Osmana Benetti (1923-2016)

Osmana Benetti (©️Istoreco Livorno)

Osmana, Osman come la chiamano parenti ed amici, nasce a Livorno il 24 dicembre 1923, terza di cinque figli. La madre fa la lavandaia, il padre, marinaio, ha viaggiato in tutto il mondo; si trovava in Russia nel 1917 ed è stato dunque testimone dell’ondata rivoluzionaria, rimanendone impressionato e affascinato. Nel 1923 smette di imbarcarsi e inizia a lavorare come operaio al cantiere navale Orlando, subendo nel corso degli anni vari incidenti, di cui uno grave.

Osmana frequenta la scuola fino alla quinta elementare, ma deve abbandonare gli studi, con grande dispiacere, a causa delle difficoltà economiche dei genitori. La sua è una famiglia aperta, in cui si legge tutti insieme dopo cena e si ascoltano gli avventurosi racconti di viaggio del padre. Quest’ultimo non è un antifascista attivo, ma ha sempre rifiutato la tessera fascista.

Nel 1943 la ragazza ventenne entra nella Resistenza, di nascosto dalla famiglia, agendo come staffetta partigiana sulle colline livornesi tra la Valle Benedetta e il Castellaccio. In quest’area opera dalla primavera il 10° distaccamento “Oberdan Chiesa” della 3a Brigata Garibaldi.

Nel 1944, dopo la Liberazione, conosce Garibaldo Benifei, che diverrà suo compagno di vita e di militanza politica; i due si sposano il 24 gennaio 1945 con rito civile al Comune di Livorno.

Osmana Benetti (©️Istoreco Livorno)

Osmana, come il marito, si iscrive al Partito comunista; si impegna in diverse associazioni, come l’Unione donne italiane, l’ANPI, l’Associazione nazionale perseguitati politici italiani antifascisti (ANPPIA). Non risulta che abbia presentato domanda di riconoscimento ufficiale delle attività svolte nella fase dell’occupazione tedesca.

Assieme a Garibaldo si farà portavoce, soprattutto nelle scuole, presso le giovani generazioni, degli ideali civili e delle esperienze vissute nel difficile periodo della Resistenza. Le saranno conferite l’onorificenza d’onore di cavaliere della Repubblica nel 2014 e, nel 2015, la Livornina dal Comune di Livorno. Muore il 10 febbraio 2016.

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🟥 Intervista a OSMANA BENETTI, in L. Antonelli, “Voci dalla storia. Le donne della Resistenza in Toscana tra storie di vita e percorsi di emancipazione”, Pentalinea, 2006, p. 238

…Vado di là e la mi’ mamma mi viene dietro e vede che io parlo con quest’uomo, al che non ti dico quel che è successo, mi ha preso a ciaffoni:1 “Cos’è questa storia, te che ti incontri con gli uomini”. Una cosa che son stata così male, così male perché era una cosa che non me la sarei mai aspettata capito. E questa donna la capisco, lei era preoccupata io sparivo troppo spesso.
Andai dal compagno Di Maio a chiedergli che, siccome lui lavorava per la Todt e reclutava gli uomini per la Todt, io gli dissi: “Guarda io non ti chiederò mai nemmeno una lira, ma fammi un foglio che io possa presentare in casa mia che io sono reclutata dai tedeschi alla Todt e che tutti i giorni io devo venire giù, sennò altrimenti per me diventa una vita impossibile, impossibile”.
Lui disse che cercava e invece …successe che fucilarono Oberdan Chiesa che era nel carcere di Pisa e ci fu un attentato a Rosignano, lui era stato anche in Spagna, i tedeschi andarono al carcere, lo potarono sulla spiaggia di Rosignano e lo fucilarono. Da parte nostra ci fu una fortissima reazione e i compagni fecero tantissimi volantini e dovevano essere messi nei punti in vista dove c’era la gente […] e io stavo lì pensando e ripensando come potevo fare per fare mettere in evidenza su alla Valle Benedetta questo fatto. Allora presi, sai a quei tempi ci facevano il corredo quando s’aveva una certa età ed erano tutti legati con dei fiocchini rosa, gialli, verdi, allora io levai tutti questi nastrini colorati dal corredo mio, da quello delle mie sorelle e poi presi questi volantini e li legai con questi fiocchini. Alla Valle Benedetta […] la sera tardi andai con questi volantini, li legai tutti alle piante più basse lungo la strada dove ci passano gli operai che andavano alla miniera. […] e tutti seppero come era stato ammazzato Oberdan Chiesa…

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🟥 Osmana Benetti: “Abbiamo lottato come gli uomini, poi siamo rimaste un passo indietro” (intervista di Simona Poli – La Repubblica, 25.05.015)

Qual era il suo compito?
“Facevo da collegamento tra campagna e città, mi muovevo a piedi, qualche volta in bicicletta finché non la rubavano. I messaggi in genere li nascondevo nel reggiseno ma per fortuna non ebbi mai problemi, parevo una bimbetta, non avevo né fisico né portamento da ragazza, ero proprio una che non si faceva notare”.

