Una campagna elettorale fiorentina ad “alta conflittualità”.

La parte clerico-moderata si prepara con alacrità all’assalto di Palazzo Vecchio. L’«Unione Liberale», che ne è l’organo, sta per essere sollecitamente battezzata e per entrare in guerra aperta. Tra le forze reazionarie si serrano le file, e non v’è dubbio che la lotta elettorale imminente sarà tra le più vivaci che si ricordino in Firenze: sarà anche altrettanto grave nelle sue conseguenze, e decisiva per la fisionomia politica della città.

Noi sentiamo di non esagerare affatto la portata di questa battaglia (…) Sin che sulla torre di Palazzo Vecchio sventola la bandiera della Democrazia, il fermento di vita nuova per cui le forze democratiche si risollevano in ogni angolo della Regione non può spegnersi e ritornare nella quiete mortale, che la democrazia fiorentina ha tanto cooperato a interrompere col suo esempio e col suo richiamo. Una democrazia stabilmente insediata al governo di Firenze irraggia il calore della sua energia sino ad ognuna delle nostre terre.[1] 

 

Il 5 maggio 1910, anticipando l’imminente convocazione dei comizi per il rinnovo parziale del Consiglio comunale fiorentino, «L’Opinione Democratica», quotidiano fondato e diretto dal futuro Gran Maestro della Massoneria, Domizio Torrigiani, chiamava a raccolta contro il probabile assalto dei clerico-liberali le forze della Democrazia fiorentina, le quali da tre anni governavano Palazzo Vecchio. L’Unione dei Partiti Popolari, un’alleanza bloccarda stipulata tra socialisti, repubblicani, radicali e demo-sociali, aveva infatti clamorosamente vinto le elezioni amministrative generali fiorentine del 1907, spezzando l’intramontabile egemonia dei liberali moderati fiorentini e mandando al governo della città due giunte di sinistra guidate, la prima (1907-1909), dall’avvocato Francesco Sangiorgi – primo Sindaco popolare della città – e la seconda (1909-1910) dal medico anatomista Giulio Chiarugi, entrambi appartenenti al piccolo gruppo dei demo-sociali.

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Domizio Torrigiani, futuro Gran Maestro della Massoneria. Fu candidato nella lista popolare alle elezioni amministrative fiorentine del 1910 quando diresse il quotidiano elettorale “L’Opinione Democratica” (Fonte immagine: Wikipedia, public domain)

Salite al potere con un programma in undici punti nel quale erano state richieste fra le altre cose la municipalizzazione dei servizi pubblici, una riforma tributaria a base progressiva, la laicizzazione delle opere pie, la refezione scolastica gratuita e l’insegnamento laico, le forze popolari avevano dato vita nei tre anni di loro governo a un’esperienza amministrativa di grandi novità in campo sociale e culturale. Tra le principali realizzazioni delle due giunte bloccarde si potevano annoverare: il rilancio dell’edilizia popolare, l’organizzazione di inchieste sulle condizioni di vita e di lavoro nelle fabbriche, una larga opera di risanamento igienico-sanitario (che vide la costituzione dell’Istituto di igiene del comune, la costruzione di un nuovo impianto per il servizio di nettezza urbana e il progetto per il nuovo ospedale di Careggi), la laicizzazione dell’istruzione e dei nosocomi (l’insegnamento religioso nelle scuole fu reso facoltativo e negli ospedali si sostituirono le suore-infermiere con del personale laico appositamente formato), infine misure straordinarie volte alla salvaguardia e alla valorizzazione del patrimonio storico-artistico cittadino (fu istituito l’Ufficio comunale di Belle Arti e Antichità, il Museo del Risorgimento e la Galleria d’arte moderna, nonché avviati i lavori di restauro di Palazzo Vecchio). Queste ed altre misure più propriamente “politiche”, quali il sussidio annuo concesso alla Camera del Lavoro cittadina o l’intitolazione nel 1909 della via dell’Arcivescovado al pedagogista libertario spagnolo Francisco Ferrer Guardia, avevano contribuito a segnare una profonda discontinuità nel governo cittadino rispetto alle precedenti amministrazioni rette dai liberali fiorentini.

Il sorteggio di venti consiglieri su sessanta – tredici popolari (tra cui l’avvocato Giuseppe Pescetti, primo deputato socialista toscano, e Sebastiano Del Buono segretario della Camera del Lavoro di Firenze) e sette monarchici (più due dimissionari) – da rinnovarsi con la convocazione dei comizi fissata per il 19 giugno 1910 rappresentò per l’amministrazione popolare la prima effettiva prova elettorale dopo il successo del 1907. Considerazioni politiche e opposte progettualità municipali si intrecciavano in vista delle urne, riaccendendo la tradizionale conflittualità tra “liberali” e “popolari”, i primi ansiosi di modificare gli equilibri municipali nella speranza di poter rientrare in possesso del governo della città e i secondi decisi invece a consolidare la loro esperienza amministrativa. La giunta Chiarugi a quell’appuntamento aveva cercato di giungere mettendo al sicuro alcuni importanti provvedimenti, quali un progetto di riscatto dei ponti di ferro cittadini e la costruzione di alcuni edifici scolastici, ottenendo però per tutta risposta l’intervento della Giunta Provinciale Amministrativa, controllata dai liberali, la quale bloccò e poi rigettò il progetto di bilancio preventivo per il 1910, agendo, a detta dei popolari, con finalità elettorali. Già in precedenza, la portata finanziaria dei progetti varati dalla giunta Sangiorgi avevano prodotto evidenti difficoltà per l’amministrazione bloccarda, sollevando persino contrasti e dissidi entro i tre partiti popolari alleati.

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L’avvocato Francesco Sangiorgi, primo sindaco popolare di Firenze eletto nel 1907 (Fonte immagine: Wikipedia, public domain)

Nonostante alcune incertezze inziali, alle elezioni parziali del giugno 1910, l’alleanza popolare tra socialisti, repubblicani e demo-sociali venne riconfermata. Il 26 maggio presso la Fratellanza Artigiana d’Italia si tenne l’assemblea delle commissioni elettorali dei tre partiti popolari nella quale si sancì la suddivisione dei seggi all’interno della lista comune, assegnandone 11 ai socialisti, 6 ai repubblicani e 3 ai demosociali. Tra i nomi in lizza, oltre a quelli del Pescetti e di Del Buono, vi erano anche quelli del già citato Domizio Torrigiani (presentato contemporaneamente candidato alle provinciali per il mandamento di Santa Maria Novella), dell’avvocato Michele Terzaghi, direttore del settimanale della federazione socialista fiorentina «La Difesa», del libraio Oreste Gozzini e dell’ex radicale Alfredo Brogi, entrambi candidati repubblicani. Più tardi vennero diffusi un manifesto unico nel quale si difendevano le posizioni conquistate durante la gestione popolare del comune in «fede al programma» del 1907.

Sul fronte opposto, i liberali si presentavano alle urne con una formazione inedita, esito di una profonda e radicale rifondazione delle strutture organizzative del partito avviatasi all’indomani del pesante fallimento subito in occasione delle elezioni politiche del 1909, quando essi avevano perduto contro i candidati dei popolari in tre dei quattro collegi cittadini. Il 30 gennaio 1910 era stata infatti costituita l’Unione Liberale affidata alla presidenza del marchese trentasettenne Filippo Corsini che veniva a raccogliere, rifondendole, tutte le vecchie gradazioni monarchie fiorentine: dai moderati appartenuti alla Patria, Re, Libertà e Progresso (la vecchia associazione dei consorti toscani creata nel 1882) ai democratici della Federazione Democratica Costituzionale, dai giovani liberali borelliani al gruppo degli ex-radicali riuniti attorno alla figura di Lorenzo Piccioli-Poggiali, l’ex ferroviere passato dall’internazionalismo delle origini a posizioni di liberalismo progressista. Si trattava in sostanza di un soggetto nuovo cui corrispondeva una politica di rottura col vecchio moderatismo toscano e di opposizione tanto ai clericali quanto al socialismo. Tra le linee programmatiche del neocostituito sodalizio liberale si trovavano alcune aperture a ipotesi di intervento pubblico nella vita economica, l’ammissione di alcune forme di municipalizzazione dei servizi, un potenziamento dell’istruzione e dell’educazione nazionale e laica intesa anche come base di accesso a una cittadinanza politica più consapevole funzionale a una prossima introduzione del suffragio universale maschile. Sul piano tattico elettorale, invece, veniva dichiarata la piena indipendenza d’azione del sodalizio, che lo poneva perciò a netta distanza dai «partiti che in politica si fanno sgabello della fede e dell’organizzazione religiosa»[2].

Filippo Corsini

Il marchese Filippo Corsini, presidente dell’Unione Liberale ed eletto sindaco di Firenze alle elezioni del novembre 1910, ritratto da Filiberto Scarpelli (Fonte: G. Spadolini, “Firenze fra l’800 e ‘900: da Porta Pia all’età giolittiana”, Le Monnier, Firenze, 1984)

Si trattava di una dichiarazione importante, in quanto per la prima volta veniva espressamente negata la volontà di proseguire sulla strada delle intese clerico-moderate che invece in precedenza avevano spesso caratterizzato la condotta elettorale dei liberali. Simili dichiarazioni urtarono però i clericali del Comitato Cattolico Elettorale cittadino i quali votarono in risposta un ordine del giorno di condanna, salvo poi proporre una propria lista di venti candidati, nove dei quali erano in comune con la lista presentata dall’Unione Liberale. Coincidenza questa che spinse i popolari a rivolgere ai liberali le consuete accuse di clerico-moderatismo. Tra i candidati dell’Unione, al posto dei tradizionali esponenti del patriziato fiorentino che da decenni fornivano i quadri del partito liberale, si trovavano invece per lo più esercenti, commercianti, imprenditori, come gli industriali Giovanni Berta e il fotografo Vittorio Alinari, e persino impiegati subalterni come Giuseppe Mariotti o il ferroviere Virgilio Fontebuoni.

La montante campagna elettorale si dimostrò subito tesa, dando corso nei giorni immediatamente precedenti le elezioni a una serie di tafferugli e incidenti. Dopo che a favore dei popolari erano giunte adesioni da parte degli impiegati postelegrafonici e dell’Associazione del personale dipendente del Comune, una rappresentanza dissidente di quest’ultima organizzò una riunione elettorale presso il Gambrinus nella quale intervennero circa trecento tra impiegati e salariati comunali e al termine della quale fu votato a maggioranza un ordine del giorno di adesione alla lista dell’Unione Liberale. Una serie di disordini scoppiò prima e dopo la riunione nell’adiacente piazza Vittorio Emanuele (oggi Piazza della Repubblica). Qui

[…] Alcuni giovani della Unione Liberale si sono soffermati sotto i portici, ed i numerosi popolari che facevano aia dalla parte del Paskowski hanno intonato il Miserere e l’Ave Maria. Gli altri hanno risposto con grida di abbasso ed i popolari hanno cominciato allora a cantate l’Inno dei lavoratori e l’Inno repubblicano.[3]

Poco dopo altri gruppi di sostenitori delle opposte fazioni, direttisi in Piazza del Duomo, si azzuffavano in Piazza dell’Olio facendo intervenire la pubblica forza.

