Firenze davanti alla guerra

Dal 2 agosto 1914 al 24 maggio 1915 le manifestazioni a favore e contro la guerra si distinsero a Firenze per tre elementi: un progressivo intensificarsi della violenza, un continuo ripetersi e una larga diffusione nel tessuto cittadino.

Il fronte interventista era ben radicato tra la borghesia, una parte dell’aristocrazia e una folta schiera di intellettuali e personalità pubbliche. A dicembre il gruppo nazionalista rinunciò addirittura alla campagna elettorale delle elezioni comunali per dedicarsi esclusivamente alla propaganda interventista «per agitare e tener desto con comizi, conferenze, dimostrazioni lo spirito pubblico contro i neutralisti di ogni colore. […]”». Sul fronte opposto il neutralismo si radicò profondamente nelle zone popolari ad alta concentrazione operaia, come San Frediano, Porta alla Croce, S. Lorenzo, S. Spirito.

I loggiati di piazza Vittorio Emanuele (oggi piazza della Repubblica) divennero, secondo “Il Nuovo Giornale”, «la palestra più comoda per le diatribe fra neutralisti e interventisti».

1. Equilibrio_europeo_1914Nonostante l’imposizione salandrina di tenere comizi “privati” con invito in modo da evitare manifestazioni in luoghi pubblici e, dunque, disordini, questi scoppiavano lo stesso all’uscita di  tali ritrovi. Così accadde dopo una conferenza del professor Della Torre sul poeta e pubblicista dalmata Arturo Colautti. I partecipanti, in maggioranza studenti, si recarono in piazza Duomo cantando l’inno di Mameli e inneggiando alla guerra. L’urto con i socialisti «si tradusse in una vera e propria battaglia a colpi di bastone, pugni e calci». Dopo ripetute cariche, disposti i cordoni di truppa, e eseguiti alcuni arresti la situazione tornò lentamente alla normalità [ACS, MI, DGPS, DAGR, A5G, b. 94, f. 212 (Firenze), sf. 1, rapporto del Prefetto Cioja, 1-12-1914].

Talora furono i giornali oggetto di violenze popolari. All’uscita della conferenza dell’ex podestà di Fiume Icilio Baccich nel salone dell’Unione liberale a cui avevano partecipato circa 400 uditori, tra cui molte personalità pubbliche cittadine, alcuni di questi si recarono sotto «La Nazione», la cui redazione fu circondata e presa d’assalto, quasi in un improvviso chiarivari.  L’urto con la polizia e «plotoni di guardie e di carabinieri» si consumò in piazza Vittorio Emanuele, con numerose cariche delle forze dell’ordine e arresti di massa, tra cui quello di Francesco Giunta e Ezio Maria Gray, future personalità di spicco fasciste, e del giornalista del «Nuovo Giornale», Orazio Pedrazzi, che descrisse l’esperienza drammatica dell’arresto e della camera di sicurezza. Alla vista dei fermi, una signora plaudì all’azione della polizia provocando la reazione dell’avvocato Eugenio Coselschi – futuro creatore dei CAUR fascisti – che la accusò di essere tedesca, mentre la folla invase la birreria «Mucke» al suono dell’inno di Mameli causando altre colluttazioni e altri arresti fino a mezzanotte.

A partire dalla primavera gli scontri si fecero sempre più frequenti, spontanei e gravi (anche per la diffusa detenzione delle armi) e si allargarono ad altre parti della città. La commemorazione della partenza dei Mille fu un nuovo pretesto per altri disordini: il 6 maggio gli studenti dell’istituto tecnico Galileo Galilei imposero l’esposizione della bandiera e la sospensione delle lezioni prima nel loro istituto poi in altri.

3. cpc terzaghiIl 17 maggio «La Nazione» scriveva»: «[…] le dimostrazioni patriottiche non si contano più. Ad ogni momento echeggiano in piazza Vittorio Emanuele, che è affollatissima, applausi e grida entusiastiche. Vengono lanciati palloncini con appese bandierine tricolori». In quei giorni il ministro delle Colonie, Martini, annotava sul suo diario: «se non ci sarà la guerra esterna ci sarà la guerra civile» e la stampa si chiedeva: «si va dunque alla guerra contro lo straniero o alla guerra civile?».

Anche gli atti vandalici o offensivi nei confronti di cittadini tedeschi (o presunti tali) o contro tutto ciò che era riconducibile alla Germania e all’Austria vanno letti alla luce di un dissenso verso la guerra, anche trasversale ai due opposti schieramenti: fu danneggiata una farmacia di proprietà di tale Hans Klatzsch (o Klotzsch) [ACS, MI, DGPS, Ufficio riservato 1911-1915 C. 2, b. 83A, consultato in copia presso ISRT, Nota della prefettura di Firenze, 22-8-1914]; alla stazione alcune famiglie di tedeschi furono prese di mira da studenti che fecero una dimostrazione patriottica creando tafferugli bloccati dalle forze dell’ordine; il signor Carlo Strauss fu oggetto di un incidente e tacciato di essere una spia; il console tedesco Oswald fu inseguito da un gruppo di interventisti al grido «Va fuori d’Italia, va fuori straniero!»; alcuni studenti ruppero il vetro dell’ufficio Loyd germanico che esponeva nelle vetrine telegrammi provenienti da Berlino e fotografie di soldati tedeschi [ACS, MI, DGPS, DAGR, A5G, b. 96, f. 212 (Firenze), sf. 10, ins. 1, rapporto del prefetto Cioja, 21-3-1915].

Le autorità pubbliche controllarono in modo ferreo Firenze e la sua provincia, soprattutto i gruppi di socialisti (per esempio Michele Terzaghi o il giornale socialista «La Difesa») e gli anarchici (soprattutto a Empoli e Montelupo), ma la miccia era ormai innescata.

5. gambrinusIl musicista Castelnuovo-Tedesco, cui era stato dato l’incarico di scrivere il canto patriottico Fuori i barbari!, in un suo libro di memorie avrebbe ricordato la sera della vigilia così: «Quando lo suonai quella sera in casa Corcos, suscitò l’entusiasmo generale; Ugo e i Rotigliano mi trascinarono fuori, mi portarono in piazza Vittorio Emanuele; al Caffè Gambrinus, dove ogni sera si adunavano i dimostranti, cacciarono l’innocua orchestrina del caffè che stava suonando, e mi misero lì, sopra un palco, al pianoforte, ad insegnare il canto alla folla! Era il 23 maggio 1915, proprio alla vigilia della dichiarazione di guerra: il giorno dopo l’Italia entrava in guerra a fianco degli Alleati, e poche settimane dopo i soldati cantavano il mio inno marciando verso le trincee».

