8 giugno 1944: l’eccidio della Pievecchia che scosse Pontassieve

L’8 giugno 1944, in località Pievecchia, piccola frazione del Comune di Pontassieve, (del plebato di San Lorenzo e San Giovanni a Montefiesole), in occasione della festa del Corpus Domini, scoppiò il caos.

Pievecchia dall’alto

Un gruppo di circa cinquanta partigiani di Monte Giovi, infatti, poche ore prima aveva assaltato una delle caserme della Guardia Nazionale repubblichina di Pontassieve, allora in una villa in via Palagi, per reperire armi e munizioni [1]. Forse, con l’aiuto degli stessi carabinieri, i partigiani riuscirono a prendere il bottino sperato, che venne caricato su due carri trainati dai buoi diretti verso poggio Bardellone, in direzione di Monte Giovi [2].

Occorre, però, ricordare che nella caserma assaltata erano presenti anche militanti fascisti, due dei quali vennero portati via dai partigiani. Gli altri, rimasti indenni, accorsero subito ad avvisare dell’accaduto i nazisti, allora di stanza a San Francesco.

Di ritorno da questa azione, un gruppetto di partigiani, distaccatisi dagli altri, si fermò imprudentemente a Pievecchia, dove erano confluiti nei mesi molti sfollati, benché le dinamiche non siano tuttora chiare.

Pontassieve, snodo ferroviario essenziale, era infatti più soggetta ai bombardamenti e molti civili quindi si erano spostati nelle campagne. Ne è un esempio il bar Nannoni, trasferitosi da Pontassieve a Pievecchia, quel giorno luogo dello scontro.

I partigiani, sebbene avessero potuto passare per i boschi, decisero di attraversare un centro abitato, forse per sfida ai soldati occupanti.

Nella locanda del paese, rimasta aperta nonostante la raccomandazione di chiudere da parte degli stessi insorti, dato il loro passaggio muniti di armi, i partigiani trovarono due soldati tedeschi, forse anche grazie all’avvistamento di qualcuno del luogo, e decisero, pare, di ucciderli. I ribelli, infatti, presi dalla foga, avrebbero lanciato una o più bombe a mano nella locanda, colpendo a morte un soldato tedesco e un giovane pontassievese, allora colono a Grignano, Ruggero Morandi, di 20 anni. L’altro soldato tedesco, sopravvissuto allo scontro, riuscì a fuggire e, scappando da una finestra, avvisò prontamente la contraerea tedesca dell’accaduto, accampata a circa 4 km dalla Pievecchia.

La risposta fu immediata: poco dopo, la zona della Pievecchia venne prima bombardata, per impedire a chiunque di fuggire, poi invasa dai soldati. Si parla di 40 o 50 uomini arrivati con camionette e camion, quasi sul calar della sera.

Arrivati sul posto, i soldati nazisti spararono alla prima vittima, Furio Montelatici, poi gettato in un pagliaio, che venne incendiato. Vennero bruciati anche altri pagliai, una bettola e una casa. Alcune famiglie si erano, intanto, riparate e nascoste nel sottosuolo della villa Tesei, ma i tedeschi irruppero nelle stanze della stessa e nelle altre abitazioni per rastrellare gli uomini presenti e, dopo aver rilasciato quelli più anziani, sopra i cinquantacinque anni, uscirono per l’esecuzione. Le donne furono radunate davanti alla Villa, inermi.

I partigiani dovettero, invece, a causa dei bombardamenti e della rapida risposta tedesca, abbandonare le armi e le munizioni, che furono prontamente prese dai nazisti.

I tedeschi decisero di fucilare gli uomini in fila rivolti verso il muro della fattoria. Due dei condannati però, stando alle testimonianze, riuscirono a fuggire. Libero Rigacci si girò di scatto e strappò il fucile dalle mani del soldato tedesco, riuscendo a fuggire nel campo di grano. Il soldato sparò contro di lui mentre correva nel campo e, complici il sopraggiungere della sera e l’essere inciampato, fu creduto colpito e morto. Anche Faustino Volpi scappò nel buio [3].

Gli altri furono perciò fucilati assieme, al muro, subito dopo, dove ancora oggi sono presenti i segni dei proiettili, onde evitare che si ribellassero[4]. Quattordici le vittime di quel giorno: Ruggero Morandi, ucciso durante lo scontro a fuoco tra partigiani e soldati tedeschi, e le tredici persone inermi fucilate per rappresaglia. Erano uomini dai 17 ai 47 anni, quelli che persero la vita quel giorno di giugno, 7 di Pievecchia e 6 sfollati. Altri, circa 20, vennero invece portati via. Prima furono rinchiusi nel carcere di Firenze, per poi essere impiegati in lavori di carattere militare presso Prato.

Il piccolo borgo fu quindi saccheggiato, così come la fattoria limitrofa e i due spacci cooperativi.

Il Pretore, da Tassinaia, dove era sfollato anch’egli, arrivò sul luogo per la constatazione di legge e per organizzare le sepolture. Nessun’altra autorità locale si fece viva, stando alle testimonianze del tempo. Ma non finì lì: tre corpi straziati rimasero nella strada per ore. Solamente sabato 10 giugno le quattordici salme vennero trasportate al cimitero in attesa della sepoltura, compresa quella di Morandi, che i tedeschi avevano portato via e che il padre Amedeo lottò per riavere. Oramai a Pievecchia non c’era quasi più nessuno. La domenica giunsero due spazzini comunali, con un biglietto del Commissario prefettizio, per seppellire le salme e recar conforto alle famiglie.

Era stata una vera e propria rappresaglia per punire e intimorire la popolazione, per creare panico e far sì che la popolazione non aiutasse e non collaborasse con i partigiani [5][6].

Un comando tedesco si installò a Pievecchia. Don Ferruccio Biffoli, il parroco locale, tentò di mediare con i tedeschi, affinché gli uomini che erano stati portati via potessero tornare a casa, ma invano. Questi però riuscirono a fuggire e a tornare, ma di Ernesto Manzalvi (41 anni, di ignoti), non si sono avute più notizie .

Bisognerà attendere l’11 agosto 1944, data della liberazione di Firenze e, nel caso di Pontassieve, il 21 agosto 1944, per cominciare a ricostruire la memoria della Pievecchia, oggi incisa nel marmo delle lapidi.

Di seguito le vittime della Pievecchia:

Rogai Guido, 46 anni                                                  Masini Dario, 17 anni

Rogai Attilio, 25 anni                                                 Morandi Ruggero, 20 anni

Rogai Aldo, 19 anni                                                    Poggi Guido, 47 anni

Pestelli Ugo, 29 anni                                                   Poggi Paolo, 38 anni

Tacconi Bruno, 17 anni                                               Bulli Giovacchino, 42 anni

Cammelli Guido, 29 anni                                            Pratesi Mario, 31 anni

Montelatici Furio, 29 anni                                          Vitali Alessandro, 36 anni

La memoria di quel triste giorno ci è giunta grazie alla ricostruzione dei fatti scritta dal parroco don Ferruccio Biffoli nel Libro Cronico della Parrocchia, poi ripresa da L’Evangelo della mia Resistenza di don Silvano Bellucci e grazie ai vari testimoni [7].

Le due lapidi e i fori ben visibili nel muro
8 giugno 1945 – la prima
8 giugno 1956

Sul muro della villa ci sono varie targhe, una del primo anniversario (8 giugno 1945), posta in un clima mutato, ma di forte contrapposizione tra l’allora PC e le forze di sinistra contro la DC con la Chiesa [8].

L’anno dopo nascerà la Repubblica in Italia e i pontassievesi, nel territorio, saranno tra i più convinti sostenitori della stessa, nel celebre referendum che, finalmente, vide protagoniste anche le donne.

È solo nel 1947, però, che i 14 martiri trovarono una degna sepoltura: domenica 4 maggio vennero riesumate le salme, benedetti i corpi e, finalmente, sepolti nella cappellina d’uopo presso il cimitero parrocchiale. La popolazione è numerosa alla cerimonia. Non mancarono comunque le polemiche, come quelle di don Biffoli, riguardo il comportamento dei comunisti, numerosi alla commemorazione.  L’8 giugno 1947 verrà poi posta un’altra lapide, a firma del C.L.N [9].

Il 25 aprile 1955 il Comitato cittadino per la celebrazione del decennale della Resistenza consegna ai familiari dei martiri una pergamena in loro memoria e l’anno dopo verrà aggiunta un’ulteriore targa.

Quei tragici fatti hanno portato al conferimento al Gonfalone del Comune di Pontassieve della Medaglia di bronzo al Merito Civile, grazie al decreto del 23 dicembre 2005 dell’allora Presidente della Repubblica Carlo Azeglio Ciampi, sancito ufficialmente durante la cerimonia presieduta nel dicembre 2006 dall’on. Ministro Vannino Chiti.

Il Comune ha, inoltre, istituzionalizzato tale giorno e, ogni anno, bambini, giovani e adulti partecipano alla commemorazione di quel triste evento.

È bene ricordare il restauro del muro, inaugurato nel giugno 2008, che ha riportato alla luce l’originario intonaco e i fori dei proiettili, oggi visibili a tutti.

Per il sessantesimo della Liberazione, è stata coniata una medaglia da Cesare Alidori (2004), per i familiari delle vittime. In tale occasione è stata presentata la ballata popolare “Quand’ecco un grido spalancar le stelle”, scritta da Leoncarlo Settimelli, riprodotta in un CD, con testi e musiche che ripercorrono i fatti del 1944 [10].

Sempre con ricorrenza annuale, viene celebrato il raduno dei partigiani e dei giovani a Monte Giovi, un’ulteriore occasione di ricordo e di memoria.

Roberto Smorti, Eccidio alla Pievecchia (Olio su tela, 2007)

 

Note:

  1. Fusi, Francesco, Comunità in guerra: Valdisieve 1940-1944, Pacini, Pisa, 2024, p. 325
  2. Biagioni, Massimo, Achtung! Banditen! L’eccidio di Pievecchia a Pontassieve, Polistampa, Firenze, 2008, pp. 37- 38
  3. Verbale interrogatorio Raffaello Tacconi, vedi Biagioni M., op. cit., pp. 72-77
  4. Biagioni M., op. cit., p.54
  5. Cfr., AA.VV., Il nonno racconta…Memorie della guerra e della resistenza,  Pontassieve, 1999
  6. Cfr., Fusi F., op. cit., pp. 322 e 326-328
  7. Casalini Giovanni, La strage della Pievecchia a Pontassieve, in Del Buffa, Roberto (a cura di), Cronache di guerra fra Arno e Sieve (1943-1944), Pagnini, Milano, 2011, p. 67-68
  8. Biagioni M., op. cit., pp. 87-90
  9. Ivi, pp. 93-119
  10. Ivi, pp. 129-139

Questo articolo è stato realizzato grazie al contributo del Consiglio regionale della Toscana nell’ambito del progetto per l’80° anniversario della Resistenza promosso e realizzato dall’Istituto storico toscano della Resistenza e dell’età contemporanea.

Articolo pubblicato nel giugno del 2024.




Alcune note su Letteratura e Resistenza: la storia nell’uomo da Vittorini e Pavese fino a Calvino, Cassola e Fenoglio.

Quando mi è stato chiesto di tenere questo discorso e di parlare di Letteratura e Resistenza, il tema mi è sembrato subito, perlomeno, immenso e il compito affidatomi arduo sia per la quantità di opere pubblicate negli anni che seguirono la fine della guerra sia per la qualità dei contributi critici già esistenti sull’argomento. Senza considerare la complessità e la delicatezza di alcuni dei nodi teorici che hanno occupato fino a oggi l’attenzione della critica e degli scrittori, tanto da mobilitare in molti casi il dibattito intorno al tema del Neorealismo, delle sue forme e del suo stile, e del rapporto tra letteratura e politica in una fase delicatissima della ricostruzione del Paese e della nascita della Repubblica.
All’indomani della Liberazione una foltissima schiera di ex partigiani, combattenti e reduci pubblicarono infatti una lunga lista di diari, testimonianze, memorie, poesie e racconti.
L’urgenza di raccontare confluiva improvvisamente in quel «noi» collettivo di cui parlerà Calvino nell’Introduzione al Sentiero dei nidi di ragno del 1964, in un unico lungo racconto orale. Solo le donne iniziarono a parlare della loro esperienza molto più tardi, negli anni ’70, quando – interrogate – uscirono dal silenzio per testimoniare la loro guerra «senza armi» (come l’hanno definita Anna Bravo e Anna Maria Bruzzone nel 1995) perché non avevano mai immaginato che la loro lotta avesse lo stesso valore di quella che avevano combattuto i loro mariti o i loro figli.
Era necessario riscattare l’Italia dalla sua partecipazione alla guerra come alleata della Germania, raccontare un’altra verità, ricordare quei fatti in modo da porre un netto discrimine tra chi aveva fatto una scelta e chi ne aveva fatta un’altra; era poi anche un risarcimento nei confronti dei compagni caduti perché, scriveva Cesare Pavese in La casa in collina, «ogni guerra è una guerra civile: ogni caduto somiglia a chi resta, e gliene chiede ragione».
Forse allora, per recuperare uno dei possibili fili di questo discorso vasto come «alto mare aperto» (Inferno, XXVI), può essere oggi utile ripartire da un saggio di Jean Starobinski, medico e critico letterario ginevrino, che a gennaio del 1943 pubblicò sulla rivista «Lettres» un contributo intitolato Introduzione alla poetica dell’evento (che cito nella traduzione italiana di Walter Pedullà uscita su «il caffè illustrato», n. 23, marzo-aprile 2005, pp. 40-42). Egli rifletteva su come «dinnanzi ad alcuni eventi gravi e assoluti, il testimone, colpito nel profondo, prorompe nel canto» in un grido liberatore e catartico. Il canto (la poesia dunque e la letteratura insieme) sono «l’ammirevole intermediario attraverso cui la circostanza (l’evento singolo, storico) raggiunge l’eternità» (ibid., p. 40). Ma affinché questo canto diventi l’espressione vera di una testimonianza, raggiunga ciò l’eterno (e aggiungiamo, diventi un ‘classico’) deve assumere quei caratteri di universalità in cui tutti possano riconoscersi, ed è necessario che il poeta sappia far coincidere il suo dramma personale con il dramma della storia, che si verifichi una «contrazione del tempo storico nel tempo personale» (ibid. p. 42). La catastrofe che si stava svolgendo in Europa richiedeva allora a chiunque facesse uso della ‘parola’ di scrivere, dando un preciso valore poetico e universale al suo racconto ma tenendo conto dell’individualità del singolo in modo da farne scaturire una narrazione ‘interiorizzata’: la vera poesia – continua Starobinski – dona all’evento storico la qualità dell’evento interiore.
Non si stratta, dunque di vedere l’uomo nella storia, ma al contrario di «vedere la storia nell’uomo» (ibidem), nel singolo destino individuale e di indagare le conseguenze del tutto umane di quegli eventi, nella loro risonanza interiore, nelle presa di coscienza e nella responsabilità individuale del singolo.
Ciò ha una ricaduta anche sullo stile, non si tratta infatti di scrivere una cronaca oggettiva (che servirebbe solo per una ricostruzione storica) ma di fare letteratura, cioè di interpretare e trasfigurare quei fatti in un racconto che guardi all’universalità dell’esperienza della guerra, attraverso lo sguardo del singolo e della sua percezione interiore, attraverso una parola poetica, schietta e precisa, scevra dalla retorica, dal giudizio offerto a posteriori e da un’esortazione che risulti in fin dei conti troppo semplicistica.
Ora, che significato ha tutto ciò rispetto alla letteratura della Resistenza? Soprattutto oggi, a distanza di 80 anni da quegli avvenimenti? Innanzitutto pone un discrimine preciso che ci permette di distinguere, tra le numerose testimonianze di cui si accennava all’inizio, quelli che sono rimasti i veri ‘classici’ della Letteratura della Resistenza, ma anche di comprendere cosa ha reso alcuni racconti particolarmente significativi, rispetto ad altri, e i motivi per cui non sempre essi furono accolti positivamente dalla critica e dal pubblico, assegnando loro il peso che meritavano.
Se tra i caratteri del ‘classico’ c’è anche la possibilità che il testo abbia in sé il potere di parlare del particolare in senso universale, offrendo al lettore un mezzo in cui leggere la propria interiorità, aldilà dell’epoca e dei fatti specifici in cui è ambientata, esso ci permette, infine, di leggere la storia in modo che questa sia ‘nell’uomo’, e non fuori. Non è importante se si sta parlando di prima o di seconda guerra mondiale, della guerra di Troia o delle battaglie risorgimentali, è solo nella rappresentazione letteraria degli ‘stati d’animo’ che l’individuo racconta e riconosce se stesso, che si crea un effetto specchio tra scrittore e lettore per cui quest’ultimo parteciperà alla vicenda pur non avendola vissuta, riconoscendo come propri i valori in essa contenuti.
Ecco l’importanza della letteratura per la trasmissione dei valori della Resistenza per cui, in virtù di quel saper leggere ‘la storia nell’uomo’, essa ci permette di evitare che la narrazione di quell’esperienza sfoci nel pedagogismo e nella vuota retorica, in un livellamento del pensiero che oggi mina la nostra capacità critica, la possibilità di distinguere tra chi ha compiuto una scelta, giusta, e chi una sbagliata, tra chi ha agito seguendo la propria responsabilità personale e chi invece è stato semplicemente un criminale.
Procederemo allora, e necessariamente, per sommi capi considerando ora solo alcuni di quegli scrittori che hanno segnato un’importante stagione letteraria e, in vario modo, hanno anche partecipato alla lotta di Liberazione.
A guerra finita si trovarono di fronte al problema di come rendere il loro tributo letterario alla Resistenza: come trasporre sulla pagina quei venti mesi di lotta? Cosa raccontare e come? Come rendere in forma poetica quel mondo che, scrive Calvino, per loro era stato ‘il mondo’? Per molti di loro quel racconto fu il ‘primo libro’, un libro fondativo, anche quando non fu un esordio.
Fu Elio Vittorini a inaugurare quella stagione con Uomini e no uscito da Bompiani immediatamente dopo la Liberazione, a giugno del 1945. Il romanzo era stato composto l’anno precedente, durante i mesi trascorsi nella villa dei Varisco sul sacro monte di Varese, dove Vittorini si era dovuto nascondere per sfuggire alla cattura. Sullo sfondo del racconto c’è la lotta partigiana dei Gap milanesi, i Gruppi di azione patriottica che operavano in città e di cui aveva fatto parte; ma il romanzo risentiva ancora del clima letterario degli anni ’30 e dello stile poetico che aveva caratterizzato l’ermetismo. La prosa di Vittorini risultò poco efficace e il romanzo fu attaccato e criticato anche perché il protagonista, nome di battaglia Enne2, è un uomo bloccato tra la dimensione pubblica (quella della lotta) e quella privata (l’amore impossibile per Berta). Un dualismo che Enne2 non riuscirà a risolvere e che lo porterà a compiere un’ultima azione eroica che ne provocherà la morte.
Vittorini apparteneva in effetti, con Pavese, alla generazione nata a inizio secolo, che nel ’43 aveva già raggiunto la maturità – anche letteraria – e il loro rapporto con la Resistenza appare più problematico; così anche nella Casa in collina di Pavese, uscito da Einaudi nel 1948, il protagonista – apatico e indifferente – non riesce ad unirsi alla lotta e si rifugia tra le colline in piena crisi esistenziale. Alla fine del romanzo sarà invece Dino, quello che immagina essere suo figlio, a raggiungere i partigiani mentre Pavese si toglierà la vita, qualche anno dopo, in un albergo di fronte alla stazione di Torino Porta Nuova, il 27 agosto del 1950.
Pavese e Vittorini erano nati entrambi nel 1908 e nel ’43 avevano 35 anni. Senza cadere in facili semplificazioni, è stato sottolineato dalla critica che il discorso cambierà per la generazione successiva, per quegli scrittori che si erano uniti alla Resistenza quando avevano vent’anni, nel pieno delle loro forze: Carlo Cassola, tra questi, era nato nel 1917, mentre Italo Calvino – ancora più giovane – nel 1923.
Per Calvino, Il sentiero dei nidi di ragno – pubblicato da Einaudi a ottobre del 1947 – è, e resterà sempre, il ‘primo libro’ quello in cui sono contenuti in nuce tutti i temi della sua futura poetica. Forse, aggiungerà lo scrittore negli anni nel 1964, «avrei potuto scrivere quell’unico libro». Calvino diventa scrittore grazie alla Resistenza alla quale partecipò nei mesi di lotta più cruenta: sarà lui stesso a dichiarare che la Resistenza lo aveva ‘messo al mondo’, anche come scrittore e che tutto quello che aveva fatto dopo partiva da quell’esperienza. La Resistenza era però per lui un argomento troppo grande e complesso da affrontare, così, direttamente. Il rischio era appunto quello di cadere nella retorica, di chi voleva un racconto agiografico, con un eroe socialista asservito alla poetica del neorealismo. Allora Calvino decise di affrontare il racconto di scorcio, attraverso lo sguardo di un bambino che si trova coinvolto in fatti più grandi di lui.
Calvino scriverà così un racconto picaresco, in cui la storia con la ‘s’ minuscola è la protagonista, una storia nell’uomo (come suggeriva Starobinski) interiorizzata e osservata dal basso.
Al posto degli eroi socialisti, nel Sentiero dei nidi di ragno Calvino, come per provocazione, decide di non inserire nessun eroe, nessuno che si faccia portatore di un’ideologia, né di una lotta di classe. La storia di Pin non illustra in effetti una tesi già data, non mostra i migliori ma i peggiori tra i partigiani. Eppure, osserva lo scrittore, anche i peggiori tra noi sono meglio di voi, dei fascisti: il discrimine è questo. Quello che conta nel romanzo è la spinta di riscatto umano che la lotta di Liberazione offre ai suoi personaggi.
In maniera molto simile, Carlo Cassola esordisce nel genere romanzo (pur avendo pubblicato durante la guerra una serie di racconti) con Fausto e Anna, una storia d’amore tormentata, ambientata tra Volterra e San Ginesio durante la lotta per la Liberazione. Il romanzo, scritto nel ’49, esce nel 1952 nei «Gettoni» Einaudi, e non a caso quella collana era stata ideata e diretta proprio da Vittorini.
Anche in questo caso il protagonista, Fausto (che ha alcuni tratti autobiografici), non è un eroe, anzi, vive di continue contraddizioni, tali che lo porteranno al fallimento sia del suo rapporto con Anna sia con il Partito Comunista a cui preferirà il Partito d’Azione.
L’esperienza personale è trasposta in chiave letteraria con un’attenzione particolare alla sfera emotiva e sentimentale dei personaggi. Fausto, ma anche Bube nel romanzo successivo, sono dei giovani in formazione e come tali si avvicinano in maniera problematica alla vita e agli eventi storici in cui sono calati e che spesso non comprendono del tutto:

«Perché ho dato loro questo dispiacere […] camminando rapidamente per il viottolo, Fausto interrogava se stesso ma non trovava risposta a quel perché. Perché mi vado a cacciare nei pericoli? E se dovessi morire? Per un momento fu certo che sarebbe stato ucciso. Essere ucciso perché? Per quale scopo? Baba, Nello, Piero potevano anche morire, essi credevano che fosse necessario lottare per un mondo migliore. Ma lui non credeva a nulla. Non credeva che il comunismo potesse rendere migliore il mondo. Comunque era una faccenda che non lo riguardava, perché lo faccio allora? Perché? Non trovava risposta. Gli pareva assurdo quello che stava facendo. Si sentiva spossato, le gambe gli si piegavano. Lo zaino gli pesava terribilmente» (in Fausto e Anna, Einaudi, Torino, 1952).

A distanza di anni possiamo oggi comprendere più facilmente l’importanza notevolissima del primo romanzo di Cassola: come osserva Giuliano Manacorda, nel suo Invito alla lettura di Cassola (Mursia, Milano, 1973) per la prima volta si dava conto, in sede letteraria, della fine dell’epoca delle grandi ideologie e della retorica che le aveva accompagnate. Nell’interiorità di Fausto compaiono tutti i dubbi e le domande che è lecito un uomo si ponga di fronte alla storia, pur comprendendo che quella che ha fatto è la scelta giusta. Ma resta una scelta individuale poiché Fausto in realtà non crede a nulla.
Si spiega così anche la polemica a cui andò incontro lo scrittore dopo l’uscita del suo romanzo sulle pagine della rivista «Rinascita» (n. 3, a. IX, marzo 1952) quando fu accusato di aver denigrato la Resistenza poiché aveva descritto «i partigiani come un branco di fifoni e di assassini» e i «tedeschi come poveri figli di mamma» (ibid, p. 252). Osservazioni che – continua il critico – si possono leggere in qualunque giornaletto «democristiano e neofascista» (ibidem). Nel numero successivo Cassola rispose alle accuse con una lettera al direttore Palmiro Togliatti. Il suo romanzo, si difende Cassola, era stato giudicato solo in funzione di criteri ideologici e non estetici. La Letteratura della Resistenza non può avere «un compito apologetico, agiografico e fumettistico» (in «Rinascita», n. 4, a. IX, aprile 1952, p. 249). Nella polemica intervenne poi anche Togliatti ammettendo che, in quegli anni, giudizio estetico e politico spesso si sovrapponevano creando storture diffuse; ma ciò senza di fatto scagionare Cassola dalle accuse.
Il fatto è che Fausto e Anna non era in fondo un romanzo sulla Resistenza, ma un romanzo di formazione a cui la Resistenza fa da sfondo e in cui Fausto è un ulteriore esempio di anti-eroe che, messo a contatto con eventi più grandi di lui, non riesce a comprenderli né a identificarvisi completamente. È la storia di Fausto che interessa al Cassola scrittore, quella del suo ‘partigiano per sbaglio’ e si dovrebbe allora ribadire che il Cassola-uomo la Resistenza l’aveva invece fatta, davvero, e per scelta; ma egli non indulgeva sulla facile ‘presa’ che in quegli anni avevano avuto sulle masse altri racconti, in cui il contenuto apologetico riscattava la forma e presentava la Resistenza come un unicum pacificato ed eroico.
Ma il romanzo sulla Resistenza «che tutti avevamo sognato» scrive Calvino nella sua già citata Introduzione del 1964, arrivò «quando nessuno più se l’aspettava […] E fu il più solitario di tutti […] a scriverlo e nemmeno a finirlo» perché Una questione privata, di Beppe Fenoglio, fu pubblicato postumo, dopo essere stato ritrovato in bozza tra le sue carte. L’anno di pubblicazione per i tipi Einaudi è il 1963.
Il giudizio di Calvino non può essere, ad oggi, che confermato, a distanza di oltre 60 anni dall’uscita di quel romanzo che arrivò dopo una lunga elaborazione e dopo una serie di tentativi intrapresi e poi abbandonati, come accadde anche nel caso del Partigiano Johnny, anch’esso lasciato in un cassetto a livello di scartafaccio e pubblicato postumo.
Fenoglio aveva tentato a più riprese di raccontare in forma romanzesca la sua esperienza nella Resistenza ma il desiderio di scrivere un racconto partigiano si scontrava (come osserva Gabriele Pedullà nel 2006 nella sua prefazione alla ristampa einaudiana di Una questione privata, a p. XXII) in maniera netta con i principi dell’estetica lukàcsiana allora in voga che chiedeva, nell’ottica del realismo socialista, di rappresentare il ‘tipico’, cioè in sostanza un partigiano modello che riassumesse in sé i tratti generali e oggettivi di un positivo eroe proletario. Al contrario, Fenoglio assume, a partire proprio dal Partigiano Johnny ma anche in Primavera di bellezza e nella raccolta I 23 giorni della città di Alba, un punto di vista del tutto individuale sulla Resistenza.
Nemmeno questi tentativi gli sembrarono soddisfacenti: Fenoglio era convinto che in quelle prove la cronaca avesse ancora il sopravvento sul romanzesco, che le esperienze, i combattimenti, le imboscate e le fughe di Johnny fossero rimaste un semplice susseguirsi di eventi, raccontate in maniera cronachistica senza avere la forza di attirare il lettore verso un nucleo narrativo forte, evidente e stringente, attorno al quale rappresentare ‘l’uomo nella Resistenza’ e non la Resistenza come mero sfondo storico di un racconto, in sostanza, autobiografico.
Così aveva fatto per esempio Cassola in Fausto e Anna: «io credo – aveva dichiarato nel 1959 sulla rivista «Nuovi Argomenti» – che la storia debba essere soltanto la cornice, lo sfondo delle vicende e dei destini individuali. La storia romanzata non mi persuade più di quanto mi persuada l’ideologia romanzata». E in effetti il suo primo romanzo aveva mantenuto la Resistenza sullo sfondo, come cornice dell’amore mancato tra i due protagonisti.
Qual è dunque la soluzione narrativa del tutto originale a cui arriva Fenoglio in Una questione privata? Tale da rendere il suo romanzo un unicum ? È l’essere riuscito a far convergere la Storia in una vicenda individuale, intrecciando destino privato e destino collettivo per farli confluire in un unico intreccio narrativo. La storia non resta ‘sullo sfondo’ ma è parte attiva della vicenda e dipende, e si muove, insieme al protagonista. Al centro della vicenda c’è un partigiano badogliano il cui nome di battaglia, Milton, richiama alla memoria il più celebre scrittore inglese del Paradiso perduto (si sa che Fenoglio era innamorato della letteratura inglese e americana). Anche la vicenda esistenziale del Milton-Partigiano è un ‘paradiso perduto’.
Anche qui l’amore è il motore della storia poiché tutto l’intreccio è costruito intorno alla passione impossibile di Milton per Fulvia, una ragazza di Torino sfollata per un breve periodo ad Alba e poi tornata in città dopo l’8 settembre. A lei il protagonista si sente legato, pur non essendoci mai stato tra i due un vero e proprio legame sentimentale.
Un giorno, durante uno dei suoi sopralluoghi tra le colline delle Langhe, Milton si trova con un compagno davanti alla villa in cui, l’anno precedente, aveva trascorso i suoi pomeriggi con Fulvia e con un altro amico, Giorgio, anche lui ora entrato nella Resistenza. La voglia di rivivere quei momenti, spingono Milton a entrare nella casa per rivedere quei luoghi e ricordare i discorsi, il volto e il sorriso di Fulvia. Poi l’incontro con la governante, l’unica rimasta, getta un’ombra – un sospetto sconvolgente e inquietante – nell’animo di Milton quando la donna gli lascia intendere che tra Fulvia e Giorgio ci sarebbe stata una relazione poiché, prima dell’8 settembre, i due erano soliti incontrarsi di nascosto, di notte, in un luogo e in un modo però che la governante non sa spiegare ulteriormente.
Questo ‘non detto’ genera un tarlo, diventa un ‘chiodo fisso’, potremmo dire, nella mente e nel cuore di Milton per cui da quel momento la sua vera missione diventa quella di trovare Giorgio e chiedere ragione di quella relazione, conoscere la verità.
Il fatto è che Giorgio è stato appena catturato dai tedeschi, durante una missione notturna in cui le Langhe vengono sommerse da una fitta nebbia e la brigata di Giorgio si disperde tra le colline; Giorgio si ferma o perde la direzione. Il giorno dopo arriva la notizia che è stato catturato e portato in carcere ad Alba.
Da questo momento per Milton la Resistenza diventa, appunto, ‘una questione privata’ e gli eventi della Storia si muovono intorno a una ricerca ossessiva della verità: la storia privata e la storia collettiva convergono nella vicenda individuale del soggetto. Ed è in questo movimento dal pubblico al privato che il romanzo trova la sua forza, mentre la storia di Milton è completamente immersa nel fitto della storia della Resistenza.
L’individualità del singolo emerge, con tutti i suoi dubbi e le sue contraddizioni, ma l’unità di azione accompagna il lettore attraverso gli eventi. Tutta la vicenda è filtrata attraverso i ricordi e i pensieri del protagonista:

«Milton partì di lì e si fermò non prima dell’arco al principio del paese. Guardò lungo in direzione di Benevello e Roddino. La nebbia si era sollevata dappertutto, in basso non ne restava che qualche francobollo appiccicato sulla fronte nera delle colline. La pioggia cadeva sottile e regolare, senza disturbare minimamente la visibilità. Torse la testa dall’altra parte e guardò in profondo verso Alba. Il cielo sulla città era più cupo che altrove, decisamente violetto, segnato da una pioggia molto più violenta. Pioveva a dirotto su Giorgio prigioniero, forse su Giorgio giù cadavere, pioveva a dirotto sulla sua verità di Fulvia, cancellandola per sempre: «Non potrò saperlo mai più. Me ne andrò senza sapere». (Una questione privata, Einadi, Torino, 2006, pp. 50-51).

Il pericolo che Giorgio venga fucilato prima che Milton possa ottenere un ufficiale fascista con cui tentare uno scambio, rende quella missione una lotta contro il tempo. Il protagonista è dunque impegnato in una ricerca continua, esposto al freddo e ai pericoli, per la maggior parte del tempo sporco di fango e coperto di fatica.
Per questo Calvino ha potuto paragonare Una questione privata all’Orlando furioso di Lodovico Ariosto: come il paladino, anche Milton diventa folle per amore e inizia a inseguire qualcosa che non conosce (che lui chiama ‘verità’), fino a perdere del tutto il senno, tanto da minacciare con il suo comportamento le sorti della guerra e producendo nel suo errare, da un distaccamento all’altro, tutta una serie di conseguenze non previste, compresa la morte di due ragazzini per mano dei fascisti.
Il significato ultimo del romanzo è dunque nella constatazione che ogni azione umana ha sempre le sue conseguenze, anche quando crediamo di essere nel giusto: Milton non mette mai in dubbio la vittoria dei partigiani né quella della possibilità di una democrazia futura; ma sa che in una guerra civile, come quella che sta combattendo, nessuno può considerarsi del tutto innocente, nemmeno lui, che nel tentativo di salvare un amico, provoca involontariamente la morte di due giovanissimi partigiani.
Per Fenoglio ciò che distingue partigiani e repubblichini è, però, proprio questa consapevolezza, il sapersi assumere le proprie responsabilità, con tutto il loro peso, come necessaria conseguenza di una scelta morale reclamata come necessaria e inevitabile per il bene suo e della libertà per la quale sta combattendo. È questo il prezzo da pagare: «ricordati – scrive Fenoglio – che senza i morti, i loro ed i nostri, nulla avrebbe senso» (Il partigiano Johnny, Einaudi, Torino, 1968, cap. 11).
Una consapevolezza drammatica, come drammatiche sono le scelte che in quel frangente storico bisognava fare per porre un discrimine, segnare un confine tra il ‘noi’ e il ‘loro’.
Fenoglio mette così in scena tutta la problematicità di una scelta che, comunque, andava fatta nonostante non ci fosse in quel momento nessuna risposta né assicurazione futura, se non all’interno della Storia stessa, all’interno delle conseguenze che quelle scelte avrebbero avuto sull’Italia del domani.
Concludendo, perché parlare proprio oggi di Letteratura e di Resistenza? Perché probabilmente la prima, la letteratura, ha dato alla storia della Liberazione molto di più di quello che non le abbia dato la storia dell’Italia repubblicana, raccontandola nei suoi risvolti più umani e concreti, aldilà di ogni omologazione e di eroismo, di ogni discorso di vuota retorica, mostrando la Resistenza in tutta la sua intensa umanità: «sentendo com’è grande un uomo quando è nella sua normale dimensione umana», scriveva Fenoglio nel Partigiano Johnny, chiudendo il quarto capitolo. Sarà allora forse la letteratura a salvarci?
A salvare noi e quella parola d’inesauribile segreto che, diceva Saba, giace al fondo?
Che ci insegnerà che ogni nostra azione può avere delle conseguenze di cui bisogna pur prendersi la responsabilità in un’epoca in cui nessuno più vuole farlo?
Che esiste un discrimine preciso e invalicabile tra gli uni e gli altri e che quel confine è sacro, come è sacra la dimensione altra che accoglie i caduti di ogni guerra?