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Gaetano Pieraccini, medico e deputato socialista eletto nelle file dei popolari alle elezioni amministrative fiorentine del 1910, ritratto da Filiberto Scarpelli (Fonte: G. Spadolini, cit.)

Negli stessi giorni, l’affissione dei manifesti elettorali nelle vie del centro e specialmente in Piazza Duomo e intorno al Palazzo Arcivescovile diviene spesso occasione per il formarsi di manifestazioni spontanee che procedendo incalzate dalla polizia terminano solitamente o in via Martelli (quelle popolari) sotto la redazione dell’«Opinione Democratica» o in via Ricasoli (quelle liberali) sotto la sede dell’Unione Liberale. Quasi ogni volta scoppiano nei cortei tumulti, tafferugli e persino episodi di scontri armati, come accade ad esempio il 19 giugno in via Ricasoli, quando a seguito di alcuni colpi di pistola esplosi nella folla rimangono feriti alcuni manifestanti e vengono di conseguenza effettuati alcuni arresti.

Preannunciatesi con tali segni di conflittualità, quelle del 19 giugno 1910 furono tra le elezioni municipali fiorentine più partecipate dei precedenti due decenni, registrando un’affluenza alle urne del 64%. Il voto assegnò una netta vittoria alla lista dell’Unione Liberale, che vide eleggere tutti e venti i propri candidati. I quattro posti di minoranza vennero occupati invece da candidati popolari: due socialisti uscenti vennero riconfermati (il Pescetti e il ferroviere Alessandro Alessandrini) e due repubblicani (Gozzini e Brogi).

Per i popolari si trattò di un duro colpo che spinse il sindaco Chiarugi, la sua Giunta e tutta la vecchia maggioranza popolare a presentare in tronco le proprie dimissioni come atto di responsabilità morale di fronte alla sconfitta. Con il governo municipale dimissionario, Palazzo Vecchio fu affidato al commissario prefettizio Alfredo Ferrara a cui spettò traghettare l’amministrazione verso nuove elezioni, stavolta generali, fissate per il novembre del 1910. Il rinnovo di tutti e sessanta i consiglieri costituiva per i liberali una grande occasione per mettere in mora l’esperienza delle due giunte popolari e ambire così a riprendere il controllo di Palazzo Vecchio dopo tre anni di assenza. La battaglia elettorale venne inaugurata nella sostanza dallo stesso commissario prefettizio Ferrara con la pubblicazione del bilancio di previsione per il 1911 del Comune nel quale veniva indicato un deficit di un milione e duecentomila lire, stimato a incrementare fino a due milioni e mezzo; con questo documento, tacciato subito dai popolari come un “bilancio elettorale”, si metteva sostanzialmente all’indice la gestione finanziaria delle due precedenti giunte popolari. Per concentrare il fuoco contro il presunto malgoverno dei popolari, l’Unione Liberale, oltreché continuare a fare affidamento su «La Nazione», il vecchio foglio dei moderati toscani, stampò e fece uscire per tutto il periodo elettorale un proprio quotidiano, «La Gazzetta Liberale».

Il nuovo giornale 16 giugno

Un articolo de “Il Nuovo Giornale” del 16 giugno 1910 riporta la notizia di scontri e disordini verificatisi tra elettori popolari e liberali.

Riconfermando nel proprio manifesto il suo programma di «democrazia liberale», l’Unione presentava una lista di maggioranza di 48 candidati con nomi rappresentativi delle più varie tendenze (liberali di destra come Paolo Guicciardini, Alessandro Chiappelli o il nazionalista Enrico Corradini, liberali di sinistra come Mario Aglietti, il futuro sindaco di Firenze Orazio Bacci, Piccioli-Poggiali, Guido Mazzoni e borelliani quali Ademiro Campdonico) che per il loro assortimento non mancarono di suscitare da parte degli avversari l’accusa di costituire una sorta di «arcobaleno che va dal violetto cupo» per non dire «nero», «fino al giallo chiaro e al roseo tendente invano al rosso»[4]. Seguivano poi da parte dei popolari le solite accuse di taciti accordi stabiliti dai liberali con i cattolici e mantenute anche dopo che questi ultimi ebbero dichiarato la loro formale estraneità dalla contesa elettorale.

Entro il fronte popolare, nel frattempo, la situazione si era particolarmente complicata, facendosi strada tra i tre partiti la tentazione di rompere l’unità bloccarda in nome di una linea di intransigenza elettorale. La rottura si ebbe a seguito dell’XI Congresso socialista svoltosi a Milano tra il 21 e il 25 ottobre 1910, dove venne sanzionata la responsabilità dei repubblicani per aver scisso durante le vertenze agrarie scoppiate in Romagna «le forze dell’organizzazione operaia a vantaggio della reazione capitalistica». In ragione del rifiuto delle accuse mosse dai socialisti, la sezione repubblicana fiorentina decise di rinunciare a qualunque trattativa elettorale con i “partiti affini”, maturando pertanto la decisione di uscire dall’alleanza popolare. La defezione dei repubblicani ridusse perciò i contraenti dell’unione popolare a due, dopo che socialisti e demo-sociali ebbero riconfermata la decisione di presentarsi alle elezioni assieme. Mentre perciò i repubblicani presentarono una propria scheda di minoranza, socialisti e demosociali votarono una lista comune di maggioranza di 48 candidati.

Gazzetta 12 nov

“La Gazzetta Liberale”, il foglio dell’Unione Liberale, attacca la gestione popolare del comune di Firenze (12 novembre 1910)

Come già nel turno precedente di giugno, anche stavolta la campagna elettorale raggiunse un’intensità inedita. Senza riguardi fu la lotta per la diffusione delle schede elettorali, l’affissione di manifesti e la mobilitazione degli elettori organizzata quest’ultima ciascuno secondo le proprie possibilità. L’Unione Liberale – riportava sarcasticamente un giornale avverso – aveva disposto ad esempio

che tutti gli elettori unionisti vadano domani mattina a votare in veicolo. Sono stati mobilitati molti fiacres e un grandissimo numero di automobili. Per accedere a questi veicoli vari sono state stampate tessere speciali, di diversa forma e di diverso colore, classificando gli elettori a seconda della loro importanza.[5]

Un gran numero di comizi ed assemblee si susseguirono le une alle altre nei giorni e nelle settimane precedenti il voto, registrando una partecipazione massiva senza precedenti. La sera del 24 novembre, ad esempio, furono circa settemila i sostenitori che si riunirono alla Palestra Ginnastica Fiorentina per assistere alla grande adunanza elettorale dei popolari inaugurata dal segretario della Camera del Lavoro Sebastiano Del Buono. Non da meno i sostenitori dei liberali che in circa cinquemila la sera precedente avevano preso d’assalto il Salone della Pergola per assistere alla manifestazione organizzata dall’Unione Liberale. Numerosi anche i contraddittori organizzati tra sfidanti, come quello tenutosi nella sede dell’Associazione Aurelio Saffi tra il socialista Gaetano Pieraccini e il repubblicano Gino Meschiari. Decisamente in grande stile il “confronto all’americana” che, sotto lo sguardo vigile di poliziotti in borghese infiltrati nel pubblico, si svolge il 25 novembre presso il Teatro della Pergola tra “popolari” e “liberali” nel quale prendono parola e si affrontano sui rispettivi programmi i principali candidati dei due partiti in lotta. Senza precedenti, sono anche però gli incidenti e gli episodi di violenza registratisi al margine di alcuni assembramenti elettorali. Il più eclatante è sicuramente l’aggressione subita dal socialista Gaetano Pieraccini, per la quale la stampa di partito fece ricostruzioni del tutto contraddittorie, scatenando una raffica di accuse da ambo le parti. Secondo il racconto offerto dalla stampa popolare, il medico e deputato socialista, recatosi ad assistere con regolare invito all’adunanza dell’Unione Liberale, sarebbe stato bastonato all’ingresso della sala da alcuni liberali riportando lesioni alla testa e venendo ricoverato a Santa Maria Nuova. Per la stampa liberale, invece, il Pieraccini sarebbe stato erroneamente colpito da alcuni suoi stessi compagni di partito durante il tentativo di entrare senza invito all’adunanza organizzata dagli avversari col celato intento di recare disturbo.

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Si riporta la notizia dell’aggressione subita dal socialista Gaetano Pieraccini all’ingresso del salone della Pergola in occasione di un’adunanza elettorale dell’Unione Liberale (“Il Fieramosca”, 25 novembre 1910)

Il 27 novembre, con una percentuale di affluenza del 62,5%, il voto riconfermò ampiamente la vittoria della lista dell’Unione Liberale, i cui candidati ottennero tutti i 48 seggi di maggioranza. Di questi, 26 facevano ingresso per la prima volta in Consiglio. Tra di loro vi erano: il figlio del deputato Francesco Guicciardini, Paolo, tra i fondatori assieme al senatore Guido Mazzoni (altro eletto) dell’Unione Liberale; il letterato Alessandro Chiappelli; il medico igienista e fotografo Giorgio Roster; lo storico e museologo Giovanni Poggi; i già citati Orazio Bacci ed Enrico Corradini; Giotto Dainelli, figlio del generale ed ex consigliere comunale Luigi e altri ancora. Seguivano quindi i dodici consiglieri di minoranza eletti nella lista dell’Unione dei Partiti Popolari il primo dei quali in ordine di elezione era staccato dall’ultimo dei liberali di circa tremila voti. Tre di questi erano eletti per la prima volta (i socialisti Giuseppe Del Bene, Vincenzo Pugliese e Giovanni Fantechi) a cui si aggiungevano i demosociali Francesco Sangiorgi, Giulio Chiarugi e Vittorio Tarchiani e i socialisti Diego Garoglio, Carlo Corsi, Alessandro Alessandrini, Giovanni Pescetti, Adolfo Capaccioli e Gaetano Pieraccini.

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I socialisti fiorentini rinnovano l’alleanza elettorale dei partiti popolari per le elezioni amministrative del novembre 1910 (“La Difesa” 12 novembre 1910)

Proclamati i nuovi eletti, a capo della nuova amministrazione fu designato dalla maggioranza consiliare il presidente dell’Unione Liberale Filippo Corsini, eletto nuovo sindaco di Firenze nella adunanza del 12 dicembre 1910. Dopo tre anni di gestione popolare del comune, i liberali tornavano così alla guida della città. I propositi del nuovo corso municipale dichiarati in un apposito manifesto affisso alla cittadinanza nel quale ci si augurava che da quelle elezioni potesse avere inizio per l’amministrazione cittadina «un’era nuova di lavoro fecondo, al quale tutti gli eletti, così quelli della maggioranza come quelli della minoranza portino senza ire, senza rancori, il contributo della loro assidua e diligente operosità»[6], sarebbero però stati presto smentiti. A fronte dell’aggravarsi della situazione sociale e politica del paese si sarebbe assistito negli ultimi anni dell’età giolittiana all’approfondirsi della crisi di rappresentatività della classe liberale italiana e della sua incapacità di tenere il passo con le trasformazioni sociali ed economiche del paese. Il protrarsi del conflitto politico tra liberali e popolari (socialisti soprattutto), sarebbe infatti divenuta di lì in poi, e almeno sino all’avvento del fascismo al potere, una costante anche della scena fiorentina.