Pensava mai a cosa avrebbe fatto se fosse stata arrestata?
“Mi ero preparata, del resto le storie si conoscevano, sapevamo delle torture e delle botte. La mia non era incoscienza, ero consapevole dei rischi e capivo che avrei potuto essere uccisa. I tedeschi li ho visti tante volte ma non ho mai avuto nessun contatto diretto, non partecipai ad azioni di guerra. Quell’esperienza mi è servita a scegliere la mia vita futura. Dopo la Liberazione mi sono subito messa a lavorare per ricostruire gli asili e le mense per gli operai. Anche Garibaldo ha fatto tanto e ha ottenuto molti riconoscimenti. Il nostro è stato il primo matrimonio civile celebrato a Livorno e abbiamo potuto sposarci solo grazie alla solidarietà dei compagni e delle compagne che ci dettero lenzuoli, tovaglie, mobili. Noi non avevamo nulla, nemmeno i soldi per gli anelli. Gli operai dei Cantieri Orlando ci regalarono le fedi d’acciaio”.

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🟧Il mio 25 aprile a Livorno: Garibaldo e Osmana Benifei (Raicultura)






Aida Borghigiani (1913-1996)

Aida Borghigiani (©️Archivio Isgrec)

Nasce a Massa Marittima il 21 marzo 1913 da Enrico Borghigiani e Brunetta Mencacci. Dopo la seconda elementare è accolta presso la foresteria della famiglia Bini dove impara anche a leggere e a scrivere; a 15 anni cerca lavoro e s’impiega in un emporio. Con la morte per silicosi del padre minatore, la famiglia si trasferisce a Niccioleta e la madre e le due figlie sono impiegate nella miniera; Aida si occupa anche qui della foresteria.

A 14 anni incontra Michele Lolini, detto Italo, e a 16 si fidanza con lui. Compiuti i 18 anni Italo va volontario in Marina e nel 1939 i due giovani si sposano per procura. Due anni dopo durante la campagna d’Africa Italo rimane ferito, è catturato ed internato in un campo per prigionieri militari a Massaua, mentre la Croce rossa italiana lo dà per disperso. Nel frattempo Aida cerca notizie sull’andamento della guerra da Radio Londra, il cui ascolto è proibito dal regime.

A Massa Marittima l’avvicinarsi del fronte porta a una situazione di crescente incertezza per la popolazione. Tra il 13 e il 14 giugno 1944 si verifica la strage di Niccioleta, con l’uccisione di 83 minatori fra il piccolo borgo minerario e Castelnuovo Valdicecina, località poco distante, dove 77 fra loro sono trasferiti e poi fucilati. La strage si inserisce in una precisa strategia dei comandi tedeschi, indirizzata a scoraggiare l’appoggio dei civili ai partigiani; è il primo eccidio di quella che è stata definita per la Toscana come “la lunga estate di sangue del 1944”.1

Il 22 giugno sono rastrellati a Massa Marittima altri 26 ostaggi, tutti maschi; sono trasferiti nella caserma di Niccioleta all’insaputa delle famiglie e tenuti giorni interi senza cibo. Una sera Aida e la vicina, Reanda Basarri, saputo dell’arresto degli uomini, passando sotto le finestre della caserma sentono delle invocazioni dall’interno. Le due donne si attivano per preparare un pasto col poco che hanno; i prigionieri chiedono anche di poter avvisare le proprie famiglie e dato che Reanda, rimasta orfana dopo la strage dei giorni precedenti, non ha dal fratello il permesso di muoversi da casa, Aida parte da sola per Massa Marittima.

Aida Borghigiani (©️Archivio Isgrec)

Sceglie di passare attraverso il bosco, dato che le strade sono pericolose perché percorse dalle truppe in ritirata, e riesce ad arrivare in città dove avvisa il podestà e gli chiede che si adoperi per liberare i prigionieri. Il suo rientro a Niccioleta coincide però con il bombardamento, ormai quotidiano, da parte delle forze alleate: Aida è colpita da una scheggia di granata e rimane gravemente ferita a una gamba. I prigionieri, che sono stati fatti uscire per raggiungere un rifugio antiaereo, la soccorrono, ma fino al giorno successivo, quando gli americani entrano a Niccioleta (26 giugno), Aida non può essere trasportata in ospedale; vi rimarrà per sei mesi. Nel 1945, finalmente dimessa, e dopo essersi ricongiunta con il marito Italo, si trasferisce a Livorno. Muore a Massa Marittima nel 1996.

Nel dopoguerra è riconosciuta come partigiana combattente della banda “Camicia rossa” di Massa Marittima e proposta per una Medaglia d’argento al valor militare. Nonostante le testimonianze degli uomini rastrellati, solo nel 1967 le è conferita la Medaglia di bronzo.