«Il vostro perire – scriveva Andrea Zanzotto nei suoi versi – nel sacro di primavera – mi sembrava la radice stessa di ogni sacro. Anche se per noi certo non lo era».
Il canto lirico è testimonianza, partecipazione dolorosa, intermediario tra il passato e il presente. Ci restituisce il sentimento di un’epoca, il senso di una stagione che ci appare oggi tristemente dissolta in un pericoloso ed esecrabile buonismo che tutto azzera e livella.

Come ci mostrano Vittorini, Pavese, Calvino, Cassola, Fenoglio e molti altri che per ragioni di spazio non ho potuto menzionare, la dimensione umana del dubbio, della molteplicità e perché no, dell’anti-eroismo con l’ammissione della fragilità umana è la sola dimensione che può farci veramente capire come procede la storia, quella con la ‘s’ minuscola, in cui tutti siamo immersi ma verso la quale è necessario oggi saper porre dei confini netti tra chi sa prendersi le proprie responsabilità morali e chi invece non lo fa.

Monica Schettino, laureata in Lettere moderne a Torino nel 2002 con una tesi in Letteratura greca, è ora dottoranda di ricerca presso l’Università di Friburgo (CH); tra i suoi studi, il carteggio tra Achille Giovanni Cagna e Giovanni Faldella, Un incontro scapigliato: carteggio 1876-1927 (Interlinea, 2008) e un saggio monografico su Cesare Vico Lodovici (Società editrice apuana, 2023). È stata docente a contratto dell’Università del Piemonte orientale e dell’Università di Torino. Attualmente collabora con l’Istituto storico per la Resistenza e la società contemporanea nel Biellese, Vercellese e in Valsesia per il quale ha curato l’edizione dell’autobiografia di Anna Marengo, Una storia non ancora finita(2014) e con la Biblioteca F. Serantini Istituto di storia sociale, della Resistenza e dell’età contemporanea della provincia di Pisa. Collabora inoltre con la casa editrice Loescher di Torino e scrive sulle pagine culturali della «Gazzetta di Parma».

Articolo pubblicato nel maggio 2024.




Giovanni Martelli: storia di un antifascista livornese

Come affermato in precedenza, Giovanni Martelli viene arrestato a Livorno l’11 giugno 1932, ha solo diciannove anni e definisce negli anni quell’evento come «un duro colpo».[1] Allo stesso modo, il 1932 rappresenta un anno difficile per la riorganizzazione della Federazione comunista livornese, in quanto molti militanti adulti e di spicco vengono arrestati.

Dapprima, Martelli viene fermato e perquisito da un poliziotto dell’OVRA, successivamente gli viene trovato un biglietto che testimonia la sua attività nell’organizzazione del Soccorso rosso.[2] Viene interrogato alla Questura Centrale dal Commissario dell’OVRA Parlagreco, il quale deduce che non solo egli militava nel PCd’I, ma che addirittura apparteneva alla Federazione insieme ad altri esponenti che erano già stati arrestati nei giorni precedenti. Martelli è costretto a riconoscere ed a identificare gli altri compagni di partito, come Leonardo Leonardi, Roberto Vivaldi e Giovanni Tardini. Martelli affermò che non conosceva nessuno, se non qualche individuo adulto dell’organizzazione comunista. Resistere però non è sempre facile e si può comprendere dalle parole usate nell’Autobiografia, in cui egli stesso racconta:

«[…] Pur insistendo a negare […], essi mi fecero uscire e dopo poco fui di nuovo chiamato e così mi trovai di fronte al Vivaldi, il quale – disgraziato – era in uno stato da fare pietà.

Mi domandarono: lo conosci?

No, risposi, non l’ho mai visto.

Essi allora si rivolsero al Vivaldi il quale mi disse: è inutile Martellino, non negare, sanno tutto, essi sanno e conoscono tutto del nostro movimento e quindi non vale la pena insistere, del resto hanno confessato tutti.

Per la verità rimasi molto colpito, non riuscivo a comprendere come esso avesse capitolato così; tuttavia, continuai a negare […]»[3]

Successivamente, viene sottoposto a una perizia calligrafica per vedere se davvero fosse stato lui l’autore del biglietto sul Soccorso rosso. Il biglietto conteneva un prestito in denaro da fare ad alcuni esponenti del Partito ed era stato realizzato da un altro militante, Iedo Tampucci. Martelli non rivelerà mai il nome dell’autore e il contenuto del biglietto.

Durante l’interrogatorio scopre che la denuncia era stata avanzata dal dirigente della Federazione, Roberto Vivaldi. Vivaldi era stato costretto a denunciare proprio perché, come si legge nell’Autobiografia, l’OVRA aveva scoperto l’organizzazione comunista. Effettivamente, molte cose erano cambiate all’interno della Federazione durante l’arresto di questi esponenti: l’organizzazione sembrava essersi sfasciata e sembrava aver smarrito le linee guida necessarie per ricostituirla. L’unica speranza era quella di riedificare il movimento con una nuova linfa, ma i militanti rimasti si rifiutavano di prendere parte a questo processo in quanto temevano l’intervento della polizia fascista.

Nel luglio 1932 Martelli viene mandato in prigione presso il carcere S. Leopoldo e denunciato al Tribunale speciale con l’imputazione prevista dall’articolo 270 del Codice Penale. Viene poi trasferito al carcere dei Domenicani e liberato nell’ottobre dello stesso anno in occasione dell’amnistia per il decennale dalla Marcia su Roma. Quell’arresto fu uno dei più grandi realizzati dall’OVRA, non solo per il numero di arrestati, ma anche perché raggiunse i compagni che stavano espatriando. Con la scarcerazione poco sarebbe cambiato nella vita di Martelli, perché sa che la condizione di vita in clandestinità e la lotta al fascismo sarebbero continuate. Lui stesso racconta:

«[…] La libertà era certo bella per tutti noi tuttavia, quasi spontaneamente, una parte di noi giovani decise di dare continuazione alla propria attività clandestina. Dico una parte perché, sia nel campo giovanile come in quello degli adulti non pochi si ritirarono a vita cosiddetta privata. Non ce ne facemmo motivo di scandalo. Pertanto ci rimettemmo a lavoro […] con una maggiore attenzione […]».[4]

Nel 1933 prende parte alla rifondazione del movimento comunista, un’iniziativa profondamente sostenuta dai giovani livornesi come Renzo Tamberi, Garibaldo Benifei, Otello Frangioni, Marte Corsi, Angiolo Giacomelli. In quel breve periodo, Martelli realizza dei volantini di propaganda e contribuisce alle attività della stampa clandestina.

A nove mesi dalla scarcerazione, il 1° agosto 1933 viene fatto salire su un’automobile in cui lo attendevano tre fascisti. Martelli è tranquillo perché sa che i materiali eversivi del PCd’I sono rimasti a casa sua e viene accompagnato nella sede rionale fascista di Barriera Garibaldi, un luogo tristemente noto per esser teatro di interrogatori e di torture che i fascisti infliggevano agli oppositori politici. Successivamente, viene bendato e portato in una stanza dove ad attenderlo c’è il tenente Gagliano. Il motivo della cattura è il seguente: Gagliano ha scoperto chi è l’autore dei volantini sovversivi, vuole sapere con chi collabora e dove sono custoditi. Il tenente gli mostra i volantini che effettivamente erano stati realizzati da lui e Tamberi, ma Martelli continua a negare tutto.

Gagliano lo invita a spogliarsi ed esamina le sue mani con una lente di ingrandimento. A quel punto, dei giannizzeri iniziano a picchiare violentemente Martelli soprattutto sulle mani, considerate il vero «corpo del reato».[5] Però, la polizia fascista non si limita a interrogare Martelli e decide di indagare su Tamberi. A seguito di diverse indagini compiute nelle settimane precedenti, la polizia fascista aveva scoperto che Martelli e Tamberi collaboravano insieme alla realizzazione dei volantini eversivi.

Quando si consultano delle autobiografie, ciò che sorprende sono sia le emozioni che possono produrre anni dopo sullo stesso lettore, che i minimi dettagli che vengono raccontati. L’Autobiografia di Martelli è un vero e proprio racconto dettagliato di tutte le vicende e le torture subite durante il Ventennio fascista, ma forse non è la minuziosità del racconto a sorprendere un qualsiasi lettore, quanto il pathos che trasmette quando narra le torture subite dagli amici e dai compagni di Partito, i giorni in carcere, la difficoltà a comunicare e a mantenersi in contatto con loro. Durante quell’interrogatorio, Martelli non vedrà mai arrivare Tamberi e crede che l’amico possa aver fatto dei nomi di altri militanti, che possa aver tradito tutti e che sia ceduto davanti alle violenze fasciste. In realtà, Tamberi non verrà interrogato nella sede rionale fascista di Barriera Garibaldi, ma direttamente a casa sua.

Martelli non sa che fare, continua a dire che non era a conoscenza di niente, ma a che scopo? Col passare delle ore e con l’aumento delle percosse subite ha anche egli paura di non farcela, di non saper resistere e di non sapere per quanto potrà mentire. La coercizione fascista era in grado di permeare la psiche di molti giovani e antifascisti che erano stati catturati. Martelli vede l’interrogatorio come una sfida in cui non vuole cedere, anche perché non ha un’altra scelta: deve resistere alla violenza per tutelare non solo l’organizzazione, ma anche i suoi compagni di Partito.

Il militante livornese seppe resistere a quelle brutalità, ma non per questo va raffigurato (e non avrebbe mai voluto definirsi) come “eroe”, piuttosto seppe assolvere le mansioni perché credeva fervidamente a un sistema valoriale basato su libertà e resilienza, così come altri compagni di Partito che cedettero alle violenze. Il raccontare determinati dettagli sulle attività o sulle organizzazioni considerate come eversive, non era sinonimo di “codardia”: non era facile resistere alle violenze e alle percosse che i fascisti infliggevano alle persone col fine di estorcere con mezzi disumani la verità.

L’interrogatorio durò sette ore e l’arrestato venne ripetutamente percosso dal maresciallo Niccoletti, verrà interrogato alla Questura di San Leopoldo e lì vi rimarrà in prigione per diverse settimane. A tre giorni dall’arresto alcuni suoi compagni della stessa organizzazione vengono arrestati e scoprirà che la denuncia era partita dal militante Sirio Vincensini. Vincensini aveva confessato da chi aveva avuto il manifesto originale, ovvero da Garibaldo Benifei che a sua volta aveva fatto il nome di altri militanti. Lo stesso Martelli racconta:

«[…] il Vincensini (un altro militante) informò il fascio che tanto io come il Tamberi quella sera eravamo a stampare, però non sapendo il luogo indusse i fascisti ad attendermi. Preso me, essi pensavano di cavarmi di bocca sia il luogo ove eravamo stati a stampare, come il nome Tamberi, questo per salvare il delatore […]».[6]

Insieme agli altri militanti livornesi, egli promise che avrebbe evitato di compromettere la posizione degli altri compagni, altrimenti il processo sarebbe andato avanti all’infinito.

Il 9 dicembre del 1933 Martelli viene condannato a due anni e cinque mesi di reclusione da scontare alla Casa di pena di Civitavecchia. Il periodo di detenzione non è così duro, a detta di Martelli stesso, perché le condizioni igienico-sanitarie in cui viveva erano buone, aveva diritto due ore di aria invece che una, e poteva prendere parte a laboratori di scrittura e di traduzione. Questa esperienza costituisce un punto di svolta nella sua formazione politica nella quale potrà sperimentare delle nuove forme di mobilitazione politica ed attività pratiche che non aveva mai testato a Livorno. All’interno della cella stipula delle relazioni con esponenti di spicco come Giovanni Parodi e Pietro Carsano, i quali gli trasmettono i principi fondamentali del comunismo e lo avviano a un vero e proprio percorso di formazione sul comunismo.[7] A Civitavecchia, Martelli studia dalla mattina alla sera ed è sottoposto a una disciplina ferrea, perché «il Partito pretendeva che i giovani fossero preparati nel migliore dei modi».[8] L’obiettivo prefissato dal PCd’I era quello di insegnare varie discipline concernenti il materialismo storico, l’economia politica, la letteratura.

Il capo della cella era Giovanni Parodi, ma vi erano comunque altre celle separate dove vi erano esponenti illustri del Partito. Tra una cella e l’altra avvenivano degli scambi di informazioni grazie alla complicità di alcune guardie carcerarie, le quali si rendevano disponibili allo scambio di «farfalle», ovvero biglietti scritti su cui venivano annotati gli argomenti di discussione da trattare nelle ore di aria.[9]

Nel settembre del 1934 viene scarcerato grazie ad un indulto concesso straordinariamente in seguito alla nascita della prima figlia di Re Maggio, il luogotenente dell’epoca della Casa di pena di Civitavecchia. Martelli sa bene che niente sarebbe stato più come prima, perché non vuole più essere il semplice ragazzo che diffonde volantini eversivi ed ha capito che per rovesciare il regime è necessario agire diversamente.

Nel febbraio del 1935 il padre muore e deve far fronte a una difficile situazione economico-finanziaria che travolge tutta la famiglia, tenta più volte di poter far rientro ma senza successo. Dapprima viene mandato al settantacinquesimo di Fanteria di Siracusa, un reggimento di disciplina composto dai criminali più disparati (ladri, stupratori, pochi antifascisti e qualche renitente alla leva) e poi viene assegnato alla scuola di Allievi Ufficiali.[10] In quel breve periodo cerca più volte di tornare a Livorno dai suoi cari, ma senza successo. Nei suoi tentativi di rientrare a casa viene ostacolato perché non aveva completato i corsi premilitari in età adolescenziale che soltanto gli avrebbero permesso di tornare nella città di residenza. Il 5 marzo dello stesso anno viene inserito nel corpo di spedizione in partenza per l’Africa Orientale, per l’Abissinia.  Secondo il figlio, Walter Martelli, la sua esperienza nella Guerra in Africa Orientale non fu completamente negativa per il padre, in quanto non prese parte a delle iniziative militari e riuscì a stabilire delle buone relazioni con gli abitanti del luogo.[11] Martelli ha raccontato ai suoi figli di aver diffuso nei villaggi dei consigli medici e delle nozioni generali per migliorare le condizioni igienico-sanitarie.

Al suo rientro a Livorno, avvenuto nel 1936, molte cose erano cambiate. Alla fine del 1936 venne assunto presso i Cantieri Orlando, un’esperienza positiva che l’autore definì come una «grande conquista».[12] Lo stabilimento racchiudeva la storia del movimento operaio antifascista livornese e, per queste ragioni, riuscì a mettersi nuovamente in contatto con i compagni antifascisti che aveva conosciuto durante la clandestinità. La rete dei rapporti tra i militanti comunisti venne prima stabilita all’interno del cantiere e poi estesa al di fuori, ed era retta proprio dallo stesso Martelli.

A livello nazionale, il PCd’I abbandonò il precedente carattere settario che negli anni precedenti aveva portato il movimento ad isolarsi rispetto alle iniziative di altri partiti antifascisti. Tra il 1934 e il 1938 venne creato un Fronte popolare, in cui erano riunite tutte le forze politiche in aperta opposizione al regime. Questa fu anche la fase in cui i due partiti operai – il Partito Socialista e il Partito Comunista – ripristinarono delle forme di dialogo e di collaborazione dopo anni di scissione, culminate con la stesura di un patto di unità di azione nel 1934.

A livello locale, la Federazione livornese si ricostituì con esponenti di spicco e di varia provenienza come militanti storici, intellettuali, teorici, professori, figure pubbliche e notorie della comunità labronica. Un lieve passo avanti che venne messo di nuovo a dura prova da un’ondata di arresti senza precedenti.[13] Grazie alla rete di relazioni che Martelli aveva edificato ai Cantieri Orlando col militante comunista Mario Galli, l’organizzazione potè stabilire delle relazioni con intellettuali del calibro di Vittorio Marchi, Antonio Maccaroni, Aldo Balducci, Giorgio Stoppa. Le riunioni del nuovo partito si tenevano presso la casa dell’intellettuale Umberto Comi ed affrontavano temi svariati, come il rapporto tra il fascismo e la guerra, la Germania nazista, l’utilizzo della cultura e degli ideali comunisti come unica soluzione davanti alla violenza.[14] Mentre, Martelli e altri esponenti di partito che avevano vissuto direttamente sulla loro pelle la condizione proletaria, si facevano portavoce di altre tematiche, come i problemi della fabbrica e dello sfruttamento dei lavoratori.

Martelli non condivideva la nuova struttura della Federazione perché «nonostante i nuovi componenti si dichiarassero comunisti erano ben lungi dall’esserlo».[15] Secondo il militante di adozione livornese, gli ideali che quest’ultimi condividevano erano ideali social-liberali e poco affini ai principi marxisti-leninisti. Inoltre, a suo giudizio, esisteva una profonda differenza tra chi studiava il marxismo dalla cattedra e chi conosceva il marxismo perché apparteneva alla classe operaia.

