Virginia Cerquetti (1917-?)

 

Virginia Cerquetti con la figlia Annabella, il marito Sante Gaspare Arancio e Mario, figlio di Sante (©️Archivio ISGREC)

 

Nasce il 17 dicembre 1917 a Rosario, nei pressi di Santa Fé in Argentina, da Pietro ed Emilia Cerquetti. Impossibile stabilire a quando risale il suo trasferimento in Italia, ma dalle testimonianze risulta che la famiglia di Virginia è originaria del Lazio e che lei conosce il futuro marito, con cui si trasferirà a Manciano, durante la permanenza in un collegio romano. Verrà descritta dalle altre partigiane come “una donna fine, intelligente e molto religiosa”.

Dall’8 settembre 1943 partecipa alle riunioni clandestine che si tengono in casa di Giuseppe Gori a Manciano insieme al marito Sante Gaspare Arancio e ad altri partigiani della futura formazione di zona e in cui tutti giurano sulla democrazia e sulla libertà, come ricordato dalla testimonianza di un’altra donna coinvolta, Mariella Gori, figlia sedicenne di Giuseppe. A guidare il gruppo è proprio il marito di Virginia, da cui la banda che sta nascendo prenderà il nome: si chiamerà infatti Banda Arancio Montauto, spesso identificata con l’acronimo BAM.1

Secondo il rapporto compilato dagli ufficiali della BAM, la sera del 25 dicembre 1943, Virginia, dedita alla propaganda e al reclutamento, è “costretta a fuggire da Manciano con la famiglia, perché preavvisata del loro arresto deciso dalle autorità repubblichine del luogo”. Resta alla macchia con la formazione insieme al primo figlio di Arancio, Mario, di soli 8 anni, e nonostante il suo stato di avanzata maternità: “pur consigliata a raggiungere il sicuro e comodo rifugio approntatole, rifiutò sdegnosamente l’offerta, preferendo alla comoda vita da sola, quella movimentata dell’azione abbracciata dal marito”. Giunta al parto senza assistenza ostetrica, il 28 febbraio all’accampamento dà alla luce una bambina, cui, per espressa volontà dei partigiani, viene dato il nome di Annabella. Una foto ricorda quel momento, immortalandola con la bambina in braccio davanti alla capanna del comando della formazione.

Retro della foto di Virginia Cerquetti con la famiglia alla macchia (©️Archivio ISGREC)

Di Virginia, proposta per una medaglia di bronzo probabilmente mai conferitale, sono noti gli spostamenti nelle macchie maremmane a causa delle necessità militari della formazione. I toni paternalistici della relazione della banda ne esaltano le doti paragonandola alle donne del Risorgimento, ma fra le altre cose vi si legge che “nei momenti più cruciali, passati per i tentativi di rastrellamenti, non esitò ad imbracciare anch’ella il mitragliatore come il più modesto gregario della Banda” e che “al fianco del consorte volle partecipare ad alcuni atti di sabotaggio dei ponti”.

Solo la mattina del 20 maggio 1944, appena viene sferrato un massiccio attacco contro la banda che la porterà al completo sbandamento, Virginia accetta di allontanarsi con i figli per nascondersi in un rifugio sicuro. Nell’immediato dopoguerra la famiglia si trasferisce: l’ultimo luogo di residenza noto di Virginia e del marito è Istria di Castro (Viterbo), dove sicuramente si trovano ancora nel 1948 quando le viene comunicato il riconoscimento dell’attività di partigiana combattente.

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🟧Le madri del futuro libero

Episodio della serie podcast dell’Isgrec “Racconti Resistenti: le vite di partigiani e partigiane della Maremma” dedicato a Mariella Gori, nata a Manciano (GR) il 29 maggio 1923. Dopo l’8 settembre 1943, nella casa di suo padre nacque la Banda Armata Maremmana, guidata dal Comandante Sante Arancio. Tra i membri spicca un gruppo di donne coraggiose, tra cui Virginia Cerquetti. Racconto basato su documenti Isgrec, scritto da Silvia Meconcelli, interpretato da Irene Paoletti.



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🟦Volontarie per la libertà – Il 25 aprile 2024 a Rai Radio 3, a cura di Laura Zanacchi. Ilaria Cansella, direttrice dell’Istituto storico grossetano della Resistenza e dell’età contemporanea, racconta Virginia Cerquetti. 



 




Anna Maria Enriques Agnoletti (1907-1944)

Anna Maria Enriques Agnoletti (©️Archivio ISRT, Fondo Leonardo Giorgi)

Anna Maria Enriques nasce a Bologna il 14 settembre 1907. Figlia del biologo Paolo Enriques, dovendone seguire gli spostamenti che la professione di docente universitario gli impone, trascorre l’infanzia in varie località della penisola. Stabilitasi a Firenze, si laurea in Lettere e filosofia e, nel 1933, ottiene il diploma in paleografia e archivistica presso la Scuola per bibliotecari ed archivisti paleografi, che dal giugno 2005 porta il suo nome.

Assunta presso l’Archivio di Stato di Firenze, nel 1936 diviene “primo archivista”, ma due anni dopo, a causa della promulgazione delle leggi razziali – il padre ha origini ebraiche – è costretta a lasciare l’impiego. Anna Maria già da tempo sta affrontando un personale, intenso percorso di fede che la porterà alla conversione al cattolicesimo, religione della madre Maria Clotilde. Il suo particolare caso, grazie all’interessamento di Giorgio La Pira e dell’arcivescovo di Firenze, il cardinale Elia Dalla Costa, giunge pertanto a conoscenza di monsignor Giovanni Battista Montini, allora sostituto alla Segreteria di Stato in Vaticano. Questi si adopera per farla assumere come paleografa presso la Biblioteca apostolica vaticana di Roma. Nella capitale, a partire dal 1939, Anna Maria frequenta gli ambienti cattolici ed entra in confidenza con Gerardo Bruni, anch’egli bibliotecario alla Apostolica, avvicinandosi al movimento cristiano-sociale.