Camilla Poesio ha conseguito il dottorato di ricerca nel 2009 presso l’Università Ca’ Foscari Venezia. Ha ricevuto due premi per la tesi di dottorato e una segnalazione per il suo secondo libro. È attualmente ricercatrice post dottorato presso l’Università Ca’ Foscari Venezia in cooperazione con la Fritz Thyssen Stiftung fino al 2016. Ha svolto attività di ricerca presso enti di ricerca pubblici e privati sia in Italia sia all’estero (Università Ca’ Foscari, Universität Bielefeld, Frei Universität Berlin, Fondazione Salvatorelli, Deutsches Historisches Institut in Rom). I suoi ambiti di ricerca sono la storia dell’Italia e della Germania del XX secolo in prospettiva comparata e transnazionale, i rapporti fra fascismo italiano e nazismo, i diritti umani, l’uso della violenza, la memoria pubblica e privata. Ha scritto il capitolo su Firenze e Provincia nel volume curato da Fulvio Cammarano, Abbasso la guerra! Neutralisti in piazza alla vigilia della Prima guerra mondiale in Italia, Le Monnier, Firenze, 2015.

Articolo pubblicato nel maggio del 2015.




Gli anarchici apuani di fronte alla Grande Guerra

Nelle settimane precedenti allo scoppio del conflitto mondiale i rapporti fra le forze della sinistra avevano assunto nella provincia apuana caratteri di vero e proprio antagonismo. Nel continuo gioco di contrasti e di ricomposizione delle alleanze che attraversava da anni l’organizzazione operaia, il ‘blocco rosso’ aveva infatti conosciuto una spiccata curvatura antisocialista, complici alcuni avvenimenti che avevano finito per alimentare tensioni fra le diverse tendenze fino a ridurne il potenziale sovversivo temuto dalle autorità. I sospetti di un larvato supporto degli anarchici al trionfo repubblicano nel voto comunale di Carrara del luglio 1914 si erano saldati con l’eco di furibonde accuse di parte socialista in occasione dell’elezione a deputato del repubblicano Eugenio Chiesa, impostosi nel novembre del ’13 per poche schede sul leader del PSI massese Francesco Betti. Sommate alla crescente insofferenza verso gli eccessi sindacalisti dell’anarchico Alberto Meschi, che con la Camera del lavoro carrarese era stato fra i protagonisti del congresso fondativo dell’USI del 1912, le polemiche elettorali contribuirono così a determinare nella calda estate del ’14 una dolorosa scissione nel movimento operaio con la creazione a Massa di un nuovo organismo camerale confederale da parte dei socialisti. I contrasti fra gli scissionisti da un lato e gli anarchici e i repubblicani dall’altro, sfociati in diversi casi in scontri anche mortali, non si attenuarono neppure di fronte ai problemi sollevati dall’avvento della guerra, con la prosecuzione fino al termine dell’anno di feroci dispute. Una scia di risentimenti che si saldava con la pesantissima crisi di un settore come quello marmifero che da luglio dovette fare i conti anche con il blocco dei commerci prodotto dal conflitto, capace di mettere in ginocchio l’economia di una realtà dipendente per intero dalle attività estrattive.

Se all’annuncio della dichiarazione di guerra austriaca tali divisioni non impedirono la convocazione a Carrara di un «grande comizio contro la guerra» su basi unitarie in cui il sindaco Eumene Fontana intervenne con il compagno di partito Edgardo Starnuti, il socialista Alberto Malatesta, il sindacalista Tullio Masotti e Meschi, la mobilitazione dei primi giorni costituì comunque un episodio isolato e fino all’anno nuovo seguì  una sostanziale stasi di iniziative pubbliche di segno antinterventista.

Dopo il consolidarsi della dichiarazione governativa di neutralità (3 agosto), la conseguente separazione dal campo dei contrari alla guerra dell’interventismo di sinistra si materializzò localmente nella torsione verso l’intervento dell’intero stato maggiore repubblicano: sulla scia del deputato Chiesa l’amministrazione comunale si associò senza incertezze alla posizione sancita dai vertici del partito. Gli anarchici dal canto loro tardarono a costruire iniziative spiccatamente antinterventiste e apparvero impegnati in maggior misura in azioni contro la gravissima crisi economica o in vertenze aperte dal periodo anteriore al conflitto che impedivano per il momento di far emergere in maniera chiara la tematica antibellica, anche perché ad esse continuavano spesso a partecipare, dietro la comune copertura della CdL carrarese, gli stessi repubblicani. Un’opposizione diretta ispirata ai principi antiautoritari e antimilitarsisti propri della contestazione libertaria alla guerra, pur non del tutto assente, si limitava a qualche sporadica dichiarazione alla stampa militante dei circoli più noti, mancando di momenti di presenza scenica pubblica destinati invece, in una terra proletaria come quella apuana, alla protesta di stampo economico. Anche il foglio della CdL «Il Cavatore», fondato da Meschi nel 1911 come organo camerale, dopo un’editoriale di condanna allo scoppio del conflitto interamente giocato sul filo di un acceso antipatrottismo, tenne verso il tema una linea defilata e quasi disinteressata. Mentre l’impegno di segno neutralista da parte dei socialisti apuani non era venuto mai meno e aveva continuato ad intensificarsi in parallelo con la politica del partito, i ritardi nel processo di affermazione di un’opposizione frontale e propriamente politica al conflitto da parte degli anarchici apuani non hanno risparmiato talora a Meschi sospetti di titubanze e ambiguità, parzialmente accreditati in passato anche dal maggior storico del movimento operaio apuano Lorenzo Gestri; ove si tengano tuttavia in debito conto le posizioni parallelamente assunte a livello nazionale dall’USI e dal suo leader Armando Borghi, il caso di altre realtà camerali sovversive con forti componenti interventiste e le difficoltà del  movimento libertario nei primi drammatici mesi della neutralità italiana, gli atteggiamenti assunti dall’“uomo di pietra” finiscono invero per non essere privi di una loro coerenza, chiaramente riaffermata peraltro anche dall’intensa azione da lui svolta nelle ultime settimane prima dell’ingresso italiano nei combattimenti, in cui spicca fra l’altro un intenso tour accesamente antimilitarista destinato a toccare in aprile molte località della Toscana tirrenica.

Del resto con l’avvio del 1915 lo stesso atteggiamento degli anarchici parve risentire positivamente di quel processo di maggiore definizione della propaganda attiva sul tema del conflitto iniziato in ambito libertario dalla fine dell’anno e culminato nel convegno nazionale pisano contro la guerra del 24 gennaio, che vide una folta partecipazione di gruppi  apuani. In sede di discussione Meschi, illustrata la disperata situazione economica carrarese, si dimostrò fra i più oltranzisti, giungendo a ventilare «la proposta di un moto insurrezionale immediato». A testimoniare il mutato clima, furono avviate manovre preparatorie destinate a sfociare in un’iniziativa della sua CdL che suonerà come un’applicazione decisa degli strumenti d’azione indicati dall’ordine del giorno finale antiguerresco approvato a Pisa in cui si era auspicato fra l’altro l’inizio di agitazioni e movimenti contro gli effetti economici del conflitto quali mezzi utili ad alimentare nel popolo uno spirito rivoluzionario capace di opporsi ai rischi di guerra e di sostenere un eventuale sciopero generale insurrezionale. Dopo che a fine febbraio la CdL approvò un ordine del giorno che, denunciato il peggioramento della crisi, non escludeva gravi agitazioni e per la prima volta, accanto ai soliti attacchi al governo, non risparmiava critiche al comune, il 10 marzo ricorreva allo strumento forte dello sciopero generale, accompagnato da un comizio in piazza Alberica. Anche se la piattaforma prescelta sembrava perpetuare ancora una volta l’ambiguità di precedenti iniziative, enfatizzando più le conseguenze sul tessuto economico locale del conflitto (disoccupazione e caro viveri) che le ragioni di fondo che le producevano e ammettendo ancora una volta la partecipazione del sindaco al pubblico comizio (poi vietato), la giornata si tradusse in una grande protesta antimilitarista di massa; come avrebbe sintetizzato il corrispondente dell’«Avvenire Anarchico» lo sciopero che «doveva essere per la disoccupazione si è cambiato in una imponente manifestazione contro la guerra». Gli slogan della folla, i cartelloni issati e confiscati e i manifesti affissi fin dal mattino non lasciarono dubbi sul significato politico assunto dall’iniziativa, sfociata rapidamente in una clima insurrezionale con urla di «Abbasso la guerra», sassaiole, cariche di soldati a cavallo e comparsa di barricate nelle vie del centro storico; 5 appartenenti alla forza pubblica rimasero feriti causando il conseguente arresto nelle ore successive di alcuni militanti anarchici.