Nel 1939 non gli viene riconosciuto più l’esonero dalla leva, riconosciutogli nel 1935 in quanto orfano di padre e unico capofamiglia, ed è per questo motivo che lascia il suo impiego ai Cantieri Orlando. L’ingegnere Bechi, all’epoca direttore dei Cantieri Orlando, si oppone al suo trasferimento inviando una lettera alla Questura di Livorno, ma senza successo. Inizia quindi a lavorare per un’azienda che produceva bombe a mano a Fiume, nota come Motofides. Durante quel periodo lavora alla realizzazione dell’Incrociatore San Giorgio, prende parte ad azioni di insubordinazione dalla catena di montaggio e viene licenziato nel 1942, perché considerato politicamente pericoloso.

Nel 1943 viene mandato a Torino alla Caserma Marmora ma, in seguito ai bombardamenti, viene mandato a Massa Marittima, una città in provincia di Grosseto. In quel piccolo centro rafforza il proprio legame con altri militanti comunisti locali e lì vi rimane fino alla ratificazione dell’Armistizio di Cassibile. Grazie all’aiuto di un militante locale, riesce a scappare dalla città grossetana e a raggiungere la famiglia sfollata ai Bagni di Casciana, dove si trovava anche sua moglie insieme alla sua famiglia. Si unisce alle formazioni partigiane locali nate dopo l’8 settembre e fa parte del Partito del Comitato militare ed ha come compito quello di organizzare i vari nuclei di partigiani della zona prima dell’arrivo del fronte di liberazione.[16]

NOTE

[1] Martelli G., Autobiografia, cit., p. 2.

[2] Il Soccorso rosso, noto anche come “Soccorso rosso internazionale per i combattenti della rivoluzione” in sigla MOPR, è stata un’organizzazione internazionale legata all’Internazionale Comunista con il compito di fornire supporto ai prigionieri comunisti e alle loro famiglie. Il Soccorso rosso è rimasto attivo tra gli anni Trenta e la Seconda guerra mondiale e condusse campagne di solidarietà sociale, di supporto materiale e umanitario, a sostegno dei prigionieri comunisti.

[3] Martelli G., Autobiografia, cit., p. 2.

[4] Tredici M., L’inchiesta, la spia, il compromesso. Livorno 1935: processo ai comunisti. Livorno: Media Print, 2020, p. 346.

[5] Come compare sul dizionario Treccani, originariamente il giannizzero era un soldato di un corpo scelto di truppe a piedi dell’impero Ottomano, spesso adibito alla guardia del corpo del sultano. Nel periodo fascista si indicavano invece tutte quelle persone al servizio di qualche personaggio illustre della milizia fascista. Ma lo stesso termine può anche esser usato in senso dispregiativo per indicare uno scagnozzo o tirapiedi, forse questo è il significato a cui fa riferimento Martelli nella sua Autobiografia. La citazione compare in: Martelli G., Autobiografia, cit., p. 4.

[6] Martelli G., Autobiografia, cit., p. 6.

[7] Giovanni Parodi (1889-1962) nasce in una famiglia operaia e diventa ben presto militante del PCd’I, viene arrestato nel 1927 dal Tribunale Speciale Fascista e gode dell’amnistia nel 1937. Fugge in Francia nel 1940 e viene arrestato l’anno successivo. Fortunatamente riesce ad evadere e a continuare il lavoro politico clandestino, nel dopoguerra fu membro del Comitato centrale del Partito Comunista Italiano e Segretario generale della Federazione Italiana Operai Metallurgici (in sigla, FIOM).

Giovanni Carsano (1891-1965): inizialmente operaio torinese, aderisce al PCd’I e partecipa al biennio rosso. Come Parodi viene arrestato nel 1927 e rilasciato dopo dieci anni, viene mandato al confino nel 1943 dove rimane fino alla liberazione. Dopo la guerra lavora presso i sindacati dei pensionati e presso l’Unione internazionale dei sindacati dell’Alimentazione.

[8] Tredici M., L’inchiesta, la spia, il compromesso, cit., p. 349.

[9] Ibidem.

[10] Tredici M., L’inchiesta, la spia, il compromesso, cit., p. 350.

[11] Intervista dell’autrice a Walter Martelli, svoltasi il 2 aprile 2024 presso l’abitazione di quest’ultimo a Livorno.

[12] Tredici M., L’inchiesta, la spia, il compromesso, cit., p. 350.

[13] Tra gli esponenti di spicco vengono arrestati Garibaldo Benifei e Aramis Guelfi.

Aramis Guelfi (1905-1977): inizialmente maestro d’ascia, viene condannato nel 1939 dal Tribunale speciale a scontare quattro anni di reclusione. Viene liberato anch’egli con l’Armistizio dell’8 settembre, ma continua a combattere nella zona di Volterra. Diventa esponente di spicco del Partito Comunista livornese, per poi aderire nel 1963 al Partito Socialista Democratico.

[14] Umberto Comi era vicedirettore del giornale fascista “Sentinella Fascista” e spesso scriveva articoli non proprio conformi all’ideologia fascista, ma erano spesso difficili da decifrare nei loro contenuti e, proprio per la sua adesione al Partito, si crearono delle divisioni all’interno del movimento.

[15] Martelli G., Autobiografia, cit., p. 9.

[16] L’area sottoposta al controllo di Giovanni Martelli è relativamente grande e comprendeva molte piccole città della provincia di Pisa, come: Lari, Cascina, Crespina, Terricciola, Chianni, Peccioli.

Articolo pubblicato nel maggio 2024.




La Resistenza nel Volterrano

Nelle ricostruzioni canoniche della Resistenza volterrana, è stato dato molto risalto alla vicenda della 23ª Brigata Garibaldi “Guido Boscaglia”. I lavori dedicati alla storia partigiana della zona sono intitolati alla Brigata e l’interesse è ruotato intorno alla sua costituzione: nella storia ufficiale della Resistenza nella zona, La tavola del pane di Pier Giuseppe Martufi[1], gli eventi precedenti alla nascita, avvenuta nei primi giorni di maggio del 1944, sono stati raccolti nel capitolo dedicato alla «preistoria della Brigata», mentre le formazioni armate dalla cui unione prese vita sono definite senza alcun dubbio come suoi «distaccamenti», anche se la loro esistenza operativa era molto precedente l’avvio stesso della Brigata. Si tratta a ben vedere di una distorsione del corso degli eventi, causata da una prospettiva “dalla coda alla testa”, tipica del canone resistenziale: per questo approccio, la storia – degna di essere raccontata – inizia solo con la costituzione della Brigata, ovvero con il raggiungimento di una ampia dimensione militare operativa, mentre ogni altro gruppo partigiano nella zona va considerato come una sua filiazione anche se più anziano. Il senso più autentico della vicenda resistenziale, secondo tale visione, si avrebbe quindi solo con la realizzazione di una formazione armata stabile e ben organizzata, inquadrata a sua volta in un disegno più ampio, quello delle Brigate Garibaldi di concezione comunista. La numerazione della Brigata, a cui generalmente si dà poco rilievo, la 23ª (ma sarebbe più corretto chiamarla 23ª bis: la 23ª fu in realtà la “Pio Borri” operante nell’Aretino[2]), è a questo proposito un elemento fondamentale: contribuisce a inserire l’evento locale in una trama nazionale, a collocare l’impegno armato di qualche centinaio di partigiani operanti nel Volterrano in un coordinato e consapevole progetto militare e politico di guerra contro il nazismo e il fascismo.

Le conseguenze di quest’impostazione sono evidenti: non solo si riconosce una centralità esclusiva alla Resistenza armata, lasciando altre forme resistenziali ai margini, ma se ne sancisce la dignità e il rilievo storico solo una volta raggiunta una dimensione tale da potersi fregiare del titolo di “Brigata”, quindi con un inquadramento marziale e un numero di effettivi tale da poter rappresentare un’unità militare comparabile a quelle degli eserciti regolari. Tali considerazioni possono essere condivisibili se ci caliamo idealmente nel contesto bellico, in una situazione di guerra in cui l’obiettivo di dimostrare la massima forza sul campo delle forze partigiane poteva essere decisivo anche a fini politici. Tuttavia, in sede di ricostruzione storica non è consentito insistere in una prospettiva teleologica. Non si può leggere il corso degli eventi prendendo come pietra di giudizio una parte dei suoi esiti[3].

Per tracciare una storia del partigianato volterrano sin dalle sue origini bisogna partire dalla banda del Massetano, o della Marsiliana, dal nome del bosco in cui aveva la base, una delle pochissime formazioni in Toscana costituita sin dalla metà del settembre 1944. Nacque su iniziativa di alcuni antifascisti di Massa Marittima, tra cui Otello Gattoli ed Elvezio Cerboni[4]. Ai primi di novembre il gruppo, che contava allora circa tra 70 elementi, si spostò dalla Marsiliana, tra Massa e Montioni, verso le località dell’Uccelliera e di Poggio all’Ulivo, pochi chilometri a nord, in un’area più interna. Qui tra il 6 e il 7 novembre, avvenne l’ingresso in formazione in qualità di comandante di Mario Chirici, figura storica dell’antifascismo locale, repubblicano con una solida esperienza militare e recente collaboratore dei partigiani jugoslavi, già attivi e ben organizzati contro i nazifascisti da molto tempo. La banda aveva già contatti con Colle Val d’Elsa, Livorno, Volterra e Firenze, iniziava ad essere un nodo importante della rete dell’organizzazione clandestina toscana. Così, quando dopo una retata fascista a fine novembre la formazione si sciolse, non appena riuscì a ricostituirsi, all’inizio del 1944, venne comunicata a Chirici la nomina da parte delle strutture organizzative delle Brigate Garibaldi a comandante della 3ª Brigata, «con promessa […] di aiuti di materiali, armi, munizioni, uomini che sarebbero dovuti venire in breve tempo»[5]. A quanto risulta furono compiute missioni fino a Livorno, Pisa, Viareggio e Firenze, per estendere la rete di contatti, reperire fornitori e nuovi volontari. Purtroppo, il 16 febbraio 1944, la formazione subì un rastrellamento da parte dei fascisti che colse di sorpresa i partigiani, provocando un vero e proprio disastro militare, con cinque morti e diciotto arrestati.

Dall’eccidio del Frassine Mario Chirici non godette più di una buona nomea. I suoi antichi collaboratori però svilupparono la lotta partigiana spostandosi in altri territori. Elvezio Cerboni si era già trasferito dopo lo scioglimento di fine novembre dalla zona di Massa Marittima a quella di Pomarance, in particolare nell’area di San Dalmazio. Entrato in contatto con il Cln di Pomarance, iniziò dal gennaio 1944 a organizzare uomini e costruire basi, in particolare presso il podere di Casinieri nel bosco di Berignone. Intorno a sé riuscì a costruire una vera rete organizzativa, che si curava di rifornimenti e reclutamenti, mantenendo contatti costanti con Pisa, Massa Marittima e soprattutto Volterra. Tra febbraio e marzo 1944, gli antifascisti volterrani – che alla fine del 1943 si erano costituiti in Cln – passarono all’azione anche all’interno della città.

Il bosco di Berignone, i luoghi della Resistenza. Mappa originale elaborazione di Stefano Gallo.

Nella zona di Montieri, invece, si era spostata una squadra reduce dall’eccidio del Frassine, composta da Vinicio Modesti, Vittorio Ceccherini, Giorgio Vecchioni e Giorgio Stoppa. Insieme a loro c’erano quattro jugoslavi prigionieri fuggiti l’8 settembre dalle prigioni di Pisa («gli unici, tra noi – avrebbe ricordato Stoppa -, ad avere esperienza di guerra partigiana»[6]), quattro russi e un gruppo di giovani renitenti alla leva. «Commissario politico fu nominato “Gino” Desiderio Cugini che aveva ricoperto tale carica nella formazione del “Frassine” e che si era distinto per lo zelo con il quale aveva contribuito alla costituzione di detta formazione»[7]. Questo gruppo, conosciuto in quel periodo come la “formazione del dottore”, dalla professione di Stoppa, avrebbe costituito il nucleo originario della futura 23ª Brigata Garibaldi. Il contatto con il Cln di Radicondoli e con la rete organizzativa della zona furono decisivi.
Per il 21 marzo 1944 venne organizzata la più imponente azione militare mai realizzata nella zona dagli antifascisti, frutto del coordinamento di quattro diversi gruppi partigiani: quello di Stoppa, allora posizionato alla Cornocchia, quello di Cerboni, che si muoveva dalla zona meridionale di Berignone (verso Pomarance e San Dalmazio), una Squadra volante di partigiani di Colle Val d’Elsa, basata nella parte settentrionale del bosco di Berignone, e un quarto gruppo di senesi da poco arrivato alle Carline. L’azione fu condotta contro i fascisti del paese di Montieri e riuscì perfettamente. I problemi emersero in seguito: forse proprio a causa dei rischi di esposizione corsi nell’organizzazione di un’azione così complessa, molte posizioni vennero scoperte. Cerboni venne tradito e arrestato, la squadra dei colligiani cadde in un’imboscata e fu decimata.

Mentre la zona tra Pomarance, Volterra e Siena veniva così investita dalla repressione fascista, la formazione di Giorgio Stoppa, che nel frattempo si era spostata nel bosco delle Carline, riusciva invece a mantenere solidità e un discreto grado di efficienza e organizzazione. «Dopo l’azione di Montieri – si legge nella relazione ufficiale della Brigata – fu necessario un lungo periodo di prudenza perché furono effettuati numerosi rastrellamenti che colpirono gli altri Distaccamenti che operavano nella zona, mentre il “Guido Boscaglia”, dato il sistema accurato di vigilanza e le precauzioni osservate nello svolgersi della vita dell’accampamento, non fu individuato e non subì attacchi»[8]. La banda anzi continuò ad ingrandirsi, ospitando anche membri della Brigata Spartaco Lavagnini del senese, oltre che nuove reclute. Dalla tempesta abbattutasi dopo Montieri sul movimento clandestino antifascista, la “formazione del dottore”, come era chiamata allora dalla professione di Stoppa, emerse come la più solida e affidabile tra le tre esistenti.
Alla fine di aprile si realizzava un ulteriore salto di qualità nella vita della formazione: iniziavano ad arrivare casse cariche di armi e materiali attraverso i lanci aerei da parte degli anglo-americani. Grazie alle missioni militari provenienti dal Sud Italia, avvennero dei contatti logistici che con l’ausilio di telegrafisti consentirono l’organizzazione dell’invio di materiali via aerea. I primi aviolanci erano stati concordati per la zona di Berignone, dove effettivamente avvennero; fu poi convenuto di spostare la località dell’operazione alle Carline. Furono molti i lanci, circa una decina, che fornirono armi automatiche nuove e munizioni.

Nel frattempo, era stato deciso di stabilire alle Carline il comando unificato di tutte le forze partigiane, prima divise. La riunione avvenne nel bosco di Berignone, alla presenza di Alberto Bargagna, detto “Giorgio”, responsabile militare del Cln di Pisa, «il quale, dopo aver predisposto gli aviolanci di armi e materiale […] era dovuto rimanere in Berignone perché avvertito da Pisa di essere stato individuato dai fascisti»[9]. Fu lui a essere nominato comandante della nuova Brigata, la 23ª bis Brigata d’Assalto Garibaldi, poi intitolata “Guido Boscaglia”, dal nome di Guido Radi, detto “Boscaglia”, partigiano ucciso l’8 maggio 1944, in uno scontro con i fascisti.

NOTE

[1] Pier Giuseppe Martufi, La tavola del pane. Storia della 23ª Brigata Garibaldi “Guido Boscaglia” con documenti e testimonianze sulla Resistenza nella provincia di Grosseto, Livorno, Pisa e Siena, Anpi-Siena, Siena 1980. In maniera analoga la più recente Storia della XXIII Brigata d’Assalto Garibaldi. Tesi di laurea di Francesco Gronchi, a cura dell’ANPI-Sezione di Volterra, Volterra 2014.

[2] Ivan Tognarini, Guerra di sterminio e Resistenza. La provincia di Arezzo, Edizioni Scientifiche Italiane, Napoli 1990.

[3] Santo Peli, La necessità, il caso, l’utopia. Saggi sulla guerra partigiana, BFS, Pisa 2022.

[4] Katia Taddei, Ribelli. Formazione delle brigate Garibaldi nel territorio delle Colline Metallifere ed episodi di guerra civile alla luce di nuove fonti giudiziarie, Betti Editrice, Monteriggioni (SI) 2024.

[5] Da Chirici all’Anpi di S. Vincenzo, 8 novembre 1945, in Carte Pier Nello Martelli, f. 1, carte sciolte.

[6] Testimonianza di Giorgio Stoppa, settembre 1977, in Martufi, La tavola del pane, p. 112.

[7] Relazione ufficiale 23ª BG.

[8] Relazione ufficiale 23ª BG, p. 9.

[9] Martufi, La tavola del pane, p. 33.

Articolo pubblicato nel magio 2024.