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🟥Dichiarazione autografa, 10 dicembre 1978 (Archivio ISGREC)

Io sottoscritta Aida Borghigiani in Lolini nata a Massa Marittima il 21.3.1913 residente a Livorno in via dei Cavalieri n. 18 decorata con medaglia di bronzo al valor militare dichiaro quanto segue:
Il giorno 22 giugno 1944 durante il passaggio delle truppe tedesche in ritirata, giunse in località Niccioleta (Grosseto) un gruppo di ostaggi catturati dai tedeschi a Massa Marittima. Faceva parte del gruppo Montemaggi Giorgio di Massa Marittima allora diciottenne. Giunti a Niccioleta gli ostaggi vennero rinchiusi nella locale caserma dei carabinieri, in mano alle truppe tedesche, e privati di cibo ed assistenza.
Giorni dopo, alcuni di essi chiesero a me se potessi, attraversando il fronte per un tragitto di sette chilometri, raggiungere Massa Marittima onde recapitare una loro lettera al Comitato di Liberazione affinché il Comitato si facesse promotore presso il Comando Americano, in procinto di entrare in Massa Marittima, di un patteggiamento tra i Comandi Americano e Tedesco, tramite la Curia Vescovile, al fine di ottenere il rilascio degli ostaggi; come infatti avvenne a Castelnuovo Val di Cecina (Pisa) alcuni giorni dopo.
Il giorno 24 giugno 1944 dopo aver portato a compimento la missione assegnatami, al ritorno, venivo colpita da una scheggia di granata alla gamba sinistra. Per il mio gesto ebbi come riconoscimento la medaglia di bronzo al valor militare, della cui motivazione allego fotocopia.
Gli ostaggi, tra cui Montemaggi Giorgio, corsero serio pericolo di vita, poiché 10 giorni prima, i tedeschi, dando inizio ad una dura rappresaglia, avevano crudelmente nella stessa località di Niccioleta e Castelnuovo Val di Cecina, trucidato 83 minatori.
In fede
Aida Borghigiani in Lolini




Angiola Crociani “Giangia” (1910-2006)

Angiola Crociani (©️Archivio familiare)

Nasce nel marzo 1910 in una famiglia contadina di Anghiari.

Nel 1930 sposa l’aretino Giuseppe Livi (Beppone), ambulante, noto anarchico già in contatto con Errico Malatesta e antifascista della prima ora, schedato nel Casellario politico dal 1923.

Angiola Crociani col marito Giuseppe Livi (©️Archivio familiare)

Dopo l’8 settembre 1943 Beppone è uno dei primi a prendere contatti con Arezzo e ad organizzare gruppi di resistenti in Valtiberina coinvolgendo anche la moglie. In particolare, dopo la fuga degli internati jugoslavi dal campo di Renicci (Anghiari), ai due è assegnato dal Comitato provinciale di concentrazione antifascista di Arezzo il compito di aiutare i fuggiaschi nascostisi nella zona di Caprese Michelangelo. Inizialmente sono circa 300, ma vanno via via scemando vista l’impossibilità di integrarli in una resistenza aretina ancora embrionale; alla fine ne rimangono una ventina, che costituiranno il “Distaccamento Lubiana”.

Beppone è arrestato ad Arezzo mentre carica farina per il loro approvvigionamento ed è Angela (che ha assunto il nome di battaglia “Giangia”) a sostituirlo nel collegamento con gli slavi fornendo cibo e armi, ma soprattutto informazioni e ordini da Arezzo. Per finanziare alcune importanti operazioni della Resistenza aretina la coppia prima utilizza i risparmi, poi vende la propria abitazione, successivamente si dedica al commercio di tabacco di contrabbando. Giangia si procura armi con coraggio ed astuzia, sottraendole da mezzi tedeschi lasciati incustoditi.

Angiola Crociani (©️Archivio familiare)

Nel dopoguerra è riconosciuta partigiana combattente della 23a Brigata garibaldina Pio Borri. Lavora per un periodo al magazzino tabacchi e poi, assieme al marito, come commerciante ambulante di generi vari. Muore ad Anghiari nel maggio 2006. Dal 2019 il suo nome, assieme a quello di Beppone, campeggia in una targa all’ingresso del Giardino della memoria di Renicci a ricordare l’ aiuto “indomito, altruista e solidale” ai prigionieri civili jugoslavi.

 

 

Tesserino di riconoscimento della partigiana Angiola Crociani




Assunta Del Freo (1919-2004)

Assunta Del Freo, nata a Montignoso l’8 novembre 1919 e morta il 1° agosto 2004, è una delle undici donne riconosciute partigiane combattenti nella Compagnia Montignoso, della quale è membro effettivo dal 1° maggio al 31 dicembre 1944.

Assunta Del Freo (©️Archivio famigliare; ISRA)

Tra i suoi ruoli vi è quello di supporto logistico, ovvero di trasporto viveri, messaggi, informazioni ed armi. Assunta è coraggiosa, consapevole e pronta ad affrontare i pericoli presenti sui sentieri montani, spesso battuti da pattuglie tedesche. Quando deve svolgere una missione lascia suo figlio Giuseppe, di soli cinque anni, ad una compaesana, Francesca Edifizi, che di anni ne ha quattordici, affinché si prenda cura di lui. Racconterà ai figli che un giorno, scesa dai colli di Montignoso per dirigersi verso Antona a consegnare il carico destinato alla banda, viene fermata da una pattuglia tedesca nei pressi del ponte d’Arola. I militi la molestano, ma lei riesce a non perdere il controllo e continua per la sua strada con la sua cesta sul capo, evitando una perquisizione che avrebbe permesso di scoprire le armi nascoste sotto la frutta.