Anna Maria Enriques Agnoletti

Dopo l’8 settembre, Anna Maria si impegna nella propaganda e nell’assistenza ai patrioti, ai prigionieri politici e agli ebrei. Rientrata a Firenze, contribuisce inoltre al mantenimento dei contatti tra il Partito d’Azione, in cui opera il fratello Enzo, e il movimento cristiano-sociale livornese, soprattutto tramite lo stretto legame con don Roberto Angeli, che per la sua attività antifascista finirà deportato a Dachau.

Nel maggio 1944 la sua identità viene scoperta. Arrestata assieme alla madre, tradotta in carcere, poi rinchiusa a Villa “Triste”, subisce atroci torture senza mai cedere e fornire informazioni che possano mettere in pericolo la vita delle compagne e dei compagni di lotta. Trasferita nel carcere femminile di Santa Verdiana, il 12 giugno 1944 viene prelevata da tedeschi e portata a Cercina, nella zona di Monte Morello; qui viene fucilata assieme ad altri cinque militari e ad un partigiano cecoslovacco.

Nel 1947 le viene conferita la Medaglia d’oro al valor militare alla memoria, quale “indimenticabile esempio di valore e di sacrificio”.

Murales dedicato ad Anna Maria Enriques Agnoletti a Sesto Fiorentino

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🟪Isabella Insolvibile racconta la vita di Anna Maria Enriques Agnoletti per la trasmissione di Rai Radio3 ‘Belle storie. Donne e uomini nella Resistenza’.



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🟦Documentario realizzato dalla Rai in occasione del ventennale della Liberazione, e diretto da Liliana Cavani. Con storie e testimonianze di e su Germana Boldrini (Bologna), Norma Barbolini (Modena), Adriana Locatelli (Bergamo), Gilda Larocca (Firenze), Tosca Bucarelli (Firenze), Marcella Monaco (Roma), Maria Giraudo, Anna Maria Enriques Agnoletti e sua madre, Suor Gaetana del carcere di Santa Verdiana (Firenze), Maria Montuoro (Milano)

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🟩 Storia di Anna Maria Enriques Agnoletti – Video a cura dell’Università di Firenze




Mercede Menconi (1926-2014)

Mercede Menconi (©️Archivio familiare; ISRA)

Mercede Menconi cresce in una famiglia antifascista di idee repubblicane nella frazione di Avenza. Da bambina assiste alle frequenti perquisizioni che la polizia compie presso la sua abitazione e a quella dei suoi nonni e alle angherie che questi subiscono, maturando un precoce e sentito antifascismo. Insieme ad altre ragazze di Avenza inizia a frequentare la casa di Gino Menconi,1 stringe un forte legame con Nella Bedini, fidanzata di Menconi, e, a nemmeno diciotto anni, entra a far parte dei Gruppi di difesa della donna aderendo all’ideologia comunista.

Non si tira indietro di fronte a qualsiasi richiesta, dal fare delle calze a maglia per i partigiani al portare delle armi; è in continuo movimento sprezzante del pericolo, quasi sempre accompagnata da una o due amiche con cui condivide tutto.

In un’intervista racconterà di aver utilizzato vari stratagemmi per compiere le sue azioni, come nascondere nelle trecce comunicati da portare ai partigiani, occultare armi in un materasso fingendosi sfollata o, fermata su un’ambulanza che trasporta un partigiano ferito, far credere piangendo di avere la mamma in pericolo di vita.

Organizza la partenza di piccoli gruppi di donne, così da non creare sospetti, da Avenza verso Carrara in occasione della rivolta dell’11 luglio 1944 a cui lei stessa prende parte. Episodio questo che contribuirà a far ottenere alla città di Carrara, il 12 gennaio 2007, la Medaglia d’oro al merito civile. Si legge infatti nella motivazione: “Le donne carraresi offrirono un ammirevole contributo alla lotta di Liberazione organizzando una coraggiosa protesta contro l’ordine delle forze di occupazione tedesche di sfollamento della città”. Nel settembre dello stesso anno ha l’incarico di portare dei farmaci sopra Massa, sul Monte Brugiana, dove si trova ferito a morte il partigiano Enzo Petacchi.2

Durante la sua attività di staffetta conosce il gappista Bruno Orsini (Pippo) che sposerà. A guerra finita vive con grande soddisfazione la possibilità di votare, ma rimane delusa dall’atteggiamento del PCI, che non valorizza la presenza femminile nelle sezioni del partito. Questo non le impedisce di portare avanti il suo impegno, perché ha sempre sostenuto che le donne possono fare politica ovunque, nei negozi, in autobus o per strada, semplicemente parlando con la gente. È riconosciuta partigiana combattente.

Note

1Il comandante partigiano Gino Menconi (Avenza 1899), ucciso a Bosco di Corniglio (Parma) il 17 ottobre 1944, fu insignito della Medaglia d’oro al valor militare alla memoria.

2Enzo Petacchi (Livorno 1912), rimasto ferito nel corso dell’attacco al presidio tedesco di Castagnola di Massa, morì il 27 settembre 1944 sul Monte Brugiana dove era stato trasportato.

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Donne nella Resistenza, a Carrara” (1986), Frammento della IV puntata di “C’era una volta gente appassionata, viaggio nella Resistenza toscana



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Intervista realizzata da Pina Menconi e Isa Zanzanaini il 27 aprile 1994, in Comitato provinciale per le celebrazioni del cinquantenario della Resistenza – Commissione provinciale pari opportunità, “A Piazza delle Erbe! L’amore, la forza, il coraggio delle donne di Massa-Carrara”, Massa-Carrara, Amministrazione provinciale di Massa Carrara, 1996, pp. 112-3.