Tale giornata, che finì per divenire il momento di maggiore mobilitazione avvenuto nella provincia apuana nei mesi della neutralità italiana rappresentò uno spartiacque, e con le divisioni lasciate sul campo costituì un momento di chiarificazione politica, con una marcata e non più ricomposta spaccatura, anche da parte anarchica, con i repubblicani. Del resto se l’amministrazione repubblicana si impegnò a condannare con un manifesto il tentativo di assoggettare la protesta ad una discussione «vana e pericolosa», privilegiando un tema che rompeva l’unità e la concordia, con l’intensificarsi, come in gran parte del paese, di una spirale di scontri di piazza sulla questione del conflitto i mutati equilibri divennero ancor più evidenti; così ad esempio militanti libertari parteciparono con i socialisti alla contestazione organizzata contro il parlamentare Chiesa, giunto in città la sera del 17 aprile con l’accusa di essere un «deputato interventista di un Collegio neutralista», e conclusasi a colpi di randello e con una ventina di arresti e diversi feriti. O ancora furono parte attiva nel boicottare il ‘maggio radioso’ degli interventisti carraresi, il cui tentativo di tenere una dimostrazione ufficiale a sostegno dell’ingresso in guerra sotto la statua di Mazzini con l’immancabile caricatura di Giolitti fu impedito e sopraffatta dall’arrivo di circa 450 neutralisti armati di bastone.

E tuttavia la percepibile avversione popolare alla guerra aveva a lungo faticato a trovare un coerente sbocco politico, anche per le divisioni fra libertari e socialisti che, a differenza di altre realtà, resero difficili momenti ufficiali di vera protesta unitaria, per quanto confinati ad un terreno di lotta legalitario quale quello imposto dal PSI e subito dagli anarchici. Pure questo aspetto, oltre alle urgenze quotidiane di una crisi economica gravissima e alla natura essenzialmente sindacale e proletaria del movimento anarchico locale, parve pertanto contribuire ad un neutralismo più sociale che politico, destinato a infondere alla protesta contro la guerra un profilo che finì per intrecciarsi in modi non sempre codificabili con problemi come la disoccupazione ed il carovita.

 

Marco Manfredi ha conseguito nel 2005 il titolo di Dottore di Ricerca presso l’Università di Pisa. Dal 2007 al 2009 è stato borsista postodottorato al Dipartimento di Scienze della Politica dell’Università di Pisa, mentre dall’anno accademico 2009-2010 è stato Professore a contratto di Storia Contemporanea. I suoi interessi di studio riguardano in prevalenza la storia politica e la storia della cultura del primo Ottocento e la storia delle classi subalterne, con particolare attenzione al movimento anarchico. A quest’ultimo riguardo ha vinto nel 2007 la Borsa di ricerca Pier Carlo Masini con il progetto di ricerca Linguaggio, simbologia, rituali. La cultura dei militanti anarchici in età giolittiana, e nel 2006 la Borsa di ricerca Lorenzo Gestri.
Ha scritto il capitolo su Massa Carrara nel volume curato da Cammarosano, Abbasso alla guerra!

Articolo pubblicato nel maggio 2015.




Lucca e la Prima guerra mondiale

Nell’anno della neutralità italiana – dal 2 agosto 1914 al 24 maggio 1915 – anche la provincia di Lucca, come il resto d’Italia, fu percorsa da dibattiti e tensioni che coinvolsero, sul tema della guerra, le forze politiche, le correnti culturali, la popolazione.

Nell’occasione si evidenziarono anche le diverse identità di una provincia davvero composita. La “Lucchesia”, la Versilia, la Valle del Serchio, la Garfagnana (che allora però era in provincia di Massa), la Valdinievole (Pescia e Montecatini, che ora sono però in provincia di Pistoia), presentarono infatti le loro realtà a volte comuni, ma spesso anche alquanto difformi, per specificità locali.

Un primo dato comune è che non si ebbero intorno a questa discussione quei picchi di violenza che, soprattutto se andiamo alla conclusione, si presentarono in altre parti d’Italia, sì da configurare, a detta di alcuni storici, situazioni di vero e proprio conflitto civile. Nella nostra provincia sono in evidenza in questo senso solo alcuni limitati episodi, tra cui spicca la violenta manifestazione neutralista che impedì il comizio di Cesare Battisti a Viareggio (31 gennaio 1915), “risolta” comunque con qualche contuso e danni materiali, presenza moderata delle forze dell’ordine e soprattutto senza vittime (che invece si verificarono in situazione simile, un mese dopo, a Reggio Emilia).

Si presenta qui il problema di valutare gli orientamenti dello spirito pubblico sui temi della guerra. Come è noto fin dagli studi di Vigezzi, l’indagine promossa nell’aprile del 1915 dal Governo – e quasi subito ritirata – su quali fossero gli orientamenti dell’opinione pubblica nel caso di intervento dell’Italia in guerra, non annovera la risposta del prefetto di Lucca. Non è comunque difficile ipotizzare una situazione in linea con l’andamento nazionale: il punto di partenza era certamente una diffusa approvazione dell’orientamento neutralista, che ondeggiava dalla esplicita opposizione alla guerra alla speranza che l’Italia potesse rimanerne fuori; le ragioni dell’intervento, che maturarono soprattutto in settori sociali specifici (borghesia urbana, professionisti, studenti) si fecero strada, mentre affioravano voci in tale direzione sull’orientamento della politica governativa e sull’andamento segreto dei lavori diplomatici, creando un senso di progressiva ineluttabilità dell’intervento; e se l’adesione entusiastica non sembrò affatto coinvolgere le maggioranze, si diffuse l’impressione di una accettazione “rassegnata” (come dice Vigezzi) del sacrificio come necessario e, a quel punto, magari anche nobile e doveroso. Ed ecco che, nelle fasi finali, indipendentemente dal permanere ed anzi dall’accentuarsi della contrapposizione e dello scontro, la società civile mise in atto una partecipe mobilitazione a sostegno dello sforzo economico ed umano che anche la provincia di Lucca, come per il resto d’Italia si preparava a sostenere.