La Compagnia Montignoso è incorporata nel Gruppo patrioti apuani, nato il fra il giugno e il luglio del 1944 dalla riorganizzazione di parte del gruppo “Mulargia” dopo l’eccidio di Forno del 13 giugno. Dislocata sui monti sopra Massa e Montignoso e comandata da Pietro Del Giudice, la formazione si distingue da molte altre sia perché è strutturata sul modello dell’organizzazione militare, sia perché rifiuterà sempre il commissario politico, qualificandosi dunque come autonoma da tutti i partiti. I Patrioti apuani riescono, anche grazie alle donne partigiane, a superare due grandi rastrellamenti: uno di fine agosto 1944 e uno tra la fine di novembre e l’inizio di dicembre, restando attivi fino alla Liberazione. Al momento della ripresa dell’offensiva alleata contro la Linea Gotica, il 5 aprile 1945, il loro contributo è fondamentale per lo sfondamento del fronte.

Assunta Del Freo

Altro ruolo delle donne apuane, e non solo montignosine, nella Resistenza è quello di attraversare gli impervi passi di montagna per andare verso la Garfagnana e l’Emilia e scambiare sale e corredi con farina e cibo, che si caricano in spalla e riportano a casa.

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🟥Relazione del Comando Gruppo partigiani di Montignoso, il comandante Francesco Orlandi, 24 giugno 1946 ( in Archivio AISRT, Fondo Resistenza armata in Toscana, b. 3, f. Massa Carrara, s.f. Gruppo patrioti apuani, Gruppo Partigiani Montignoso/Comando)

Le partigiane del Gruppo furono di gran giovamento e dimostrarono, oltre che gran patriottismo un indiscusso coraggio. A loro vennero affidate le missioni più difficili e più pericolose e le portarono felicemente a termine. Accompagnarono partigiani, li aiutarono in casi difficili a mettersi in salvo, trasportarono per loro armi, munizioni e viveri. Proprio a loro i partigiani devono essere riconoscenti perché attraverso difficoltà di ogni sorta superarono tutti gli sbarramenti tedeschi della zona per portare notizie preziosissime e molte volte quel pane che i partigiani sognavano anche la notte. Durante i rastrellamenti furono queste donne che mantennero il collegamento fra le formazioni, che portarono gli ordini, che salvarono importanti e segretissimi documenti. Furono esse che, passando attraverso i posti di blocco tedeschi, portarono tempestivamente gli ordini di movimenti che rappresentarono spesso la salvezza di interi reparti




Luisa Ballocci (1933-2020)

Nata nel 1930 a Trequanda, in provincia di Siena, fin da piccola respira un clima familiare profondamente antifascista: il padre Luigi, ex impiegato pubblico, non ha più un lavoro stabile a causa della sua opposizione al regime, mentre la madre Giuseppina Dini è maestra elementare a Pergine.

Dopo l’8 settembre 1943 il fratello Raul è catturato dalle truppe tedesche e caricato su una camionetta diretta verso il Nord Italia; giunti a Firenze, in un momento di distrazione dei carcerieri, riesce a scappare. Tornato a casa è richiamato per la leva e, con altri, si nasconde sulle colline limitrofe ad Arezzo. Si rifugia in un capanno di frasche e Luisa, assieme alle due sorelle maggiori, è incaricata di portargli coperte e cibo. Inizia così anche per lei, che ha circa tredici anni, l’attività di staffetta.

Luisa Ballocci

La casa di Luisa è frequentata da allievi che vanno a lezione per prendere la licenza elementare, cosicché la madre può ricevere lettere senza destare sospetti; i messaggi sono poi affidati alle figlie che devono consegnarli nella zona di Badia Agnano, dove alcune famiglie contadine ospitano dei partigiani.

Dopo che la sorella Silvia è stata avvicinata da un soldato tedesco, la madre cuce loro una tasca di stoffa che può essere legata alla vita, in modo da poter disporre di un nascondiglio più sicuro. Quando la famiglia viene avvertita che i movimenti di Silvia sono seguiti dai militi fascisti, sono Luisa e la sorella Ernesta (Nenne) a continuare da sole questa attività, che si svolge anche più volte a settimana. Un giorno, probabilmente il 9 luglio 1944, si vedono correre incontro i contadini che le esortano a scappare; in seguito ad uno scontro fra partigiani e tedeschi il casolare è stato incendiato e si conta almeno una vittima, un’anziana donna paralitica lasciata a casa con la speranza che fosse risparmiata1. Dopo l’accaduto anche la famiglia di Luisa è costretta ad allontanarsi da Pergine per farvi ritorno nei giorni successivi alla Liberazione, avvenuta fra il 17 e il 18 luglio.

Insieme a Nara Scaloncini (1931-2018)2, Luisa sarà la più giovane in tutta la Regione a ricevere il riconoscimento di partigiana combattente; la stessa qualifica verrà attribuita al padre, alla madre e al fratello, comandante dell’8a banda del Raggruppamento Monte Amiata che verrà insignito nel 1952 della Medaglia d’argento.

