inedita nell’Archivio Barile, nel capitolo “Caposcuola dei costituzionalisti fiorentini”.

Ricca anche la parte generale della rivista con l’articolo “Socialismo liberale: ideologia del ceto medio?” di Andrea Banchi e quello di Lucilla Spini sui 75 anni delle Nazioni Unite. Quindi la storia di Franco Venturi (1914 – 1994) come militante nella Resistenza e nel Partito d’Azione, nell’articolo di Giulio Talini. Mentre l’avvocato Salvatore Battaglia (1843 – 1900) è raccontato da Enrico Coppi in occasione dell’inaugurazione della lapide che lo ricorda là dove visse in Firenze. Infine, Valdo Spini ricorda Giorgio Bouchard figura di spicco della Chiesa Valdese, e del protestantesimo italiano.

“Arrivati in redazione” la consueta rubrica di libri a cura di Antonio Comerci, conclude anche questo numero del Quaderni.

Info: Spazio QCR, via degli Alfani 101/R, 50121 Firenze – 055/2658192 – www.rosselli.org –

fondazione.circolorosselli@gmail.com