 

Queste valutazioni non possono comunque prescindere dal quadro politico che orientava l’opinione pubblica rappresentandone al contempo un termometro attendibile. A questo livello si svolse un dibattito davvero intenso, più articolato e complesso di quanto non si sia soliti rappresentare.

A sinistra, l’“Estrema” (socialisti, repubblicani, sindacalisti, anarchici, sinistra radicale) conobbe la spaccatura di quella unità che aveva avuto il suo momento più significativo nel corso delle agitazioni della “settimana rossa”, che per la verità scossero soprattutto la Versilia e che invece interessarono assai modestamente Lucca.

Il partito socialista fu la roccaforte del neutralismo militante, soprattutto per la battaglia condotta da Luigi Salvatori, sulle piazze versiliesi e sul suo periodico, “Versilia”: voce di un “neutralismo assoluto” che giunse fino alla (inascoltata) richiesta ai vertici nazionali del partito, nei giorni caldi di maggio, di uno sciopero nazionale contro la guerra. Nel resto della provincia, se si segnalò una vivace attività dei socialisti a Pescia, la stessa area socialista non rimase immune da divisioni nel capoluogo, dove si ebbero ampie adesioni alle ragioni dell’intervento, come testimonia la vicenda del principe del foro Francesco Bianchi, già distaccatosi dalla linea del partito ai tempi della guerra di Libia ed ora strenuo fautore dell’interventismo democratico.

La divisione attraversò anche il gruppo sindacalista, con l’“interventismo rivoluzionario” di Alceste De Ambris. A Viareggio questa prospettiva conquistò Lorenzo Viani, che divenne così l’elemento rilevante, per quanto sostanzialmente isolato, della divisione che percorse anche il campo anarchico.

Maggioritaria fu invece la professione interventista dei repubblicani, variamente rappresentati in provincia. In Versilia, la voce più stentorea fu quella di un “non politico”: quella del poeta Ceccardo Roccatagliata Ceccardi, animatore e guida della cosiddetta “Repubblica di Apua”. In tutta la provincia era questo il settore più intensamente legato all’eroica epopea del volontariato democratico garibaldino, che veniva ora rievocata e rinnovata.

Muovendo la nostra attenzione verso il centro politico, troviamo l’area per lo più connotata come “democratica”: radicale, laica, massone, con aspirazioni di governo, sia a livello, sia a livello locale (con esperienze  specie in Versilia, durature a Pietrasanta e più frammentarie a Viareggio). E’ un settore che subisce nel 1913 il colpo dell’alleanza tra i liberali moderati e i cattolici promossa dal patto Gentiloni, con significativi contraccolpi negativi anche sul piano amministrativo (la sconfitta di Pietrasanta, per esempio); ma che ha anche i suoi punti di forza: a Pescia per esempio nella figura di Ferdinando Martini, ministro delle colonie di Salandra. La posizione sulla guerra di questo settore, laico massone e filofrancese, si viene precisando (con l’eccezione neutralista di Barga) in direzione dell’intervento, dove con maggiore, dove con minore impazienza, dove più, dove meno precocemente.

A destra dei democratici si estende il grande centro liberale, moderato, monarchico, governativo, le cui posizioni riflettono le incertezze, le divisioni e i “tentennamenti” della linea di governo nazionale.

Abbiamo tutta un’area che si ispira a giolittiani di stretta osservanza, quali sono il deputato versiliese  Giovanni Montauti e quello garfagnino Ernesto Artom, che predicano finché possibile la prudenza della via diplomatica. Va anche detto che a questi livelli, l’alleanza inaugurata con i cattolici preme sulla via del neutralismo.

Ma è proprio al cuore della provincia che i liberali si muovono con maggiore libertà incalzando in senso opposto Salandra, sicché a Lucca “l’orologio dell’interventismo” è anticipato rispetto al resto della provincia. E non certo per le pressioni del gruppo nazionalista, nel capoluogo presente con una attività che non ha eguali in provincia, ma con una forza non in grado di incidere al di là delle pubbliche prese di posizione. Forse invece per una certa qual “vocazione” nazionale della classe dirigente lucchese, evidenziatasi per esempio nel maggio 1914, quando l’intera città era scesa in difesa dei suoi studenti, colpiti dalla polizia del prefetto Cotta e dalla magistratura per la loro dimostrazione in favore degli italiani di Trieste.

Rimane da dire dell’altro corno della politica cittadina: quello dei cattolici, di cui va sottolineata in generale l’adesione alle linee del neutralismo dettato da Benedetto XV, rinforzata dalla particolare coerenza del loro leader più prestigioso, sul piano culturale, oltre che politico: appunto Lorenzo Bottini. Sicché, analizzando la parabola di questo neutralismo, si potrà arrivare alla conclusione – solo apparentemente paradossale – che proprio dentro il gruppo dirigente della società lucchese, i liberali più interventisti di tutta la provincia convissero con i cattolici più neutralisti.

Si presentarono, in provincia, tutti i diversi motivi di fondo del neutralismo cattolico: quello filoaustriaco e filotriplicista dell’intransigentismo (forse più rappresentato a Viareggio, a quanto risulta dalla linea dell’“Eco Versiliese”); quello della partecipazione all’interesse nazionale (inalberato contro l’internazionalismo “disfattista” dei socialisti): la pace è nell’interesse nazionale, in nome del quale i cattolici professano a più riprese di essere anche pronti all’eventualità della guerra; e terzo, il neutralismo di principio, quello etico, che parla più direttamente alla popolazione e organizza le mobilitazioni di preghiera per la pace.

Ma – anche qui una distinzione interna – se l’arcivescovo Marchi sospende la mobilitazione dei fedeli attorno a Pasqua, pronto ad invocare sull’esercito italiano la protezione del “dio delle vittorie”, è Bottini l’ultimo ad arrendersi. Lui, che già era stato contrario alla guerra di Libia per motivi di principio (applicando lo stesso principio che da un punto di vista clericale gli aveva fatto condannare la presa di Roma al Papa per rifiutare consenso alla “conquista di Tripoli al Sultano”), con motivazioni tutte politiche arriverà a salutare le dimissioni di Salandra (13-16 maggio): gli abbiamo voluto bene (aveva scritto: siamo disposti a farci guidare da lui come una moglie dal buon marito), ma la sua politica di guerra non la condividevamo. Si dà per vinto solo il 23 maggio: Alea iacta est.

 

Articolo pubblicato nel maggio del 2015.

 

 




“Abbasso la guerra!”

Quando, con l’ “impresa” dell’ottobre 1911, il governo Giolitti dà il via alla conquista della Libia, sono molte le voci che esprimono con forza l’opposizione delle donne.

Come per esempio aveva ricordato Maria Goja in un articolo di “Su comapgne!”  del 1911 (vedi materiali correlati), le “donne d’Italia” si erano già mobilitate in occasione della “guerra d’Africa”, il tentativo di conquista dell’Etiopia culminato nella disfatta di Adua del 1896. Nelle manifestazioni popolari contro il governo Crispi e per il ritiro delle truppe dall’Africa, infatti, è massiccia la presenza delle donne, che indirizzano anche petizioni e proteste al parlamento.