Luisa Ballocci

NOTE

2 Anche Nara Scaloncini fu attiva nel Raggruppamento Monte Amiata, nell’area fra il senese e il grossetano.

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🟥Intervista a LUISA BALLOCCI, in L. Antonelli, “Voci dalla storia. Le donne della Resistenza in Toscana tra storie di vita e percorsi di emancipazione”, Pentalinea, 2006, pp. 130-132

…la mia mamma diceva che bisognava fare tutto quello che era necessario fare, non c’era scelta, nessuno di noi poteva avere la scelta di dire: – io questo non lo faccio -. Perché era troppo importante, era veramente fondamentale che i collegamenti ci fossero e lo doveva fare chi era dentro ad una specie di sistema che non poteva permettere di essere allargato così. La sicurezza, allargare troppo era rischioso. E la mia mamma era convintissima di quello che faceva, era una donna molto forte.
[…] Io pensavo di fare una cosa molto importante, ero convintissima, sentivo che la mia funzione, per quanto di bambina, era importante e anzi mi sentivo, come posso dire, ripagata dal fatto che non si immaginassero che una bambina poteva fare da tramite. Mi sentivo importante e soprattutto io ho acquistato in quel periodo il senso del dovere, un senso del dovere quasi patologico però, […] mi è rimasto appiccicato, l’ho assimilato, come una cosa tanto importante più della vita.

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🟥Intervista in Enzo Gradassi (a cura di), Donne aretine. Guerra pace ricostruzione libertà. Mostra documentaria, Montepulciano, Le Balze, 2006, pp. 34-5.

E allora si continuò noi: io, la Nenne e il cane. Ci legava questo nastro con la tasca in vita, sotto i vestiti, noi si arrivava da queste famiglie, si consegnava soltanto a uno, che era un capoccia piuttosto anziano (del quale non saprei dire l’età, perché quando siamo bambini ci sembrano tutti vecchi, magari avrà avuto cinquant’anni). Questo succedeva due-tre e talvolta quattro volte la settimana. Lo abbiamo fatto decine e decine di volte. Per un mese e mezzo l’ho fatto anche da sola: io e il mio cane, perché Nenne, che era più gracilina, si ammalò. A lei queste camminate non facevano bene o forse era in un’età un po’ delicata. Poi venne il bel giorno che i contadini ci vennero incontro a dire “Scappate!”. C’era stato uno scontro tra partigiani e tedeschi. Per fortuna la gente era scappata… ma loro prima ammazzarono le bestie nelle stalle, poi dettero fuoco ad ogni cosa. Questi contadini avevano lasciato in casa una vecchia paralitica pensando che a lei non avrebbero fatto niente e invece questa povera vecchia fu bruciata viva. Perché dico che noi eravamo coscienti di quello che facevamo? La mia mamma ci aveva raccontato e spiegato tutte le sofferenze… questa impossibilità del mio babbo di avere un lavoro remunerativo, tutte le ingiustizie che le famiglie meno abbienti subivano […].

Dunque sapevamo di svolgere un lavoro illegale e rischioso.

Pensa che, finita la guerra, per almeno tre anni ogni volta che sentivo suonare il campanello alla porta, sobbalzavo sulla sedia. Non era stato un lavoro inconsapevole. Del resto avevamo visto tante volte i tedeschi tentare di buttare giù la porta di casa per entrare. Tanto è vero che dopo l’episodio dello scontro di San Donato, la mia mamma ci portò via, ci portò in casa di contadini. Cambiammo diverse case di contadini perché capitava che ci fermavamo in una casa dove – per carità! – ci accettavano a braccia aperte. Ma dopo un po’ veniva una pattuglia tedesca, si piazzava lì vicino, magari con i cannoni… e allora si doveva cambiare, spostarsi altrove.

Fin dall’inizio mi era stato raccomandato di non aprire mai le missive, a rischio della vita di tante persone. Persone che facevano questa lotta importantissima per il nostro paese. La mamma diceva che non dovevamo sapere niente. Quindi questo è stato fatto senza nessun merito, senza nessun merito personale: certo per i ragazzi che a vent’anni scelsero invece di imbracciare il fucile fu una cosa molto diversa… o per le donne che proteggevano e curavano i partigiani quando erano feriti, o quelle che nascondevano i prigionieri, quelli evasi dai campi di concentramento: quelle rischiavano la vita. Ne ricordo ancora uno che si chiamava Smith. Quasi in ogni famiglia ce n’era uno, famiglie di contadini. Specialmente quelle vicino al bosco, perché scappavano e si nascondevano nel bosco…




Eleonora Benveduti Turziani, detta Noretta (1908-1993)

Eleonora Benveduti Turziani (Credits: Giaccai)

Nata a Roma il 30 marzo 1908, Eleonora “Noretta” Benveduti trascorre l’infanzia e la prima giovinezza a Gubbio, dove consegue il diploma magistrale e si dedica all’insegnamento. Nel 1938 si laurea in Pedagogia a Roma e successivamente si trasferisce a Firenze per insegnare materie letterarie negli istituti superiori; dall’ottobre 1939 al maggio 1940 prosegue la sua attività di docente presso il R. Ginnasio di Derna, in Libia. Rientrata in patria dopo l’ingresso dell’Italia nel secondo conflitto mondiale, all’insegnamento scolastico affianca i compiti di assistente alla cattedra di Storia della filosofia dell’Università di Firenze.