 

[1] Si serrano le file, «L’Opinione Democratica», 5 maggio 1910.

[2] All’Unione Liberale, «Fieramosca», 26 maggio 1910.

[3] Tafferugli, colluttazioni e squilli di tromba per un’adunanza al Gambrinus, «Il Nuovo Giornale», 16 giugno 1910.

[4] La lista dell’Unione e “la vecchia minoranza”, «Fieramosca», 20 novembre 1910.

[5] Caste elettorali, «Fieramosca», 26 novembre 1910.

[6] L’adunanza del gruppo consigliare dell’Unione Liberale, «L’Unità Cattolica», 2 dicembre 1910.




Il giorno che l’airone imparò a volare.

Sono passati ormai ottant’anni dal 29 maggio 1940, un giorno che sulla montagna pistoiese fu caratterizzato da freddo, pioggia e grandine.

Il grigiore diffuso non era però solo quello atmosferico: l’Europa infatti era già sconvolta dal secondo conflitto mondiale che anche l’Italia sentiva avvicinarsi sempre più.

Mentre a Dunkerque gli Alleati stavano cercando disperatamente di evacuare le truppe ammassate sulle spiagge, in Italia era in programma l’11a tappa del Giro che avrebbe condotto i ciclisti, in quell’occasione solo italiani, da Firenze a Modena. I 184 chilometri del percorso prevedevano quattro impegnative salite: Piastre, Oppio, Abetone e Barigazzo. I metri di dislivello complessivi erano circa duemila.

Gino Bartali, fresco vincitore della Milano-Sanremo, era il capitano della Legnano ed aveva come compagno di squadra uno sconosciuto gregario da “700 lire al mese” al primo giro importante della sua carriera: il suo nome era Fausto Coppi.

“Ginettaccio” non viveva i suoi giorni migliori: caduto durante la seconda tappa per colpa di un cane aveva rimediato la lussazione di un femore ed era già piuttosto lontano dalle prime posizioni della classifica generale. Aveva compiuto un mezzo miracolo a non ritirarsi visto che  il medico della squadra gli aveva prescritto almeno venti giorni di riposo. Anche il suo giovane gregario aveva conosciuto la “ruvidezza” dell’asfalto dal momento che nelle prime tappe era caduto tre volte! Nonostante queste disavventure Coppi era però posizionato meglio del suo capitano in classifica generale: distava infatti solo tre minuti dal primo. Le gerarchie interne alla Legnano stavano probabilmente cominciando a traballare.

Il nervosismo dovuto alla pioggia, presente nel gruppo dei ciclisti sin dalla partenza, crebbe con il passare dei chilometri anche a causa del percorso: lungo via Pratese i corridori furono costretti a pedalare sul margine della carreggiata a causa del manto stradale imperfetto. Lo stesso Bartali anni dopo ricorderà quel tratto di gara come una piccola Parigi-Roubaix.

Passata Pistoia e superate più o meno agevolmente le prime località in leggera salita (Piazza, Campopiano, Borghetto e Cireglio), la gara si infiammò improvvisamente.

Ezio Cecchi

Ezio Cecchi

Sulla prima vera salita, quella che portava a Le Piastre, il piccolo Ezio Cecchi[1], detto “lo scopino di Monsummano” perché i suoi, come tanti monsummanesi allora, fabbricavano scope di saggina, tentò la fuga.

Il ciclista, arrivato nella valle del Reno e vedendo che gli uomini alle sue spalle erano ancora assai vicini, decise, invece di rallentare e aspettare qualcuno, di tentare il tutto per tutto, proprio mentre Bartali fu colpito a Pontepetri da un problema meccanico che gli fece perdere parecchio tempo prezioso. Cecchi raggiunse in testa l’abitato di La Lima.

Probabilmente a quel punto avrà alzato lo sguardo e immaginato i faggi, gli abeti, le fontane, ma soprattutto le fatiche, dei 17 km della salita dell’Abetone. Chissà, il fuggitivo avrà anche pregustato una vittoria “di prestigio” in quella che più o meno era in fondo la sua terra di origine. Non aveva fatto, purtroppo, i conti con il corpo sgraziato e le lunghe gambe dello sconosciuto ventenne Coppi che, nei pressi di Pianosinatico, ruppe gli indugi e con pochi altri si lanciò al suo inseguimento. Data la situazione in classifica generale e l’evolversi della tappa il futuro “Campionissimo” era diventato ormai il capitano virtuale della Legnano.

Al settimo chilometro della salita, al tornante numero 13, avvenne l’episodio che decise la tappa e consacrò la nascita del “Campionissimo”: Coppi partì da solo per andare a riprendere il fuggitivo. Una lapide, assai consumata dal tempo, ricorda ancora oggi questo episodio con alcune semplici parole “A Fausto Coppi, i veterani dello sport”.

Lo stanchissimo Cecchi riuscì a passare per primo il passo dell’Abetone, anche se ormai il suo  inseguitore era a pochi secondi da lui: sette per la precisione. Bartali, attardato ma non domo, transitò all’Abetone a circa quattro minuti dal primo in classifica.

Coppi, definito da Orio Vergani sul Corriere della Sera,  “un ragazzo segaligno magro come un osso di prosciutto di montagna”, passato l’Abetone, superò di slancio Cecchi e si lanciò a testa bassa nei successivi 100 km.

La gara era ormai decisa: Coppi transitò sul Barigozzo con quasi tre minuti di vantaggio sul monsummanese e giunse infine al traguardo di Modena con 3 minuti e 45 secondi di vantaggio sul gruppo guidato da Olimpio Bizzi. Gino Bartali, a conclusione di una bella rimonta, finì terzo, Cecchi, che ormai aveva esaurito le forze, nelle retrovie.

All’arrivo quasi nessuno riconobbe il vincitore. Molti scoprirono il suo nome solo dopo aver confrontato il numero di maglia, quasi invisibile per il fango, con l’elenco dei partenti.

29 maggio 1940Orio Vergani raccontò la vittoria di Coppi con queste parole: “Fu allora, sotto la pioggia che veniva giù mescolata alla grandine, che io vidi venire al mondo Coppi. Vedevo qualcosa di nuovo: aquila, rondine, alcione, non saprei come dire, che sotto alla frusta della pioggia e al tamburello della grandine, le mani alte e leggere sul manubrio, le gambe che bilanciavano nelle curve, le ginocchia magre che giravano implacabili, come ignorando la fatica, volava, letteralmente volava su per le dure scale del monte, fra il silenzio della folla che non sapeva chi fosse e come chiamarlo”.

Le testimonianze sullo stato di animo di Bartali all’arrivo furono contrastanti. Alcuni sostennero che Bartali e il suo naso “triste come una salita” non fossero di buon umore. Non era solo il femore ammaccato a causa della caduta di pochi giorni prima che faceva male, forse l’affermato campione aveva intravisto nel vincitore di giornata un nuovo pericolo stagliarsi all’orizzonte.

Come è andata?” chiese Bartali a ‘”avocatt” Pavesi, il direttore sportivo della Legnano.
A noi della Legnano non è andata mica tanto male, abbiamo vinto la tappa. Quel ragazzo, quello nuovo … come si chiama …. Il Coppi”. “Io credevo che si fosse ritirato …. Invece era andato avanti …. È bravo quello” ammise a denti stretti Gino. “Anche troppo!” aggiunse subito Pavesi e Bartali capì, “Ha preso la maglia?” e si allontanò senza neppure aspettare la risposta[2].

Al di là delle veridicità delle parole sopra riportate e assai probabile che Bartali, volontariamente o per scelta di squadra, abbia frenato la sua rabbiosa rincorsa per evitare di riportare sul suo giovane compagno gli avversari.

Le tappe successive non furono per Coppi rose e fiori. Sul Pordoi andò in crisi e salvò a stento la maglia rosa grazie all’aiuto dello stesso Bartali ormai diventato suo gregario.

Superato il momento di difficoltà Coppi proseguì la sua corsa fino alla passarella finale dell’Arena di Milano dove, a causa del salto della catena, entrò con 32 secondi di ritardo sul gruppo dei primi. Il padre alla vista del figlio attardato ebbe un malore. Nonostante l’incoveniente finale Fausto mantenne la maglia rosa e divenne il 9 giugno 1940 il più giovane vincitore del giro d’Italia. Bartali concluse quella edizione della corsa a tappe a 45 minuti dal suo ormai ex sconosciuto gregario.

La Gazzetta dello Sport celebrò il vincitore intravedendo in lui attraverso il “virile” linguaggio dell’epoca la “testimonianza della gagliardia e della serenità della patria in armi”.

La gioia per l’evento sportivo durò il tempo di una giornata: poche ore dopo il Duce dall’alto del balcone di piazza Venezia avrebbe sprofondato l’Italia nel baratro del secondo conflitto mondiale e spento le luci su Coppi e Bartali per cinque lunghissimi anni. L”Airone” aveva però ormai imparato a volare.

 

Fonti sitografiche:

http://www.teche.rai.it/2020/05/coppi100/

http://faustocoppi.altervista.org/1940.html

 

Fonti bibliografiche:

La Nazione del 30 maggio 1940

Gazzetta dello Sport del 30 maggio 1940

“Bartali, l’uomo che vinse il Giro, il Tour e conquistò un posto nel Giardino dei Giusti” di Leo Turrini, ex. Imprimatur

“Gino Bartali. La vita, le imprese, le polemiche” di Paolo Costa, Ediciclo.

“Quel 13° tornante che ha cambiato il ciclismo” di Luciano Andreotti.

[1] Ezio Cecchi (Castelmartini 1913-Monsummano 1984) ha gareggiato per 15 anni fra i professionisti. Giunse secondo in classifica generale al Giro nel 1938 (dietro Valetti) e nel 1948 (dietro Magni). L’edizione del Giro del 1948 è ricordata soprattutto per il ritiro di Coppi e della Bianchi per protesta contro la mancata squalifica di Magni che aveva ricevuto delle spinte.  La giuria inflisse a Magni solo due minuti di penalità, nonostante i quali giunse a Milano con 11 secondi di vantaggio su Cecchi. Il monsummanese giunse secondo, dietro Bartali, dopo una lunghissima fuga anche nella Milano-Sanremo del 1947. Scalatore tenace e umile ha raccolto in carriera meno di quanto meritava.
[2] La leggenda di Fausto Coppi. Articolo disponibile su http://faustocoppi.altervista.org/1940.html  (ultima consultazione il 4 giugno 2020).




La Storia lo grida.. indietro Savoia!!