L’emergere del protagonismo delle donne in questi due tragici momenti dell’‘avventura’ coloniale italiana non sarebbe forse possibile, tuttavia, se non fosse preceduto da una storia di crescita di pensiero e azione per la pace che inizia già nella seconda metà dell’800 e proseguirà, pur tra differenziazioni e defezioni, fino alla Prima guerra mondiale.

La Guerra di Libia

È all’inizio della Guerra Italo-turca nel 1911, tuttavia, che si determina in campo femminile una netta spaccatura, e mentre tra le emancipazioniste e pacifiste prevale lo spirito ‘patriottico’, socialiste e anarchiche restano le sole a rappresentare una dura e coerente opposizione alla guerra.

Nella redazione de La Difesa delle lavoratrici, diretta da Anna Kuliscioff, che inizia le pubblicazioni nel gennaio 1912, confluiscono, tra le altre, le più attive e riconosciute militanti socialiste: Angelica Balabanoff, Giselda Brebbia, Carlotta Clerici, Rosa Genoni, Maria Giudice, Maria Goja, Linda Malnati, Margherita Sarfatti, Giuseppina Moro Landoni, Maria Perotti Bornaghi, Abigaille Zanetta.

La propaganda contro la guerra – che dalla fine del 1912 s’intreccia a quella contro l’incombente conflitto europeo – non solo occupa le prime pagine e quelle interne del giornale con editoriali, novelle antimilitariste, rubriche rivolte ai bambini, citazioni da Tolstoj e De Amicis, ma è portata tra le donne con comizi e “agitazioni”.

Leda_Rafanelli

L’anarchica toscana Leda Rafanelli

Nel campo libertario s’intensifica l’attività antimilitarista di Maria Rygier, mentre dalla “Palestra femminile” dell’Avvenire anarchico Priscilla Fontana e la figlia Jessa e da La Donna Libertaria Amelia Legati rivolgono accorati appelli “Alle madri” perché si mobilitino contro la guerra. Su Libertà la toscana Leda Rafanelli stigmatizza non solo il sopruso e l’arroganza dei conquistatori italiani contro “i liberi figli d’Africa”, ma anche “l’odio di razza” delle potenze europee nei confronti di tutti i popoli colonizzati.

La “Grande guerra”

All’inizio della guerra europea nell’agosto 1914 sulla prima pagina de La Difesa appare a caratteri cubitali il manifesto “Non vogliamo la guerra!” e da quel momento fino all’entrata in guerra dell’Italia nel maggio 1915 socialiste e anarchiche intensificano la propaganda e la mobilitazione delle donne nelle piazze.

Sui giornali, non solo di donne, si moltiplicano gli interventi: sull’Avanti!, oltre che su La Difesa, appaiono quotidianamente gli articoli della Balabanoff, di Rosa Genoni e Maria Giudice, ma anche di Leda Rafanelli. Su La Pace quelli di Fanny Dal Ry e sui giornali libertari quelli della Rafanelli e delle “irriducibili” Priscilla Fontana e Jessa Pieroni.

Nei loro ripetuti appelli, tuttavia, si avverte un crescente pessimismo sulla volontà di tutte le donne di opporsi alla guerra. È in questo momento, infatti, che l’idea della “guerra giusta” – la “guerra di difesa” – crea quelle divisioni che rompono la linea unitaria all’interno del fronte sia socialista, sia anarchico. Margherita Sarfatti prima e Giselda Brebbia poi, e come loro Maria Rygier, seguono Mussolini (espulso dal PSI) e la linea editoriale del Popolo d’Italia.

La grande maggioranza delle socialiste, tuttavia, continua a riconoscersi nelle posizioni di Clara Zetkin, che a dicembre lancia un nuovo appello alle donne di tutti i paesi, e dell’Internazionale femminile socialista, la cui vicenda di questi anni è tra l’altro molto significativa per quanto riguarda la specificità dell’opposizione delle donne alla guerra. Dopo la dissoluzione della Seconda Internazionale in seguito alla votazione dei crediti di guerra da parte dei maggiori partiti socialisti nel 1914 e a partire dal convegno di Berna del marzo 1915, infatti, l’Internazionale Femminile assume le caratteristiche di movimento autonomo. La rete di donne socialiste sia dei paesi belligeranti che di quelli neutrali si autoconvoca ed agisce indipendentemente dalle posizioni e direttive dei rispettivi partiti nazionali. Spesso in contrasto con questi, mantenendo la fedeltà all’internazionalismo tradita dai compagni.

In campo anarchico, contro il tradimento di Maria Rygier ed altri, Leda Rafanelli ribadisce in articoli sui giornali libertari e sull’Avanti!, oltre che nell’opuscolo Abbasso la guerra!, l’opposizione della maggioranza degli anarchici sia alla guerra coloniale che a quella contro altri popoli europei. Nella Giacomelli, a sua volta, si rivolge con un manifesto a tutte le donne perché dimostrino contro il conflitto.

Benché in generale resti incontestabile il fatto che – come nel resto d’Europa – il nazionalismo nelle donne fu più forte (e soprattutto più visibile) del pacifismo, anche dopo l’entrata in guerra dell’Italia, dunque, permane tra le socialiste e le libertarie una maggioranza di ‘resistenti’.

Mentre su L’Avanti! continuano ad uscire (pur con tagli sempre più pesanti della censura) interventi della Balabanoff, di Leda Rafanelli, Rosa Genoni, La Difesa delle Lavoratrici, nonostante le divisioni interne, mantiene viva l’informazione sulle iniziative per la pace delle donne anche degli altri paesi. All’attività internazionale della Balabanoff  (tra gli organizzatori della conferenza dei partiti socialisti di Zimmerwald nel 1915) si affianca quella delle altre militanti, come l’organizzazione di leghe di resistenza femminile e della protesta  delle donne torinesi da parte di Maria Giudice e il lavoro nelle scuole e nel campo dell’educazione di Linda Malnati, Carlotta Clerici e Abigaille Zanetta. Rosa Genoni, fondatrice dell’associazione Pro Humanitate e delegata al Congresso Internazionale dell’Aja del maggio 1915, promosso dalla statunitense Jane Addams, sarà poi rappresentante italiana della Women’s International League for Peace and Freedom che da questo ha origine.

L’opposizione delle donne italiane, dunque, resta viva attraverso e oltre la guerra. E tra le altre saranno proprio alcune delle ‘veterane’ – come Maria Giudice e Giuseppina Moro Landoni, arrestata la prima e internata la seconda nel 1916, Abigaille Zanetta, arrestata nel 1918 – a rappresentarne la continuità e a scrivere altri capitoli di storia del protagonismo delle donne anche durante la resistenza al fascismo.

Articolo pubblicato nell’aprile del 2015.




La Firenze industriale di primo ‘900

All’inizio del Novecento, sull’onda del decollo economico dell’età giolittiana, anche la struttura industriale fiorentina conobbe un forte sviluppo. Quali caratteristiche assunse lo sviluppo industriale di una città a lungo dominata dagli interessi del notabilato agrario-finanziario?