Col tempo ci siamo organizzate, son venute tante di quelle persone, perché da soli, è inutile… Abbiamo cominciato che gli amici venivano per casa e dicevano: “Vai a Carrara, vai a prendere questi volantini, vai da sola?” “No, c’è una mia amica, ha detto che vuol venire con me” “Sì, sì”. Era gente fidata, ragazze bravissime, del posto. Andavamo sempre in coppia, in tre, in due, facevamo finta (perché la vita scorreva normale) di andare o all’annonaria, o di qua o di là. A una a una venivano da sole, io non chiamavo nessuno. Quando mi dicevano: “Vai in quei posto?” “Sì che ci vado”, e allora dicevo: “Ciao ragazze, ci vediamo più tardi”; e loro dicevano: “Se vuoi vengo anch’io a farti compagnia”; ecco, succedeva così. Io non ho mai chiamato nessuna e nemmeno le altre, non sono state spinte da me o da un’altra: sentivano quello che sentivo io. Si allargava a macchia d’olio. Chi andava da una parte, chi da un’altra, eravamo sempre in movimento, non esisteva il lavorare di più o di meno, esisteva di prestarsi: ci chiamavano e eravamo sempre pronte. Andavamo a piedi via Fiorino, via Nazzano: se avevamo sete tutti ci davano da bere, tutti se avevano un pezzo di pane se lo levavano anche dalla bocca, per darcelo; se dicevo: “A l’è tutt ‘1 dì ch’a son ‘n zir, a son stracca morta”; “Tieni, toh ti manca qualcosa, vuoi qualcosa?”. Si andava a cercare il latte nei campi, dalla gente che aveva le mucche, per darlo ai bambini. C’erano due fuoriusciti di Firenze, che abitavano dalla Ilva Babboni, e si doveva andare a prendere e a riferire notizie. Poi c’era chi andava alle formazioni, alla Partaccia, al distaccamento Petacchi, anche dal “Memo”;1 ci mettevano i biglietti nelle trecce a me, alle mie amiche, a mia sorella; facevamo finta di andare negli stabilimenti a prendere il sale, e invece andavamo a prendere, a dire o a riportare le risposte. È cominciata così, fino al punto poi di andare proprio a portare armi. […]
La prima volta che ho toccato delle armi mi avevano mandato al cimitero, dove dovevo incontrare una donna con un cappotto blu che si chiamava Amelia. Io e una mia amica eravamo andate con qualche fiore striminzito, per far finta di essere in visita a qualche morto, e io la chiamavo Amelia, per farmi sentire da quell’altra. Infatti era lì, ci salutammo e lei mi consegnò un pacchetto con due pistole.
Una volta uno mi disse di caricarmi in testa delle armi avvolte nei materassini. Siccome c’era gente che andava e veniva, sfollati che andavano sui monti, io facevo finta di essere una sfollata. Sono andata fino alla tranvia, con un partigiano che mi aiutava, andava avanti, facendo finta di niente. Siamo scesi in piazza Farini: questo qui mi ha aiutato a scaricare, come se fossi stata sfollata; io ho portato il carico fino all’ospedale. Poi se l’è caricato lui e m’ha mandato avanti, dicendo: “Se vedi qualcuno canta, qualunque canzone, che io conosco la tua voce e pianto lì tutto”. Infatti è successo: abbiamo incontrato i Maimorti; io ho cantato e lui è sparito. Poi siamo tornati indietro a prendere le armi.




Messina Batazzi (1914-2004)

Messina Batazzi

Nasce a Tocchi, nel Comune di Monticiano, il 17 maggio del 1914 in una famiglia composta da madre casalinga, padre operaio della locale fattoria, una sorella, un fratello e il nonno paterno. Cresce frequentando assiduamente le cugine Griseide e Intima, figlie dello zio materno perseguitato dal regime fascista, in più occasioni picchiato e condotto in carcere, che avrà un ruolo non secondario nella sua formazione.

Ancora ragazza, si oppone alla richiesta del podestà di Monticiano di consegnare beni alimentari sollecitando le altre donne del paese a seguire il suo esempio. Dopo l’8 settembre aiuta i renitenti alla leva a nascondersi nei boschi. Partecipa ai primi incontri degli antifascisti del senese decisi a concertare la lotta armata nascondendosi sul Monte Quoio, nel Comune di Monticiano, dove possono disporre degli essiccatoi per ripararsi e affrontare l’inverno. Da questo primo periodo Messina è la staffetta che prende contatto con le famiglie dei partigiani e incontra elementi del CLN per conoscere le parole d’ordine necessarie per ammettere gli uomini nella nascente Brigata Garibaldi “Spartaco Lavagnini”. Non si sottrae ai viaggi notturni, percorre a piedi e in bicicletta strade e viottoli, accompagna il dottore a curare i feriti, porta informazioni e ordini dei comandanti per i diversi gruppi partigiani dislocati in un territorio che con il passare dei giorni diviene sempre più ampio.

Il suo impegno si volge al reperimento di indumenti, scarpe e cibo che insieme alle cugine porta ai partigiani. In una occasione alcune vedette tedesche individuano le tre donne e aprono il fuoco, per fortuna senza colpirle; consegnato il cibo decidono di percorrere una strada diversa e di fermarsi da alcune parenti per farsi prestare dei vestiti, sperando di non rendersi riconoscibili qualora incontrino dei nemici lungo la strada del ritorno. Nella primavera del 1944 i partigiani, con l’aiuto della popolazione di Tocchi, ammassano nella scuola le armi ricevute da uno degli aviolanci effettuati dagli alleati, ma la notizia dell’arrivo imminente di una colonna di mezzi tedeschi costringe i combattenti a rifugiarsi nei boschi portando con sé solo una parte della fornitura. Messina, con l’aiuto di alcune donne, carica armi e munizioni su un carro e le nasconde nella cappella del cimitero. I tedeschi arrivano, occupano il paese ma non si accorgono di niente.