I Savoia regnarono in Italia dopo il 1860 essendo riusciti, specie per abilità di uomini politici come Cavour, ad affiancare e sfruttare gli sforzi di tutto il Risorgimento, a cominciare da quelli dei repubblicani Mazzini e Garibaldi. In quanto all’immaturità del popolo italiano che sarebbe dimostrata dal ventennio fascista, sarà facile rispondere che una delle cause e  dei sostegni principali di esso fu proprio la Monarchia.  […] Venuta l’ora tragica della disfatta il Re tentò di salvarsi con il colpo di stato di Badoglio e non di salvare il paese. La politica badogliana fu infatti nettamente ostile  alle forze democratiche  antifasciste, con il suo governo di funzionari. E nell’ora decisiva, l’8 settembre del 1943 non seppe fra altro che fuggire. Era ancora una volta lo stesso gioco, salvare la propria dinastia e i propri privilegi anche a danno dell’interesse comune. Le sofferenze inaudite che ancora sopportiamo sono il solenne monito che bisogna farla finita una volta per sempre con l’equivoco la sciatoci in eredità dal Risorgimento.”.

Con queste parole Giovanni Pieraccini attaccava con nettezza e in profondità la Monarchia sul supplemento de “La Nazione del Popolo”, giornale del Comitato toscano di liberazione nazionale, a cura del Partito socialista di unità proletaria del 22 aprile 1945. Siamo nei giorni dell’insurrezione nazionale delle città del nord, la guerra deve ancora finire, eppure da Firenze liberata già da vari mesi, si leva con forza la volontà di rinnovamento profondo del Paese emanato dalle forze antifasciste. I diversi partiti, che animano in quei mesi dialetticamente i CLN e le prime amministrazioni comunali, hanno programmi e prospettive diverse, ma l’ostilità a Casa Savoia li accomuna nella stragrande maggioranza e si manifesterà pienamente la primavera successiva nella campagna elettorale per il referendum del 2 giugno 1946.

Voce di questa determinazione politica sono i giornali che, dopo la liberazione non svolgono solo una “tradizionale” azione di informazione, pur preziosa dopo gli anni della dittatura e della censura, ma acquisiscono una funzione essenziale nella formazione di un nuovo senso comune di cittadinanza e di una necessaria educazione alla democrazia, arricchita proprio dalla pluralità delle voci e delle tendenze. Basti citare, solo per rimanere nell’ambito fiorentino:  l’”Azione comunista”, “La difesa” socialista, l’azionista “Non mollare!”, “La voce del popolo”, repubblicano, “L’opinione” liberale, “Il popolo libero” democratico cristiano, “La Nazione del popolo” che, con i supplementi affidati ai partiti del CTLN, dal gennaio del ’45, amplifica ulteriormente il proprio ruolo di fonte di riflessione ed occasione di confronto, insieme, dal giugno del ’45 a “Il nuovo corriere”.

Sfogliandoli appare evidente come l’ostilità alla Casa reale non sia riconducibile semplicemente ad giudizio negativo sul sovrano, Vittorio Emanuele III, e, più in generale sulla condotta assunta negli ultimi anni di guerra, anche se certamente il trauma della fuga dell’8 settembre assume un rilievo imprescindibile: “il popolo italiano non dimenticherà certamente che ciò che è stato fatto il 25 luglio 1943, quando purtroppo l’Italia era già in pezzi, poteva e doveva essere fatto nel lontano 1922, all’epoca della mancata firma dello stato d’assedio” (Camaleontismo monarchico, “Il corriere dell’Arno”, 17-18 ottobre 1945).

Ma il giudizio si estende inevitabilmente sul lungo periodo, coinvolgendo il rapporto complessivo fra Monarchia e Paese nella storia d’Italia. L’ironia non sminuisce ma piuttosto accentua la gravità della denuncia di Arturo Bruni su “la Nazione del popolo”: “Progresso..monarchico s’è avuto davvero come tutti hanno visto. Abbiamo “progredito” dagli stati d’assedio dei Bava Beccarsi in Lombardia, degli Heusch in Toscana e Lunigiana, dei Morra di Lariano in Sicilia, fino alla congiura fascista, ordita e compiuta all’ombra e con la protezione e la partecipazione diretta attiva di preminenti membri di Casa Savoia; e poi la dedizione sempre più stretta, totale, senza riserve né pudore, quasi servile alla iniqua dittatura e alla dissennata politica interna ed estera dello sciagurato e folle avventuriero di Predappio” (Arturo Bruni, Invito alla sincerità, “La Nazione del popolo”, 4 marzo 1945, supplemento a cura del PSIUP). In quanto “posta contro la volontà della Nazione tutta, con atavica cocciutaggine, con insensibilità tutta straniera, con un cinismo che urta contro anche il più tiepido senso morale”. (La repubblica ci unisce, la monarchia ci divide, “Il seme”, 5 febbraio 1946). Una condanna esito della valutazione del passato e frutto della constatazione che il cambio istituzionale, con la scelta della Repubblica, è aspetto essenziale per la (ri)costruzione della nuova Italia, come si legge con nettezza anche sul giornale della Democrazia cristiana di Firenze “Il popolo libero” (Rodolfo Turco, Per una Repubblica libera e democratica, “il popolo libero”, 8 febbraio 1946). La scelta di Vittorio Emanuele III di abdicare a poche settimane dal referendum del 2 giugno del ’46, violando il “compromesso istituzionale” siglato nei mesi precedenti, non fa che rafforzare il giudizio di condanna. Del resto, come chiosa il “Non mollare!” “un sovrano che fugge per schivare il giudizio popolare costituisce un motivo di più fra i tanti per condannare il massimo responsabile del fascismo e della guerra” (Se né andato, “Non mollare”, 11 maggio 1946).

Sono poche, ma non mancano le voci che esprimono opinioni diverse. Spicca in particolare “La Patria” giornale del PLI, espressione delle sua anima più conservatrice (L’ultimo atto, “la Patria” 10 maggio 1946). Più articolata e cauta la posizione de “L’Osservatore toscano” settimanale diocesano voluto alla fine del ’45 dal cardinale di Firenze Elia Dalla Costa, certamente attento alle varie posizioni presenti nel mondo cattolico. Sul periodico prevale infatti una linea di agnosticismo istituzionale: “Monarchia e Repubblica sono nient’altro che forme istituzionali; ma come suggerisce la parola stessa è evidente che ogni forma presuppone una sostanza, ed è questa che deve interessare” (Piero Monaci, Monarchia o repubblica?, “L’Osservatore toscano”, 14 aprile 1946). Ma non mancano neppure interventi a favore di Casa Savoia o piuttosto rispetto all’indifendibile condotta della Casa reale sabauda, una difesa dell’istituzionale in quanto tale in quanto “La monarchia veramente costituzionale può dare ancora al popolo italiano garanzia di unità e di salvaguardia della costituzione stessa.” (P. Hodie, Il problema istituzionale, “L’Osservatore toscano”, 21 aprile 1946). Voci minoritarie, ma significative, indicatrici di tendenze presenti nella società toscana, come verrà poi attestato dal voto del 2 giugno 1946 (con la netta vittoria della Repubblica con oltre il 71% a livello regionale, ma con affermazioni comunque significative della monarchia con il oltre il 43% nella provincia lucchese).

La tendenza antimonarchica attestata dalla grande maggioranza della stampa fiorentina e toscana è, peraltro, manifestazione del più ampio processo di mutamento radicale delle classi dirigenti e trasformazione politica e sociale della Regione ben delineato da Mario G. Rossi in suoi importanti contributi. La crisi della guerra totale, il coinvolgimento delle masse contadine nella lotta di liberazione, la guida unitaria del CTLN pur nelle diversità di posizioni delle forze antifasciste sono i fattori che segnano una svolta profonda nella storia della Toscana e che non potevano che esprimersi anche nella rischieta di netto cambiamento istituzionale. “Il rinnovamento dello Stato e delle istituzioni si pone quindi come obiettivo prioritario per garantire le condizioni di qualsiasi riforma della vita politica e della società: decentramento, autonomie locali, riforma amministrativa, regionalismo diventano i cardini di un dibattito cui partecipano molti degli esponenti più rappresentativi della Resistenza toscana, come Paolo Barile, Attilio Piccioni, Mario Augusto Martini, Tristano Codignola” [Mario G. Rossi, Dalla Resistenza alla Costituzione: la formazione della nuova classe dirigente nella Toscana postfascista, in Massimo Cervelli e Claudia De Venuto, La Toscana nella costruzione dello stato nazionale dallo Statuto toscano alla Costituzione della Repubblica 1848-1948, Olschki, 2013, pp. 327-328].




CHE GENERE DI DIDATTICA?

Quando la Fondazione Carlo Marchi ha chiamato associazioni, scuole ed enti a rispondere al bando 2019 sul contrasto agli stereotipi e alla violenza di genere, come ISRT abbiamo sentito il dovere e tutta l’importanza di presentare un progetto.

La violenza di genere e complessivamente il sistema di stereotipi legati al genere sono il frutto di una società costruita su radici di stampo patriarcale. L’urgenza sociale degli ultimi decenni ha spinto verso una forte riflessione che ha coinvolto le istituzioni del mondo. Prova ne sono le numerose direttive, le deliberazioni e gli inviti a porre rimedio, con speciale sguardo rivolto a coloro che hanno in mano la formazione delle giovani generazioni. Un’educazione di e al genere e lo smascheramento degli stereotipi legati ai rapporti maschile-femminile risultano quindi non più rimandabili e l’unico vero strumento sul medio-lungo periodo. A nostro avviso è stato quindi fondamentale intervenire proprio a partire dalla formazione e dalla didattica, quindi, sulla scuola.

Così è nato Un’altra storia. Percorsi di formazione e conoscenza contro la violenza di genere, un progetto che si pone l’obiettivo di produrre maggiore consapevolezza e dare gli strumenti per operare finalmente quel passaggio dalla teoria alla prassi quotidiana. Abbiamo pensato a due fasi: un corso di formazione per docenti delle scuole secondarie (previsto per marzo 2020, ma rimandato dopo il primo incontro causa emergenza covid-19) e un festival aperto alla cittadinanza (previsto per novembre 2020). Perché non solo il festival? Perché se con il festival ci proponiamo di portare alla luce la costruzione culturale dei generi e il valore normativo da essi assunto nel tempo rivolgendoci a un pubblico ampio e non specializzato, il corso di formazione è diretto specificamente a chi porta avanti quotidianamente il difficile compito di formare ragazze e ragazzi in un’età molto delicata. La scuola, infatti, è il contesto privilegiato in cui intervenire per prevenire il diffondersi e il radicarsi di culture sessiste, misogine e di violenza.

Quello che ci è sembrato immediatamente chiaro nella fase di progettazione è che per le-gli stesse-i docenti non è facile portare “il genere” nelle classi, per motivi vari e diversi. In parte per il pregiudizio che grava sul concetto stesso di “genere”, spesso frainteso, e a maggior ragione sul ruolo che la scuola dovrebbe assumere rispetto a un’educazione di e al genere. Un altro ostacolo molto importante è la mancanza di strumenti adeguati, di sostegni didattici che vadano ad accompagnare gli intenti e la passione di chi insegna. Per questo motivo, abbiamo strutturato il nostro corso intorno a un volume davvero innovativo uscito l’anno scorso per le edizioni Biblink: I secoli delle donne. Fonti e materiali per la didattica della storia (Biblink, 2019, www.biblink.it/catalogo/bl00120.html). Un “sillabo” agile ed efficace che consente l’approccio a una didattica diversa della storia, della filosofia, del diritto, dell’arte, della letteratura, utile a orientare la/il docente nei temi dell’educazione di genere attraverso un repertorio di materiali versatili da utilizzare all’interno dell’attività curricolare. Si tratta quindi di uno strumento con duplice funzione: di auto-formazione e successivamente di supporto nella costruzione di percorsi didattici che abbiano al centro lo sguardo di genere nelle varie discipline.

