Giuseppina Pillitteri Garemi, detta Unica (1909-2001)

Giuseppina Pillitteri

Nasce a Genova nel 1909 da una famiglia di tradizioni anarchiche e sovversive. Antifascista della prima ora, insieme al marito emigra per motivi di lavoro e politici in Francia, dove risiede fino al 1943. Rimasta vedova, prosegue la sua attività politica in clandestinità frequentando gli ambienti degli esuli antifascisti nell’Île-de-France e iscrivendosi nel 1941 al PCd’I. Conosce Ideale Guelfi, che diverrà suo marito, anch’egli comunista, combattente volontario in Spagna, partigiano e primo sindaco di Cascina dopo la Liberazione.

Il 25 luglio 1943, rientrata in Italia, rischia di essere fucilata a Genova durante una manifestazione antifascista. Nel settembre dello stesso anno arriva a Pisa, dove partecipa attivamente alle attività cospirative e alla nascita della Resistenza. Con il nome di battaglia “Unica”, lavora soprattutto come staffetta, tenendo i contatti con la direzione del PCI di Firenze. Trasporta e trasmette materiali di propaganda, stampa e direttive in quasi tutta la Toscana, rischiando più volte la vita nel corso di questa attività.

Nei primi mesi del 1944 segue il gruppo dei primi partigiani che salgono sul Monte Pisano per organizzare azioni di disturbo. Funge da dattilografa, segretaria e anche infermiera del gruppo, continuando la sua attività di staffetta e tenendo i collegamenti con il CLN. È l’unica donna di Pisa stabilmente in formazione con la 23a Brigata Garibaldi, distaccamento “Nevilio Casarosa”.

Ai primi di agosto del 1944, presso l’accampamento del Monte Pruno (sopra Calci), viene sorpresa, insieme a un nutrito gruppo di partigiani della Casarosa, da una compagnia tedesca guidata da una spia fascista; nel combattimento trovano la morte due partigiani ed il resto del gruppo è costretto a fuggire e riparare sul versante lucchese del monte. La mattina del 2 settembre entra a Pisa con i compagni del suo distaccamento andando incontro alle truppe alleate.

Giuseppina Pillitteri

Dopo la Liberazione prosegue la sua attività nei Gruppi di difesa della donna, di cui è stata una delle responsabili in clandestinità. Riconosciuta patriota, è tra le fondatrici dell’UDI pisana e dal 1946 entra nella segreteria provinciale del PCI con l’incarico di responsabile della Commissione femminile della federazione. Muore a Pisa nel 2001.

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Testimonianza raccolta da Annamaria Galoppini in Donne e resistenza. Atti del convegno, Pisa, 19 giugno 1978, Pisa, Tipografia comunale, 1979, pp. 121-4; riedita in Laura Fantone, Ippolita Franciosi (a cura di), (R)esistenze. Il passaggio della staffetta, Napoli, Scriptaweb, 2009, pp. 27-9.

II 9 settembre 1943 sono venuta a Pisa dove ho cominciato il lavoro di staffetta da una parte all’altra. In questo periodo ho avuto due avventure eccezionali: io avevo il compito di preparare il materiale dattilografato che veniva poi distribuito, nelle chiese e nelle cassette delle lettere. Sono stata l’unica donna di Pisa che è andata stabilmente in formazione (ero con la 23a Brigata Garibaldi, formazione Nevilio Casarosa). In quel momento mi chiesero da Firenze di andare là a portare questa stampa. Avevo contatti con la direzione del PCI a Firenze e trasmettevo la stampa e portavo le direttive a quasi tutta la Toscana. La tipografia si trovava a Empoli, dove passavo le nottate sotto i bombardamenti alla stazione. Da Firenze andavo poi a Empoli presso la tipografia. Per arrivare a questa tipografia dovevo passare davanti alla caserma della Milizia perché non c’era modo di fare altrimenti. Riprendevo poi la stampa e la portavo a Firenze da dove veniva distribuita ad Arezzo, a Pisa e in altre località. Mi trovai alla stazione di Firenze quando i gappisti uccisero Gobbi,[1] un centurione della milizia repubblichina. Quella volta arrivai a Firenze con due valigie piene di materiale, che invece dovevo far credere leggere perché c’era il pericolo che le prendessero per merce a mercato nero. Rimasi bloccata in stazione e si sparse la voce dell’uccisione di Gobbi. Alla porta c’erano i fascisti, i tedeschi, le guardie e i ferrovieri – i quali mi hanno aiutato tanto. Nella sala d’aspetto venivano a guardare cosa portavamo nelle borse, in tutte le maniere si doveva passare alla visita dei bagagli, non si poteva andare al caffè perché non c’era la porta d’uscita e anche lì venivano a guardare le valigie. Mi sono allora recata all’uscita, la gente passava, ho cominciato ad allacciarmi le scarpe, a tirare su le calze, tanto per guadagnar tempo. Ad un certo punto un ferroviere mi ha detto di passare, viste le difficoltà in cui mi trovavo di proposito. Pian piano le guardie si sono dileguate e sono passata, come si suol dire, per il rotto della cuffia. In quei momenti conviene abbandonare tutto e scappare, ma avevamo tanta preoccupazione perché per fare del materiale ci volevano soldi, tempo, elementi adatti, sicché il materiale per noi era prezioso e ci andava giù male buttarlo via. Doveva arrivare a destinazione con assoluta puntualità perché altrimenti si metteva a repentaglio la vita della persona che doveva dare il cambio. Infine, sono riuscita a passare, ma sempre con la paura, strada facendo, che mi fermassero. […] Un’altra volta, sempre alla stazione di Firenze, si aprì completamente il fagotto che avevo messo nel bagagliaio. Nell’andare a riprenderlo mi cascò tutto il materiale, il ferroviere se ne accorse, ma mi richiuse lui il pacco e mi lasciò andare. I ferrovieri mi hanno sempre aiutato, addirittura mi portavano i bagagli. […] Questa vita di postina l’ho fatta fino alla Liberazione di Pisa nel settembre 1944.




Francesca Rola (1915-2010)

Francesca Rola con i partigiani della formazione “Ulivi” (Archivio ISRA)

Appartenente a una famiglia di commercianti di Fossola, una frazione di Carrara, fin dall’avvento del regime si schiera nelle file dell’antifascismo aderendo al Partito comunista, costretto ad entrare in clandestinità. Quando anche a Carrara si costituiscono i “Gruppi di difesa della donna e per l’assistenza ai combattenti per la libertà”, creati a Milano nel novembre del 1943, vi aderisce subito. Il compito di questa organizzazione consiste nell’avvicinare le donne alla lotta di liberazione, portare volantini, stampa clandestina e tenere i collegamenti tra le varie formazioni partigiane. Ovviamente quest’attività espone molto le donne che vi aderiscono e Francesca subisce anche un arresto a Parma.