Donna colta ed emancipata, negli anni Trenta “Noretta” si avvicina, grazie a Joyce Lussu1, al movimento di Giustizia e Libertà. A Perugia, inoltre, ha modo di frequentare gli ambienti liberalsocialisti e di conoscere Aldo Capitini2. Nei primi anni Quaranta aderisce al neonato Partito d’Azione (Pd’A) insieme al marito Giovanni Turziani, riscuotendo la piena fiducia dei compagni. Nel settembre 1943 il Comando esecutivo azionista le affida la responsabilità della “Commissione intendenza”, che si occupa prevalentemente degli approvvigionamenti per le formazioni partigiane in montagna e per i gruppi di città, nonché di garantire protezione a fuggiaschi e perseguitati politici e razziali mediante la fornitura di documenti falsi, vestiario, viveri e medicinali. Arrestata in novembre dagli uomini di Mario Carità, capo del Reparto servizi speciali della polizia fascista, pochi mesi dopo il rilascio – rimossa dall’insegnamento per motivi politici – entra in clandestinità.

Eleonora Benveduti Turziani (Credits: labibliotecadiscandicci.wordpress.com)

Continuerà instancabilmente ad operare per il partito fino al giorno dell’insurrezione di Firenze, l’11 agosto 1944: a guerra finita le sarà riconosciuta la qualifica di partigiana combattente afferente alla III Divisione “Giustizia e Libertà”.

Dopo la Liberazione, Eleonora prosegue il proprio impegno pubblico: candidata alla Costituente senza essere però eletta, lascia il Pd’A prima della sua definitiva fine politica e si iscrive al PCI, nelle cui liste viene eletta in Consiglio comunale a Firenze (novembre 1946).

Già presidente provinciale dell’Unione donne italiane, dal 1951 al 1961 ricopre la carica di sindaco di Scandicci; successivamente viene eletta consigliere provinciale.

Abbandona il PCI nel 1965, a seguito di forti contrasti interni. Decide allora di dedicarsi principalmente allo studio e all’organizzazione di liberi corsi su temi politici, filosofici e sociali, molto apprezzati dal pubblico e frequentati anche da numerosi studenti. Ritornata nella sua Gubbio nel 1989, “Noretta” vi muore il 17 giugno 1993.

Eleonora Benveduti Turziani nel 1950 tra i fondatori dell’ISRT (Credits: labibliotecadiscandicci.wordpress.com)

NOTE:

1 Joyce Lussu (Gioconda Beatrice Salvadori Paleotti, 1912-1998) è stata una scrittrice e traduttrice, capitano nelle brigate Giustizia e Libertà, Medaglia d’argento al valor militare, moglie del politico e scrittore Emilio Lussu.

2 Aldo Capitini (1899-1968) è stato un intellettuale e politico antifascista, teorico del movimento nonviolento.

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🟥Memoria di testimoni in: Sandro Contini Bonacossi, Licia Ragghianti Collobi (a cura di), “Una lotta nel suo corso. Lettere e documenti politici e militari della Resistenza e della Liberazione“, prefazione di Ferruccio Parri, Venezia, Neri Pozza, 1954, p. 302.

La Commissione Intendenza fu affidata da principio ad Eleonora Turziani, coadiuvata da Eva Mori, Bice Paoletto, Andreina Morandi, Elena Fanfani, Flunci, Romano Ragazzini, ed altri, e Bernardo Seeber per la Commissione Prigionieri. Già il 13 settembre aveva organizzato sia i depositi, che i turni di servizio per la consegna ai gruppi armati, secondo le indicazioni del Comando Militare. Per dare un’idea della ristrettezza di mezzi, si pensi che alla commissione non poterono essere assegnate, all’inizio, che cinquemila lire mensili. Tuttavia coi doni ed anche con i colpi di mano su magazzini e caserme si riusciva a rendere cospicue le riserve di viveri, di medicinali, di vestiario, coperte ed oggetti per i partigiani. Per esempio nel novembre Giorgio Faitsman e Max Boris poterono procurare, con un colpo di mano ad un magazzino militare, 160 teli da tenda, e un ingentissimo quantitativo di coperte e vestiario militare, che furono poi preziosi d’inverno; mentre Giovanni Turziani, medico distaccato dal P. d’Az. in servizio, traeva dal magazzino dell’Ospedale militare di Villa Granduchessa altro materiale prezioso. Per dare un’altra idea delle occorrenze, si ricorda che il 22 dicembre 1943 il comando chiese alla Turziani 350 carte annonarie per i partigiani. Arrestata da Carità il 23 dicembre (e per fortuna era stato fatto sparire dalla casa un deposito compromettente di materiali, e specialmente 150 bracciali tricolori con la scritta CTLN ordinati per i patriotti), fu sostituita da Eva Mori, e poi soprattutto da Achille Belloni (Prati), che già cooperava al servizio dall’ottobre. La Turziani veniva poi rilasciata e riprendeva attività di assistenza alle famiglie dei patriotti dal febbraio 1944.