Il primo incontro di Un’altra storia, il 3 marzo scorso presso il Murate Art District (www.murateartdistrict.it), ha confermato le nostre idee, i presentimenti iniziali e le nostre speranze: un gruppo davvero gremito di docenti ha partecipato attivamente, molte le domande e le proposte in seguito agli interventi della professoressa Graziella Priulla (Università di Catania; Quale punto di vista? Didattica e genere) e della dottoressa Alessandra Celi (Società Italiana delle Storiche e co-curatrice del “sillabo”; I secoli delle donne. Strumento di formazione e autoformazione). Le-i docenti hanno espresso chiaramente la volontà di integrare una programmazione che da sempre esclude la prospettiva di genere e il desiderio di essere sostenut* da strumenti strutturati. I manuali risultano lacunosi, le donne sono assenti o relegate in box da colonnino, nei quali il loro apporto viene tratteggiato in una dimensione di eccezionalità, isolato dal contesto, mai approfondito. La cultura raccontata nei libri scolastici si delinea completamente al maschile, tagliando fuori dalla narrazione le donne e soprattutto il rapporto tra i generi nella costruzione (attraverso fatti storici, arte, letteratura ecc.) di un mondo di fatto condiviso.

Si tratta di un “vizio” di prospettiva millenario, che ha la stessa radice della famosa frase “La storia la scrivono i vincitori”. Infatti, nonostante le donne non costituiscano una minoranza vera e propria dal punto di vista numerico, ne hanno lo status. Occupano, cioè, una posizione di subalternità all’interno di una cultura che le ha invisibilizzate nelle narrazioni e ne ha fattivamente impedito il fiorire, escludendole dal sistema educativo, dai circoli culturali, limitandone i diritti e le possibilità. Lo stesso meccanismo ha minato i diritti civili, la libertà personale delle donne, e ne ha determinato i ruoli, i compiti, gli ambiti. Certo, oggi sono molte le conquiste ottenute attraverso il sacrificio e le battaglie di generazioni di donne (anche se queste conquiste non sono ancora distribuite in modo uniforme nel mondo), ma non è facile costruire nuove fondamenta al posto di fondamenta millenarie. Ne sono prova, come abbiamo visto, l’impostazione e i contenuti della didattica.
Quali sono le possibili ricadute dirette di una scuola che non si confronti con l’educazione di e al genere? Quali le conseguenze sulle-sugli studenti del non leggere mai nei loro testi di scuola (che rappresentano, in quella fase del percorso di formazione, le fonti cartacee più autorevoli e scientifiche a loro disposizione) storie di donne che hanno contribuito in modo sostanziale al corso degli eventi?
Il filosofo tedesco Georg Wilhelm Friedrich Hegel (1770-1831) nella sua opera probabilmente più nota, Phänomenologie des Geistes (La fenomenologia dello spirito, Einaudi 2008) delinea il concetto di “riconoscimento”, ripreso e declinato sulla questione di genere dalla filosofa statunitense Judith Butler (1956) in Undoing Gender (Fare e disfare il genere, Mimesis 2014). Il riconoscimento è proprio il contrario dell’invisibilizzazione di un soggetto da parte di un altro soggetto, ovvero quella dinamica che si replica ogni volta che una maggioranza mette in ombra l’esistenza e la dignità di una minoranza. Il riconoscimento, invece, è quel processo che si costruisce nella relazione tra due soggetti, un percorso non necessariamente semplice, ma che conferisce valore, lo status di esistenza a entrambi i soggetti coinvolti.

Possiamo guardare all’assenza delle donne nei manuali scolastici e nella didattica come, di fatto, a un mancato riconoscimento. Quindi, possiamo facilmente immaginare quali tipi di considerazioni – anche inconsce – vengano introiettate dalle-dagli studenti. È proprio dal riconoscimento di valore che nasce il rispetto, la solidarietà, la cooperazione, la complicità. È nel mancato riconoscimento che possono instaurarsi una legittimazione delle disuguaglianze di genere e il rafforzarsi di modelli misogini e violenti, tutt’oggi vivi nel tessuto sociale. Il compito della scuola, però, dovrebbe essere quello di produrre una cultura nuova per le-i giovani, che veicoli i principi del rispetto e del valore delle diversità.
Dalla nostra esperienza, ancora in divenire, abbiamo còlto la consapevolezza delle-dei docenti, consapevolezza che, riteniamo, debba essere sostenuta e soccorsa, attraverso strumenti nuovi, attraverso un fare rete, attraverso percorsi nei quali sia possibile ripensare insieme alla didattica, porsi nuove domande per ottenere nuove risposte. Per questo motivo, non appena sarà possibile, riprenderemo Un’altra storia con la stessa passione, e attraverso il confronto, lo scambio immagineremo un’educazione di genere trasversale, pluridisciplinare, aperta alla costruzione di percorsi didattici molteplici.

Articolo pubblicato nell’aprile del 2020.




L’Archivio di Paolo Barile

Figura di primo piano del diritto italiano, Paolo Barile (1917-2000) è stato non soltanto un illustre costituzionalista, ma anche un grande intellettuale, un uomo di cultura che fin dai giorni della militanza nella Resistenza e nel Partito d’Azione, e poi lungo più di cinquant’ anni di battaglie politiche e civili, ha fatto sentire la propria voce anche al di fuori dell’ambito strettamente giuridico di competenza, partecipando attivamente al dibattito politico-istituzionale e vivendo la propria carriera di magistrato, avvocato, docente universitario con uno spiccato senso di responsabilità civile.

Nato a Bologna nel 1917, Barile studia a Roma dove si laurea nel 1939 in giurisprudenza con Giuseppe Messina. Nel 1941 vince il primo posto del concorso in Magistratura ordinaria e prende servizio nel 1943 presso il Tribunale militare di Trieste, per poi passare a quello di Firenze e in seguito a quello di Pistoia. Dopo aver aderito nel 1941 al movimento liberalsocialista, nel 1943 entra nel Partito d’azione e, tornato a Firenze dopo l’8 settembre, partecipa attivamente alla Resistenza. Tra i dirigenti del Comitato militare del Comitato toscano di liberazione nazionale, nel novembre è catturato insieme agli altri membri del Comitato militare dalla polizia di Mario Carità; torturato e portato in ospedale per una pugnalata alla testa, è reclamato dal comando tedesco e trasferito nel carcere militare della Fortezza da Basso. Nonostante le insistenti richieste di fucilazione avanzate dai fascisti, i prigionieri sono rilasciati con l’obbligo di presentarsi settimanalmente; a questo punto Barile entra in clandestinità e nel maggio 1944 riprende la sua attività nella Resistenza fiorentina. Dopo la Liberazione è chiamato da Piero Calamandrei a lavorare nel suo studio e nel 1947 si dimette dalla magistratura per cominciare la libera professione di avvocato, che porterà avanti per decenni con il suo rinomato studio professionale. Inizia anche la carriera accademica: diventa assistente di Calamandrei all’università, consegue la libera docenza in Diritto costituzionale e in Istituzioni di diritto pubblico, dal 1954 ottiene la cattedra di Istituzioni di diritto pubblico all’Università di Siena e dal 1963 ricopre quella di Diritto costituzionale presso l’Università di Firenze, presso cui insegnerà fino al 1992. La sua carriera culmina con la carica di ministro per i rapporti con il Parlamento ricoperta nel governo Ciampi tra il 1993 e il 1994. Muore nel 2000 a ottantatré anni.

L’archivio di Paolo Barile è stato donato nel 2013 da Stefano Grassi (avvocato, docente universitario, stretto collaboratore di Barile), che ne era entrato in possesso dopo la morte del giurista, all’Istituto Storico Toscano della Resistenza e dell’Età contemporanea, di cui Barile stesso era stato uno dei fondatori nel 1953 e presidente nel 2000 per pochi mesi prima della morte.

Il fondo è stato condizionato, ordinato ed inventariato, e dopo alcuni anni di lavoro è finalmente a disposizione degli studiosi. Al termine dell’intervento consta di più di 1200 fascicoli, contenuti in 250 buste circa, ed è articolato in 12 seguenti serie. L’arco temporale si estende dal 1960 al 2000 (con una sottoserie contenente esemplari a stampa di scritti di Barile dal 1944): purtroppo la maggior parte dei documenti antecedenti al 1966 è andata distrutta con l’alluvione di Firenze.

Nell’impossibilità di dare conto in dettaglio, in queste poche righe, del contenuto di ciascuna serie, proviamo a mettere in evidenza le potenziali ragioni di interesse per gli studiosi. L’archivio contiene corrispondenza, appunti, schemi e bozze degli scritti, ritagli stampa, opuscoli, materiale vario accumulato dal soggetto produttore nel corso della sua attività di professore universitario, di consulente, di ministro, insomma moltissimo materiale di studio relativo alle questioni di volta in volta trattate nell’ambito dei diversi incarichi. Gli scritti di Barile – riuniti sostanzialmente in tre serie, contenenti articoli in periodici specializzati e non, monografie, saggi, voci per enciclopedie, interventi a convegni e conferenze, interventi per trasmissioni radiotelevisive, pareri e audizioni per enti diversi – costituiscono una raccolta quasi completa della sua intensa produzione: dunque, anche se per la maggior parte editi, il loro valore risiede proprio nel fatto di permettere, nel loro complesso, di seguire l’evoluzione del pensiero del giurista, e in particolare la sua riflessione sui diritti di libertà. Allo stesso tempo, consentono di studiare, ripassare o approfondire numerosi argomenti inerenti alle fasi e alle modalità di attuazione della Costituzione, al percorso compiuto dai diritti nella storia dell’Italia repubblicana, a questioni politiche ed etiche che hanno animato il discorso pubblico. Anche altre serie possono richiamare l’interesse di studiosi del diritto e di storia contemporanea; ad esempio la consistente raccolta di ritagli stampa offre una carrellata di articoli di autori diversi su temi e vicende ampiamente dibattuti, come la legge sul divorzio, la legge 194, i rapporti tra Stato e Chiesa, il ruolo della magistratura, il rapporto tra poteri dello Stato, l’istituto del referendum.

Il materiale epistolare è per la maggior parte di tipo organizzativo; si trova in particolare in tre serie costituite da fascicoli per lo più tematici, che quindi riuniscono anche appunti, scritti, periodici e materiale di studio, e in una serie dedicata alla corrispondenza di tipo più personale, che contiene scambi epistolari con personalità anche di spicco del panorama giuridico, politico, intellettuale, principalmente nazionale. Pur nella netta predominanza del profilo pubblico rispetto a quello privato, la corrispondenza fa luce sulla personalità del soggetto produttore, sui suoi interessi, sul suo universo di valori, sulla sua fittissima rete di relazioni all’interno della società civile e di vari contesti politici e culturali.