Dopo la scarcerazione continua la sua attività sia in città che “ai monti”, come è solita dire, diventando partigiana combattente della formazione garibaldina “Giuseppe Ulivi”; sarà anche insignita della Croce di guerra al valor militare.

Francesca Rola è tra le protagoniste di un “unicum” nella storia della Resistenza italiana, la rivolta dell’11 luglio 1944. Il 7 luglio il Comando tedesco di Carrara fa affiggere un bando in cui si ordina che entro la sera del 9 la città venga evacuata e la popolazione sia avviata verso Sala Baganza, in provincia di Parma. L’iniziativa risponde a una più complessa strategia, che intende “liberare” un’ampia fascia di territorio per facilitare il completamento della Linea Gotica recidendo ogni collegamento fra la popolazione e le bande.

I Gruppi di difesa della donna, di concerto con il CLN e i GAP, organizzano una protesta contro il bando di sfollamento. L’11 luglio centinaia di donne, armate di cartelli con scritto “Non abbandoneremo la città” e “Non vogliamo sfollare”, si recano davanti al comando tedesco cantando e protestando, con la conseguenza di far revocare l’ordine. Questo episodio, che si può considerare anche un esempio di resistenza civile, ha un valore centrale nella Resistenza apuana, perché infonde un nuovo slancio al movimento partigiano carrarese che nelle settimane successive si strutturerà in più ampie formazioni.

Francesca Rola

Nel 2013, a tre anni dalla sua morte, in Piazza delle Erbe a Carrara, luogo dal quale è partita la protesta delle donne del luglio 1944, è stato realizzato un grande murale che la ricorda.

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🟪Intervista a FRANCESCA ROLA, in L. Antonelli, “Voci dalla storia. Le donne della Resistenza in Toscana tra storie di vita e percorsi di emancipazione”, Pentalinea, 2006, pp. 423 e 426

Ho cominciato l’attività di staffetta subito, da quando poi ci buttarono giù la casa ancora meglio allora eravamo ancora più spinti. Una volta io e altre donne abbiamo anche portato via tre partigiani dall’opsedale, stavano andando le SS a prenderli, d’accordo con il dottore li abbiamo portati giù sulle spalle, meno male che c’era un piano solo. I tre partigiani erano Roberto Vatteroni, Pelliccia e Rosamunda di Massa.
[…] Qualcuno aveva paura, ma io gli ho detto: -Volete tenere i vostri negozi, venite con noi -. Eravamo in mezzo al fuoco, ma ci siamo riuscite, o si son presi paura oppure il Prefetto li avrà convinti, ma poi erano quelli della Wehrmacht, non erano quelli delle SS, se erano quelli delle SS non ti salvavi.
Avevano tutti le armi, c’erano i cannoni, addirittura io mi son messa davanti a un cannone: -Sparate pure se volete sparare -.
Una mia amica mi diceva; – Francesca vieni via che ti ammazzano -. -Non importa voi andate avanti intanto, vediamo se son buoni di sparare -.

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🟧Intervista realizzata da Pina Menconi e Isa Zanzanaini il 2 maggio 1994, in Comitato provinciale per le celebrazioni del cinquantenario della Resistenza – Commissione provinciale pari opportunità, A Piazza delle Erbe! L’amore, la forza, il coraggio delle donne di Massa-Carrara, Massa-Carrara, Amministrazione provinciale di Massa Carrara, 1996, pp. 117-8.

Murales a Carrara dedicato a Francesca Rola

Io coi partigiani c’ero entrata perché c’era mio fratello, mio cognato, quell’altro mio fratello; eravamo in diversi noi su, eh […]. E poi il forno di mio fratello era a disposizione dei partigiani; c’era un buco nel forno di mio fratello, e dentro a quel buco c’era la macchina ciclostile, c’erano le munizioni, lì c’era tutto… son andati anche a bombardare il forno di mia cognata, le han dato degli schiaffi a mia cognata, poverina, che ha abortito, era di sette mesi e ha perso il bambino; dov’è suo marito, dov’è suo marito; e lui, con Giosué Tanzi, eran rinchiusi dietro a tutte quelle macchine lì: se combinazione li vedevano, buttavano all’aria tutta la casa, tutto quel palazzo lì lo buttavano all’aria. Invece han buttato due bombette, piccole, han rotto i vetri, hanno spaventato un po’ la gente e basta. Noi non c’eravamo, perché di notte, capisci, loro venivano in giù a vedere, a far le perquisizioni nelle case. Io prima stavo nel Viale, poi me l’hanno buttata giù la casa, perché han detto che era la casa dei partigiani, e l’han buttata a terra completamente, rasa al suolo, la mia e quella dei Pisani, tutti e due. Allora sono andata a casa di mio fratello, quello che aveva il forno, però ero ai monti, più ai monti che giù.

Io ero nei Gruppi di difesa della donna: c’era la Bedini, la Nella, c’era la Ilva, la Pelliccia, sua sorella, c’era sua cognata, poi c’era sua zia; poi c’era la Gatti, c’era la Elena. Le più in vista, diciamo, erano loro. Poi quando ci fu la mattina delle donne del 7 luglio, ce n’erano tante, perché allora siamo andate a prenderle tutte; le vai a prendere tutte a casa, vengono fuori, escono, no, fuori: se non vuoi andar via, se non vuoi fare evacuare Carrara, porta via tutti: venite un po’ fuori, uscite fuori, no! Noi eravamo presenti alle riunioni per quello che dovevamo fare, presentare; più di tutti è stata la Ilva, il più l’ha fatto lei, ha fatto tanto, tantissimo; lei, e poi c’era la Carla, sua sorella, che ha fatto tanto anche lei. La Renata Bacciola, la Dina, quella lì della Fabbrica, la Elena, la Lavagnini… insomma, praticamente, poi eravamo tutte assieme, chi aveva più responsabilità e chi aveva meno responsabilità, capito, però eravamo tutte una mischia, diciamo, praticamente eravamo tutte nella mischia. A organizzare i gruppi eravamo una trentina, una ventina, una trentina c’eravamo senz’altro. C’erano anche repubblicane, democristiane, eravamo tutte assieme. Le più coraggiose quel giorno lì si presentavano davanti al comando tedesco, oppure anche davanti ai carri armati: io per esempio, ho una fotografia che non riesco a trovare davanti a un carro armato, che la Renata, povera donna, povera Renata, la sento ancora: “O Franca, vieni via che ti sparano!” “E se mi sparano, in fondo sono una, se mai muoio io, o ragazze, ma siete sceme, bisogna farsi vedere d’aver paura? Io non ho paura, io sto ferma qui davanti: dimmi che sparano, provino a sparare – e intanto li guardavo loro, no? nel muso – provino a sparare, per vedere se son capaci di sparare”. E non ci si muoveva davanti a quel carro armato, che era vicino lì. Poi siamo andate in piazzetta, a buttare all’aria tutto perché venissero tutte via con noi; abbiamo fatto chiudere le scuole, abbiam fatto chiuder tutto, i negozi, tutto, perché abbiam detto: “Qui è il giorno che bisogna evacuare, bisogna andar via; se volete andar via… Se volete andar via state lì, se non volete andar via, venite con noi”. E son venuti con noi.