Giovanni Martelli: storia di un antifascista livornese

Introduzione
Giovanni Martelli è stato un antifascista, militante comunista e sindacalista livornese. Ha dedicato la sua vita ai lavoratori e agli ideali di libertà, in cui credeva fervidamente. È stato vittima delle violenze fasciste, di incomprensioni da parte dei suoi stessi compagni di Partito e dei dirigenti dei sindacati, di un sistema politico che cambiava costantemente e in cui si identificava sempre meno.
Questo articolo vuole ripercorrere una parte della vita di Martelli, dalla sua precoce militanza nel Partito Comunista d’Italia fino alla detenzione nelle carceri [1]. Verranno esaminate anche tutte quelle persone che hanno assistito Martelli nel proprio percorso politico, come alcuni antifascisti e militanti livornesi, partigiani attivi nella Resistenza all’occupazione nazifascista, politici e sindacalisti della Prima Repubblica. Tale ricerca non può esser scissa da un’analisi complessiva sul contesto nazionale che ha fatto da sfondo alla sua vita, un contesto segnato dal fascismo prima e dalle tematiche del secondo dopoguerra.
Il progetto è nato sulla base della consultazione dell’Autobiografia e delle note autobiografiche redatte da Giovanni Martelli stesso, e successivamente è stato esteso grazie a degli approfondimenti attuati su altri documenti conservati dal militante. Fino ad oggi la biografia e le esperienze di vita di Martelli sono state poco note alla comunità livornese odierna ma, grazie ad un lavoro di ricerca attuata personalmente presso l’Istituto Storico della Resistenza e delle Società Contemporanee della provincia di Livorno (in sigla, ISTORECO), adesso sarà possibile ricostruirle passo dopo passo. Martelli non era di origini livornesi, eppure il suo impegno politico è sempre stato rivolto alla città labronica fin da quando aveva diciassette anni, fin dal 1930.
L’articolo illustra non solo la sua figura, il suo impegno politico e sociale, ma anche i valori che ha condiviso e che lo hanno contraddistinto in tutti i suoi anni di militanza. Perché al di là della figura, c’è stato un uomo che ha creduto negli ideali di libertà, solidarietà, verità, lavoro. Martelli è stato proprio questo: un militante che ha corso dei rischi per i valori in cui credeva, ed è proprio partendo da questi valori che sarà possibile definire con maggior chiarezza la sua figura.
Per la realizzazione dell’elaborato sono stati consultati i documenti redatti e conservati da Martelli stesso, come ad esempio: le note autobiografiche, la propria biografia, lettere e opuscoli, articoli di giornali, comunicati. Le fonti sono state dapprima analizzate analiticamente, approfondendo i contenuti e gli eventi riportati, e successivamente sono state esaminate complessivamente col fine di tracciare un filo rosso che le ponesse in correlazione. Le persone non decidono casualmente di conservare determinati documenti, il tutto dipende dal grado di importanza che per essi rivestono; oppure, ogni individuo conserva un determinato oggetto perché lo rappresenta intrinsecamente. I documenti accumulati da un essere umano non sono mai agenti neutrali della storiografia, ma vanno osservati con attenzione e cautela.
Per esaminare questa storia particolare ed affascinante, l’elaborato è stato suddiviso in tre brevi paragrafi (pubblicati in tre articoli distinti).
Il primo paragrafo (pubblicato qui di seguito) illustra i primi anni di militanza di Giovanni Martelli nel Partito Comunista d’Italia durante il regime fascista e il suo incontro precoce con la classe operaia. Come afferma nella sua autobiografia, Martelli incontra la politica in età giovanile e quasi per caso, senza rendersi conto di cosa significasse aderire a un partito costretto alla clandestinità durante un regime totalitario. Si accorge delle responsabilità che ricopre solo quando vivrà sulla propria pelle la perquisizione e l’arresto.
Il secondo evidenzia i suoi due periodi di detenzione nelle carceri fasciste e le difficili condizioni psico-fisiche in cui ha vissuto. Nonostante gli arresti, Martelli apporterà un contributo significativo alla causa dell’antifascismo livornese e della Resistenza.
Il terzo ripercorre l’ultimo periodo di detenzione avvenuto prima presso il carcere di Don Bosco a Pisa e poi presso il carcere di Sant’Eufemia a Modena. L’ultimo arresto segnerà in maniera indelebile la vita del giovane antifascista di adozione livornese, soprattutto perché temeva di non poter più far ritorno a casa.

La presa di consapevolezza (novembre 1913-giugno 1932).
Giovanni Martelli nasce il 17 novembre 1913 a Castelfiorentino in una famiglia di umili origini: suo padre è operaio presso la Metallurgica Italiana e sua madre è casalinga. Per questioni lavorative il padre si trasferisce col resto della famiglia a Livorno, quando Martelli era molto piccolo. Lo stesso padre era nato e domiciliato a Livorno.
Vista la difficile situazione economica in cui viveva la famiglia, Martelli è costretto a lavorare non appena ha terminato le scuole elementari. Il suo primo impiego è presso l’ufficio telegrafico, dove vende a domicilio i telegrammi in arrivo, e a quindici anni lavora alla Cristalleria Torretta. Conosce il mondo del lavoro molto presto, quando è poco più che un bambino. Il contatto precoce con questa realtà lo segna così tanto nel profondo che le battaglie proletarie rimarranno al centro dei suoi interessi e delle sue discussioni.
Fino ai diciotto anni svolge più impieghi: diventa manovale edile, costruisce i blocchi di Shangai, svolge degli incarichi presso l’impresa Feltrinelli[2]. Successivamente, inizia a lavorare presso la ditta francese Mathon in uno stabilimento di materiali refrattari[3]. L’autore descrive la difficile condizione lavorativa in cui viveva, il difficile rapporto col sistema di produzione industriale fordista e la scarsa remunerazione che riceveva. Martelli racconta quella realtà con le seguenti parole:

«[…] Lavorai in quella fabbrica per circa due anni e fu in essa che conobbi veramente la durezza del lavoro e delle condizioni imposte all’operaio. In questo stabilimento, costruito secondo i moderni criteri dell’epoca, nonostante il paternalismo di quella direzione, le condizioni del lavoratore erano subordinate alla “salute” dei materiali […]. La condizione [in] cui si trovava l’operaio addetto alla macinazione del materiale refrattario, immerso per ore e ore permanentemente [nel] nuvolo di polvere e così via. Una forte percentuale di quegli operai, che per anni avevano dovuto lavorare a quelle condizioni, veniva colpita da malattie tubercolari o da gravi forme di silicosi […]»[4].

Quelle difficili condizioni lavorative gli fecero capire l’importanza della formazione, dell’istruzione e della scuola, di quei percorsi che aveva dovuto abbandonare a causa della povertà. Martelli comunque tra i diciotto e i ventuno anni riesce a frequentare delle scuole serali di avviamento professionale, dove si specializza in motori e in aviazione.
Sempre all’età di diciotto anni, Martelli si avvicina alla politica e al PCd’I quasi per caso. Nella sua Autobiografia racconta che non si è mai spiegato il perché a quell’età nutrisse una «profonda avversione verso il sistema fascista» e una «certa simpatia per il Partito comunista»[5]. In realtà, esisteva una motivazione di fondo che spiegava i suoi sentimenti contrastanti: come altri giovani cresciuti durante il Ventennio, era costretto a frequentare dei corsi premilitari che detestava nel profondo.
L’attività politica di Martelli si inserisce proprio in un periodo storico molto complesso. Nel 1931 si iscrive alle organizzazioni giovanili della Federazione comunista livornese a Iedo Tampucci e Leonardo Leonardi ma, a causa della sua giovane età, inizialmente non ricopre dei ruoli di rilievo politico all’interno della federazione e svolge altre attività, come: azioni di propaganda, organizzazione delle cellule, distribuzione e lanci dei manifesti di propaganda, preparazione dei materiali da discutere nelle riunioni. Aderire a un movimento considerato come eversivo in un regime autoritario, significava prender parte consapevolmente alla vita clandestina.
Un anno dopo entra a far parte del Comitato federale dei giovani e conosce molti giovani comunisti livornesi, tra cui Otello Frangioni e Garibaldo Benifei[6]. È necessario precisare che questi giovani non solo svolgeranno dei ruoli di rilevanza all’interno della lotta al regime nazifascista, ma continueranno anche a ricoprire degli incarichi di spicco all’interno del Partito dopo la guerra. Inizialmente prendono parte a riunioni su argomenti concernenti i presagi di una guerra imminente e la possibile partecipazione del fascismo ad essa, e successivamente svolgono il ruolo di trasmissione all’interno dell’organizzazione delle inaudite difficoltà che stava vivendo il Partito a livello nazionale. Inoltre, svolgeranno azioni di proselitismo clandestine nelle fabbriche e nelle giornate di festività dei lavoratori, come il primo maggio abolita dal regime e realizzeranno dei volantini inneggianti lavoro, pace e libertà.
Il 1932 è un anno che segnerà in maniera irreversibile la vita di Martelli in quanto viene arrestato l’11 giugno dall’OVRA, la polizia politica e segreta del regime che aveva il compito di reprimere l’antifascismo. Fino al 1944, Martelli verrà arrestato complessivamente tre volte e verrà denunciato al Tribunale speciale, come compare anche nella scheda biografica del Casellario Politico Centrale[7].
Le torture subite, gli arresti, le condanne e i trasferimenti, cambieranno le scelte di vita di Martelli che da militante per caso, divenne sinceramente convinto delle proprie scelte e continuerà ad opporsi al regime con un coraggio senza precedenti. È proprio con queste esperienze difficili che Martelli acquisirà una maggior consapevolezza e coscienza su cosa vuol dire esser militanti in un partito di opposizione durante un regime totalitario.

Note

  1. D’ora in avanti il Partito Comunista d’Italia verrà indicato con la sigla PCd’I.
  2. Presso l’impresa Feltrinelli, Martelli lavora allo scarico e carico del legname. Per un’impostazione generale sul tema, vedi: Martelli G., Nota autobiografica, Livorno, gennaio 1985, p. 1.
  3. Lo stabilimento qui menzionato è la “Società toscana per lo sfruttamento di cave e miniere C. Mathon”, attiva in tutto il territorio toscano e collocata a Livorno all’epoca in Piazza San Marco. Per un approfondimento sul tema, vedi: Camera di commercio della Maremma e del Tirreno, Fascicolo delle Società cessate, b. 838.
  4. Martelli G., Nota autobiografica, cit., p. 3.
  5. Martelli G., Autobiografia, Direzione del Partito Comunista Italiano (Sezione Quadri), 20 marzo 1945, p. 1.
  6. Otello Frangioni (1913-1952): è coetaneo di Martelli, con cui stringe un solido rapporto di amicizia. Anche lui si iscrive al Partito Comunista quando è giovanissimo e nutre un interesse profondo per le questioni proletarie. Sposerà una delle sorelle di Martelli e diventerà suo cognato. Muore in un incidente stradale a Scandicci insieme a altri militanti livornesi, come Leonardo Leonardi e Ilio Barontini.
    Garibaldo Benifei (1912-2015): Nasce in una famiglia antifascista, composta dal fratello anarchico Rito e dal fratello socialista Antonio. Nel 1933 viene arrestato con Martelli e condannato a un anno di reclusione presso il Palazzo dei Domenicani a Livorno, dove conobbe Sandro Pertini. Dopo l’arresto nel 1939 viene condannato a sette anni di carcere, ma viene liberato con l’Armistizio dell’8 settembre 1943. Tornato a Livorno aderisce al CLN e prende parte attivamente alla guerra di liberazione. Nel dopoguerra ha continuato a lavorare come operaio ed è stato esponente di spicco del Partito Comunista livornese.
  7. Casellario Politico Centrale, Giovanni Martelli, b. 3092, < http://dati.acs.beniculturali.it/CPC/ >, data di consultazione: 18 marzo 2024.

Articolo pubblicato nell’aprile 2024.




Le cittadinanze onorarie a Mussolini e la mistificazione della storia

Le persistenze del passato regime fasciste, nelle varie forme di intitolazioni, architetture, riferimenti toponomastici, sono spesso giunti alla ribalta della cronaca negli ultimi anni. Ne sono esempio le non lontane polemiche relative ai monumenti fascisti, oggetto di attenzione e di più o meno efficaci tentativi di risignificazione. Allo stesso modo, non sono mancate le polemiche attorno alle rimozioni di nomi di strade e piazze che ancora richiamavano a personaggi e vicende dell’esperienza fascista. Una tendenza, questa, che fa da sfondo ad altri dibattiti attorno a singole figure, talvolta oggetto di riletture e abilitazioni postume.

Il volume Il cittadino d’Italia si inserisce in tale contesto, prendendo in esame un caso specifico ma particolarmente significativo per vari motivi: innanzitutto, per il proprio oggetto d’indagine, concentrando la propria attenzione sulla figura di Benito Mussolini e sulla costruzione del suo mito personale; in secondo luogo, per il rilievo assunto in tempi recenti, con punte polemiche particolarmente acute nel 2020, dai dibattiti attorno alla revoca al dittatore delle proprie onorificenze onorarie.

Proprio da quest’ultimo spunto trae origine il libro di Michelangelo Borri, dedicato alla storia delle cittadinanze onorarie a Mussolini. Attraverso una ricerca condotta negli archivi nazionali, in alcune realtà comunali e sulla stampa dell’epoca, Borri indaga la storia e le motivazioni dei titoli onorifici al dittatore: avviata nel 1923, una volta concretizzatasi la presa del potere con la marcia su Roma, la tendenza si sarebbe sviluppata appieno nel 1924 grazie all’interessamento della segreteria particolare della Presidenza del Consiglio e del Partito nazionale fascista. Dalla ricostruzione emerge il carattere politico e talvolta coatto delle onorificenze, attribuite dai consigli comunali in seguito alle pressioni provenienti dalle prefetture e dalle federazioni provinciali fascista. Ne emerge il quadro di una dittatura immediatamente pronta a stringere la propria presa sul paese, imponendo le proprie scelte agli amministratori comunali italiani.

Assieme all’operazione politica, il volume ricostruisce alcune delle principali manifestazioni organizzate in corrispondenza dei riconoscimenti, seguendo il duce nelle città di Firenze, Bologna, Roma, Napoli, Perugia e analizzando i testi dei documenti con cui le assemblee municipali deliberarono i conferimenti. Da tale quadro appare chiara la volontà del nascente regime di imporre, immediatamente, la figura di Mussolini come quella del nuovo simbolo dell’Italia fascista. Una volontà sorretta dagli apparati di propaganda e dalla stampa, ma anche dalla violenza squadrista e dal potere coercitivo dello Stato, piegato alle esigenze politiche della dittatura. In tale ottica, scrive Borri, le folle di partecipanti alle manifestazioni organizzate in corrispondenza dei conferimenti avrebbero svolto la funzione di legittimare, a posteriori, la concessione dei titoli medesimi, tramite un meccanismo di mobilitazione dal basso caratteristico dell’esperienza fascista. La conclusione dell’autore, in tal senso, appare chiara e non lascia spazio a dubbi:

 

Lungi dal rappresentare sincere e spontanee manifestazioni di stima al nuovo presidente del Consiglio – come ancora oggi spesso sostenuto, a conferma dell’efficacia dell’operazione politica fascista – le cittadinanze mussoliniane costituiscono, al contrario, testimonianze eloquenti e rilevatrici del vero volto di un regime pronto a mobilitare ogni risorsa per raggiungere anche il più minuto degli obiettivi prefissati. Piuttosto che reminiscenze di scelte che gli italiani non furono affatto chiamati a compiere – ma, al massimo, a legittimare posteriormente –, esse sono l’ennesima conferma della presa soffocante esercitata dalla dittatura in ogni angolo del paese: anche in forme diverse da quelle tradizionalmente riconosciute, anche all’interno delle assemblee teoricamente più immediatamente rappresentative ed espressive della piena realizzazione democratica (p. 124).

 

Alla luce di quanto verificatosi negli anni Venti, anche le discussioni odierne appaiono più chiare e, soprattutto, più immediatamente riconoscibili risultano i tentativi di strumentalizzazione politica attuati, in molti casi, dai rappresentanti locali dei partiti della destra. Anche grazie al puntuale saggio introduttivo di Andrea Mammone, il libro fornisce una panoramica ben dettagliata di quanto avvenuto negli ultimi decenni – ma partendo, con uno sguardo di lungo periodo, dall’immediato dopoguerra – nel dibattito pubblico attorno al fascismo e alla sua memoria. La sovrapposizione tra memorie deboli della dittatura, tra una certa nostalgia ancora persistente in alcuni strati della società italiana postbellica e interessi commerciali ed editoriali, ha favorito l’elaborazione di rappresentazioni in qualche modo deresponsabilizzanti rispetto alle colpe del fascismo e, con esso, degli italiani, aprendo la strada anche a riletture e riabilitazioni postume dell’operato di Mussolini. In questo panorama, già accuratamente descritto da studiosi come Filippo Focardi, le discussioni attorno alle cittadinanze onorarie mussoliniane rappresentano soltanto il più recente tassello: sulla loro persistenza, infatti, rappresentanti municipali delle destre postfasciste – e non solo – hanno spesso proposto l’immagine di un dittatore ammirato dalle popolazioni italiane, presentando le onorificenze come intitolazioni spontanee provenienti dal basso e, come avviene oggi in condizioni di democrazia, rispondenti effettivamente all’umore di almeno una buona parte della cittadinanza. Il libro Il cittadino d’Italia dimostra, in maniera ormai non più discutibile, come ciò sia palesemente falso e come i tentativi di mantenere i conferimenti a Mussolini nascondano, in realtà, ben più profonde motivazioni politiche ed ideologiche riconducibili a un senso di fascinazione e nostalgia ancora vivo, in alcuni ambiti politici, verso il dittatore e verso il suo criminale progetto politico.