Conclusa la guerra si iscrive al PCI, è attiva nell’UDI e nel sindacato. Sarà riconosciuta partigiana combattente.

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Intervista in “Noi, partigiani. Memoriale della Resistenza Italiana



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🟪Intervista realizzata nel 1992, in Silvia Folchi, Anna Maria Frau, La memoria e l’ascolto. Racconti di donne senesi su fascismo, Resistenza e Liberazione, Siena, Nuova immagine, 1996, pp. 97-9.

In questo periodo io svolgevo il ruolo di staffetta. […] noi si prendeva ordini e si portavano ordini dalla città al raggruppamento fino al bosco. Gli incontri si facevano di nottetempo nei boschi. […] Non c’era da fare tanti discorsi lunghi, bisognava far svelti, ognuno tagliava corto.
Tutti questi spostamenti, Siena-Monticiano, si facevano in bicicletta. Poi in casa delle mie cugine ci si fissò, ci stava un dottore di Castelfiorentino e stava sempre lì, e noi la sera nottetempo sempre in bicicletta insieme al dottore per non mandarlo solo per non presta’ dubbi trovando i carabinieri, i fascisti, si viaggiava sempre in coppia: una donna e lui. Quando c’erano i feriti, quando c’erano i malati nei capanni, nei seccatoi dove vivevano i partigiani, s’andava, ci s’accompagnava il dottore e poi si ritornava. Questo dava meno nell’occhio. Una sera trovai il mi’ babbo che tornava dal lavoro, perché tutte le cose al mi’ babbo non gliele dicevo io, mica perché avevo paura. Ma lui aveva paura che io cascassi in qualche tranello, capito? Allora una sera si trovò, noi s’andava a Monticiano, che c’era stato dei partigiani feriti, e lui ritornava dal lavoro e ci trovò in bicicletta col dottore e la mi’ cugina. Mi disse “Dove vai disgraziata?” “O babbo stai tranquillo. Vai a casa, stai tranquillo. Io tomo. Presto torno. Prima che tu vada a letto io so’ già a casa”. E invece non fu cosi: si pernottò a Monticiano perché c’era già un bollore… Il dottore si nascose dietro il cimitero di Monticiano a aspetta’ che venissero quelli a pigliarlo, quelli che ci avevano i feriti, e noi s’andò a bussare a un’altra famiglia che era nelle nostre condizioni e si albergò lì. […]
Anche lui [il padre di Messina] accondiscendeva perché sapeva di avere un figlio in guerra e era tredici mesi che non si sapeva dov’era, sicché sapere che qualcuno faceva, allora anche lui si metteva nell’animo: “Può darsi che qualcuno faccia anche qualcosa per il mi’ figliolo”. Questo spirito a me anche mi ha portato proprio a fare di più, a rischiare di più di quello che dovevo rischia’, a pensare che il mi’ fratello […] aveva trovato persone come me che l’avevano aiutato e gli avevano dato da mangiare e era arrivato a sopravvivere e ritornare dalla Jugoslavia. Lui andò coi partigiani. Era con l’esercito, ma quando si fasciò l’esercito lui s’arruolò coi partigiani e allora non si poteva sape’ più notizie.
Noi s’aveva in casa, ci s’aveva, s’ammazzava tutti gli anni il maiale. S’ammazzò il maiale nelle feste di Natale e a marzo non s’aveva più niente da mangiare: né pane, né maiale. S’era bell’e dato via tutto per sfamare i partigiani. Loro piccinini si lavavano male, ce li portavano dei panni, poi s’erano riempiti d’animali.3 Erano sempre a dormi’ nei pagliericci, sicché si facevano bollì’ i panni poi gli si ridavano. Ma questo non era niente: stavano sempre coi soliti brandelli, le scarpe rotte, camminavano con i calcagni fori dalle scarpe. Un giorno ci si incontrò in un bosco con un gruppo e c’era anche i comandanti. C’era uno che mi fece tanta compassione piccinino: era scalzo e gli sanguinava tutti i piedi: “Se domani ci si ritrova ancora qui te le porto io le scarpe” dissi. “Allora –dissi – dove le trovo le scarpe?” Allora mi venne subito in mente. Dissi si va dal prete. Sicché andai dal prete e dissi: “Senta signor curato – dissi – mi deve dare un paio di scarpe nove”. “Ma per chi le voi ’ste scarpe?” Disse lui. “Non mi faccia domande, lei mi dia le scarpe e basta”. E me le dette, eh.
[…] Gli aiuti c’erano, o glieli davano o andavano anche loro stessi a cercarli, perché andavano alle fattorie e si facevano dare dei vitelli per la carne, si facevano dare del pane. […] Quando noi si incontrava qualche persona, che noi si partiva con questa roba, e ci chiedevano “Dove andate?” Eh, nei paesi sono curiosi! Gli si diceva: “Non ci siamo visti. Mi raccomando – ci si chiamava tutti a nome – fate conto di non averci visti perché altrimenti ci va di mezzo la nostra vita”, gli si diceva. Allora tutti tenevano, quelli più coscienti, tenevano il segreto insomma. Certo che quattro anni di guerra erano stati lunghi e la gente era stufa, e [se] aveva anche il minimo dubbio che qualcuno faceva qualcosa per veder di alleviare, di farla finita, stavano tutti nel cuore suo nel silenzio e tiravano avanti sperando, spendo che poi venisse una fine un po’ migliore. Certo, poi venne la solidarietà. Anche lì, per esempio, il fattore entrò anche lui nel nostro rango:4 ci faceva andare in fattoria ad ascoltare le radio. Perché poi quando noi si entrò in contatto con gli americani e con gli inglesi, francesi, la roba non ci mancò più. Ci portavano tutto loro: mangiare, vestiari, armi, tutto, e questo bisognava mettersi in contatto con chi aveva la radio,5 queste robe qui – allora la televisione non c’era – e noi si stava, le più volte, quando si sapeva che ci facevano i lanci, bisognava stare lì all’orecchio della radio per sapere la parola d’ordine che ci arrivava pe’ il lancio.