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🟩Francesca Rolla, staffetta partigiana e donna della rivolta di Piazza delle Erbe a Carrara – Intervista a Francesca Rolla (1915-2010) staffetta partigiana della Brigata Garibaldi “Gino Menconi”, formazione “Ulivi” e donna della rivolta di Piazza delle Erbe a Carrara, del 7 luglio 1944. Intervista a cura di Archivi della Resistenza, registrata il 30 dicembre 2009

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🟧Donne nella Resistenza, a Carrara – Frammento della IV puntata di ‘C’era una volta gente appassionata, viaggio nella Resistenza toscana’, un film di Luigi Faccini, produzione: Italia, 1986; con la collaborazione di Istituto Storico della Resistenza di Firenze, ANPI, Comuni di Piombino, Firenze, Carrara. Il film è suddiviso in quattro capitoli: La battaglia di Piombino, Firenze I e Firenze II, Carrara.

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🟥 Testimonianza di Giulia Galleni, allora quindicenne e anche lei staffetta, ha rotto un silenzio durato decenni, arricchendo inoltre la narrazione dei fatti di Carrara con ulteriori dettagli ed altri episodi accaduti nelle vicinanze (Credits: https://museonazionaleresistenza.it)



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Modesta Rossi (1914-1944)

Modesta Rossi

Nata a San Martino d’Ambra (Bucine) in provincia di Arezzo nel 1914, Modesta impara il mestiere di sarta. Nel 1935 sposa Dario Polletti, con cui ha cinque figli; la famiglia contadina abita in via Cornia, non lontano da Civitella della Chiana. Dopo l’8 settembre 1943 il marito entra a far parte della banda “Renzino”; anche Modesta aderisce alla formazione svolgendo mansioni di staffetta. Dopo la battaglia di Montaltuzzo, avvenuta il 23 giugno 1944, compie lunghi tragitti a piedi insieme alla cognata Assunta Polletti per ripristinare i collegamenti fra i componenti della formazione, ritiratisi nelle aree circostanti.

Lo scontro di Montaltuzzo e altre azioni compiute dalla banda diventano il pretesto per un grande rastrellamento operato dai tedeschi, sotto il comando della divisione corazzata “Hermann Göring”. L’operazione si deve infatti verosimilmente al più ampio obiettivo di “ripulire” dalla presenza partigiana un territorio divenuto, con la risalita del fronte, strategico nell’ottica di contrastare l’avanzata degli alleati e di garantire rifornimenti alle truppe. Il 29 giugno unità naziste compiono dunque una strage nella cittadina di Civitella della Chiana e nelle zone limitrofe (per un totale di 146 vittime), nella località Valle di Sopra (8 vittime) e a San Pancrazio di Bucine (58 vittime).

Nello stesso giorno l’azione si estende anche alla località di Cornia, riconosciuta come un punto d’appoggio della banda. Militi tedeschi e italiani giungono a Solaia, piccolo insediamento vicino alla casa di Modesta, dove si è recata per avvisare alcuni suoi famigliari del rastrellamento in corso; vogliono sapere dove sia il marito e avere indicazioni sui nascondigli dei partigiani. Dato che si rifiuta di dare qualsiasi tipo di informazione, viene uccisa insieme al figlio più piccolo (13 mesi); nei dintorni colpi d’arma da fuoco raggiungono altre quattro persone. I corpi delle vittime sono poi ritrovati in una capanna data alle fiamme.

Dopo la Liberazione sarà riconosciuta partigiana combattente e le sarà conferita la Medaglia d’oro al valor militare alla memoria.

Conferimento della medaglia d’oro

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🟪Memoria del partigiano Edoardo Succhielli, “Renzino”, comandante della formazione (in: Edoardo Succhielli, La Resistenza nei versanti tra l’Arno e la Chiana, Arezzo, Tip. Sociale, 1979, pp. 261-2. 

Un altro posto di rilievo meriterebbe Assuntina Polletti, cognata di Modesta, ed agli effetti della famiglia Polletti e della formazione Renzino sua assidua collaboratrice ed emula nei rischi e nel lavoro. Durante la battaglia di Montaltuzzo molti partigiani s’erano sbandati. Nella notte che seguì, furono Modesta ed Assuntina a camminare di più per riorganizzarli, dato che diversi erano passati da casa loro e vi avevano lasciato il prossimo recapito. Tale compito si riteneva più pericoloso per gli uomini in considerazione che pattuglie nemiche potevano essere in giro alla ricerca dei dispersi. Assuntina andò a rilevare Gesualdo Doganieri ed Edilio e Lionello Caldelli oltre la Sughera in un capanno di carbonai. Partì da sola in piena notte e da sola ricoprì quella distanza, che richiede parecchie ore di cammino a piedi senza spaventarsi all’abbaiare dei cani ed ai fremiti indecifrabili dei boschi nelle tenebre.

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🟧 Memoria del marito Dario Polletti (in: Dario Polletti, La lucida follia, in Edoardo Succhielli, La Resistenza nei versanti tra l’Arno e la Chiana, Arezzo, Tip. Sociale, 1979, p. 205)

I miei quattro bambini superstiti, appena i fascisti e le SS ebbero lasciato le casa di Solaia, si precipitarono giù per l’erta verso casa.

Non fu Giovanni il primo a darmi la notizia. Egli, che sentiva la responsabilità d’essere il più grande, era rimasto attardato per aiutare a scendere giù e sorreggere Gualtiero, che non aveva ancora compiuto i tre anni. Arrivarono per primi Mario e Silvano, sconvolti dal terrore, poveri piccoli.

“E la mamma?” – chiesi ansiosamente.

“Oh, babbo! Sono venuti gli uomini cattivi. Uno ha cavato un coltello e poi così… così… prima a Gloriano e poi alla mamma…” diceva Mario. Agitava il piccolo pugno chiuso come se realmente stringesse un coltello.

Allora corsi su con tutta la fretta che mi dava la trepidazione e più m’avvicinavo a Solaia più avvertivo la dura verità della tragedia. Vedevo alzarsi lassù una colonna di fumo e, quando fui più vicino l’odore acre dei cadaveri ch’andavano carbonizzandosi incominciò a offendere le mie narici. Appena giunto ansimante nella piazzuola, penetrai in una capanna invasa ancora dalle fiamme. Era da lì che proveniva quel fumo. Dentro respiravo a fatica. La visibilità era molto confusa; appena sufficiente a distinguere a terra i corpi umani ch’emanavano il fumo accecante e l’odore sgradevole.