«Verso le 1,30 di stanotte ho udito…»

Il 30 maggio 1924 Giacomo Matteotti nel suo ultimo intervento alla Camera dei deputati denuncia le violenze e i brogli elettorali effettuati dai fascisti durante le ultime elezioni politiche, quelle che si erano svolte il 6 aprile, chiedendo «l’annullamento in blocco delle elezioni della maggioranza» e mettendo di fatto in crisi il risultato politico che più sta a cuore a Mussolini e ai fascisti: la parvenza di legalità, che con la realizzazione della legge Acerbo volevano perseguire.
La riforma elettorale approvata prima dalla Camera, il 23 luglio, e poi dal Senato il 3 novembre 1923, istituiva il collegio unico nazionale e la scheda di Stato, abolendo il sistema proporzionale e stabilendo la regola dell’attribuzione di due terzi dei seggi alla lista che avesse raccolto la maggioranza dei voti validi, senza fissare in origine alcun tipo di quorum. I votanti sono il 63% del corpo elettorale e il «listone» ottiene 4.305.936 voti[1], ai quali si aggiungono i 347.552 voti delle «liste bis» raggiungendo così il 56,54% dei voti su un totale di quelli validi di 7.021.551. Al Nord Italia, a dispetto delle pressioni e delle violenze, le forze dell’opposizione raccolgono più voti di quelle fasciste, ma nonostante questo il plebiscito ottiene un notevole successo. Nella provincia pisana al «listone» vanno 72.163 voti a fronte dei 14.792 raccolti dall’opposizione[2].
Matteotti denuncia con audacia le violenze e le manipolazioni del voto effettuate dalle squadre fasciste con la collaborazione di numerose prefetture e apparati dello Stato, ma questa coraggiosa presa di posizione gli vale solo la condanna a morte. Il 10 giugno è rapito e ucciso dalla banda fascista dei sicari di Dùmini[3].
Le violenze degli squadristi perpetuate nei mesi e nelle settimane precedenti il voto elettorale spesso si tramutano in veri e propri attacchi criminali: ad esempio, il 28 febbraio 1924, i fascisti uccidono a Reggio Emilia a colpi di pistola il candidato socialista Antonio Piccinini, tipografo e sindacalista, mentre in altre località feriscono altri esponenti dell’opposizione come i riformisti Enrico Gonzales, Giovanni Battista Canepa e Bruno Buozzi.
L’uccisione di Antonio Piccinini avviene con una dinamica ben precisa, la stessa che i fascisti utilizzano in altri casi. L’esponente socialista è prelevato al suo domicilio da alcuni fascisti, che si sono fatti aprire la porta con uno stratagemma: gli squadristi si presentano come socialisti esibendo una tessera sottratta a veri iscritti, aggrediti in precedenza. Piccinini è poi trucidato da lì a poco nella casa di due dei sequestratori, che dopo averlo stordito di bastonate lo appendono a dei ganci in un locale per la lavorazione dei maiali e lo finiscono con quattro colpi di rivoltella sparati a bruciapelo. Il corpo straziato è fatto trovare all’alba sotto un albero lungo la ferrovia Reggio-Ciano d’Enza, non lontano dalla sua abitazione, affinché i lavoratori che arrivano in città col treno locale per recarsi al lavoro possano constatare la fine che i fascisti fanno fare ai dirigenti operai.

Ugo Rindi

Anche la provincia pisana è attraversata da numerosi episodi di violenza e intimazioni: il 20 marzo una squadra di fascisti a Pontedera devasta la casa del comunista Antonio Romboli bastonando l’intera famiglia e ferendo il figlio con un colpo di pistola; nello stesso giorno è aggredito e ferito l’ex sindaco di Bientina, Annibale Iacopetti; il 24 marzo a Nodica i fascisti feriscono un socialista; il 29 marzo a Latignano gli squadristi picchiano un invalido di guerra iscritto al Partito popolare; il 4 aprile viene bastonato un ex consigliere del Partito popolare e a Ponsacco un gruppo di iscritti al Partito di Don Sturzo sono percossi selvaggiamente.
L’episodio più grave, sempre legato alle tensioni nate intorno alla data delle elezioni, è quello dell’uccisione di Ugo Rindi, tipografo, segretario della locale Federazione italiana del libro (il sindacato dei tipografi)[4], che avviene a Pisa nella notte tra l’8 e il 9 aprile 1924[5].
Recentemente l’Archivio di Stato di Pisa ha ricevuto un consistente fondo di documenti provenienti dall’archivio del Tribunale di Pisa che sono stati oggetto di un primo ordinamento e che contribuiscono a chiarire ancora meglio la dinamica dell’assassinio[6].

L’8 aprile, intorno alle 20, Emilio Gnesi, ufficiale della Milizia volontaria per la sicurezza nazionale, si reca insieme al console Francesco Adami dal questore Pace e dal prefetto Renato Malinverno per denunciare il grave ferimento di un fascista. Il presunto responsabile è Ulico Caponi, colono abitante in località Villa Filippi a circa un chilometro e mezzo da Porta a Lucca sulla via per San Giuliano Terme. Nel frattempo, la notizia viene fatta girare ad arte in città[7].
Il racconto degli squadristi afferma che un’auto guidata dallo squadrista Dino Poli, con a bordo Gualtiero Bacci e Ruffo Lester e i militi della MVSN Emilio Gnesi, Giulio Susini, Ruffo Monnosi e Guido Marradi, aveva raggiunto «Villa Filippi», la casa colonica abitata della famiglia Caponi per dare una lezione a Ulico, che il giorno delle elezioni ha dichiarato, all’uscita del seggio, la propria fede antifascista di fronte agli squadristi presenti. Evitato il linciaggio grazie all’intervento di un ufficiale dei carabinieri il Caponi si è rifugiato a casa sua. Secondo i fascisti quando Caponi li vede entrare nel proprio cortile si dà alla fuga nei campi sparando e ferendo gravemente lo squadrista Poli[8]. Il ferito è immediatamente trasportato in ospedale ma le sue condizioni, nonostante l’intervento dei sanitari, peggiorano rapidamente nella notte e intorno alle 14 del 9 aprile spira tra le braccia della moglie[9].
Il Prefetto e il Questore di Pisa credono ai fascisti e si prodigano immediatamente per dare ordini affinché il presunto assassino venga assicurato alla giustizia e chiedendo agli stessi squadristi di collaborare alle ricerche. Questi ultimi non si fanno ripetere la richiesta una seconda volta e immediatamente si mobilitano attivando quattro squadre che perlustrano Pisa e dintorni, colpendo tutti coloro che gli capitano a tiro, compreso, come ricorda il Procuratore generale della repubblica di Firenze, «persone indifferenti e innocue»[10].
Tra le due e trenta e le tre del 9 aprile due barrocciai, Riccardo Cioni di Empoli e Armando Matteucci di Firenze, sotto un’incessante pioggia escono da Porta a Lucca con i loro carri dirigendosi a sinistra verso Viareggio per la via del Marmigliaio quando i loro cavalli all’improvviso si bloccano perché qualcosa impedisce loro di procedere. Scesi dai loro carri i due barrocciai si accorgono che in mezzo alla strada giace insanguinato il corpo di un uomo. Subito si dirigono verso la vicina stazione daziaria avvisando gli impiegati presenti, due dei quali si recano sul posto e riconoscono immediatamente il corpo di Ugo Rindi, una persona molto nota nel quartiere e in città[11].
Avvertite le autorità, i carabinieri e il commissario di PS giunti sul posto confermano il riconoscimento di Rindi, ucciso da due pugnalate, una delle quali gli ha reciso l’aorta. Il corpo viene rimosso dal selciato intorno alle 9 di mattina[12].

Alessandro Carosi

In poco tempo la notizia della morte di Rindi fa il giro della città. Il sindacalista aveva seguito le orme paterne sia dal punto di vista professionale che ideale[13]: da giovane era stato affascinato delle idee libertarie ed era una persona molto amata e impegnata nel sociale, tanto che le stesse autorità durante l’inchiesta più volte sottolineano nei loro rapporti che Rindi era una persona «idealista» e «proba e innocua», ricordando come si fosse distinto nel settembre del 1920 negli aiuti ai terremotati della Garfagnana e Lunigiana. Come scrive il Procuratore generale di Firenze, anche il parroco di Porta a Lucca, don Angelo Petrini, ne «esalta le virtù e i meriti sebbene il Rindi non accettasse la religione cattolica»[14].
Le indagini vengono espletate velocemente e le autorità ben presto comprendono la reale dinamica dei fatti grazie anche alla collaborazione fondamentale e inaspettata del capitano Bruno Santini, leader di una delle fazioni del fascismo locale, che fin dalle prime ore del 9 aprile si prodiga, facendo visita anche alla famiglia Rindi, per comprendere la dinamica della brutale aggressione e individuare i responsabili. È grazie proprio alla denuncia di Santini e di altri suoi commilitoni alle autorità che vengono identificati gli assassini di Rindi[15].
L’11 aprile è arrestato il sindaco di Vecchiano, il già allora famigerato Alessandro Carosi[16], che come ricorda il Procuratore generale di Firenze amava presentarsi come «Tenente Carosi, sette volte omicida». Un personaggio che è animato al pari di altri sicari fascisti, sempre in base alle parole del Procuratore di Firenze, da «un istinto ferino» con assoluta mancanza di «moralità», che ha l’abitudine di ferire e uccidere per «brutalità, spavalderia e intimidazione»[17]. Carosi fa parte, dunque, di quella genia di «squadristi famigerati, accaniti e sanguinari, espressione di ceti e ruoli sociali ben definiti e tutt’altro che marginali e spostati»[18].

Filippo Morghen

Nei giorni e nelle settimane successive vengono arrestati anche i complici di Carosi: Antonio Sanguigni[19], segretario del fascio di Avane, Ranieri Cola[20], Giuseppe del Pellegrino[21] e Giulio Malmusi[22]. Sono arrestati anche il presunto mandante, Francesco Adami, console della MSVN[23] e il suo padrino, Filippo Morghen[24], segretario provinciale della Federazione e presidente del consiglio provinciale, oltre ai suoi più stretti collaboratori, gli squadristi Girolamo Grimaldi[25], segretario del fascio di San Giuliano Terme, Giuseppe Biscioni[26] e Ovidio Chelini, segretario del fascio di Nodica[27].
Vasta è l’eco dell’efferato assassinio sulla stampa locale e nazionale, Rindi è, come già ricordato, un personaggio assai conosciuto nella città, da tutti indicato come «uomo mite e onesto»[28]. Una grande sottoscrizione popolare nei confronti della famiglia del tipografo assassinato è lanciata dal periodico cattolico «Il Messaggero toscano»[29]. I funerali e le molte testimonianze dell’affetto della Pisa popolare e antifascista sono la prova di un’unanime condanna del delitto. La morte di Rindi ha lasciato nella disperazione la famiglia: la moglie Nella e i figli Emilio e Vera, la madre Rosa, la sorella Lavinia, che, subito dopo che Rindi è uscito di casa con i «fascisti», hanno cercato in città il proprio congiunto rivolgendosi invano anche alla Questura[30].
È molto probabile che Santini colga al volo l’occasione dell’assassinio di Rindi per cercare di liberarsi una volta per tutte

Giulio Malmusi, squadrista complice di Carosi nell’omicidio Rindi.

del gruppo legato a Filippo Morghen che, dall’autunno del 1922 ai primi mesi del 1924, si è distinto nell’occupazione di tutti i posti di potere chiave del territorio[31]. Questa occupazione di poltrone, una vera e propria ingordigia di potere, ha aperto delle fratture e «una furiosa e selvaggia lotta di gruppi» nelle file fasciste lasciando una parte degli squadristi della prima ora senza un corrispettivo adeguato di riconoscimenti e palesando un tradimento degli «ideali» del fascismo sansepolcrista[32].
Il 10 aprile giunge in città Luigi Freddi, responsabile dell’ufficio stampa del PNF, squadrista milanese della prima ora e «fedelissimo» di Mussolini, inviato a Pisa come commissario straordinario per rimettere ordine in una Federazione locale ormai profondamente dilaniata dai contrasti interni. Tutti i vertici della Federazione sono obbligati alle dimissioni e anche il prefetto Malinverno, troppo accondiscendente verso alcuni dei ras locali è sostituito da Giovanni Battista Rossi.
In giugno poi la notizia del rapimento dell’on. Giacomo Matteotti, con la sua eco emotiva, ha l’effetto, anche nel pisano, di un’ulteriore onda d’urto nelle file del fascismo e dell’opinione pubblica. Il clima politico è caratterizzato dall’incertezza, le autorità sono disorientate e gli stessi fascisti sembrano per un istante più indecisi e confusi sul da farsi.
Una lettera del capitano Santini alla redazione de «Il Messaggero toscano» della fine di agosto fotografa con chiarezza il clima politico di Pisa di quell’estate:

La situazione della città di Pisa è angosciosa, terribile, e non è soltanto una situazione del partito, ma l’imposizione di un sistema che offende la cittadinanza e gli onesti di tutte le tendenze, poiché mira all’apologia della delinquenza che ogni partito deve saper distruggere in se stesso se vuole vivere e prosperare. Pisa vive da tre mesi una tragica ora che non si vuol comprendere. Pisa ha visto l’8 aprile commettere nelle sue mura un assassinio obbrobrioso davanti al quale impallidisce un fatto come quello di Matteotti e i delinquenti furono consegnati alla giustizia dai fascisti stessi che non potevano ammettere nella loro buona fede che il fascismo si imbastardisse convivendo con l’inutile e deleteria delinquenza[33].

Nel frattempo nei primi giorni di luglio Freddi è sostituito nel suo incarico di commissario straordinario dall’on. Ezio Maria Gray che cerca di riportare alla «normalità» la vita della Federazione, ma in realtà alla fine chi paga maggiormente è il gruppo di Santini che l’anno successivo, non senza aver ricevuto minacce e pressioni di ogni tipo, decide di abbandonare Pisa e la militanza per trasferirsi a Milano.
La figura che si afferma in questo periodo di transizione è quella di Guido Buffarini Guidi, decorato di guerra, avvocato, massone e sindaco di Pisa, dal 1923 al giugno 1924, quando lascia l’incarico perché eletto in Parlamento. Noto per il motto «Ci penso io», ripetuto più volte a fronte di problemi e richieste di interventi, Buffarini non abbandona a se stessi gli esecutori dell’assassinio di Rindi, garantendo loro sussidi, assistenza e coperture.
La violenza del fascismo pisano ha un’altra occasione di mettersi in mostra il 2 gennaio 1925, il giorno prima del noto discorso di Mussolini al Parlamento sulle responsabilità del delitto Matteotti, quando sono assaltate le sedi delle organizzazioni dell’opposizione che ancora sopravvivevano e della massoneria. Viene tentato anche un assalto alle Carceri giudiziarie di S. Matteo al fine di liberare Carosi e Adami ma il tentativo fallisce per l’intervento massiccio di carabinieri e guardie di P.S. Sono devastate anche la redazione e la tipografia del «Messaggero toscano», che vengono distrutte da una forte esplosione, le abitazioni e gli studi di vari «notabili», rei di aver abbandonato il sostegno al fascismo, come Alfredo Pozzolini e Arnaldo Dello Sbarba, mentre gli squadristi non riescono ad entrare nello studio di Adolfo Zerboglio, noto giurista e senatore, perché sulla porta trovano un capitano degli alpini che impedisce armi alla mano alla squadra fascista di eseguire l’ordine di distruzione[34].
Il Procuratore generale di Firenze alla fine dell’anno conclude la sua istruttoria rinviando a giudizio Carosi, come esecutore dell’assassinio di Rindi, Malmussi e Grimaldi come complici, Adami e Biscioni come mandanti, mentre Morghen, Sanguigni, Cola e Del Pellegrino sono prosciolti dalle accuse per insufficienza di prove[35].
Il processo si svolge al Tribunale di Genova nel settembre del 1925, in un clima totalmente diverso rispetto a quello dell’anno precedente: nonostante le prove raccolte durante l’inchiesta, la sentenza finale è di assoluzione piena per tutti gli imputati. La corte di Genova ha subito forti pressioni politiche, proveniente anche da Roma, al fine di impedire una condanna che in quel contesto avrebbe significato una sconfessione piena di tutta l’organizzazione fascista locale. Il processo è anche l’occasione per la resa dei conti tra le due fazioni del fascismo a Pisa che nei mesi trascorsi hanno continuato a darsele di santa ragione, anche a colpi di revolver. In settembre un fascista seguace di Santini, Pilade Fiaschi, ingaggia a Marina di Pisa uno scontro a fuoco con un fascista «ufficiale», Gino Salvadori, entrambi rimangono feriti sul selciato ma ad avere la peggio è il secondo, che muore poco dopo[36].
Gli imputati assolti a Genova ricevono calorose accoglienze sia nella città ligure che a Pisa, dove i loro camerati li portano in «trionfo» per le vie delle città come dei «vincitori» di una gara sportiva[37].

Nel 1945, quando la guerra ancora non è terminata la Cassazione annulla la sentenza del 1925 e il caso viene riaperto ma nel frattempo uno dei principali esecutori dell’omicidio, Alessandro Carosi, si è dato alla macchia. Verrà condannato in contumacia a 21 anni di reclusione, come gli altri due imputati, ma non farà mai un giorno di carcere per il delitto Rindi, continuerà a vivere e lavorare a Roma, con la complicità di amici potenti, sotto il falso nome di Filippo Filippi[38]. Morirà nella capitale il 29 gennaio 1965 e la sua scomparsa avrà una vasta eco sui maggiori quotidiani italiani[39].
Carosi in carcere in precedenza ci era finito per un’altra tragica storia. Nel 1931 a Viareggio, dove risiedeva, uccide Assunta Beneforti (Tina), la sua amante e madre del figlio Sergio nato nel 1927. Per questo omicidio verrà condannato dalla Corte d’Assise di Firenze ad una lunga pena detentiva. Il 9 aprile 1943 inspiegabilmente Carosi è liberato con la condizionale e posto in regime di libertà vigilata. Decide di stabilire la propria residenza a Guardistallo dove viveva e lavorava la figlia Liliana avuta da una precedente relazione. Qui il 1° agosto 1943 sposa Cesarina Cesari la madre di Liliana. Il Prefetto preoccupato della presenza di Carosi e temendo le sue attività lo fa arrestate proponendolo per l’internamento in un campo di concentramento. Dopo l’8 settembre Carosi è liberato e nominato triumviro della Federazione pisana del nuovo Partito fascista repubblicano. Nei mesi seguenti collabora attivamente con la RSI e con gli occupanti nazisti.
Il 24 giugno 1944 si perdono le sue tracce, pare che si sia diretto al Nord insieme ai reparti e autorità fasciste della provincia. Secondo alcune testimonianze sembra che Carosi sia coinvolto nella denuncia alle autorità tedesche dell’antifascista e membro del CLN, Sisto Longa, che aveva retto il municipio di Guardistallo nei giorni seguenti la caduta di Mussolini. Longa il 29 giugno viene trucidato insieme ad altri 51 civili e 11 partigiani dalla Quarta compagnia della 19ª divisione da campo della Luftwaffe[40].