 




Anna Fondi (1924-2013)

Anna Fonti (©️Archivio Fondazione CDSE)

Nata il 19 gennaio 1924 a Prato, Anna Fondi abita in via del Cilianuzzo con la madre, il padre, un fervente antifascista, il fratello Giovanni (nato nel 1926), il nonno e la nonna.

A scuola è un’allieva brillante: ama studiare e leggere, vince molti premi, è spesso lodata dagli insegnanti. Tuttavia, per motivi economici, è costretta a interrompere gli studi dopo la quinta elementare. Durante questo periodo partecipa ad un solo saggio ginnico, perché il padre non vuole farle indossare la divisa da Piccola italiana.

A 12 anni e mezzo inizia a fare l’operaia nello stabilimento tessile del Fabbricone. Qui entra in contatto con altri antifascisti che, insieme al padre, contribuiscono a formare le sue idee.

Nel marzo 1944, su ispirazione del PCI, viene organizzato nell’Italia occupata uno sciopero generale che invoca la fine della guerra e un miglioramento delle condizioni economiche e alimentari. Questo atto di resistenza ha come epicentri le città di Milano e Torino, ma significativa è anche la partecipazione in Toscana, specie a Firenze, Prato ed Empoli. Anna partecipa attivamente, anche perché il padre è tra gli organizzatori. In fabbrica prende contatto con altri antifascisti e contribuisce a informare i lavoratori sulle ragioni della protesta. Allo sciopero segue un’ondata repressiva, con l’arresto e la deportazione di oltre 330 uomini rastrellati in Toscana.

Dopo la fine della guerra non presenta domanda di riconoscimento dell’attività partigiana. Si iscrive al PCI e frequenta la scuola di partito a Reggio Emilia per tre mesi; terminata l’esperienza, lascia la fabbrica e diventa responsabile femminile delle donne del PCI. Sposatasi nel 1951 con il sindacalista Bruno Fattori, nel 1958 rimane vedova con una bambina piccola.

Dai primi anni Cinquanta Anna ricopre diversi ruoli: lavora alla Camera del lavoro pratese, è consigliera comunale e assessora ai Servizi sociali; si impegna in particolar modo per l’istituzione di asili nido, per l’inserimento di persone con disabilità, per la creazione di servizi di assistenza domiciliare agli anziani. Dopo la pensione crea, insieme ad Eliana Monarca, l’Università della terza età, poi rinominata Università del tempo libero.

Nel 1998 le vengono consegnate la chiave d’oro e il premio “Città delle donne” dalla città di Prato per il suo impegno politico e sociale.

Anna Fonti (©️Archivio Fondazione CDSE)

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Intervista in: L. Antonelli, “Voci dalla storia. Le donne della Resistenza in Toscana tra storie di vita e percorsi di emancipazione“, Prato, Pentalinea, 2006, pp. 611-5

– Suo padre era originario di Prato?
– Il babbo era originario di Pistoia ed era venuto a Prato finita la Prima guerra mondiale dopo essere stato tanti anni in Svizzera a lavorare in miniera. A Prato era venuto grazie ad un amico conosciuto in guerra che l’aveva ospitato e in via Filicaia conobbe la mia mamma. Io da quando ho incominciato a capire qualcosa ho capito che il babbo era nell’antifascismo. Fecero una retata […] vicino a Montemurlo, quella strada che va a Albiano, ad un certo punto c’era una vecchia trattoria e lì si riuniva un gruppo di antifascisti. Tra loro s’era intrufolata una spia, ma loro avevan l’accortezza di non si chiamare per nome, di non dire dove stavano di casa perché avevano sempre timore. Quindi questa spia parlò e fece arrestare tutt’il gruppo, il Vanni, il Brunini, il Bellandi, tutt’il gruppo del mi’ babbo. La spia continuava a dire che c’era anche un forestiero nel gruppo perché il mì babbo che era stato dieci anni in Svizzera non parlava pratese, però il nome di questo forestiero non lo sapeva quindi il babbo fu l’unico di questo gruppo a salvarsi dall’arresto. Ho sempre avvertito l’antifascismo del babbo da quando ho cominciato a capire qualcosa, per esempio non m’ha mai voluto far vestire da Piccola italiana, diceva che s’aveva tanta miseria e non si poteva e aveva ragione, però…
Io avevo una maestra straordinaria, aveva capito la situazione di casa nostra e quindi non mi obbligava a vestirmi da Piccola italiana, soltanto una volta qualcuno mi prestò il vestitino perché c’era un saggio ginnico all’Ippodromo. Capivo che il babbo trovava dei pretesti, a me sarebbe tanto piaciuto in realtà vestirmi come le altre bambine. Insomma quest’atmosfera si viveva. […]
Il babbo era uno degli organizzatori dello sciopero del ’44, le riunioni le facevano a Narnali sicché una sera il babbo tornò con tutti i volantini da portare la mattina davanti alle fabbriche. Allora io sapendo che dovevo fare sciopero, presi contatto con questi compagni antifascisti di fabbrica, si parlò con tutti i lavoratori perché la gente aveva voglia che finisse la guerra, non aveva da mangiare, erano momenti drammatici. Allora tutti i lavoratori di Prato il sette, l’otto marzo fermarono le macchine, si rimase un paio di giorni a casa, poi il babbo mi disse: “C’è arrivato l’ordine ora si può rientrare, ma non lavorare”. Si rientra in fabbrica e non si fa partire i telai e questo tutti, anche un fascista istupidito dalla paura.
La mattina del 25 luglio sto poer’omo che paura gl’ebbe. “Grullo” – gli si disse – tu sei un operaio, tu sei fascista pe’ i’ che,1 che ci s’arrabbia con te, che ci si piglia con uno sciagurato come te?” Quindi si calmò.
S’aveva i telai fermi, verso una cert’ora arrivano i fascisti co i’ mitra e ci obbligano a far partire le macchine, c’erano anche dei fascisti che conoscevo con i mitra che ci spingevano.
Quando c’era loro in fabbrica si doveva produrre, ma praticamente si stava in fabbrica per produrre per i tedeschi.