Bruna Talluri (1923-2006)

Bruna Talluri (a destra) con la sorella Maria (©️Archivio della famiglia di Bruna Talluri)

Nasce a Siena il 12 giugno 1923, prima di tre sorelle e un fratello, da Amalia Barborini e Luigi Talluri. La famiglia Talluri appartiene alla piccola borghesia cittadina, aperta e liberale tra le mura domestiche, fascista rispettabile all’esterno. L’iscrizione al PNF permette a Luigi di mantenere il posto di ragioniere del Monte dei Paschi, a Bruna di frequentare la scuola elementare privata dalle Suore di Santa Caterina e sfuggire così ai rigidi dettami della scuola fascista e agli obblighi della socialità di regime che mal sopporta fin da bambina. La passione e lo studio della storia e della filosofia al Liceo classico Enea Silvio Piccolomini le fanno percepire tutta la distanza fra il libero pensiero e le restrizioni imposte dalla dittatura. Nel 1941 Luigi è condannato a due anni di confino con l’accusa di aver pronunciato parole ingiuriose nei confronti del duce. Bruna, che frequenta l’ultimo anno di liceo, è costretta a abbandonare gli studi e a prendere il posto di lavoro del padre per mantenere la famiglia; riuscirà comunque a sostenere l’esame di maturità e ad iscriversi alla Facoltà di Lettere e filosofia all’Università di Siena. Negli anni del liceo ha stretto un sodalizio intellettuale con un suo professore, Luigi Bettalli, di idee liberalsocialiste, con il quale resta in contatto anche negli anni successivi.

Agli inizi del 1943 si reca a Torino a trovare l’amica e compagna di studi Ida Levi e incontra l’avvocato Fortini, che le consegna un pacchetto di stampa clandestina da recapitare ad alcuni referenti senesi del Partito d’Azione. Avendo già consolidato questi legami, dopo l’8 settembre si attiva subito per nascondere i soldati sbandati e collabora alla costruzione di una rete segreta di militari e civili intenzionati a resistere all’occupazione.

Le sorelle Lina e Rina Guerrini, anche loro legate al Partito d’azione, nascondono nella loro abitazione nel vicolo del Bargello un ciclostile che usano insieme a Bruna per scrivere e diffondere volantini e un bollettino titolato “Liberalsocialismo”. Trasmette ai giovani le parole d’ordine necessarie per raggiungere i primi gruppi partigiani sparsi nelle campagne, raccoglie soldi, medicine, sollecita le donne a guastare gli indumenti per adattarli ai giovani alla macchia, inventa espedienti per ricoverare partigiani e soldati alleati bisognosi di cure nell’ospedale di Siena. In questo lavoro si fa aiutare dalla sorella Maria e dal giovane fratello Marcello.

Verso la fine dell’inverno 1943-44 il gruppo azionista senese subisce un duro colpo: il professor Bettalli, le sorelle Guerrini e alcuni ufficiali che collaborano con il “Raggruppamento Monte Amiata” vengono arrestati. Bruna non viene coinvolta e continua ad operare con le poche forze attive in città. Tuttavia a metà giugno viene condotta alla Casermetta, sede della polizia politica, e messa a confronto con un giovane trovato in possesso di volantini; resiste ad un lungo interrogatorio ed è lasciata libera dal famigerato comandante Luigi Zolese, ma ritiene necessario allontanarsi con la famiglia da Siena, ospitata da amici alla fattoria di Celsa.

Dopo la Liberazione torna a casa e insieme a Renata Gradi, Tina Meucci e Annunziata Pieri fonda i Gruppi di difesa della donna. Riconosciuta partigiana combattente, l’impegno culturale e politico rimane il filo conduttore della sua vita: apprezzata saggista, docente di storia e filosofia del Liceo scientifico Galilei, infaticabile testimone della Resistenza. Insieme a Vittorio Meoni è fondatrice dell’Istituto storico della Resistenza senese e sua prima direttrice. Muore il 21 novembre 2006.

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🟩 Testimonianza di Bruna Talluri su “Noi Partigiani. Memoriale della Resistenza italiana”

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🟪 Bruna Talluri tenne dal 1939 al 1945 un diario, conservato alla Fondazione Archivio diaristico nazionale di Pieve Santo Stefano. I brani citati sono tratti da Patrizia Gabrielli, Scenari di guerra, parole di donne. Diari e memorie nell’Italia della seconda guerra mondiale, Bologna, Il Mulino, 2007, pp. 262-3, 266.

13 ottobre 1944

Mi hanno offerto un posto alla redazione della “Libertà”. Non so cosa fare. Devo decidere tra politica e… cultura.

Non dimentico, d’altra parte, di essere una donna. Mi manca la sicurezza e la fiducia in me stessa. Poi non vedo chiara la situazione del Partito d’Azione. Non capisco il significato delle Associazioni femminili o dei movimenti femminili nell’ambito dei Partiti.

Bruna Talluri (©️Archivio della famiglia di Bruna Talluri)

Che senso hanno? Non siamo tutti cittadini, uomini e donne, con uguali diritti?2 Bisogna puntare su questa effettiva uguaglianza. Come studiosa mi considero una dilettante, ma potrei dedicarmi all’insegnamento… Sono come color che son sospesi… Non ho voglia di decidere… Sono abbastanza matura, purtroppo, per sapere che a ventun anni una donna che vuole fare “carriera” politica deve accettare l’aiuto e la protezione di un uomo: è tollerata nella misura in cui lavora su commissione.