Il 14 maggio 1965, il senatore Umberto Terracini presenta un’interrogazione al Ministro dell’Interno, il senatore Paolo Emilio Taviani – democristiano ed ex membro del CLN ligure –, chiedendo come il ricercato Alessandro Carosi avesse potuto vivere e lavorare indisturbato a Roma nonostante la pesante condanna ricevuta. A Terracini rispose il sottosegretario all’interno, Crescenzo Mazza, con argomentazioni generiche e inconcludenti[41].
La vicenda Carosi mostra bene come l’eredità del fascismo abbia pesantemente condizionato la vita della giovane Repubblica italiana e come i suoi fantasmi si siano di volta in volta materializzati lasciando ferite profonde e aperte nella società civile del nostro Paese.
Il delitto Rindi è per Pisa quello che l’assassinio di Matteotti rappresenta per l’Italia: una svolta decisiva nell’evoluzione del fascismo, dove un partito politico da solo, il partito fascista, si autoproclama unico rappresentante di tutta la nazione. Un secondo effetto di questi episodi ricade soprattutto sulla tenuta dell’ordine pubblico e sulla gestione della giustizia. È evidente come in ambedue i casi lo Stato abdica a gruppi di potere locali e nazionali che si ergono in modo violento e spiccio, a volte in forme contraddittorie, a gestori della sicurezza nazionale.
Mussolini con il discorso del 3 gennaio 1925, assume la responsabilità storica di aver condotto il fascismo attraverso l’illegalità e la violenza al potere, mettendo al bando le residue forme democratiche del vecchio sistema monarchico/liberale, verso la costruzione di uno stato totalitario.
Pisa antifascista ricorderà Ugo Rindi nel secondo dopoguerra con varie manifestazioni e con l’intitolazione della strada che costeggia l’Arena e che partendo da via L. Bianchi arriva fino alla via del Marmigliaio.

NOTE:

1 La Lista nazionale nota comunemente come Listone oltre al Partito nazionale fascista (PNF), che l’anno prima aveva assorbito l’Associazione nazionalista italiana, comprendeva la maggioranza degli esponenti liberali come Vittorio Emanuele Orlando, Antonio Salandra e, inizialmente, anche Enrico De Nicola (che però ritirò la sua candidatura prima delle elezioni), ex popolari espulsi dal partito, demosociali e sardisti filofascisti, oltre a numerose personalità della destra liberale e cattolica italiana.
2 Si v. gli art. La elezione politica è stata un plebiscito nazionale e La Votazione di Pisa, «Il Ponte di Pisa», 12-13 aprile 1924.
3 Cfr. G. Mayda, Il pugnale di Mussolini: storia di Amerigo Dùmini, sicario di Matteotti, Bologna, Il mulino, 2004; M. Canali, Il delitto Matteotti, Bologna, Il mulino, 2004; M.L. Salvadori, L’antifascista: Giacomo Matteotti, l’uomo del coraggio, cent’anni dopo (1924-2024), Roma, Donzelli, 2023.
4 All’anagrafe Ugo Gustavo Ruffo Rindi nasce a Pisa il 21 maggio 1882 da Emilio e Rosa Lorenzetti. Per un inquadramento generale sulla storia del lavoro e sindacale di Pisa nel periodo cfr. A. Marianelli, Eppur si muove! Movimento operaio a Pisa e provincia dall’Unità d’Italia alla dittatura, Pisa, BFS edizioni, 2016.
5 Archivio di Stato di Pisa (d’ora in poi ASPi), Tribunale di Pisa, Corte d’Assise, aa. 1922-1946, Carosi Alessandro … [et al.], Il funzionario di servizio della Questura di Pisa al Procuratore del Re, 9 aprile 1924. Il quotidiano dei socialisti il giorno dopo la notizia della morte di Rindi riporta il fatto con il titolo esemplificativo: L’esecuzione capitale di un tipografo a Pisa, «L’Avanti!», 10 aprile 1924. Nell’articolo si fa riferimento alla similitudine del caso Rindi con quella del socialista Piccinini assassinato a Reggio Emilia in febbraio. 6 6 Per la cronaca pisana si v. anche Misterioso assassinio a Pisa. Un tipografo ucciso a pugnalate, «La Nazione», 10 aprile 1924 e Il tipografo ucciso, «Il Ponte di Pisa», 12-13 aprile 1924.
7 Il progetto di riordino è stato realizzato grazie ad un contributo della Fondazione Pisa e della Biblioteca Franco Serantini e realizzato dalla dr.ssa Giulia Vierucci. Ringrazio la direttrice dell’Archivio di Stato di Pisa, dr.ssa Jaleh Bahrabadi, per la disponibilità e la collaborazione e per l’autorizzazione alla consultazione dei materiali.
8 ASPi, Tribunale di Pisa, Corte d’Assise, aa. 1922-1946, Carosi Alessandro … [et al.], Il Procuratore generale presso la Corte d’Appello di Firenze, Rinvio a giudizio Carosi Alessandro … [et al.] per omicidio premeditato, 13 febbraio 1925 (d’ora in poi Procura generale di Firenze, Rinvio a giudizio …)
Caponi si eclissa ma raggiunto dalle notizie delle minacce fatte alla famiglia decide il giorno dopo di costituirsi alle autorità rimanendo in carcere per circa due mesi. La «falsa» notizia dell’agguato nel quale sarebbe rimasto ferito Poli propagata dai vertici della Federazione pisana del fascio è immediatamente ripresa dalla stampa nazionale. Cfr. “Chauffer” ferito da uno sconosciuto mentre attende a una riparazione, «Il Corriere della sera», 9 aprile 1924.
9 La moglie accorsa in ospedale ebbe il tempo di ascoltare dalla voce del marito morente la nuda e tragica verità dei fatti. Poli nell’inseguire il Caponi attraversò un fosso e risalì la sponda opposta mentre i suoi iniziavano a sparare. Nella concitazione degli avvenimenti gli squadristi non si accorsero che sparavano nella sua direzione ed un colpo da fuoco «amico» lo prese in pieno. Alla moglie furono fatte molte pressioni da parte dei «camerati» di suo marito e gli venne garantito un vitalizio da parte della Federazione pisana del fascio e al processo Rindi dell’anno successivo confermò la versione «ufficiale» sulla dinamica dei fatti contribuendo all’assoluzione degli imputati. Solo dopo vent’anni, alla riapertura del procedimento contro i responsabili dell’omicidio di Ugo Rindi la vedova Poli racconterà la verità. Va qui ricordato che all’epoca la magistratura non aprì nessun fascicolo per perseguire i responsabili della morte dello squadrista, nonostante dopo pochi giorni fosse a conoscenza di tutti i nomi dei presenti al fatto. Poli venne sepolto con tutti gli onori del caso entrando nell’albo dei «martiri» del fascismo.
10 ASPi, Tribunale di Pisa, Corte d’Assise, aa. 1922-1946, Carosi Alessandro … [et al.], Procura generale di Firenze, Rinvio a giudizio …, cit.
11 Ib.
12 Archivio di Stato di Pisa (d’ora in poi ASPi), Tribunale di Pisa, Corte d’Assise, aa. 1922-1946, Carosi Alessandro … [et al.], Verbale di visita di località e rimozione di cadavere, Pisa, 9 aprile 1924 e Legione territoriale dei Carabinieri reali di Livorno, Stazione di Portanuova, Verbale di omicidio in persona di Rindi Ugo ad opera di 5 sconosciuti, Pisa, 9 aprile 1924. Carosi, accompagnato da Malmusi e da altri tre squadristi, si è presentato intorno all’1,30 a casa della famiglia Rindi, annunciandosi come commissario di P.S. si è fatto aprire la porta e ha chiesto a Rindi di seguirlo perché indiziato di omicidio.
13 Il padre Emilio, nato a Pisa il 30 giugno 1858, operaio tipografo è stato un attivo militante internazionalista nelle Pisa post-unitaria. Cfr. M. Bacchiet, Malfattori e birrri nel fosco fin del secolo morente. Pisa 1872-1900, Ghezzano, BFS edizioni, 2023, pp. 86-88.
14 ASPi, Tribunale di Pisa, Corte d’Assise, aa. 1922-1946, Carosi Alessandro … [et al.], Procura generale di Firenze, Rinvio a giudizio …, cit.
15 ASPi, Tribunale di Pisa, Corte d’Assise, a. 1922 e sgg., Carosi Alessandro … [et al.], Comando della Legione territoriale dei carabinieri di Livorno, Compagnia di Pisa, Verbale della denuncia di Bruno Santini … [et al.] in ordine all’omicidio volontario in persona Rindi Ugo, Pisa, 10 aprile 1924.
16 Alessandro Carosi nato a Roma il 9 febbraio 1899 da Emilio e Pia Antilli, commerciante, arrestato l’11 aprile 1924. Cfr. L’arresto d’un sindaco fascista per l’uccisione del tipografo pisano, «Il Corriere della sera», 12 aprile 1924.
17 ASPi, Tribunale di Pisa, Corte d’Assise, aa. 1922-1946, Carosi Alessandro … [et al.], Procura generale di Firenze, Rinvio a giudizio …, cit.
18 M. Palla, I fascisti toscani, in Storia d’Italia. Le regioni dall’Unità a oggi. La Toscana, Torino, Einaudi, 1986, pp. 473.
Antonio Sanguigni nato a Pisa il 12 febbraio 1896 da Giuseppe e Assunta Del Rosso, residente a Vecchiano, possidente, detenuto dal 23 aprile 1924. Sanguigni verrà poi «giustiziato» dai partigiani nella notte tra il 4 e 5 agosto 1944 in località Faeta.
19 Ranieri Cola nato a Vecchiano il 18 maggio 1899 da Luigi e Teresa Pardi, terrazziere, detenuto da l’11 giugno al 22 ottobre 1924.
20 Giuseppe Del Pellegrino nato a Vecchiano il 16 settembre 1900 da Amadio e Zoraide Bartelloni, orticultore, detenuto da l’11 giugno al 22 ottobre 1924.
21 Giuseppe Malmusi nato a Modena il 21 maggio 1897 da Giuseppe e Margherita Malmusi, studente, arrestato il 21 luglio 1924.
22 Francesco Adami nato a San Paolo in Brasile il 7 settembre 1893 da Pio e Maddalena Stefani, residente a Pisa, studente, detenuto dal 19 aprile 1924. Adami durante gli anni del fascismo continuerà la propria militanza, dopo la caduta del fascismo sarà tra i fondatori del Fascio repubblicano. Nominato il 1° ottobre 1943 Prefetto di Pisa, carica che mantiene fino alla fine del mese, seguirà poi Buffarini Guidi al nord. La sua nomina a Prefetto è contraddistinta da continui arresti di molti antifascisti e una gestione dell’ordine pubblico violenta e arrogante.
23 Filippo Morghen nato a Castellina Marittima il 22 febbraio 1882 da Antonio e Margherita Werner-Debeauvert, residente a Pisa, avvocato, arrestato e detenuto dal 19 aprile al 24 ottobre 1924.
24 Girolamo Grimaldi nato a Livorno il 27 luglio 1888 da Ernesto e Argia Cappelli, capostazione ferroviario, residente a San Giuliano Terme, detenuto dal 19 aprile 1924.
25 Giuseppe Biscioni nato a Calci il 3 marzo 1900 da Gino e Marianna Malanima, studente, detenuto dal 21 aprile 1924. Biscioni la sera dell’8 aprile ha l’incarico di guidare una seconda squadra verso Porta Nuova alla ricerca della famiglia Bucchioni, ben noti esponenti antifascisti e libertari della zona. Trovati a casa il padre Ferruccio e i figli, Azelio e Libertaria, non passa a vie di fatto solo perché i membri della sua squadra si rifiutano di eseguire l’ordine di uccidere i malcapitati. ASPi, Tribunale di Pisa, Corte d’Assise, aa. 1922-1946, Carosi Alessandro … [et al.], Procura generale di Firenze, Rinvio a giudizio …, cit.
26 Ovidio Chelini verrà arrestato a fine aprile del 1924 anche per un altro tentativo di omicidio nei confronti di Alfredo Gemignani, antifascista, ferito a colpi di rivoltella la sera del 23 marzo. Cfr. Un altro delitto scoperto presso Pisa, «L’Avanti!», 1° maggio 1924.
27 Per la cronaca si v. i nn. del «Messaggero toscano» del 10 e 23 aprile e 3 maggio 1924. Inoltre gli art. Nuovi particolari sui fatti di Pisa, «L’Avanti!», 25 aprile 1924 e Rivelazioni sui misfatti di Pisa. Il Rindi ucciso con due pugnalate, «L’Avanti!», 1° maggio 1924.
28 La sottoscrizione raccolse nelle settimane successive una quota considerevole, circa undicimila lire, poi venne bloccata su pressione del commissario straordinario Freddi timoroso che questo gesto di solidarietà si tramutasse in un affronto al potere locale del fascio. Venne ripresa in autunno raggiungendo le dodicimila lire per poi essere immediatamente chiusa. 29 Si v. «Il Messaggero toscano», nn. del 30 aprile, 10 giugno e 29 ottobre 1924.
30 ASPi, Tribunale di Pisa, Corte d’Assise, aa. 1922-1946, Carosi Alessandro … [et al.], Legione territoriale dei Carabinieri reali di Livorno, Compagnia di Pisa, Dichiarazione resa da Rindi Lavinia in merito all’uccisione del proprio fratello Ugo, Pisa, 10 aprile 1924.
31 Il caso Rindi mette in luce una radice leggermente diversa sulla natura delle divisioni tra i fascisti in città, di genere più personale e legata strettamente al controllo del potere, rispetto alla narrazione fino ad ora accreditata sul piano storiografico e cioè di un dissidio politico nato tra la componente, più in linea con alcuni dei valori originari del primo squadrismo, radicale, ancorato agli ideali dell’interventismo e del mito della guerra nazionale, e quella di origine agraria, con una matrice nel conservatorismo antidemocratico delle classi medie della provincia e dichiaratamente più violento. Emerge dalle biografie personali dei protagonisti, in gran parte di estrazione piccolo borghese, un «ceto» e una «generazione», con un profilo psicologico e antropologico di uomini che aspirano ad un benessere e ad un prestigio che credono acquisito di diritto con la partecipazione alla guerra e bramano un potere rivendicato manu militari attraverso un breve periodo di stragi e baldoria. Va ricordato che il problema della violenza dello squadrismo pisano, spesso espressione di una rabbia sorda e furiosa, che si mantiene anche dopo gli anni caldi del 1921-’22, è un tema che viene dibattuto anche nel 5° congresso provinciale del PNF del dicembre 1923, che approva una risoluzione di condanna dei continui abusi, soprattutto nel capoluogo, esercitati da squadre provenienti anche da altre località. La risoluzione afferma: «Se gli atti commessi nella giurisdizione del fascio pisano da fascisti appartenenti a qualunque fascio, saranno considerati reato, il direttorio denuncerà all’autorità competente i fautori assumendone piena e completa responsabilità» («Il Messaggero toscano», 15 dicembre 1923).
32 E. Ragionieri, Il partito fascista (appunti per una ricerca), in La Toscana nel regime fascista (1922-1939), t. 1, Firenze, L.S. Olschki, 1971, p. 68.
33 «Il Messaggero toscano», 30 agosto 1924.
34 L’episodio è ricordato da Piero Zerboglio, figlio di Adolfo. Il capitano degli alpini, forse lo stesso Santini, si presenta agli astanti «camerati» affermando che non avrebbe permesso a nessuno di entrare nello studio di Zerboglio, padre di un eroe della Prima guerra mondiale. Infatti il figlio Enzo era caduto combattendo valorosamente alla fine dell’ottobre del 1918 e per questo era stato decorato con la medaglia d’oro al valore. Cfr. Biblioteca F. Serantini, sez. Archivio, P. Zerboglio, [Memorie familiari], pro manuscripto.
35 ASPi, Tribunale di Pisa, Corte d’Assise, aa. 1922-1946, Carosi Alessandro … [et al.], Procura generale di Firenze, Rinvio a giudizio …, cit.
36 Cfr. Conflitto tra fascisti a Pisa, «Il Popolo», 20 settembre 1924. Fiaschi verrà poi condannato a 5 anni e 10 mesi di carcere, Giudici, Giudizi e Giudicati, «Il Ponte di Pisa», 5-6 settembre 1925.
37 Cfr. La fine del processo per l’assassinio del tipografo Rindi. Tutti gli imputati assolti, «La Stampa», 27 settembre 1925.
38 Cfr. G. Ghislanzoni, La doppia vita dell’ex squadrista Carosi, «Corriere dell’informazione», 1-2 febbraio 1965.
Tra i numerosi articoli si v. ad esempio quelli pubblicati dal quotidiano «La Stampa» di Torino: Scoperto dopo la morte l’uccisore di due socialisti vissuto sotto falso nome a Roma, e 39 L’ex squadrista ricercato per due omicidi aveva anche ucciso e bruciato l’amante, «La Stampa», Torino, 31 gennaio e 2 febbraio 1965. Cfr. anche Chi ha aiutato il fascista pluriomicida?, «L’Unità», 1° febbraio 1965.
40 Cfr. P. Pezzino, Anatomia di un massacro. Controversia sopra una strage tedesca, Bologna, Il mulino, 1997, ad indicem.
41 Senato della Repubblica, IV Legislatura, 296a seduta pubblica, Resoconto stenografico, venerdì 14 maggio 1965, pp. 15594-15598.