Liliana Cecchi (1922-1998)

Liliana Cecchi (particolare di foto concessa da Fondazione CDEC, Milano, © Press Association, Inc. )

Liliana Cecchi, nata il 24 luglio 1922 da Giuditta Agostini e Massimiliano Cecchi, cresce nel quartiere popolare di San Marco, in cui nel corso del ventennio serpeggia l’ostilità verso il regime. Il padre, negoziante di prodotti ortofrutticoli, è un antifascista di vecchia data che ogni tanto subisce intimidazioni da parte delle autorità. Dopo l’8 settembre 1943 l’adesione di Liliana e di sua sorella Lina alla Resistenza è pressoché immediata: informate da un partigiano che il fratello è ricercato, si adoperano per aiutare non solo lui, ma anche altri soldati italiani disertori, attività che fa loro prendere contatto con il Gruppo di difesa della donna.

A Liliana in particolare è affidato il compito di lavorare presso il comando tedesco in piazza San Francesco, in qualità di dipendente comunale addetta al servizio annonario. Dal momento che il suo principale lavoro è la concessione di lasciapassare ai lavoratori agricoli, consegna un grande numero di permessi ai suoi compagni e compagne, permettendo loro di muoversi liberamente per la provincia occupata. Riesce a fare avere al partigiano Vasco Iozzelli documenti falsi e diversi permessi di recupero di grano e patate.

Si dedica nel corso dei mesi a un’intensa attività, trasportando anche armi e munizioni. Tra il 5 e il 6 settembre 1944, Liliana è informata dalla partigiana Lea Cutini che nella frazione di Ramini, in seguito all’uccisione di un soldato, i tedeschi per rappresaglia hanno arrestato il parroco ed il partigiano Guerrando Olmi. Nonostante il divieto del CLN, le due donne si presentano al comando e riescono a convincere i militari che il loro compagno è stato ucciso da una pattuglia alleata in ricognizione, ottenendo così il rilascio dei due ostaggi.

Finita la guerra Liliana lavora come impiegata comunale nel settore sociale e anche una volta pensionata si impegna in attività di volontariato. È una delle sette donne pistoiesi a ricevere la qualifica di partigiana combattente; viene inoltre insignita della Croce al merito di guerra e di altre onorificenze. È ritratta insieme alla sorella Lina e ad altri partigiani e partigiane, in una famosa foto scattata da un reporter statunitense nei giorni successivi alla Liberazione di Pistoia.

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🟩 STORIA DI UNA FOTO

Per gentile concessione della Fondazione CDEC, Milano, © Press Association, Inc. 

Lo scatto fu eseguito da un reporter della Press Association a Pistoia, all’incrocio tra via Abbi Pazienza e via Curtatone e Montanara, durante la Liberazione della città avvenuta l’8 settembre 1944. Da sinistra Israele (Lele) Bemporad, Liliana Cecchi, Bumeliana Ferretti Pisaneschi, Enzo Giorgetti (in secondo piano e con il volto parzialmente coperto dal fucile), Marino Gabbani, Lina Cecchi, un uomo russo non identificato e Lea Cutini (o Ilva Raffaella Ferretti). La fotografia è conservata anche presso l’Archivio ISRECPT, che ha riconosciuto in Lea Cutini la prima donna a destra, mentre il CDEC l’ha identificata come Ilva (Raffaella) Ferretti.

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🟪Relazione dell’attività svolta dei Gruppi di difesa della donna della provincia di Pistoia, in Archivio ISRT, Fondo Marchesini, f. “Gruppi difesa della donna”,  pubblicata in Rosangela Mazzamuto Degl’Innocenti, La Resistenza e la presenza femminile a Pistoia, in Comitato femminile antifascista per il XXX della Resistenza e della Liberazione in Toscana, Donne e Resistenza in Toscana, Firenze, Giuntina, 1978, pp. 300-1. 