Un buon punto di partenza per ricostruire il tessuto produttivo della Firenze dell’epoca sono le fonti statistiche ufficiali (censimenti, annuari, statistiche industriali), messe a confronto e integrate con i dati nominativi delle aziende censite nel 1904 dall’ Indicatore generale della città di Firenze. Riportando su una pianta della città la lunga lista di indirizzi di industrie reperiti su queste fonti è possibile farsi un’idea della localizzazione delle imprese cittadine tra fine ’800 e primo ’900.

È evidente, a colpo d’occhio, la notevole consistenza dei settori metallurgico-meccanico e tipografico-editoriale, che si impongono come i più rappresentativi della realtà economica dell’epoca, sia per il numero degli stabilimenti sia per la consistenza degli addetti. Inoltre, è interessante notare come la loro localizzazione contribuisca a disegnare nel contesto urbano una sorta di geografia industriale separata e distinta. Le fonderie e le officine meccaniche erano ubicate perlopiù nelle aree periferiche lontane dal centro storico, mentre gli stabilimenti tipografici e le case editrici erano concentrate nelle vie centrali di Firenze, dando forma a una geografia industriale che, in un certo senso, incarnava e perpetuava due identità della città: da un lato, l’industria nelle sua accezione più moderna, dall’altra le attività legate alla produzione di beni culturali della Firenze città d’arte e “Atene d’Italia”, spesso con intere strade dedicate a particolari lavorazioni o commerci (si vedano gli orafi intorno al Ponte Vecchio o la lavorazione del legno in via Maggio).

Il panorama che ne emerge, inoltre, è caratterizzato dalla prevalenza della piccola e piccolissima unità aziendale, con un numero notevole di imprese gestite dal solo proprietario, e da settori largamente incentrati sul lavoro a domicilio. Dalla confezione di abiti alla preparazione di accessori in pelle, dalla lavorazione della paglia al ricamo, dal mosaico al mobile, il lavoro a domicilio risulta in effetti una componente essenziale del modo di “fare industria” della produzione manifatturiera fiorentina.

Nonostante la presenza di ditte ragguardevoli per la realtà dell’epoca – come la Società anonima Fonderia del Pignone, l’Officina Galileo, le Officine Ferroviarie, le Manifatture Tabacchi -, il tessuto industriale della città appare insomma frantumato e disperso in una miriade di situazioni produttive spesso molto differenti, fra le quali non è facile tracciare una precisa linea di demarcazione. Lo stabilimento come la piccola officina e il laboratorio, lo studio come la bottega dell’artigiano e la casa dell’operaio rappresentavano i diversi e molteplici luoghi della produzione, in una serie di interazioni e compenetrazioni che rinviavano a un universo composito e dinamico, non assimilabile alla fabbrica moderna, ma ugualmente figlio dei meccanismi innescati dalla rivoluzione industriale.

Ing. Pietro Veraci

Ing. Pietro Veraci

Accanto a questo tessuto fatto di micro-aziende, crescevano e si rafforzavano industrie più moderne. Proprio nei primi anni del secolo, alcune imprese cittadine si erano trasformate in società anonime, a conferma dell’esistenza anche a Firenze di importanti fenomeni di concentrazione produttiva e finanziaria. La fonderia dell’ing. Pietro Veraci, per esempio, nel marzo del 1905 si era costituita in società anonima con un capitale sociale di 800.000 lire e si stava dotando di nuovi reparti; la Fabbrica di automobili Florentia, divenuta società anonima nel 1903, aumentò il suo capitale per ben due volte tra l’aprile del 1905 e il marzo 1906 e conobbe un notevole potenziamento occupazionale, passando dai 55 addetti del 1904 ai 195 del 1907. Tuttavia, anche nel comparto metalmeccanico – settore che in quegli anni aveva assunto un ruolo trainante nel processo di industrializzazione nazionale – la realtà fiorentina si caratterizzava per la prevalenza di una meccanica di tipo leggero, ancorata a produzioni che non richiedevano grandi investimenti di capitale fisso. Nella varietà delle tipologie produttive figuravano però anche realizzazioni ad alto contenuto tecnologico quali, ad esempio, gli strumenti ottici prodotti dalla Galileo per la Marina militare. La storia stessa delle maggiori industrie metalmeccaniche fiorentine (Pignone, Galileo…) mostra, al contempo, l’esistenza di un processo di crescita e di rinnovamento dell’apparato industriale locale e il persistere di difficoltà ad adottare forme di organizzazione del lavoro più razionali e moderne. Pertanto, almeno nel primo quinquennio del ’900, l’industria metalmeccanica fiorentina non sembra conoscere quella radicale svolta nell’organizzazione del lavoro che era in atto già dall’ultimo ventennio dell’Ottocento in alcune grandi aziende metalmeccaniche dell’Italia del Nord. Ancora all’inizio del ‘900, l’industria fiorentina cresceva soprattutto grazie alla moltiplicazione di piccole unità aziendali scarsamente meccanizzate.

Questo fenomeno si riscontra anche in altri settori importanti nella realtà industriale cittadina. È il caso del variegato universo produttivo censito sotto la voce “industrie diverse”, di cui il settore tipografico-editoriale era di gran lunga il più rappresentativo. Accanto ad iniziative come quella avviata nel 1897 dal tedesco Leo Samuel Olschki, legato al mercato antiquario e agli ambienti culturali e accademici (italiani e stranieri), o ad alcuni stabilimenti più grandi – come quello di Antonio Civelli –, troviamo un fitto tessuto di piccole e piccolissime tipografie orientate a una produzione più propriamente commerciale volta a soddisfare la domanda proveniente da un turismo che, se non era ancora di massa, vedeva muoversi sulla scena cittadina flussi consistenti di persone, perlopiù straniere, interessate ad acquistare cartoline illustrate, carte decorate e incise in oro e colori, lavori artistici in carta e cartonaggi, incisioni, litografie di paesaggi e architetture della Toscana.

Antonio Civelli (Milano 1850- Firenze 1930). Editore, presidente della Camera di Commercio di Firenze 1891-93

Antonio Civelli (Milano 1850- Firenze 1930). Editore, presidente della Camera di Commercio di Firenze 1891-93

Al fine di valutare le caratteristiche della crescita dell’industria fiorentina di inizio secolo occorre guardare anche a tutte quelle lavorazioni che facevano ancora ampio ricorso al lavoro a domicilio. Stando a un’indagine della Camera di Commercio del 1904, nella confezionatura di biancheria – una manifattura che aveva un certo rilievo in una città che da qualche decennio aveva visto crollare le ultime vestigia di una attività tessile degna di nota – erano occupate a Firenze circa 500 «operaie cucitrici adibite da sole o in piccoli laboratori a questa fabbricazione». L’impiego di manodopera a domicilio era largamente diffuso e sottostimato, a causa della difficoltà di censire l’effettiva entità del fenomeno, anche in altre attività del settore come, per esempio, nella cucitura di divise militari.