Corsi difilato ad una pozza d’acqua, presi un secchio e con quello cercai di spegnere il fuoco, che lento e implacabile distruggeva le salme. Quando il fumo si fu un po’ dissolto, notai che un foro rosso segnava ogni proiettile penetrato nelle parti non ancora interamente combuste delle vittime, ch’erano sei ammucchiate una sull’altra. Poco discosto da loro c’era il corpo del piccolo Gloriano, accanto a quello di Modesta, che riconobbi dall’anello matrimoniale più che dagli squarci del pugnale, perché il fumo aveva imperversato e consumato.




Bruna Sandroni

Bruna Sandroni

Nata a Castel Focognano il 16 agosto 1926, da Francesco e Caterina Balestri, nubile, casalinga. Avvicinatasi al movimento partigiano per amore del suo compagno, Bruna divenne staffetta partigiana: impegnata in operazioni di rifornimento di beni di prima necessità, si spostava in bicicletta tra il Casentino e Arezzo. Sarà riconosciuta nel dopoguerra come partigiana combattente caduta della 23° Brigata Garibaldi “Pio Borri” dal 2 maggio fino al 15 giugno 1944. 

Proprio il 15 giugno 1944, infatti, in località “Corsalone”, nei pressi di Bibbiena, Bruna venne catturata dai fascisti della Guardia Nazionale Repubblicana, comandati dal famigerato Umberto Cerasi Abbatecola, maresciallo della 96ª legione. Trascinata dentro il capannone della Ferroviaria, dopo inenarrabili sevizie e torture la ragazza venne massacrata a colpi di pugnale per poi essere abbandonata esangue. 

Solo dopo un violento scontro verbale con il sottufficiale repubblichino, il parroco di Ortignano riuscì a recuperare i resti della staffetta Bruna; la sua salma venne condotta all’ospedale di Bibbiena dove il primario, il dottor Conti, fortemente vicino alla Resistenza, prima di riconsegnare il corpo alla famiglia e al parroco di Ortignano per la sepoltura, volle misericordiosamente ricomporre la salma.

Per l’assassinio di Bruna Sandroni la Corte d’Assise straordinaria di Arezzo condannò nel marzo 1945 Giuseppe Corso, Giuseppe Mistretta, Rinaldo Del Buono e Santi Innocenti rispettivamente a 17,15,10 e 8 anni di reclusione.

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🟧Don Silio Bidi, Le memorie di un parroco, “Trent’anni fa” Ciclostilato della parrocchia di Ortignano, Agosto 1974

“II 15 giugno presso il Corsalone viene barbaramente seviziata e trucidata la staffetta partigiana Bruna Sandroni della mia parrocchia. Ho un violento scontro verbale col fascista Abbatecola, tristemente noto nella zona, ma riesco a farmi riconsegnare la salma che si trovava all’ospedale di Bibbiena; sul collo, sulle spalle e sul petto era crivellata di pugnalate”.

Lapide in memoria dei caduti, Comune di Ortignano Raggiolo (AR), località Ortignano, chiesa dei santi Matteo e Margherita. Foto di Alessandro Bargellini (https://resistenzatoscana.org/monumenti/ortignano_raggiolo/lapide_dei_caduti/)

 




Laura Seghettini (1922-2017)

Laura Seghettini (particolare)

Nata nel 1922 a Pontremoli e rimasta orfana di madre in tenera età, cresce nella famiglia materna, insieme a nonni e zii; viene così educata all’antifascismo dagli adulti di casa, socialisti e comunisti. Laura ricorderà che nelle serate familiari anche i giovanissimi partecipano alle conversazioni con il solo ordine di non riferire all’esterno nulla di quanto si sia ascoltato.

Giovanissima le viene affidato talvolta l’incarico di portare ad alcuni compagni il giornale clandestino “L’Unità”, essendo più facile per lei, ragazza, passare inosservata. Il nonno e uno zio, Michele, imprenditori edili, pagano questa loro posizione ostile al regime con la disoccupazione. E quando lo zio sceglie di emigrare in Libia, Laura, che ha ormai ottenuto il diploma magistrale, lo accompagna e lavora negli uffici dell’azienda. Nel Paese africano ascolta i giudizi negativi sul fascismo, sulle atrocità commesse dagli italiani e le previsioni di una sconfitta nella guerra appena iniziata, vista l’inadeguatezza dell’esercito. Rientrata a Pontremoli, mentre riferisce queste considerazioni ad un amico in un prestigioso bar cittadino, le sue parole sono ascoltate da un milite fascista; è condotta negli uffici del partito dove per punizione le viene somministrato l’olio di ricino: un’umiliazione pubblica, per di più a una donna poco più che ventenne.

Laura Seghettini a Parma nella manifestazione dopo la Liberazione (Archivio ISRA)

Da quel momento la sua esistenza è segnata; non appena in città si manifesta un qualche dissenso contro il regime, lei viene indicata tra i responsabili. Arrestata, rimane per un mese nel carcere di Pontremoli. Una seconda volta è condotta al carcere di Massa, un’esperienza che la sconvolge: l’ambiente è sudicio, vi aleggiano segni di violenza. Non riesce a mangiare e nemmeno a dormire. Di quel periodo ricorderà solo la compagnia di una donna arrestata perché il figlio non si è presentato alla chiamata alle armi.

Laura si ripromette allora di non ritornare più in carcere, ma continua a far arrivare abbigliamento e cibo agli amici che per non arruolarsi sono saliti ai monti. Quando, nella primavera del 1944, è informata di un arresto imminente, senza indugio sceglie la stessa via, sulle montagne a nord di Pontremoli, all’estremità settentrionale della Toscana. Il gruppo a cui si aggrega è il Battaglione “Guido Picelli”, da poco guidato da un giovane calabrese, Dante Castellucci, nome di battaglia “Facio”. Il comandante non accoglie di buon grado la presenza di una donna, ma gli amici di Laura lo informano sulla sua vicenda e alla fine viene accettata. Fra i due inizia una storia d’amore, interrotta da un evento drammatico: a seguito di tensioni sorte tra i partigiani, dopo un processo farsa Facio viene fucilato il 22 luglio 1944.

Laura e i compagni ne sono fortemente turbati; sceglie insieme ad altri di spostarsi nell’Appennino parmense e di aggregarsi alla 12ª Brigata Garibaldi “Fermo Ognibene”, di cui verrà nominata vicecommissario per il suo impegno e la sua forza morale. Una foto la ritrae mentre cammina sorridente, nelle prime file con i comandanti, tra due ali di folla per le strade di Parma nella manifestazione che celebra la Liberazione.