Il primo Gruppo costituito nella provincia è stato a Poeta (via Pratese) nel gennaio del 1944, formato di tre elementi che si sono impegnate di ostacolare per quanto era possibile il transito degli automezzi tedeschi su quella strada, fornendo informazioni sbagliate e seguendone il movimento.
Si è costituito nel febbraio dello stesso anno per la resistenza nella fabbrica della SMI. Indi nel mese di marzo il Gruppo di Lamporecchio, successivamente il Gruppo di Larciano, di San Piero, di Candeglia, di Pontelungo e della città: disponevamo di elementi in quasi tutte le località della provincia.
Quando si è ben presentata la necessità, del lavoro militare ogni gruppo ha fornito un buon numero di ottime staffette che hanno trasportato armi, hanno mantenuto il collegamento tra le squadre e le formazioni. […]
Due compagne, Ferretti Raffaella e Cecchi Liliana, hanno prestato servizio presso il Comando tedesco, adoprandosi a falsificare nomi e dati per fornire i permessi necessari ai compagni.
Una staffetta, Cecchi Lina, ha mantenuto il contatto della zona sud con la parte nord, tenendo inoltre il collegamento con il Segretario del PC distaccato a Ramini.
Un episodio degno di lode è quello che ha avuto a interpreti principali due compagne, Cutini Lea ved. Breschi e Cecchi Liliana. A Ramini, dopo l’uccisione di un soldato tedesco, sono stati arrestati come ostaggi e dietro minaccia di fucilazione, il Segretario del Partito comunista e il Parroco del luogo. Era stata arrestata anche la Cutini, responsabile della staffetta della zona. Questa, rilasciata, di notte ha avvertito immediatamente i compagni ed è venuta in città per tentare la liberazione degli arrestati. La Cecchi si è prestata ad andar al Comando tedesco, dove era conosciuta, per testimoniare che da una pattuglia inglese era stato catturato un soldato tedesco di cui era in grado di fornire i dati. Essa ha saputo con incredibile calma convincere i nazisti, prestandosi anche a riconoscere il soldato tedesco in un buon numero di fotografie. Grazie al coraggio e alla prontezza di queste due compagne i due arrestati sono stati rilasciati e salvati da sicura morte.
Altre donne si sono incaricate della confezione di bracciali per i partigiani, della ricerca di medicinali, di indumenti.
Alcune case di organizzate sono state trasformate in deposito di armi, di stampa.
Tutte le organizzate hanno prestato la loro opera con fede e costanza, senza avvertire la stanchezza e rifiutando la paura, viaggiando attraverso i posti di blocco tedeschi, soggette a perquisizioni e a requisizioni. Hanno continuato la loro lotta contro i nazifascisti, adoprandosi a seguirne i movimenti, ad ostacolare le loro opere di rastrellamento, fiduciose che i loro sacrifici sarebbero stati coronati dalla vittoria completa.
La dirigente dei Gruppi di difesa della donna.




Livia Gereschi (1910-1944)

Livia Gereschi

Nasce a Pisa nel gennaio del 1910 dall’insegnante Giuseppina Gucci e dal commercialista Giuseppe Gereschi. Dopo la laurea intraprende la carriera di insegnante di lingue straniere nei corsi di avviamento professionale, seguendo così le orme materne. Si dedica inoltre al volontariato come infermiera della Croce rossa italiana, prestando servizio presso l’ospedale Santa Chiara di Pisa e l’ambulatorio di pronto soccorso.

Nel 1944, a seguito dei bombardamenti su Pisa, è costretta a sfollare insieme alla madre a Pugnano, una frazione del Comune di San Giuliano Terme situata nella valle del Serchio, trovando ricovero in una stalla abbandonata adibita a rifugio, insieme a molti altri civili provenienti principalmente da Pisa e Livorno. La conoscenza del tedesco rende Livia un prezioso tramite tra le forze di occupazione naziste e le autorità locali: presta infatti servizio come interprete.

L’area dei Monti Pisani, dove sfollano le Gereschi, è zona di azione della formazione partigiana “Nevilio Casarosa”, attiva su quel territorio tra la fine di luglio e i primi di agosto 1944. Dall’altra parte i tedeschi stanno attuando anche in questo settore della Toscana una “ritirata aggressiva” che include l’uso estensivo della violenza contro i civili, non solo come forma di ritorsione indiscriminata nei confronti dei partigiani, ma anche per vendetta contro popolazioni considerate ostili e per procurarsi manodopera forzata.

Durante la notte tra il 6 e il 7 agosto le truppe della 16ª SS-Panzergrenadier-Division “Reichsführer-SS” e della 65ª Infanterie-Division della Wehrmacht effettuano un rastrellamento nella località La Romagna, presso Molina di Quosa, catturando circa 300 civili. L’intento è quello di ottenere informazioni sull’organizzazione partigiana, minacciando la popolazione di gravi rappresaglie.

In questo contesto, Livia diviene l’unico tramite tra i prigionieri e i nazisti e, dopo lunghe trattative, riesce a ottenere il rilascio di donne e bambini. Ciononostante, l’insegnante viene trattenuta con il gruppo degli uomini considerati inabili al lavoro e trasferita nella scuola media di Nozzano, in provincia di Lucca, dove la 16ª Divisione ha la propria base operativa. Qui rimane prigioniera in condizioni durissime per diversi giorni, subendo violenze e maltrattamenti. L’11 agosto 1944, insieme ad altri prigionieri, viene condotta in località La Sassaia, presso Massarosa, in provincia di Lucca, e fucilata.

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Deposizione della madre Giuseppina Gucci, 1947, in: Michele Battini, Paolo Pezzino, “Guerra ai civili. Occupazione tedesca e politica del massacro. Toscana 1944“, Venezia, Marsilio, 1997, p. 508. La deposizione fu resa durante il processo contro il generale della Wehrmacht Max Simon, che si tenne a Padova nel 1947.