Un altro aspetto che contraddistingueva la struttura produttiva fiorentina era la vivacità delle lavorazioni censite sotto la voce di Arti decorative ed industriali (1904). Ad accomunare queste produzioni non era la materia prima utilizzata o l’adozione di determinati procedimenti trasformativi, bensì l’attenzione riservata alle “qualità artistiche” del prodotto. La notevole varietà dei materiali adoperati – dal ferro al legno, dal vetro al merletto, dal marmo alla porcellana -, dei prodotti e la notevole eterogeneità delle figure coinvolte – dall’apprendista al piccolo imprenditore – dimostrano come la risorsa principale del settore fosse costituita dal patrimonio di mestieri recuperati dalla lunga tradizione artigianale fiorentina. Questo settore era caratterizzato da un fitto e variegato tessuto produttivo: la produzione artistica di più alto livello conviveva con l’attività di copiatura di opere d’arte – una vera e propria “industria della replica” – molto diffusa a Firenze in quegli anni, che traeva alimento dalla presenza di radicate colonie di stranieri e da un turismo d’élite particolarmente sensibile ai richiami del “prodotto artistico”. Accanto a questo lavoro di riproduzione e di imitazione di oggetti d’arte mutuati dalla tradizione tardo-rinascimentale – come per esempio le fedeli riproduzioni dei Della Robbia della Ditta Cantagalli o le pregiate terrecotte artistiche della Manifattura di Signa – si era notevolmente sviluppata la produzione di beni di consumo e di componenti per l’arredo (domestico e urbano) in stretta connessione ai progetti di ristrutturazione urbana degli anni Ottanta dell’Ottocento.[foto 6]

Dunque, la Firenze di primo ‘900 descritta da queste fonti si caratterizza per un impasto originale di specializzazione artigianale e di ammodernamento industriale. Funzionale all’idea di Firenze “città d’arte e di cultura”, tanto cara al ceto dirigente moderato toscano, questa struttura produttiva era il frutto di una trasformazione, di un adattamento della tradizione corporativa e artigiana alle esigenze della competizione industriale e ai cambiamenti del mercato. Accanto agli stabilimenti più grandi, che impiegavano macchine e motori, cresceva un fitto tessuto di piccole aziende a carattere familiare organizzate con criteri semi-artigianali. Era varia la tipologia dei luoghi adibiti alla produzione: dalla piccola officina, dove ritmi e cadenze del lavoro artigianale si alternavano a forme produttive più moderne – seriali ma di qualità – ai ricoveri per poveri; dalle scuole professionali, dove il motivo dell’apprendistato si saldava con quello della produzione, alla casa-laboratorio dell’operaio. Tra questi mondi c’erano contatti e interazioni reciproche, ma parallelamente si andavano sviluppando forme di associazionismo e di rappresentanza differenziate e articolate per categorie e classi, a cui il decollo industriale e la crisi del blocco di potere moderato avrebbero dato nuova visibilità nella Firenze degli anni giolittiani.

Articolo pubblicato nell’aprile 2015.




Fare i lavoratori?

Trascurate dalla legge Casati – che non le aveva previste -, introdotte in silenzio nel 1878, con una circolare emanata dal Ministro di Agricoltura, Industria e Commercio Benedetto Cairoli, ancora all’inizio del XX secolo le scuole industriali e artistico-industriali conservavano la dimensione informe di una disordinata galassia educativa. Designate le prime per i futuri capi-officina e le seconde per gli artigiani, analogamente agli altri tre indirizzi dell’istruzione professionale (agrario, commerciale e professionale femminile) erano state affidate, diversamente dalle altre scuole, alle cure delle amministrazioni locali e private, che fino al 1913 poterono autonomamente definirne fondazione, organizzazione e curricula.

Quando ottennero nel 1907 l’ambito riconoscimento statale con la legge Cocco-Ortu, le scuole industriali e artistico-industriali stavano conoscendo da più di dieci anni un’espansione di tutto rispetto. La Toscana, dal 1900 la quarta regione con più iscritti, pur avendo assistito tra 1891 e 1902 a un buon incremento degli studenti (che aumentarono da 2948 a 3505), nei sei anni successivi era stata protagonista di un’inattesa contrazione, che aveva riportato gli studenti a 2855 proprio quando a livello nazionale aumentavano senza sosta le iscrizioni a questo nuovo tipo di istruzione.

Eppure, proprio in quegli anni la regione aveva assistito alla fondazione di numerosi istituti: la scuola per i piccoli laboratori forestali di Stia (Arezzo), le scuole industriali “Leonardo da Vinci” di Firenze e “Antonio Pacinotti” di Pisa e Pistoia e la riapertura della scuola di disegno di Cascina (Pisa) arricchirono un panorama in cui già operavano le scuole di disegno di Seravezza (Lucca), Lucca, Empoli, Pescia e Sesto Fiorentino, quelle industriali di Siena e Colle Val d’Elsa e la scuola per le arti tessili e tintorie di Prato, foggiata sulle orme del più famoso istituto biellese. Le numerose scuole di disegno fiorentine, ruotanti intorno alla prestigiosa Scuola superiore d’arti applicate all’industria cittadina, completavano il quadro.

La portata del rinnovamento è evidente: il reticolo regionale delle scuole di disegno serali e domenicali, rivolte soprattutto a operai e artigiani semianalfabeti, fu arricchito in pochi anni da quattro scuole industriali diurne, i cui macchinari erano destinati alla formazione di una nuova classe di capi-operai. Anche il curriculum, che oltre al disegno prevedeva le materie tecnico-scientifiche (fisica, tecnologia, meccanica, la nuova e sperimentale elettrotecnica) e la pratica dell’officina, era più ambizioso rispetto a quello delle scuole serali, incentrate sulla pratica del solo disegno. Nelle intenzioni dei fondatori, le nuove scuole erano istituti congeniati per i figli della piccola borghesia e degli operai specializzati, che, secondo la diffusa opinione di politici e docenti, dovevano essere distolti dai ginnasi-licei e dalle scuole tecniche. Furono tuttavia questi gli obiettivi raggiunti?

I dati sul collocamento e sulla provenienza sociale degli allievi per i primi anni del XX secolo sono discordanti. Non vi sono informazioni sulle scuole toscane di disegno; sono disponibili però quelle su Prato e Pistoia, che indicano, tanto nel primo quanto nel secondo caso, una netta prevalenza dei futuri industriali e dirigenti, in consonanza con quanto accadeva nelle altre regioni.

Ancora tutta da scrivere, invece, è la storia degli studenti nelle scuole di disegno serali e domenicali: i dati disponibili per le altre regioni (come quelli di Padova, di Luino, provincia di Como, e di Viggiù, vicino Varese) evidenziano la loro vicinanza ai bisogni e agli obiettivi degli operai e dei piccoli artigiani, effettivamente attratti da un corso di studi che, a differenza dei nuovi e costosi istituti diurni, erano frequentabili anche da chi non poteva posticipare l’ingresso nel mondo del lavoro dopo le prime classi elementari.

Articolo pubblicato nel marzo del 2015.