Nel 1945 stende un memoriale sulla vicenda di Facio, su cui scende progressivamente il silenzio per l’impossibilità di avere giustizia, associata al timore che quell’episodio possa macchiare la storia della lotta di liberazione. Negli ultimi anni, anche grazie alle sue memorie, essa è finalmente tornata alla luce.

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🟥Laura Seghettini, Al vento del Nord. Una donna nella lotta di liberazione, a cura di Caterina Rapetti, Roma, Carocci, 2006, pp. 26-27.

Per il vitto, qualcuno andava a volte a prelevare qualche vitello nei paesi vicini; cucinieri erano il Corsaro (Nello Leoncini) e Giorgio Marini, fratello di Vito. Accendevano il fuoco e mettevano a bollire in un calderone la carne che, non frollata, ne usciva più dura di come vi fosse entrata. Spesso si saltava il pasto e allora cercavamo i frutti del sottobosco, fragole e mirtilli, o qualche fetta di pane e di pattona3 che le donne di Guinadi o di Cervara ci mandavano o ci offrivano quando passavamo nei paesi.

Laura Seghettini (Foto Walter Massari)

Credo che nessuno di noi si sia mai sognato di mangiare una cosa che gli era stata data, se non dividendola con gli altri. Ricordo, infatti, che una volta due tornarono con una crescente4; fu consegnata a Facio che l’affettò in modo così sottile che le fette sembravano ostie, e ne prendemmo una per uno. Quando ci si riuniva per mangiare, mentre chi aveva dei compiti li eseguiva, gli altri si disponevano in gruppo per ascoltare la lettura dei fogli di partito che Facio ed El Gato avevano con sé.

Accadeva, talvolta, che qualcuno raccontasse gli avvenimenti di cui era stato protagonista […].

Alcuni si recavano nei paesi, la sera, a sentire Radio Londra e tornavano portando informazioni che commentavamo in piccoli gruppi. Ricordo la notizia dei bombardamenti di Roma e di Milano e quella dello sbarco di Anzio che ci fece illudere che stesse per finire la guerra, mentre per noi invece iniziava.

Al lume di candela o sotto la luna si cantava sottovoce e qualcuno suonava il flauto. Facio aveva con sé un violino che gli era stato regalato; questo ha fatto scrivere che fosse un maestro d’orchestra. Studente di filosofia, era, credo, soltanto un discreto dilettante, ma in una radura tra i faggi era facile sembrare maestri.

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🟧Stralcio da un’intervista realizzata da Isa Zanzanaini il 15 maggio 1994, in Comitato provinciale per le celebrazioni del cinquantenario della Resistenza – Commissione provinciale pari opportunità, A Piazza delle Erbe! L’amore, la forza, il coraggio delle donne di Massa-Carrara, Massa-Carrara, Amministrazione provinciale di Massa Carrara, 1996, p. 162.

E per quello che mi riguarda, come donna, io debbo dire che sono stati meravigliosi, questi ragazzi, perché mai una parola sconveniente, anzi. Io ricordo, un giorno, venivo giù per un pendio e giù in fondo c’era una ventina di ragazzi che cantavano, canzonacce di caserma; uno, che sembrava tra l’altro un tedesco, sa, proprio grande e grosso, un gigante. Mi vide con la coda dell’occhio e io ho sentito che: “Ehi! Pst! Zitti, ch’a ghe la Laura!”. E mi fece molto piacere. Io gli sono passata vicino, gli ho detto: “Ehi, biondo!” e l’ho scaruffato un po’ in testa. “Eh! Quel ch’a i vo’, a i vo’!”. Quello che ci vuole ci vuole! Sì, è proprio un ricordo meraviglioso.

In quel periodo io ho conosciuto tante ragazze, tante. Anche donne di una certa età. E io so che era un lavoro molto rischioso. Rischioso il nostro, che andavamo a fare le azioni, ma molto più rischioso quello della staffetta, perché poteva essere presa in qualsiasi momento. Quindi, io ho ammirazione anche per queste, che poi sono state qualificate patriote, anziché partigiane combattenti; ma in realtà, tutto il lavoro fatto, compiuto da noi, aveva alla base il lavoro di queste donne.

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Parma, 9maggio 1945, sfilata dei partigiani

🟩Intervista a LAURA SEGHETTINI, in L. Antonelli, “Voci dalla storia. Le donne della Resistenza in Toscana tra storie di vita e percorsi di emancipazione”, Pentalinea, 2006, p. 445.

Quindi lei è stata in formazione? Per quanto tempo?
Fino all’agosto del ’45, un anno, perché poi c’è stata una vicenda, l’uccisione del comandante Facio, io per un po’ sono stata ancora con il battaglione in zona, poi dopo essere andata in missione per il battaglione internazinale, comandato da Gordon Lett, un ufficiale inglese, mi sono portata via un Distaccamento. […] Io in formazione combattevo con le armi, ho sempre cercato di non acchiappare persone, ho comandato anche azioni, io sono stata Commissario di Brigata, ma Comandante sempre militare del Distaccamento Comando della Brigata, Per cui io ho avuto due qualifiche alla fine dal Distretto militare, come sottotenente e come capitano.

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🟪Testimonianza di Laura Seghettini per gli Archivi della Resistenza.

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🟥Marcello Flores racconta la vita di Laura Seghettini – Trasmissione di Rai Radio3 ‘Belle storie. Donne e uomini nella Resistenza’.



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🟧Intervista a Laura Seghettini (www.testeparlantimemorie900.it)




Teresa Toniolo (1890-1970)

Teresa Toniolo (a destra) al convegno provinciale del CIF nel 1966.

Teresa Toniolo nasce a Pisa nel 1890, ultima di sette figli, da Giuseppe Toniolo, professore di Economia nel locale ateneo e importante intellettuale cattolico, e Maria Schiratti.

E’ attiva politicamente già nel primo dopoguerra per la campagna di estensione del voto alle donne e come vicesegretaria nazionale della Sezione femminile del Partito popolare; negli stessi anni si fa portavoce della denuncia delle violenze fasciste. Bibliotecaria all’Università, si impegna nell’associazionismo cattolico, in contatto con numerose figure che frequentano la cerchia paterna.

Proprio in quel 31 agosto 1943 in cui i bombardamenti devastano la città, in casa Toniolo è in corso la prima riunione della Democrazia cristiana a Pisa. E sempre in casa sua dopo l’8 settembre 1943 si tengono inizialmente le riunioni del CLN provinciale. Grazie ad un avvertimento di Toniolo riguardo una possibile spia, il CLN dell’Alta Italia (CLNAI), riunito a Genova, riesce a scampare ad un’imboscata alla fine del 1943.