Rifuggo per natura da intrighi e compromessi e non potrei rinunciare a pensare e ad agire secondo le mie convinzioni. Stasera sono quasi sicura che sceglierò di insegnare. […]

2 novembre 1944

Quando il pericolo di un “arresto” mi teneva in allarme, mio padre più volte mi aveva detto che avrebbe preso il mio posto e si sarebbe accusato di tutto, se io fossi stata interrogata. Il timore di questo intervento mi impacciava. Allora ricorsi ad uno stratagemma. Dissi a mio padre di aver nascosto nella fodera del mio cappotto un documento compromettente e che lo avrei tirato fuori per confermare le mie responsabilità, se avesse tentato di intervenire. La strisciolina di carta la cucii davvero, in sua presenza, nel bavero del mio cappotto invernale. L’ho ritrovata oggi e l’ho ripiegata con cura. Mi sono intenerita. Naturalmente non era un documento importante: soltanto un piccolo espediente per ingannare mio padre; un rotolino di carta, in cui avevo scritto in microscopica calligrafia un inno ingenuo, e per di più bruttino, al sacro ideale della libertà:

Schiera esigua

in stretta fila

alza al vento

la bandiera

che promette

LIBERTÀ ecc. ecc.

[…]

22 gennaio 1945

Sono stata a Colle Val d’Elsa ad una riunione dell’UDI. Ho dovuto esibirmi con un breve discorso al saloncino comunale. Parlare in pubblico mi imbarazza: non ne sono capace.

25 aprile 1945

Abbiamo ritrovato il gusto di raccontare. Per tanti anni abbiamo vissuto in attesa del nemico: “Taci, il nemico ti ascolta”. Rivedo il dito teso e minaccioso che spunta dal manifesto appiccicato sui muri. Per alcuni anni abbiamo evitato di parlare, di scrivere, imparando soltanto a tacere. Anche oggi se mi sorprendo a parlare di politica con un amico in mezzo alla strada, mi volto in giro preoccupata. Devo ritrovare tutti i ricordi sepolti o accantonati nella memoria per paura del “nemico”…

“L’Italia libera” clandestina, organo del Partito d’Azione, è uscita il 14 aprile con questo titolo: “La Germania crolla. Pronti per l’insurrezione. L’unificazione di tutte le forze partigiane”. Il foglio è arrivato oggi a Siena per canali misteriosi.

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Maria Assunta Lorenzoni, detta Tina (1918-1944)

Tina Lorenzoni (©️Archivio ISRT, Fondo Tina Lorenzoni)

Figlia dell’economista e docente universitario Giovanni Lorenzoni, nasce a Macerata il 15 agosto 1918. Iscritta alla Facoltà di Magistero, con l’entrata in guerra dell’Italia lascia gli studi e presta servizio come crocerossina in soccorso ai feriti di ritorno dal fronte. Dopo l’8 settembre 1943 Maria Assunta Lorenzoni entra in contatto con il Partito d’Azione. “Tina” – questo il nome di battaglia scelto –, entra a fare parte della Brigata V, formazione partigiana inquadrata nella I Divisione “Giustizia e Libertà”. Durante l’occupazione tedesca di Firenze, che durerà undici lunghi mesi, Tina Lorenzoni si adopera in soccorso di ebrei e perseguitati politici, cercando di favorirne la fuga in Svizzera sia procurando loro documenti e carte annonarie falsi, sia accompagnandoli personalmente nel Nord Italia. Staffetta coraggiosa, assiste feriti e malati militari e civili e collabora al reperimento di medicinali e di generi di conforto. Nei giorni cruciali della battaglia di Firenze, Tina attraversa più volte la linea del fronte, mantenendo i collegamenti tra le forze partigiane a nord della città e il Comando d’Oltrarno. Durante una di queste azioni, viene catturata da una pattuglia tedesca e condotta a Villa La Cisterna, sede del comando nazista, per essere interrogata.

Francobollo commemorativo

Il 21 agosto 1944, nel tentativo di sfuggire ai suoi aguzzini, viene freddata da una raffica di mitra: ha soltanto 25 anni. Lo stesso giorno il padre Giovanni, appresa la notizia della cattura di Tina, ma inconsapevole della sua tragica fine, attraversa la città insorta e raggiunge un avamposto alleato per avere notizie della figlia: resta ucciso probabilmente dallo scoppio di una granata tedesca, anche se altre fonti fanno riferimento ad un colpo mortale sparato da un franco tiratore repubblichino.

Maria Assunta Lorenzoni sarà insignita della Medaglia d’oro al valor militare alla memoria. Nel documento per la richiesta della medaglia, il comandante della Brigata Vittorio Sorani presenta la proposta di decorazione usando un linguaggio che, oltre ad essere dettato dalla vicinanza emotiva agli eventi, è modellato sulle celebrazioni delle eroine del Risorgimento. Se il numero di 200 ebrei salvati non si riferisce alla sola attività di Tina, ma a una più ampia rete di soccorso, il testo ripercorre invece fedelmente i suoi ambiti di intervento e offre interessanti indicazioni sulla sua personalità.

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