Livia Gereschi

Nell’agosto 1944 ero sfollata con mia figlia Livia Gereschi al paese di Romagna, sulle montagne di Molina di Quosa. All’alba del 7 agosto 1944 un’unità di ss tedesche fece irruzione in paese con il pretesto di dare la caccia ai partigiani. Le case e le baracche furono circondate dai tedeschi e uomini e donne senza distinzione furono costretti ad uscire e radunati in un grande prato.
Gli uomini furono separati dalle donne, gli ufficiali delle ss si rivolsero alle donne, minacciandole di morte se non avessero rivelato i nomi e il domicilio dei partigiani. Siccome le donne non dissero nulla i tedeschi decisero di ricorrere alla deportazione di tutte le persone rastrellate.
Gli uomini furono divisi in due gruppi; il primo gruppo era formato da uomini che accettarono di lavorare, il secondo gruppo era costituito da coloro che, avendo una qualche infermità, avevano chiesto di essere portati da un dottore per la visita medica.
Tra le donne c’era mia figlia, un’infermiera volontaria della Croce rossa che, parlando il tedesco correntemente, funse da interprete, ottenendo dopo molte ore il rilascio di tutte le donne, ma lei, senza un motivo, venne trattenuta e dovette raggiungere il gruppo dei disabili (circa 70 uomini), insieme ai quali camminò fino a Nozzano, dove poi furono rinchiusi nei locali della scuola. In questa scuola mia figlia funse ancora da interprete, ciononostante venne trattata sempre con modi brutali.
L’11 agosto i tedeschi iniziarono a portar via a piccoli gruppi gli sventurati, che credevano di essere portati a Lucca per la visita medica come gli era stato assicurato. Invece furono portati in aperta campagna ed uccisi a colpi di mitra.
Verso le 17.00 dello stesso giorno, le 29 persone che erano rimaste, tra le quali si trovava anche mia figlia, furono fatte salire su di un camion e condotte a “La Sassaia” una piccola borgata nel Comune di Corsanovo. Là furono radunati in un luogo solitario e al cenno di un ufficiale furono uccisi a colpi di mitraglia. L’ufficiale li finì sparando loro con la pistola. I tedeschi delle ss non vollero seppellire i corpi quella stessa sera. Il giorno dopo giunsero altri giovani rastrellati dalle ss e furono costretti a scavare una fossa comune. I tedeschi non permisero che mia figlia – l’unica donna – fosse sepolta in una tomba separata.




Cristina Lenzini (1903-1944)

Cristina Lenzini

L’unica immagine di Cristina Lenzini che è stato possibile rintracciare 

Nata a Pisa nel 1903 da una famiglia di braccianti, si sposa con Alfredo Ardimanni, militante anarchico, da cui ha il figlio Alberto nel 1923. L’anno successivo la coppia emigra in Francia, per sfuggire alle persecuzioni e alle minacce di morte dei fascisti, stabilendosi nei pressi di Marsiglia, dove Alfredo svolge prima l’attività di muratore e poi quella di piccolo imprenditore edile. Dopo qualche anno si trasferiscono a Tolone, tenendosi in contatto con i gruppi di fuorusciti antifascisti.

Allo scoppio della guerra, Alfredo viene rinchiuso con altri italiani nel campo d’internamento di Saint Cyprien, nei pressi della frontiera spagnola, da cui sarà successivamente rilasciato. Nel 1942 la coppia si separa e Cristina torna in Italia, mentre Alfredo e il figlio rimangono in Francia, affrontando varie peripezie per evitare la cattura da parte dei nazisti.

Cristina raggiunge l’Appennino modenese, dove, nei pressi di Pian dei Lagotti, vive la nonna materna; nella primavera del 1944 si unisce ai partigiani sui monti della Versilia. Una decisione probabilmente maturata durante un soggiorno a Pisa, dove, ogni tanto, si reca per far visita ai suoi familiari. Prende parte attiva alle vicende della formazione “Bandelloni”, mostrando un carattere forte e combattivo.

L’8 agosto 1944 le compagnie 3a e 4a della 10a bis Brigata Garibaldi “Gino Lombardi”, in cui è confluita la Bandelloni, sono impegnate contro nazisti e fascisti sul Monte Gabberi, con pochi mezzi e isolate rispetto al resto della brigata che ha deciso di ripiegare dopo i combattimenti dei giorni precedenti. Lo scontro s’inserisce pienamente nel contesto dell’estate del 1944 a ridosso della linea Gotica, segnato da intensi scontri con le forze partigiane, rastrellamenti e stragi di civili.

Secondo le testimonianze, Cristina Lenzini muore proteggendo il ripiegamento dei compagni con la mitragliatrice. Infatti un nucleo della 3a compagnia, per permettere lo sganciamento della formazione, si sacrifica perdendo sette componenti, oltre a diversi altri feriti. Dopo la Liberazione sarà riconosciuta partigiana combattente.

Nel 2006, dopo una lunga ricerca dell’ANPI di Pietrasanta, è stato rintracciato il figlio Alberto, residente in Nuova Caledonia e divenuto un impresario edile.

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🟥 Memoria del partigiano Moreno Costa, in Giovanni Cipollini (a cura di), “Quattro anni sulla Linea Gotica. Ricordi di Moreno Costa partigiano, volontario nei Gruppi di combattimento, sminatore“, Viareggio, Grafiche Ancora, 2018, pp. 50-1.

Cristina era una donna decisa e pareva come una mamma, con i suoi quarant’anni, a noi che eravamo quasi tutti molto giovani. Alcuni la chiamavano “la francese”, per la sua provenienza, ma sapevamo poco della sua storia personale. Partecipava alle azioni, dimostrando di sapersi adattare bene ai disagi della vita in montagna, e si distinse nei combattimenti avvenuti durante il rastrellamento effettuato dalle SS sul monte Ornato, alla fine del luglio 1944. Il successivo 8 agosto noi della “Bandelloni” eravamo dislocati sopra Farnocchia, quando fummo attaccati dai Tedeschi. Prendemmo posizione per difenderci, ma fummo oggetto di un violento fuoco di mortai. Io mi trovavo ad un centinaio di metri dalla postazione in cui era Cristina, in località Le Mandrie, non potendo resistere all’attacco fu deciso lo sganciamento. Quando, dopo alcune ore, ci riunimmo nel luogo convenuto, venni a saper che era stata uccisa da un colpo di mortaio mentre azionava una mitragliatrice.