Teresa Toniolo permette di tenere stretti collegamenti fra il CLN e i vari gruppi partigiani; svolge attività di assistenza, tra gli altri, ad ebrei, prigionieri inglesi e renitenti alla leva fascista; finge di operare come crocerossina in una “casa di cura” improvvisata, in cui sostanzialmente nasconde alcuni di essi come “malati”. Inoltre si adopera affinché, dopo l’eccidio nazista avvenuto il 1° agosto 1944 nella casa del presidente della Comunità ebraica cittadina Giuseppe Pardo Roques, i corpi delle 12 persone trucidate vengano seppelliti.

La sua figura è infine legata all’organizzazione nell’aprile 1944 della sezione cittadina del Centro italiano femminile (CIF), tramite la quale fornisce assistenza ai bisognosi nella zona urbana, pesantemente provata dalla fame, dai bombardamenti e dall’occupazione. Teresa, che non farà domanda di riconoscimento dell’attività clandestina, continuerà nel dopoguerra a svolgere il ruolo di dirigente del CIF e sarà consigliera comunale della Democrazia cristiana dal 1950 al 1955.

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🟦Paolo Emilio Taviani, Politica a memoria d’uomo, Bologna, Il Mulino, 2002, p. 46. Il genovese Paolo Emilio Taviani (1912-2001) fu tra i massimi esponenti della Resistenza cattolica e poi importante personalità della Democrazia cristiana. Conosceva Teresa Toniolo e la sua famiglia anche perché aveva studiato negli anni Trenta alla Scuola normale superiore di Pisa. Oltre a Teresa Toniolo, nel testo si fa riferimento a fratel Arturo Paoli di Lucca, riconosciuto nel 1999 Giusto fra le Nazioni, e all’esponente del movimento cattolico livornese Palmiro Foresi.

Martedì, 3 ottobre [1943], Pisa

Camicie nere sul Lungarno di Pisa. Dovremo combattere anche contro italiani. Maledizione.

Tutto bene con zia Teresa, don Paoli a Lucca, Foresi a Livorno. Triangolo perfetto per realizzare il contatto fra Nord e Sud.

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🟥Scheda biografica elaborata sulla base delle memorie di Maria Clotilde Picotti e monsignor Antonio Landi, in Donne e resistenza, pp. 114-5.

31 agosto 1943 – A casa Toniolo, in piazza Ceci (ora piazza Giuseppe Toniolo) alle ore 12, si tenne la prima riunione per costituire la Democrazia cristiana a Pisa; lì i partecipanti furono colti dal terribile bombardamento.

Dopo l’8 settembre, ritornati al potere i fascisti con i tedeschi, Paolo Emilio Taviani, ex normalista e professore allora nel Liceo scientifico U. Dini, partendo per Genova, lasciò a Teresa Toniolo e a don Antonio Landi la parola d’ordine per collegamenti segreti.

Teresa invitò il nipote Giuseppe Toniolo a formare il Comitato di liberazione, come rappresentante democratico cristiano. Le riunioni avvennero in casa Toniolo, nella parrocchia di San Martino, cioè presso don Landi, e poi regolarmente presso l’Istituto di radiologia dell’Ospedale di Santa Chiara, dove il prof. Toniolo era aiuto.

Teresa Toniolo con i genitori

Verso la fine del 1943 (ottobre o novembre) venne da Genova un tale che si diceva inviato da Taviani per “fare studi sulla storia del Risorgimento”: aiutato e ospitato da Teresa, dal prof. Bozzoni e da don Landi, sparì improvvisamente. Con molta probabilità era una spia. Teresa inviò don Landi, con un rischioso viaggio, a Genova, per avvertire Taviani: così fu possibile salvare il Comitato di liberazione Alta Italia (CLNAI). Dopo pochi giorni, infatti, i tedeschi irruppero nel Convento dei Carmelitani a Genova, dove esso si riuniva; ma non trovarono nulla e nessuno; deportarono il priore a Verona.

Teresa continuò a partecipare al Comitato di liberazione, contribuendo a mantenere i contatti tra i gruppi (quello dell’ospedale, di Enzo Meucci, di Leopoldo Testoni, ecc.).

Regolarmente, durante tutta la guerra, Teresa, con l’amica Maria Tizzoni in Dardi, tenne corrispondenza con i soldati della parrocchia, confortandoli con parole di speranza e di pace. Prigionieri inglesi fuggiti furono da lei aiutati con cibo, denaro, vestiti. Ebrei furono da lei salvati e inviati in zone remote della diocesi (colline, Barga, ecc.).

Prestò la sua opera dopo l’eccidio dei Pardo Roques, in via Sant’Andrea, perché fossero seppelliti, temporaneamente, nel Chiostro di San Francesco. Trasferitasi in casa Cella, in via San Giuseppe, nascose in uno stanzino della soffitta cinque giovani, due dei quali, Landolino Giuliano e Renato Giovannozzi, facevano parte del Comitato di liberazione, gli altri tre, Paolo Cella, Antonio Mossa, Marco Picotti, della classe 1925, si erano sottratti alla chiamata alle armi: passibili tutti della pena di morte. Vestita da crocerossina, riuscì a rinviare più volte i tedeschi, che si presentavano alla porta, per perquisire la casa. Una notte, cadde una bomba sulla soffitta, ed ella accorse immediatamente, col lume, per aiutare i rifugiati a uscire dallo stanzino e trovare altri precari nascondigli. Per le commissioni fuori casa mandava Renzino Mossa, quindicenne, ma ancora quasi bambino di aspetto, e perciò meno in pericolo di essere preso dai tedeschi. Purtroppo il caro, coraggioso ragazzo, il giorno stesso della Liberazione fu dilaniato da una mina antiuomo, lasciata dai tedeschi in una casa in rovina, in piazza Carrara




Lina Tozzi (1915-2002)

Lina Tozzi nel 1940

Nasce nel 1915 in una famiglia mezzadrile del Comune di Radicondoli; il padre, socialista e iscritto alla Lega contadina, è avverso al fascismo fin dalle sue origini. All’età di 23 anni Lina si sposa con Primo Radi e vanno a vivere nel podere La Brezza non lontano da Gerfalco, in un territorio posto fra le provincie di Siena, Grosseto e Pisa. Primo viene richiamato in guerra: inviato a combattere sul fronte albanese, otterrà l’esonero solo nella primavera del 1943. Nel frattempo Lina alleva tre figli, coltiva il podere e accudisce gli animali.

Con l’occupazione tedesca diventa col marito un riferimento per il coordinamento e la trasmissione di informazioni tra i primi gruppi di partigiani che si vanno organizzando nella zona e che da lì a pochi mesi daranno vita alla 23a Brigata Garibaldi “Guido Boscaglia”. Fornisce aiuto e solidarietà sfamando i soldati sbandati che bussano alla porta del podere nei giorni successivi all’8 settembre 1943. Con l’organizzarsi della lotta il marito fa la staffetta di notte, Lina prepara da mangiare, lava, cuce gli indumenti ai partigiani, affronta frequenti spostamenti anche in presenza di pattuglie armate e tiene i contatti con gli esponenti del CLN di Gerfalco, da cui si reca per richiedere i rifornimenti di medicinali da consegnare alle bande.