Nel suo complesso, e in modo complementare ad altri fondi di giuristi conservati presso istituzioni giuridiche e universitarie, il fondo Barile può interessare un bacino di utenza non strettamente limitato al diritto costituzionale, supportando percorsi di ricerca su aspetti diversi della storia politica, istituzionale, sociale e culturale del nostro Paese nella seconda metà del secolo scorso.

Articolo pubblicato nel gennaio del 2020.




Una Toscana fascistissima?

L’11 novembre 2019, presso l’Archivio di Stato di Prato, Alessandro Bicci e Marco Palla hanno presentato il volume di Andrea Giaconi intitolato La fascistissima. Il fascismo in Toscana dalla marcia alla notte di San Bartolomeo. In quell’occasione abbiamo rivolto alcune domande all’autore: proponiamo il testo dell’intervista ai lettori di ToscanaNovecento.

 

Ha senso parlare di un “fascismo toscano”? Il fascismo ebbe cioè nella regione dei tratti distintivi, in parte diversi da quelli che il movimento presentava a livello nazionale?

Parlare di “fascismo toscano” ha senso nella misura in cui si voglia da una parte sottolineare il ruolo primario svolto dalla Toscana nella conquista e nel mantenimento del potere da parte del fascismo; dall’altra esaltare alcuni tratti che indubbiamente furono comuni all’intera regione. La realtà fascista toscana si distinse sia per una nascita tarda del movimento ma anche per una sua tanto rapida quanto violenta ascesa che nel giro di pochi mesi (tra il dicembre 1920 e il marzo 1921) portò a raddoppiare i fasci e quintuplicare gli iscritti. Fu quello toscano un fascismo “insonne”, combattente, che si segnalò soprattutto come componente essenziale nella scalata al potere del biennio 1921-1922, carico di tutti i miti e i riti squadristi volti a fomentare la violenza contro le opposizioni e a rinsaldare la retorica poi divenuta componente essenziale nel consolidamento del regime. In tal contesto, la regione si allontana soprattutto da realtà (soprattutto nell’Italia meridionale) in cui il fascismo quale fenomeno di massa è un elemento successivo alla marcia dell’ottobre 1922. Eppure, a ben vedere, piuttosto che di “fascismo toscano” è forse più esatto parlare di “fascismo in Toscana”. Toscana che fu, infatti, contenitore di manifestazioni del fascismo tra loro tanto vicine quanto distinte. La non uniformità corografica, economica e sociale della regione si riflesse in una difformità politica che dette vita ad esperienze tra loro assai diverse. Così come la grande mezzadria conviveva con la piccola proprietà e le significative realtà industriali, egualmente la supremazia di ras come Renato Ricci (Carrara) e Carlo Scorza (Lucca) si affiancava ad aree in cui il PNF fu attraversato da vibranti lotte per la conquista della leadership locale (che molto spesso ponevano di fronte opposte visioni del movimento) dalle quali seppero avvantaggiarsi protagonisti (Ciano a Livorno, Sarrocchi a Siena) non immediatamente assimilabili al movimento della prima ora. Infine vi furono pure zone (Prato, Grosseto) in cui larga parte del fascismo fu riassorbita nell’orbita del servilismo agli agrari e all’imprenditoria industriale.

 

Gli industriali e gli agrari toscani appoggiarono senza riserve il movimento fascista durante il cosiddetto “biennio nero” (1921-22) o è necessario articolare meglio il discorso?

Sicuramente la quasi totalità di industriali e agrari appoggiò il movimento negli anni precedenti alla conquista del potere vedendolo come necessario strumento di repressione contro le richieste provenienti dalle organizzazioni operaie e mezzadrili e dalle organizzazioni tanto socialiste (e poi anche comuniste) quanto cattoliche. Tuttavia, la stessa retorica “rivoluzionaria” della “prima ora” mal si conciliava con le intenzioni di restaurazione dell’ordine (sociale prima ancora che politico) del notabilato e della grande imprenditoria. Ne conseguì un progressivo avvicinamento alle gerarchie di partito e l’istituzione di un sistema clientelare volto ad emarginare l’elemento più sincero del movimento fascista delle origini e delle forze che ne avevano appoggiato la carica radicale attraverso un connubio tra antiche classi dirigenti, le frange più corruttibili del partito e comunque caratterizzate da una pronunciata vena d’arrivismo e una cospicua componente criminale.

 

Quali furono i rapporti fra la massoneria toscana ed il fascismo locale, prima e dopo la marcia su Roma?

Pur distinguendo tra le due principali obbedienze, la massoneria tout court fu uno dei principali punti d’appoggio del fascismo antemarcia. Si può anzi sicuramente affermare che tanto Palazzo Giustiniani (salvo tanto isolate quanto eclatanti eccezioni, come il pratese Giuseppe Meoni, Gran Maestro Aggiunto) quanto Piazza del Gesù fiancheggiarono e finanziarono il fascismo nello stesso evento della Marcia. Di fatto, la visione delle massonerie fu offuscata dalle dinamiche successive al dopoguerra, quando dinanzi alle rivolte del “biennio rosso”, esse intravidero nel fascismo una forza radicale capace di riportare un ordine democratico comunque lontano dalle precedenti consorterie. Fu un tragico equivoco di cui si ravvidero solo dopo l’ottobre 1922 e ancor di più, dopo il febbraio 1923, con la dichiarazione d’incompatibilità tra fascismo e massoneria. Da allora le strade si divisero. Il fascismo tese ad emarginare e ad epurare le proprie componenti massoniche o le obbligò a ripudiare l’istituzione. Dinnanzi a ciò il Grande Oriente si pose progressivamente in opposizione al Partito fascista. La Gran Loggia, almeno nei suoi vertici, si attestò (pur non mancando isolati casi di resistenza) in un piatto ossequio al regime. Ma egualmente non si può ridurre il rapporto tra massoneria e fascismo ad uno scontro tra partito e istituzione. Di fatto, il vincolo massonico (almeno per il fascismo toscano) fu una delle corde sulle quali vibrarono più fortemente le tensioni interne al partito, per l’imposizione di una propria visione politica o anche per la più gretta conquista del potere. Sotto questa prospettiva potevano essere letti gli scontri tra Enrico Spinelli e Dino Philipson (Pistoia), tra Tullio Tamburini e Dino Perrone Compagni (Firenze), tra Bruno Santini e Filippo Morghen (Pisa), tra Dario Lupi e Alfredo Frilli (Arezzo). Le lotte tra obbedienze, la carica antimassonica del partito e la coerenza liberomuratoria, con i dettati della “prima ora”, furono forse i principali motori delle lotte intestine al PNF. Non a caso, la piena normalizzazione e acquiescenza alle direttive del partito si realizza con atti di violenza contro la massoneria, quali le spedizioni squadriste della “notte di San Bartolomeo” (ottobre 1925).

 

E quale fu l’atteggiamento della chiesa?

È ormai noto da tempo come il fascismo adoperasse una distinzione tra struttura ecclesiastica e movimento cattolico. Laddove l’associazionismo bianco era forte e ben radicato (Lucchesia, in alcune zone del Pistoiese e dell’Aretino…), il fascismo non esitò ad utilizzare qualsiasi mezzo per disarticolarne la struttura. Ben diverso era l’atteggiamento verso la gerarchia ecclesiastica, intesa come possibile punto d’appoggio e fattore di legittimazione del regime anche a livello locale. Eppure, non mancarono casi di vescovi toscani come il pistoiese Gabriele Vettori che denunciò le violenze squadriste. Non fu un fatto limitato alla gerarchia: molti parroci si schierarono contro le azioni squadriste e, per questo, ne furono bersagli. Basti pensare che, nei tre mesi precedenti alle elezioni politiche del 1924 quasi quaranta furono i parroci aggrediti tra la Lucchesia e il Pistoiese.

 

Antonio Gramsci ha individuato nella mobilitazione violenta della piccola borghesia contro il proletariato l’elemento caratterizzante del fascismo. Questa analisi è valida anche per la Toscana?

Questo può essere valido solo in parte. Basti pensare che quasi il 40% degli iscritti ai fasci di combattimento era costituito da lavoratori della terra e dell’industria e che un campione di marciatori toscani su Roma ricavato da pubblicazioni coeve abbassa tale percentuale non di molto. Vero è che le cifre si modificarono abbastanza rapidamente quando, una volta al potere, il fascismo si trovò a gestire la redistribuzione dei poteri anche a livello locale. Significativa è infatti la composizione dei primi sindaci fascisti, laddove circa la metà degli eletti (49%) era formata da possidenti e nobili. Si andava così assistendo quasi a un ritorno dei potentati terrieri in un negoziato tra antiche gerarchie e nuovi regimi. Ne riuscivano bilanciamenti dai quali vennero progressivamente escluse le forze riformiste e radicali che pure erano entrate nel “calderone” del primo fascismo (ed ovviamente le organizzazioni “rosse” e “bianche” che al fascismo si erano opposte). Emersero invece il grande interesse, l’opportunismo e, in parte, l’elemento criminogeno e criminale (quest’ultimo poi parzialmente estromesso a seguito della linea epurativa guidata da Augusto Turati successivamente alla “notte di San Bartolomeo”, dell’ottobre 1925).

 

Nella primavera del 1921 un foglio comunista fiorentino ravvisò nei fascisti del Carmignanese “tutta la delinquenza del vasto comune di campagna, assoldata dalla borghesia terriera locale” (L’azione comunista, 21 maggio 1921). Puoi dirci qualcosa a proposito del ruolo dell’elemento criminale all’interno del movimento fascista nella regione?

L’elemento criminale fu una componente che sempre caratterizzò lo squadrismo fascista, prima convivendo con gruppi formatisi in opposizione alle rivolte del cosiddetto “biennio rosso”, ma con sinceri intendimenti radicali e di ritorno all’ordine (ne fu un esempio l’ex-combattente Bruno Santini a Pisa), poi assumendo una rilevanza che fu alla base dei potentati dei ras, delle lotte interne al PNF per la conquista del potere locale, della seconda violenta ondata squadrista. Per comprenderne la consistenza che aveva assunto in alcune zone, basti citare un dato relativo all’adunata squadrista svoltasi nella violenza a Firenze nel dicembre 1924. Su 3.000 fascisti provenienti da Lucca, l’allora prefetto locale Enrico Cavalieri segnalava il coinvolgimento «in atti criminali anche comuni» per «almeno la buona metà» di essi.

 

Il fascismo fiorentino era diviso in due filoni, spesso in contrasto fra loro. Uno faceva capo a Dino Perrone Compagni, l’altro a Tullio Tamburini. Quali erano le principali differenze fra queste due correnti?