Articolo pubblicato nell’aprile 2024.




Il contributo di Edoardo Lombardi alla ricerca storica

Il 4 aprile sarà il trentesimo compleanno di Edoardo Lombardi. Vogliamo ricordarlo come lo abbiamo conosciuto: curioso, pieno di interessi, di ricerche da compiere e da progettare. Per questo motivo, riproponiamo l’articolo “In circostanze mai chiarite”, da lui pubblicato su TN il 29 Agosto 2022, con l’introduzione di Luca Cappellini. 

Introduzione (di Luca Cappellini)

Quando si è palesata l’opportunità di introdurre il lavoro di ricerca di Edoardo Lombardi su Toscana Novecento mi sono immediatamente proposto per svolgere questo compito. Edoardo era un caro amico prima che uno stimatissimo collega, e un grande esempio di acume, intraprendenza e competenza. Il compito che mi viene qui richiesto risulta perciò particolarmente semplice, poiché la passione e il lavoro di Edoardo sono da sempre stati assolutamente evidenti, e sebbene riassumere in poche righe ciò che per lui era un minuzioso lavoro quotidiano sia sempre in qualche misura opera indegna, in questo caso evidenziarne i notevoli pregi scientifici è davvero stato semplice e gratificante.
Come ricercatore Edoardo ha continuato a coltivare la sua prima grande passione, maturata durante gli anni universitari, ovvero gli studi germanici. In particolare la sua attenzione era andata progressivamente soffermandosi sulla DDR (Deutsche Demokratische Republik), la cui breve ma densa storia nazionale, a cavallo tra la fine del secondo conflitto mondiale e i prodromi della Guerra Fredda, ha costituito il fulcro della sua tesi di laurea magistrale, poi subito rimodellata per diventare la prima pubblicazione di Edoardo: Uno stato senza nazione: l’elaborazione del passato nella Germania comunista (1945-1953). In questa monografia egli affronta la spinosa questione della creazione ad hoc della storia e della memoria storica nella Germania Est: tramite numerosi fonti primarie – in special modo lo studio di quotidiani come «Neues Deutschland», – e una nutrita bibliografia, Edoardo ricostruisce minuziosamente il difficile tentativo del regime comunista tedesco di forgiare a tavolino un’identità pubblica sincretica.
Accanto alla sua longeva passione per la storia tedesca, Edoardo aveva sviluppato e tradotto nel campo della ricerca storica un altro suo interesse di lungo corso (per altro condiviso col sottoscritto): il gioco di ruolo e i videogiochi. Al culmine di una serie di riflessioni e collaborazioni con AIPH – Associazione italiana di Public History, Edoardo ha curato insieme ad Igor Pizzirusso un numero della rivista «Farestoria» dell’IsrPt: “E’ in gioco la storia. Giocare il passato nel tempo presente”. Il pionieristico obiettivo era quello di portare al centro della discussione della rivista uno dei temi principali nella public history, ovvero la divulgazione storica attraverso il medium ludico.

In ultimo, ma non per importanza, Edoardo aveva approfondito anche temi fondamentali della Resistenza in Toscana, in particolare alcune controversie sulla morte di Silvano Fedi. Dopo un attento studio sui documenti militari negli archivi tedeschi di Friburgo, Edoardo aveva infine proposto le sue tesi nell’articolo “In circostanze mai chiarite”, offrendo nuovi importanti stimoli di riflessione sul tema.

 

Edoardo Lombardi – “In circostanze mai chiarite” – I documenti tedeschi e nuovi appunti sull’uccisione di Silvano Fedi 

Silvano Fedi è con ogni probabilità il partigiano più noto e discusso dalla letteratura storica locale, nonché uno dei personaggi di maggiore spicco nella memoria collettiva della città di Pistoia. Il suo riconoscimento pubblico si ebbe nell’immediato dopoguerra, prima con il conferimento della medaglia d’Argento al Valor Militare, poi con l’intitolazione di un istituto scolastico, di un’associazione sportiva, infine di una piscina e di un corso centrale. Negli ultimi anni, un film (Pistoia 1944. Una storia partigiana) e uno spettacolo teatrale (Una vita per un’idea. La storia di Silvano Fedi) hanno raccontato i suoi ultimi mesi di vita e il suo impegno nella Liberazione. A poca distanza, il riconoscimento del titolo di cittadino illustre, disposto dal consiglio comunale di Pistoia nel 2020, e la recente costruzione di una tomba monumentale (2022) hanno riacceso l’interesse generale per sua persona.

Allo stesso tempo, attorno a Silvano Fedi si è sedimentata una sorta di aura mitica, alla quale ha contribuito la ricostruzione storica e memoriale basata sulle circostanze «mai chiarite» della sua uccisione. Queste ultime, ad oggi, possono essere riassunte come segue: più o meno alle 14:00 del 29 luglio 1944, in località Montechiaro (tra Serravalle e Pistoia) le Squadre “Franche” comandate da Fedi furono coinvolte in uno scontro a fuoco da ingenti forze del Pionier-Bataillon 60, un reparto del Genio che dipendeva dal vicino comando del 14. Panzerkorps (localizzato nei pressi di Marliana). I tedeschi uccisero Fedi e altri due membri dello Stato maggiore delle Squadre, uno dei quali venne fatto prigioniero e giustiziato in un secondo momento. Da qui in poi hanno inizio i problemi.

Per molti tra i partigiani e i civili testimoni di quei fatti e gli studiosi che si interessarono alla vicenda nel dopoguerra, quello tra le unità di Silvano Fedi e i tedeschi non fu un incontro casuale, bensì frutto di una delazione; nacque così la teoria di un vero e proprio «agguato», congegnato ai danni della formazione partigiana e del suo comandante. L’idea di una “soffiata” ai danni di Fedi è stata, a un tempo, attribuita a un gruppo di ladri che si erano finti membri della sua formazione oppure, secondo un’altra ipotesi, a «persone che contavano, probabilmente interne alla stessa Resistenza [pistoiese]», che avevano creduto di potersi sbarazzare di «un personaggio scomodo [e] protagonista indiscusso della lotta partigiana». La letteratura storica pistoiese ha avallato ognuna di queste possibili teorie nel corso degli anni e con esse le numerose – e spesso non contestualizzate coi metodi propri della storia orale – testimonianze oculari di chi era presente il giorno in cui Fedi veniva ucciso dai tedeschi. I rapporti che egli aveva intrattenuto con una figura di grande ambiguità come Licio Gelli, il cui peso nella storia italiana successiva ha contribuito a far crescere l’alone di mistero, hanno fatto il resto. Le numerose ipotesi e la relativa sovrapproduzione di materiale secondario hanno così finito col precludere una qualsiasi ricostruzione efficace e scientificamente corretta dell’uccisione del partigiano pistoiese.

Una lacuna particolarmente sensibile in questo quadro generale è quella della documentazione tedesca, che fino a ora è stata utilizzata in modo molto scarno o approssimativo. Un modo per rimettere “in ordine” l’intera vicenda potrebbe essere proprio quello di ripensare l’attacco tedesco a Montechiaro prendendo in esame uno spettro più ampio di fonti e provando a ricostruire i fatti dall’inizio, tenendo come punti fermi genealogia e contesto degli eventi. La domanda iniziale e centrale che ci dobbiamo porre è la seguente: può una delazione essere l’unica ragione logica in grado di spiegare la presenza di un battaglione tedesco a Montechiaro il 29 luglio 1944?

Il 25 luglio la formazione di Fedi aveva iniziato lo spostamento delle Squadre Franche verso il Montalbano per compiere azioni di disturbo e sabotaggio contro le truppe che si stavano ritirando sotto la pressione alleata. Il piano era stato concordato il giorno precedente nel corso di un incontro con esponenti del CLN locale, in particolar modo del Partito comunista italiano e del Partito d’Azione. Dunque le premesse sono quelle di una operazione di guerriglia contro l’occupante, in linea con quanto stava accadendo nelle «aree vicine al fronte», dove i tedeschi avevano notato un incremento sensibile dell’attività partigiana. Questa situazione, nel corso dell’estate, aveva già spinto i comandi militari a dare il via a tre grosse operazioni «contro le bande» (nomi in codice «Wallenstein») sull’Appennino tra la Garfagnana e il Modenese e ad intensificare la pressione sulle retrovie con tutti i reparti della Wehrmacht e della polizia disponibili. La prima ipotesi che sembra logico prendere in considerazione è perciò quella di un rastrellamento preventivo, i presupposti per il quale, anche con l’utilizzo di numeri non indifferenti di uomini da parte dei Comandi superiori, ci sarebbero tutti: il fronte arretrava rapidamente e l’attività partigiana nei pressi della Linea Gotica stava aumentando; c’è poi da tenere conto del dilagare della cosiddetta «psicosi delle bande», che da sola stava mettendo in seria difficoltà i nervi delle truppe tedesche, ossessionate e convinte che «alle [loro] spalle ci fosse un esercito partigiano» e di essere costantemente «in trappola. Come a Stalingrado». A questo proposito, va però aggiunto che la lotta antipartigiana in Italia può essere solo parzialmente ricondotta a un fenomeno di isteria da parte nei confronti della Resistenza in armi. La «psicosi delle bande» è uno dei tanti fattori che possono contribuire a contestualizzare la vicenda e, nel nostro caso, non è comunque l’elemento predominante.

La ricerca sulle mappe del fondo «RH 2-KART/OKH» del Bundesarchiv-Militärarchiv di Friburgo ha finora portato alla luce un solo nuovo elemento, ancorché molto significativo. A fine luglio, un’intera divisione meccanizzata tedesca (la 90. Panzer-Grenadier-Division) aveva ricevuto l’ordine di trasferirsi dal fronte alle retrovie, per l’esattezza nei pressi di Modena. L’intero reparto raggiunse la Valdinievole proprio la mattina del 29 luglio 1944, per poi attraversare il Serravalle e cominciare risalire l’Appennino nelle ore successive. Al momento non è possibile stabilire se qualche reparto della divisione abbia partecipato o meno ai combattimenti di Montechiaro, ma la sua presenza servirebbe a spiegare una maggiore attenzione dei comandi militari per le aree limitrofe.

Va poi preso in esame un altro dettaglio, forse tra i più esacerbati da parte delle ricostruzioni sull’uccisione di Fedi proposte finora. Nel dopoguerra, in molte delle testimonianze rilasciate dagli ex-partigiani pistoiesi si può riscontrare un certo accordo sul fatto che quella dei tedeschi fosse stata un’imboscata preparata in modo tale da colpire il nucleo delle Squadre. Questa osservazione però non è mai stata vagliata criticamente, sebbene ci sia tanto da dire su di essa, a partire dal fatto che chiunque venga colto di sorpresa in un conflitto a fuoco abbia quasi sempre la percezione di essere stato messo in trappola. Né si è tentato di elaborare ulteriormente uno dei bollettini dell’Armeeoberkommando 14, già noto, nel quale si legge che il 29 luglio furono le truppe tedesche a subire un attacco dai partigiani e non il contrario. Cosa non difficile da credere, se si pensa che nelle relazioni delle Squadre Franche si fa menzione di un altro conflitto a fuoco, avvenuto quella stessa mattina e che ebbe come protagonista una delle pattuglie poste da Fedi a copertura del centro della formazione. Il comandante partigiano non era stato messo a conoscenza di questa prima schermaglia, ma se assumiamo che questo scontro abbia effettivamente avuto luogo (fatto del quale ci danno conferma sia la relazione delle Squadre Franche che i documenti tedeschi), ciò potrebbe anche suggerire un’altra spiegazione ai fatti di quel giorno. In breve, l’incontro tra i pionieri e la formazione partigiana potrebbe essere avvenuto a seguito della battaglia mattutina, la quale avrebbe poi spinto le unità del Pi. Batl. 60 a indagare più a fondo nelle zone a sud di Pistoia. Un altro dettaglio a questo proposito è costituito dalle operazioni alle quali era stata originariamente destinata l’unità responsabile dell’uccisione di Fedi: il 29 luglio 1944, infatti, i pionieri del 14. Panzerkorps dovevano minare un tunnel ferroviario nei pressi di Serravalle insieme a una unità del Genio ferroviario, la Eisenbahn-Pionier-Kompanie 84. In questo documento non si parla né di rastrellare una precisa area, né tantomeno di dare la caccia a una specifica squadra partigiana, il che alimenta l’ipotesi (pur senza confermarla) di un incontro avvenuto per caso o a seguito di un attacco della pattuglia di Fedi a una delle due formazioni nemiche (se non a entrambe).

Le testimonianze di chi era presente quel giorno a Montechiaro concordano poi su un altro dettaglio, ovvero che i tedeschi sapessero «senz’altro dove andare» e che quindi avessero puntato direttamente sul luogo dove si trovava il grosso della formazione partigiana. Tuttavia, anche questo racconto dovrebbe essere analizzato in maniera più critica alla luce di due considerazioni: la prima è che le truppe di occupazione, soprattutto i reparti del Genio, conoscevano e avevano cartografato la zona periferica di Pistoia da circa un anno (lo stesso Pionier-Bataillon 60 era già stato di stanza a Pistoia nell’autunno del 1943, alle dipendenze della 44. Infanterie-Division); in secondo luogo, non si è mai presa in esame la possibilità che la zona tra Vinacciano e Serravalle potesse avere una qualche importanza strategica per i tedeschi. A questo proposito, vale la pena ricordare la presenza della tratta ferroviaria che da Pistoia conduce ancora oggi a Montecatini e il fatto che le medesime unità della Eisenbahn-Pi. Kp. 84 avevano sondato più volte quell’area nei mesi di giugno e luglio. Quello che è certo, dunque, è che nell’estate del 1944 quella zona possedeva ancora una grande importanza per le forze armate dell’occupante.

Alcuni appunti finali. Il giorno successivo all’uccisione di Fedi, il 30 luglio 1944, il Pionier-Bataillon 60 venne inviato a rastrellare tutto il territorio compreso tra Vinacciano e la zona a sud di Prato. Il risultato complessivo di questa azione fu di settanta uomini catturati, tra i quali «otto noti capibanda» e, nel solo Pratese, di 146 persone. Al momento non è dato sapere se questo tipo di operazione fosse o meno una risposta ai fatti di Montechiaro e, più precisamente, al rinvenimento dei famosi «documenti importanti» sul corpo di Silvano Fedi. Tuttavia, come si è avuto modo di leggere, l’utilizzo di un ventaglio più largo di fonti fa già assumere alle «circostanze mai chiarite» un significato diverso: unite alle testimonianze orali del periodo, che dovranno essere esaminate di nuovo e con criteri diversi, e alla letteratura che finora è stata prodotta su Fedi e sulle sue Squadre Franche, le carte tedesche possono apportare un contributo nuovo e determinante alla ricostruzione di un quadro storicamente corretto delle vicende del 29 luglio 1944.

Note: Sono stati consultati i seguenti fondi: Aisrpt, Fondo Relazioni, Relazione delle Squadre Franche a carattere patriottico, Gruppo “Silvano”; Aisrt, microfilm (US-NARA) T-312, Roll 491, f. 8.084.451, Armeeoberkommando 14, Pi. Tagesmeldungen 1 Jul.-30 Sep. 1944; BA-MA, RH 2/663, fo. 0128, Oberbefehlschaber Südwest, bollettini mattinali dell’Ufficio operazioni Ia e bollettini dell’Ufficio informazioni Ic, giugno 1944; BA-MA, RH 2/9693 K, Morgenmeldungen, Lagerkarte (mappa) del 29 luglio 1944; BA-MA, RH 24-14/153: Armee-Pionierführer (A.Pi.Fü.). Pionier-Tagesmeldungen, messaggi e bollettini delle truppe del Genio, 1° luglio-30 settembre 1944.

Edoardo Lombardi (1994-2023) è stato dottore magistrale in Scienze storiche presso l’Università degli Studi di Firenze. Dal 2018 ha collaborato con l’Istituto storico della Resistenza e dell’Età contemporanea di Pistoia (Isrpt), per il quale ha svolto attività di ricerca e di didattica sul territorio. Nel 2020 è entrato a far parte della redazione del periodico dell’istituto, «Farestoria. Società e storia pubblica». I suoi interessi di studio hanno riguardato soprattutto la storia culturale della Germania e dell’Italia in Età contemporanea. Per conto dell’Isrpt ha svolto una ricerca sull’occupazione tedesca di Pistoia. Tra i suoi lavori, segnaliamo “Uno stato senza nazione. L’elaborazione del passato nella Germania comunista” (Unicopli, 2022). 

Luca Cappellini è laureato in Scienze Storiche all’Università di Firenze ed è studioso dell’età contemporanea. È docente presso le scuole superiori Mantellate di Pistoia. Fa parte dell’Istituto Storico della Resistenza di Pistoia, dove è responsabile della biblioteca e con cui collabora come ricercatore e divulgatore. Ha pubblicato “Genova 2001. Una memoria multimediale” in «Farestoria», III, n.1, 2021; ha pubblicato con Stefano Bartolini e Francesco Cutolo “Public History: laboratori partecipativi e memoria pubblica”, in «Clionet», Vol. VII, (2023).

Articolo pubblicato nell’aprile 2024.