Lina Tozzi

Cura lei stessa i partigiani che arrivano malati e feriti a La Brezza. Così accade anche nei primi giorni di maggio del 1944, quando dà ricovero ad Alvaro Betti e Dario Cellesi. Alvaro, nome di battaglia “Ciocco”, non sopravvive nonostante Lina sia riuscita a contattare di notte il dottore della brigata e condurlo al suo capezzale; Dario (“Luigi”) invece è in condizioni meno gravi e viene curato. Nello stesso scontro ha perso la vita il partigiano Guido Radi “Boscaglia”, alla cui memoria viene dedicato il nome dell’intera brigata.

Durante il passaggio del fronte ospita diversi sfollati in cerca di rifugio a causa dei bombardamenti che colpiscono soprattutto i centri abitati.

Nel dopoguerra si impegna nella campagna per il diritto di voto alle donne; è attiva nella Lega contadina, motivo per cui subisce ben due sfratti dai poderi dove va ad abitare dopo aver lasciato La Brezza. Con la fine dei patti di mezzadria nei primi anni ’60, Lina si sposta con la famiglia a Poggibonsi; qui si iscrive all’UDI partecipando attivamente alle iniziative dell’organizzazione. Non fa invece domanda di riconoscimento dell’attività partigiana. Muore a Poggibonsi il 7 ottobre 2002.

Lina Tozzi col marito Primo Radi

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🟦Stralcio da un’intervista realizzata nel 1992, in Folchi, Frau, La memoria e l’ascolto, pp. 113-4.

Il mi’ marito andava da casa. La notte, lui girava sempre la notte. Faceva la staffetta. A volte si sapeva che erano in qualche posto in un capanno, allora andavo io a portargli da mangiare. Poi tante volte andavo a Travale, non è molto vicino. Io ero a Gerfalco, Travale resta così, più lontano su, tutto per il bosco. Andavo a Travale perché c’era un certo Cioni che aveva il collegamento con dei dottori dell’ospedale di Massa Marittima. Allora procurava un po’ di medicine. Io andavo a prenderle e poi quell’altri venivano a prenderle lì. Insomma è stato un inverno proprio di tragedia più che altro. Anche di miseria, perché ’un s’aveva nulla. […] Quando poi cominciarono questi partigiani allora facevano in modo di farci avere qualche sacco di farina, gli facevo il pane. Poi qui nel libro parla, mi pare Stoppa, che parla: “facevamo delle gallette”.1 Dico: sì, queste gallette le facevo io. Si faceva il pane, no? Poi il pane quando era un pochino mezzo cotto si tagliava a fette e poi si ricuoceva, bello secco. E poi si portava nel bosco, ci s’aveva una botte nel bosco, tutta coperta. Lì bisognava andarci la notte e senza lume. Ora non ci andrei di certo […].

Insomma, la mattina dell’8 di maggio alle 4 sono arrivati lì. C’era il mi’ cugino di Colle, che è anche decorato, Tozzi Nello, decorato a Medaglia di bronzo al valore partigiano che aveva portato questi feriti, due. Uno era Alvaro, che è morto la mattina dopo. […]. Mi ha detto: “C’è Primo?” Il mi’ marito. “Si”. Dice: “Scendete giù”. Siamo scesi giù. Alvaro stava lì in terra disteso perché non ce la faceva a stare in piedi, e così che si fa? Si mette a letto, senza nemmeno pensare. Lo vidi che ci aveva sangue. Senza nemmeno pensare a mettere un incerato nel letto, nulla. Si mette nel mi’ letto. Meno male ci avevo du’ camere. Si mette nel mi’ letto e poi ritorno giù, e questo mi stava lì. Dico: “O che fai?” Lo conoscevo, veniva tante volte. “Eh dice sai, sono ferito”. E difatti era Cellesi Dario che è morto nemmeno du’ anni fa. È morto di malattia, insomma, era anziano che aveva preso una pallottola qui. Allora che si fa? Dice: “Bisogna andare al Comitato di liberazione nazionale”. Il mi’ marito: “Via, vo io”.

Lina Tozzi

Io: “No”. Perché io l’avevo avuto tre anni alla guerra il mi’ marito, era tornato per combinazione con l’esonero. Ne aveva il diritto perché il podere era abbastanza grande, non lo lavorava nessuno, e poi perché durante la guerra fu in Albania, e allora fu malato. Fu malato e se l’è portata una vita: prese una bronchite cronica. Hai visto, a quel tempo le medicine… E allora era inabile ai servizi di guerra, e insomma glielo dettero questo esonero. E invece so’ andata io a cercare soccorso, perché avevo paura, però era la mattina, non era ancora giorno. So’ arrivata a entrare in paese, a Gerfalco, era una stradellina così, erano già arrivati da Massa i fascisti e i tedeschi. Ma su nelle Carline, nel monte, non ci andavano. Per quanto avevano paura. Avevano piazzato le mitragliatrici, schianti… Perché le Cornate è un monte di sassi, tutto di sassi. E sparavano. Gli sono passata molto vicino, però nessuno mi ha detto nulla, e sono andata a cercare quelli del Comitato di liberazione nazionale.

1Si riferisce al libro di Pier Giuseppe Martufi, La tavola del pane. Storia della 23a Brigata Garibaldi “Guido Boscaglia”, Siena, ANPI, 1980, e al medico Giorgio Stoppa, la cui formazione confluì nella Brigata Garibaldi “Guido Boscaglia”.

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🟧Il ricordo di Alfredo Merlo sull’inserto di Patria indipendente del 2003 – “Lina Tozzi Radi valorosa staffetta