La divisione tra Perrone Compagni e Tamburini può essere in larga parte circoscritta a una lotta per la conquista del potere locale. Fascinazioni per le quali le rispettive iscrizioni alle obbedienze massoniche potevano dar adito a uno scontro tra ordini libero-muratori deve necessariamente rimanere sullo sfondo (tant’è che lo stesso Tamburini sarebbe divenuto tristemente famoso per le violenze utilizzate sui suoi stessi “fratelli”). Di fatto, i due schieramenti potevano essere assimilati alle “bande criminali” in lotta per il controllo di un territorio. Il fascismo fiorentino poteva segnalarsi per la propria inquietudine, per gli scontri e per le divisioni interne alle proprie file già nel biennio 1921-1922. Era questo un periodo che vide anche la compresenza di tre fasci fiorentini di cui uno ufficiale e due autonomi. Di questi ultimi due, uno poteva addirittura contare più iscritti del fascio ufficiale. Il prosieguo di tali divisioni doveva molto alla mancata rassegnazione alla sconfitta dei leaders fascisti perdenti. Sicuramente ciò vale per Perrone Compagni, il cui avvicinamento a gruppi dissidenti come la nota “Banda dello sgombero” o all’esperienza dei Fasci nazionali, deve necessariamente essere letta quale sostegno all’azione antitamburiniana in prospettiva di un ritorno al potere.

 

Tullio Tamburini era un pratese. Cominciò la sua carriera come squadrista e la concluse come capo della polizia della Repubblica di Salò. Vuoi parlarci brevemente di lui?

Di Tamburini, nato a Vaiano, allora frazione del comune di Prato, hanno scritto diffusamente molti storici del fascismo, eppure ancora oggi manca una biografia che ne inquadri il percorso. Già membro attivo dell’interventismo pratese al tempo della guerra di Libia, ex impiegato alla Forti, grande industria tessile della Valle del Bisenzio, si era ridotto a vivere d’espedienti. Nota è la sua attività di calligrafo, creando biglietti da visita o per eventi quali nozze e battesimi. Combattente decorato durante il primo conflitto mondiale, fu segnalato per furto e appropriazione indebita. Si evince sin da ora come Tamburini fosse un personaggio per lo meno contiguo all’elemento criminale dal quale il fascismo attinse una parte non trascurabile dei propri appartenenti. Iscrittosi al fascio di combattimento fiorentino già nel 1919, egli fu protagonista della scissione tra i due fasci fiorentini, divenendo uno dei più diretti responsabili delle violenze che imperversarono tra il 1921-1922. Espulso per indisciplina nel marzo 1922 dal PNF, non tardò a rientrarvi, guidando la piazza di Firenze nei giorni della Marcia e dirigendosi egli stesso a Roma a capo della prima legione fiorentina. Negli anni seguenti Tamburini fu, nonostante le frizioni con Perrone Compagni, a capo del fascismo fiorentino, gestendo le reti delle bische clandestine e di altre attività criminose nel capoluogo toscano. Lo fece attraverso la violenza e legami clientelari che gli permisero di uscire indenne dagli scontri interni al fascismo fino almeno al 1925. Di questi anni sono per lo meno da ricordare le violente spedizioni del dicembre 1924 e dell’ottobre 1925. Quest’ultima, di carattere ferocemente antimassonico, fu identificata come la “notte di San Bartolomeo” e chiuse di fatto il cerchio sugellando la formazione del regime. Fu proprio però per tali recrudescenze e per il ripetuto ricorso all’illegalità che Tamburini fu allontanato dalla Toscana e inviato in Libia. Da qui egli tornò prima come ufficiale della Milizia forestale di Trento e poi come prefetto del regno nelle sedi di Ancona, Avellino e Trieste. Aderì alla RSI, di cui fu capo della polizia. Coinvolto in un losco  giro di appropriazioni indebite anche a danno di altri gerarchi, fu arrestato e inviato nel campo di concentramento di Dachau nel reparto riservato ai criminali comuni. Liberato dalle truppe alleate, fu processato e condannato a sei anni di carcere ma, in seguito, amnistiato. Espatriato in Argentina, dal paese sudamericano inviò finanziamenti al Movimento sociale italiano. Tornato in Italia nella seconda metà degli anni Cinquanta, Tamburini morì a Roma nel 1957. Di fatto può essere identificato come il volto del più brutale squadrismo e allo stesso tempo uno dei protagonisti non troppo secondari del consolidamento del regime.

 

Renzo De Felice distingue un “fascismo movimento”, che avrebbe avuto in sé una carica in qualche modo innovativa, da un “fascismo regime”, risultato di una serie di compromessi con i centri di potere tradizionali. Questa distinzione è valida anche per la Toscana?

La distinzione tra “fascismo movimento” e “fascismo regime” ha alcune sue basi anche in Toscana, a patto di non considerare una divisione netta tra le due parti. In realtà gli anni del “movimento” furono segnati da pesanti infiltrazioni ed importanti interessi da parte dei centri tradizionali del potere e, anche alla luce di tali vincoli tra fascismo e potentati locali, si può ben dire che la compresenza delle due componenti fosse all’origine delle lotte interne per il controllo del territorio e del partito. Lotte che, di fatto, si intensificarono in momenti apicali di scontro ma, paradossalmente, anche di coalizione tra le componenti del PNF, quali le fasi di campagna elettorale. A ben vedere, le svolte elettorali se da un lato amplificarono e inacerbirono gli scontri interni, dall’altro furono capaci di riassorbire i malumori e di catalizzarli verso gli avversari politici. In sintesi, in Toscana questi due tipi di fascismo coesistettero con svariate sfumature in base alla zona considerata e, proprio tale compresenza fu alla base delle lotte che caratterizzarono gli anni compresi tra il 1922 e il 1925.

 

Nel tuo lavoro si parla anche della tristemente nota “notte di San Bartolomeo” fiorentina. Siamo nell’ottobre del 1925. Che bilancio si può fare dei primi tre anni di dominazione fascista in Toscana?

La “notte di San Bartolomeo” (il 3 ottobre 1925) fu un punto di svolta dopo il quale non fu più possibile un’opposizione al fascismo da parte dei suoi avversari. Né tantomeno fu più possibile un dissenso interno al PNF. È da tale svolta violenta che, di fatto, giunge a maturazione il regime in Toscana. Prima di tale evento non è giusto parlare di “dominazione” quanto piuttosto, parafrasando l’ormai classico studio di Lyttelton, di conquista e di consolidamento del potere. Conquista che avvenne non solo con la violenza delle spedizioni squadriste ma con un ripetuto esercizio retorico ed evocativo di miti e ritualità volti da un lato a cementare le file interne del partito e dall’altro ad emarginare gli avversari esterni. Per cui, il computo finale di quei tre anni trascorsi tra la Marcia e la nascita del regime non può esimersi da notare che in Toscana si manifestarono per intero ed assai pronunciate le tensioni interne al PNF post-marcia. Esse non permisero di definire il fascismo come un dato definitivo quanto piuttosto come un oggetto politico in divenire, alla ricerca di una sua compiutezza, acquisita solo attraverso la totale eliminazione delle voci discordi. E questo lo si ebbe solo col 1925. Era in definitiva la nomalizzazione.

Intervista a cura di Alessandro Affortunati.

Articolo pubblicato nel novembre del 2019.




Leonardo da Vinci ‘genio italico’ del fascismo

Il 9 maggio 1939, nell’anniversario della nascita dell’Impero, si inaugurava a Milano la Mostra di Leonardo da Vinci e delle Invenzioni italiane, un evento che, nelle parole del Comitato organizzatore, avrebbe mostrato, «in forma al tempo stesso eletta e popolare, il vertice altissimo raggiunto dallo spirito italiano con Leonardo, in modo da esprimere nella mirabile opera dell’artista e dello scienziato del Rinascimento, i caratteri essenziali della spiritualità della stirpe che nel Fascismo si ricompongono ancora dopo molti secoli in forma unitaria».

Di fatto divenne uno degli show più propagandistici del regime, un’esposizione -per usare le parole di Roberto Longhi- «discutibile e discussa», che portò a una significativa strumentalizzazione e decontestualizzazione storica dell’artista.

L’ingresso alla mostra milanese su Leonardo del 1939

L’interpretazione di Leonardo quale genio della “stirpe italica”, da cui partiva una gloriosa linea di scienziati che culminava con Guglielmo Marconi, eroe dell’Italia autarchica di Mussolini, era già iniziata qualche anno prima: in questa direzione si allineò la mostra milanese, portando all’associazione della grande monografica sull’artista con una parallela esposizione, ovvero la seconda edizione della Mostra delle Invenzioni italiane, che trovò altisonante sede presso il Palazzo dell’Arte al Parco Sempione (ora della Triennale).

Già dall’inizio degli anni Trenta il fascismo aveva utilizzato sia le mostre d’arte antica italiana all’estero che le grandi esposizioni monografiche in patria, come palchi propagandistici, eventi collettivi ampiamente pubblicizzati con gli strumenti di comunicazione di massa (video dell’Istituto Luce, opuscoli turistici promozionali, comunicati radio) già sperimentati nella propaganda politica. Rispetto ad altre importanti esposizioni della seconda metà degli anni Trenta (come la mostra giottesca a Firenze del 1937), quella dedicata a Leonardo a Milano assunse tuttavia connotati ancor più particolari: Leonardo diventò l’antesignano dell’ “uomo nuovo” fascista, paragonabile allo stesso Duce.

I vari approfondimenti sugli studi di Leonardo dedicati all’architettura, all’ingegneria, all’anatomia, alla matematica diventarono tappe di un percorso espositivo incentrato sulla celebrazione del suo ruolo di pioniere nella cultura tecnico-scientifica italiana, secondo un’impostazione – cara al regime – per cui i protagonisti della storia della scienza erano visti come monumenti, isolati dal contesto in cui avevano operato. L’aspetto preponderante e più spettacolare fu la parte scientifica e tecnica dell’opera dell’artista, rappresentata da 200 modelli di macchine, talvolta anche in scala gigantesca e azionabili dal pubblico, realizzati grazie alla progressiva edizione dei manoscritti ma anche con una buona dose di interpretazione.

Tuttavia la mostra vedrà anche la presenza di numerosi dipinti e disegni originali di Leonardo, portando alla spoliazione di quasi ogni opera leonardesca presente nei musei italiani. Lo sforzo maggiore fu chiesto proprio alla soprintendenza fiorentina: il 1° maggio 1939 partirono da Firenze una trentina di casse con dipinti, disegni e sculture principalmente dalla Galleria degli Uffizi e dall’allora Regio Museo Nazionale del Bargello, comprese opere simbolo e delicatissime come l’Adorazione dei Magi e l’Annunciazione di Leonardo e il Battesimo del Verrocchio. Per quest’ultime, invano, il soprintendente Giovanni Poggi e il responsabile del Gabinetto Restauri Ugo Procacci richiesero un restauro preventivo «per poter sopportare un viaggio senza risentire danni».

In linea con la dialettica del regime, che da un lato promuoveva grandi eventi accentratori e dall’altro valorizzava le identità locali in senso di orgoglio municipalistico, anche a Vinci soffiò forte il vento della retorica fascista. Collegata alla mostra milanese, nel paese natale  fu organizzata un’esposizione di cimeli leonardeschi, inaugurata il 20 agosto 1939 dal ministro dell’Educazione Nazionale Giuseppe Bottai, che parlò dal balcone della casa del fascio. Pubblicizzato alla stregua di un “pellegrinaggio”, il tour vinciano prevedeva la visita ai luoghi dell’infanzia dell’artista, tra i quali la restaurata casa di Anchiano, oltre a fonte battesimale e la riproduzione di un documento di mano del nonno di Leonardo.

Una delle sale dedicate ai modelli leonardeschi nella mostra milanese del 1939

In quello stesso biennio 1938-1940 l’esaltazione di Leonardo divenne di fatto una moda e mania collettiva che fu cavalcata anche dalle frange più estreme del regime. A tal proposito ne «La Difesa della Razza» comparvero una serie di articoli a tema artistico dedicati proprio a Leonardo, dove la strumentalizzazione sciovinista si colorò anche di tinte antisemite e perversioni interpretative. Già nel 1938 era comparso il breve articolo Come Israele insudicia il genio di Leonardo, atto di accusa contro la nota interpretazione di Freud sul sogno raccontato da Leonardo riguardo al nibbio. Nel 1939, anche in riferimento alla mostra milanese, nella rubrica “la razza e l’arte” la polemica dei redattori si indirizzò verso La favola dell’europeismo e Leonardo italiano, ovvero verso la tendenza degli studi dalla seconda metà dell’Ottocento in poi, di scippare l’italianità dell’artista a discapito di una sovra-nazionalità europea. Nel 1940, in un climax ascendente di strumentalizzazione interpretativa, comparve un nuovo articolo dall’emblematico titolo Leonardo pittore razzista, dove venne presentata un’analisi del Cenacolo improntata alla presunta diligenza leonardiana nell’aver riprodotto nei volti degli apostoli caratteri somatici “biologicamente” ebraici.

Con l’entrata in guerra dell’Italia continuò l’utilizzo politico di Leonardo, protagonista, grazie all’interessamento del ministro della Cultura Popolare Alessandro Pavolini, di una leonardesca americana, organizzata dal Rockefeller Center nel Museum of Science and Industry di New York nel luglio 1940 con i modelli della mostra del 1939. Questi stessi modelli presero poi la via di Tokio, dove furono esposti – suscitando grande stupore – nel 1942, in piena guerra mondiale. Fu il loro ultimo viaggio: la nave che che dal Giappone li riportava in Italia fu colpita e affondata, in una sinistra e simbolica fine, per mano di quel conflitto così acclamato, della strumentalizzazione retorica di Leonardo come grande “genio italico”.

Articolo pubblicato nel settembre del 2019.




I Campeggi del Chianti negli anni Settanta

Vicenda recentemente storicizzata, dalla quale emerge una sorta di legame ideale con precedenti esperienze collettive che hanno animato la cultura e messo in movimento dinamiche sociali lungo parte del Novecento. Hippy e naturismo, pic-nic e colonie libertarie, campeggio autogestito, hanno epigoni in America, Inghilterra, e parte dell’Europa. Il bisogno di percorrere strade antiautoritarie o sottrarsi a controlli statali, assieme alla necessità di crescita e di autoformazione, hanno prodotto nel tempo e nello spazio numerosi esempi in qualche modo evocativi, e precedenti storici, di questi campeggi, come l’esperienza hippy dell’alessandrino del 1970-71 dove vengono occupati cascinali, e si aggregano quasi cento ragazzi e ragazze di provenienza beat generation e contestazione del Sessantotto, che accanto all’esigenza di una vita a contatto con la natura, si oppongono al mercato, al lavoro salariato, alla famiglia.

“Fuoco di bivacco al tramonto”, Moggiona (AR), luglio 1972

Negli USA, un po’ prima, gli anarchici si trovavano insieme in numerosi pic-nic, durante i quali fra grandi e piccoli si creano contesti che prevedono gioco e pranzo, ma anche e soprattutto, preludono a luoghi di scambio di informazione, di progettazione di attività politica. Così come nel Secondo dopoguerra, raduni dei “figli dei fiori”, musica e droghe lisergiche, diventavano happening liberatori e costruzione di identità libere, specie dalla religione e dalla oppressione sessuale. Accanto a questo, le prime colonie estive in ambito anarchico, per i bambini di compagni meno abbienti, sottraevano alla Chiesa il primato. A Barcellona, in Spagna, la Colonia “L’Adunata dei Refrattari” nel 1938, sullo scorcio della Rivoluzione perduta, crea luoghi per i bambini orfani della rivoluzione, pensando alla loro salute ai loro diritti ad essere soggetti e non oggetti della pedagogia. In Italia, negli anni Cinquanta a Ronchi di Massa Carrara e in precedenza a Sorrento (Na), Giovanna Caleffi Berneri realizza Colonie per i figli dei compagni, con la presenza di figure importanti dell’antiautoritarismo e della cultura pedagogica libertaria come gli obiettori di coscienza, Pietro Ferrua e Mario Barbani, oltre a Federico Ernovino, in seguito collaboratore a Partinico di Danilo Dolci, autore dell’esperienza comunitaria siciliana di Trappeto (TP), o ancora del Campeggio Internazionale Anarchico del 1969.

Orosei

Orosei (Sardegna), 1972

Il Secondo dopoguerra è stato ricco di sollecitazioni e di interventi diretti, “alternativi” rispetto a quegli ecclesiastici e finalizzati a specifiche porzioni di società, spesso quelle meno abbienti o operaie, o carenti di stimolazioni culturali oltre la famiglia la chiesa e la scuola. Dalla Comunità Olivetti di Ivrea, alle colonie “Figli del popolo” di ispirazione operaia, come quella promossa da una delle fondatrici dell’UDI (Unione Donne Italiane), Alessandra Meucci a Sesto Fiorentino. Sul periodo si legga quanto scrive Carlo De Maria nel Saggio introduttivo al volume, Giovanna Caleffi Berneri. Un seme sotto la neve (Reggio Emilia 2010) dove specifica il percorso dando conto proprio di ciò che avviene, solo apparentemente “accanto” ai fatti della storia, fra minoranze ereticali che si sviluppano nella società nel Secondo dopoguerra. Comunitarismo, pacifismo, laicità, libertarismo, pedagogia d’avanguardia, da Aldo Capitini ai coniugi Calogero, da Olivetti a Silone a Lamberto Borghi ad una grande quantità di persone pensanti, libere da dogmi ed aperte ad una società aperta.

Da tali principi e dalla necessità di applicare concetti di pedagogia libertaria a quello che fino ad allora era, nel migliore dei casi, un servizio reso alle comunità, attraverso le colonie comunali, Giampaolo Lumachi, coadiuvato in seguito da amici e collaboratori, si fa promotore verso l’Amministrazione comunale di San Casciano Val di Pesa (FI), di un modello completamente nuovo di servizio.

Manifesto e programma dei campeggi estivi del 1972

Manifesto e programma dei campeggi estivi del 1972 organizzati nel contesto dell’esperienza dei “Campeggi del Chianti”

Coinvolti cinque comuni del Chianti fiorentino (San Casciano val di Pesa, Bagno a Ripoli, Greve in Chianti, Impruneta, Tavarnelle Val di Pesa), prese avvio una esperienza della quale di fatto, solo Lumachi ne conosceva i contorni. Il coinvolgimento di una grande quantità di persone, avviene per contatti concentrici. Lumachi getta il sasso e ne controlla i cerchi che da esso si dipartono. Servono tecnici, specialisti, amici, monitori, i ragazzi giungeranno in seguito. Lumachi, insegnante fiorentino, abbandona il CEMEA (Centri di esercitazione ai metodi dell’educazione attiva, un’esperienza nata nel 1937 in Francia e diffusa in Italia a partire dal 1950) perchè in disaccordo con il clima “chiuso” degli aderenti, cercando forme di sperimentazione diretta sul territorio. Le sue conoscenze e relazioni sono di aiuto in questo senso. Da Lele Rago a Marcello Trentanove, ad una costellazione di persone che via via, per affinità, coinvolgerà in questo suo bisogno di pedagogia militante di agire libero e fuori dagli schemi. In tale percorso di crescita, non è estranea la sua adesione alla sinistra extraparlamentare e “luogo” di probabile incontro con Corrado Coradeschi del Centro Igiene Mentale di Borgo Pinti a Firenze, altro pilastro su cui poggerà l’esperienza di cui si tratta. Lumachi è il proponente e la matrice è di sinistra extraparlamentare e antiparlamentare con forte libertarismo e critica ai valori borghesi, alla religione, alla società, tramite lo strumento di una pedagogia diretta, immediata, antiautoritaria.

Sicilia 1973. terremotati

Campeggio in Sicilia, 1973. I ragazzi intervistano gli abitanti delle baracche dopo il terremoto.

Lo scorcio degli anni Sessanta, con le sue istanze di liberazione sessuale, di antimilitarismo ed antiautoritarismo, e di creatività e gioia di vivere, sono il naturale terreno di coltura della formazione dei “vecchi“, e l’aria da respirare, per le giovani generazioni. Tre sono le generazioni coinvolte, la più vecchia, nata negli anni Trenta del Novecento, è l’ispiratrice e la miccia che dà fuoco a quella esperienza, la mediana, fra anni Quaranta e Cinquanta, giovani che saranno via via coinvolti come monitori anche se con originaria differente funzione – mi vengono in mente le persone incrociate nel percorso, sia nei luoghi di esperienza che attraverso l’attività nei campeggi (operai, autisti), infine i ragazzi, gli utenti, nati quasi tutti negli anni Sessanta, che si troveranno a vivere una esperienza in qualche modo sconvolgente.

Un approccio differente alla conoscenza sperimentato negli anni in luoghi molteplici, diversi, ciascuno comunque vissuto in modo sempre attivo e nella consapevolezza della valenza dell’ambiente socialie come elemento educativo: Sardegna, Camaldoli, Igea (1972); Val d’Aosta, Sicilia, Sardegna (1973), Sardegna, Arcidosso (1974), Sardegna, Amiata (1975), Sardegna (1976).

Alberto Ciampi  – Architetto, si interessa di Avanguardie storiche del Novecento, Movimento Anarchico, e cura il Centro Studi Storici Valdipesa. Ha pubblicato libri, saggi e articoli su pubblicazioni periodiche. Collabora, fra l’altro, alla rivista d’arte “ApArte°” di Venezia ed è membro del Comitato Scientifico dell’Archivio Berneri – Aurelio Chessa di Reggio Emilia. Suoi, fra gli altri: “Futuristi e anarchici – Quali rapporti?”; “Un fiore selvaggio”; “Rivoluzione in Tipografia”; “Anarchia e Futurismo – Revolverate”; “Gli Indomabili”; “Forma e Forme”; “I colori dell’anarchia nelle pubblicazioni periodiche”; “Leda Rafanelli – Carlo Carrà: un romanzo – arte e politica in un incontro ormai celebre!”. Ha collaborato a: reprint de “L’Italia Futurista”; “Dizionario del futurismo italiano”; “Dizionario Biografico degli Anarchici Italiani”. In ambito locale, con il Centro Studi Storici della Valdipesa ha curato numerosi convegni e pubblicazioni.

Articolo pubblicato nel luglio del 2019.