Il 7 ottobre scorso cessava di vivere, all’Ospedale Alta Val d’Elsa per una grave e improvvisa malattia, Lina Tozzi Radi, valorosa staffetta partigiana che operò durante la guerra di Liberazione nella zona dei monti delle “Carline” dove conduceva la lotta contro i nazifascisti la 23ª Brigata Garibaldi “G. Boscaglia”. Ho conosciuto Lina nel febbraio del ’44 agli inizi della mia attività partigiana. Dopo l’8 settembre ’43, firma dell’armistizio, fui chiamato alle armi dai fascisti “repubblichini” ma non mi presentai anche a rischio della morte. Scelsi come altri giovani la clandestinità e successivamente mi aggregai ad uno dei primi gruppi partigiani che avevano stabilito la propria base sui monti delle “Carline” dove Lina abitava con la famiglia al podere “Brezza” – comune di Montieri – lavorando la terra. Fu verso la metà di febbraio, di un inverno rigidissimo, che fui mandato dal comando partigiano al podere “Brezza”, già importante punto di riferimento dell’attività clandestina, per ritirare scarpe ed indumenti mandatici dal CLN di Travale. Dovevo chiedere di Lina dicendo che mi mandava il “dottore”. Mi avvicinai con cautela alla modesta abitazione; lì una donna stava raccogliendo legna. Mi fece cenno di avvicinarmi… Era lei. «Tu sei il “Biondo”, ero stata avvistata che saresti venuto». Mi consegnò un voluminoso pacco, poi mi domandò quanti anni avevo. «Diciotto», dissi. «Sei molto giovane, però ai fatto una scelta giusta; noi lottiamo per la pace e un mondo migliore», mi volle dare un pezzo di pane e del formaggio poi mi sollecitò a ripartire: faceva buio e stava nevicando. Così conobbi Lina, una meravigliosa donna che con il suo coraggio e la sua solidarietà ci fu di grandissimo aiuto per tutto il periodo della lotta di Liberazione. Il podere “Brezza”, Lina e il suo compagno Primo, che nel frattempo era tornato dal fronte albanese perché ammalato, assunsero sempre maggiore importanza, con l’intensificarsi della lotta, trovandosi in un punto strategico del versante grossetano delle “Carline”. Fino alla Liberazione saranno il punto di raccordo fra le forze partigiane e il CLN di Travale, Montieri, Gerfalco e Castelnuovo Val di Cecina per l’invio e il ricevimento di messaggi, informazioni, materiale tra i partigiani operanti nei paesi della zona. Lina, insieme ad altre donne, raccolse cibo, medicinali, indumenti, nascose nella propria casa partigiani e quanti sfuggivano alla rappresaglia nazifascista. Nella notte dell’8 maggio ’44 una squadra partigiana, nel corso di un trasferimento per compiere un sabotaggio, ha un violento scontro a fuoco con militari fascisti al Ponte del Pavone (Montieri) nel corso del quale muore il partigiano Guido Radi “Boscaglia”; da quel giorno la Brigata prenderà il suo nome. Nello scontro rimangono feriti altri due partigiani – Dario Cellesi “Luigi” e Alvaro Betti “Ciocco”, che poi morirà – sarà proprio nella casa di Lina che troveranno ospitalità e cure. Dopo la Liberazione Lina è attiva, insieme al marito, nella Lega dei contadini della zona e per ben due volte sarà cacciata dal podere. Poi, quando la vita in campagna diviene più difficile ed inizia l’esodo dei lavoratori della terra verso le città, Lina con la famiglia si trasferisce a Poggibonsi. Anche nella nuova “vita” Lina rimane la donna ricca di interessi e iniziative che tendono a migliorare le condizioni di vita dei lavoratori e della società. Così ha fatto fino alla fine dei suoi giorni. (Alfredo Merlo)




Emilia Valsuani (1924-1944)

Emilia Valsuani (Archivio ISRECLU)

Nasce nel 1924 a Camaiore da Marino Biagini e Lauretta Valsuani. Il padre è un marinaio di fede socialista che, quando torna a casa, spesso è vessato e a volte malmenato dai fascisti; secondo la memoria famigliare, a queste esperienze risale l’antifascismo viscerale di Emilia. Nei primi anni Trenta Marino, che non ha riconosciuto le due bambine tanto che portano il cognome materno, emigra in America, dove forse crea una nuova famiglia; né Lauretta né le due figlie lo rivedranno più ed è la madre a doverle mantenere da sola con il lavoro di lavandaia.

Emilia Valsuani (Archivio ISRECLU)

Le foto che ci rimangono di Emilia mostrano una bella ragazza disinvolta, in camicia dal taglio maschile e pantaloni, cosa inusuale specie per le donne di estrazione popolare. Il nipote, figlio della sorella, racconterà di una giovane moderna che ama molto andare in moto.

Nell’aprile 1944 entra nella formazione partigiana di Lorenzo Bandelloni (“Loré”), stanziata a San Rocchino; svolge prima compiti di staffetta e poi di combattente.

La cittadina di Camaiore è liberata dalle truppe brasiliane nella notte tra il 17 e il 18 settembre. Nello stesso mese buona parte della Versilia ricade sotto il controllo del IV Corpo d’armata statunitense, ma il confronto armato continua a nord, dato che i tedeschi sono indietreggiati sulla sovrastante cresta montana. Se in quasi tutto il territorio toscano l’occupazione tedesca terminerà entro l’ottobre 1944, bisognerà attendere il 25 aprile 1945 per la Liberazione della provincia apuana, della Garfagnana in provincia di Lucca e dell’area dell’Abetone nel pistoiese.

La formazione Bandelloni è una delle poche che non sono state sciolte ma continuano a guidare le pattuglie alleate in perlustrazione e a combattere nei pressi delle Apuane e della Linea Gotica. Anche Emilia continua la lotta partigiana fino al 21 ottobre, quando viene ferita gravemente durante le operazioni nella zona di Malbacco. Trasportata prima in ospedale a Pietrasanta, muore il 28 ottobre all’ospedale di Camaiore. Dopo la Liberazione sarà riconosciuta partigiana combattente.

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🟪Memoria del partigiano Moreno Costa in: Giovanni Cipollini (a cura di), Quattro anni sulla Linea Gotica. Ricordi di Moreno Costa, pp. 69-70.

Il 22 ottobre, mentre eravamo all’Argentiera, vennero portate all’infermeria due donne, che, sopra Malbacco, erano state ferite ad una gamba dalla stessa scheggia di mortaio. Si trattava della cognata di Bandelloni e di una nostra partigiana ventenne, Emilia Valsuani di Camaiore. Non ricordo bene, ma mi sembra che facessero parte di una pattuglia partigiana, composta da nostri compagni, che si trovavano a Seravezza. Erano state ferite il giorno precedente, ma non era stato possibile trasportarle subito all’Argentiera in quanto era in corso un combattimento tra Riomagno e il Monte Canala. Emilia aveva una profonda ferita ad una gamba, che sembrava anche fratturata, e probabilmente aveva anche l’infezione perché si sentiva un odore inconfondibile, invece la cognata di Lorè [Bandelloni] era ferita in modo meno grave. Nella piccola infermeria non potevamo fare nulla, pertanto partimmo subito per Pietrasanta, seguendo il percorso più breve, ma, quando arrivammo alle Ghiare, cominciarono i colpi di mortaio. Era un continuo fermarsi, gettarsi a terra con le barelle, rialzarsi e correre fino al sibilo successivo, che annunciava l’arrivo di un altro proiettile, movimenti che accrescevano le sofferenze delle due donne, in particolare di Emilia, che si lamentava in modo straziante. Finalmente arrivammo oltre Pontearanci, dove ci venne incontro una jeep con la bandiera della Croce Rossa, che caricò le due donne e un partigiano, rimasto ferito ad una mano. La cognata di Lorè riuscì a guarire, invece la povera Emilia morì il 28 ottobre all’ospedale di Camaiore.