Italie di burro e gigli di lampadine

Nel 2011, i negozianti delle vie del centro  Firenze – con un’alta concentrazione soprattutto lungo un percorso che si snodava da Borgo La Croce fino a Palazzo Vecchio – sono stati invitati a allestire delle vetrine “patriottiche” per la sera del 17 marzo. L’idea non era nuova, anzi era una riproposizione, seppure in chiave minore della “Mostra delle Botteghe” che si era svolta nella città nel 1911. Nel passare in rassegna le vetrine colpiva la una netta prevalenza della scelta di esporre vetrine tricolori e risultava quasi del tutto assente la presenza del giglio fiorentino; ciò che invece era rimasto a distanza di cento anni dalla precedente manifestazione era, ancora una volta, il riferimento alla artigianalità, sia negli allestimenti delle botteghe  – ad esempio una tipografia di via del Corso aveva esposto un torchio dal quale usciva la stampa della notizia della breccia di Porta Pia -, sia nella mostra in Piazza del Duomo, dove per volere del comune, alcuni artigiani erano stati chiamati per dare dimostrazioni delle loro creazioni.

La mostra del 1911, nasceva da una collaborazione con la Camera di Commercio e con la Società degli esercenti e mirava a coinvolgere il ceto medio fiorentino per enfatizzare «il sentimento artistico quale non poteva mancare nella nostra Firenze, culla dell’arte e del bello»[ ACF, FCFE, CF5055], e la tradizione artigianale e commerciale della città. Una parte consistente di essa era infatti formata da botteghe artigiane, piccoli negozi al dettaglio e venditori ambulanti che, ancora ad inizio secolo «costituivano un blocco storico […] che nessun mutamento ambientale, non escluso lo sviluppo dell’industria, era riuscito a demolire» [Spini, Casali, 1986, p. 200]. Secondo gli studi demografici di Ugo Giusti, gli esercizi commerciali in Firenze, nel 1911, erano 5034, la grande maggioranza dei quali impegnavano al massimo 5 lavoranti. Il quadro che ne emerge è quello di una città caratterizzata da piccole imprese artigianali presenti soprattutto nei rioni popolari come Santa Croce e nelle zone d’Oltrarno. Il centro, infatti, ad esclusione del quartiere popolare di Santa Croce, aveva la maggiore presenza di negozi di grandi dimensioni, con il 60% degli esercizi con un numero di addetti tra 10 e 25, e il 50% di quelli con più di 25 lavoratori [Pellegrino, 2004, p. 167].

1La mostra fu strutturata in tre date – il 29 aprile, il 7 e il 14 maggio – ognuna corrispondente ad un rione: Mercato centrale, centro e Oltrarno. La commissione, nell’indire il bando di concorso, si diceva certa che «i commercianti fiorentini, mai secondi nelle manifestazioni patriottiche, risponderanno anche questa volta collo stesso entusiasmo all’appello del comitato, tanto più che ora trattasi di una ricorrenza non solo fiorentina, ma italiana, alla quale devono partecipare quanti hanno sentimento di italianità»; e chiedeva loro di allestire le proprie mostre con «originalità di lavoro e sentimento artistico, quale non poteva mancare nella nostra Firenze, culla dell’arte e del bello»[ ACF, FCFE, CF5055].

 A fronte di un vasto numero di vetrine addobbate senza un tema specifico, molti negozianti presentarono temi più elaborati: la vocazione artigianale fiorentina, la celebrazione della città stessa, il patriottismo nazionale.

La rappresentazione di Firenze fu un filo conduttore puntualmente sottolineato nelle cronache dei giornali cittadini. La città era rappresentata in modi diversi, ricorrendo ai simboli, ai personaggi significativi del passato, a vedute caratteristiche e alla valorizzazione delle antiche radici artigiane fiorentine.
Il simbolo più usato fu sicuramente il giglio bottonato rosso, spesso associato al tricolore, come nella «facciata dell’elegante negozio dell’antiquario Bartolozzi, dove un giglio fiorentino formato da numerose lampadine rosse sormontava l’ingresso principale del magazzino» [«Il Fieramosca», 15 maggio 1911]. Il giglio, oltre che al tricolore, era talvolta anche associato alla Stella d’Italia, come nelle esposizioni della ditta dei «Fratelli Quercentani, proprietaria di un negozio di cibarie e di salumi che aveva fatto una bella mostra dei suoi prodotti. Infatti, con uno squisito gusto artistico erano stati fatti dei bellissimi mosaici di fagioli, riproducenti la Stella d’Italia, il giglio fiorentino e la bandiera nazionale, gli stemmi della città di Roma e di Firenze» [«Il Nuovo Giornale», 15 maggio 1911.]. Il giglio prevaleva nettamente nei quartieri dell’Oltrarno, mentre appariva una sola volta nel rione del centro, e in quello del Mercato centrale [«La Nazione», 30 aprile 1911]. «Il Fieramosca» notava che «i buoni esercenti di là d’Arno sono meno entusiasti di quelli del centro nel comporre addobbi o mostre festive, e infatti, oltre ai negozi che abbiamo menzionato altri erano aperti al pubblico, nell’ordine di tutti i giorni» [«Il Fieramosca», 15 maggio 1911.]: si può pertanto concludere che l’elemento decorativo più presente in questi rioni fosse quello che rappresentava la città. Firenze era celebrata in Oltrarno anche tramite la ricreazione di vedute caratteristiche della città e, ancora una volta, questo avveniva solo in questa zona. In particolare, si poteva ammirare «in piazza Piattellina, nel negozio del signor Montelatici Emilio, una ben riuscita riproduzione del Duomo e del campanile di Giotto, lavoro artisticamente eseguito nel sapone»[«Il Nuovo Giornale», 15 maggio 1911.], e l’esposizione della «Signora Del Lungo che nella vetrina del suo negozio alla base dl Ponte Vecchio, ha un’altra volta esposto una riproduzione di quella parte del ponte ove è situata la sua bottega»[«Il Fieramosca», 15 maggio 1911].

La città, infine, era celebrata in Oltrarno con un tributo a Girolamo Savonarola: «in via dei Serragli, il signor Aiace Cirpiani ha trasformato uno sporto della bottega nella cella di Girolamo Savonarola. Tutto è messo con vero sentimento d’arte a riprodurre la cella autentica del monastero di piazza San Marco […]. Il fiero domenicano sedeva presso la sua piccola scrivania e dalla finestrucola della cella pioveva la pallida luce di una notte lunare. Bellissimo effetto e gran folla dinanzi alla mostra» [«Il Fieramosca», 15 maggio 1911].

L2’orgoglio per la storia cittadina si riscontrava soprattutto nei quartieri del centro e del Mercato centrale, attraverso la raffigurazione degli antichi mestieri. Alcune attività commerciali decisero di ricreare situazioni produttive o di vendita dello stesso esercizio com’era nei secoli passati. Così, «in una delle vetrine della Farmacia Londra era stato ricostruito l’antro di un alchimista con tutti i lambicchi [sic] e gli scongiuri possibili. L’antro in parola era abitato da un vecchio alchimista, vivo e bianco… per antico pelo che pazientemente eseguì la sua parte per lunghe ore in modo davvero encomiabile» [«Il Fieramosca», 8 maggio 1911]. Poco oltre «in piazza dell’Olio, la fabbrica di passamanerie Pieraccini e Bazzoni, aveva trasformato la sua bottega in un antico laboratorio per la lavorazione dei galloni nel ’400. Ad un antico telaio stava tessendo una giovane in carne e ossa»[«La Nazione», 8 maggio 1911]. La riproduzione delle antiche botteghe era anche fonte di intrattenimento per il pubblico fiorentino, soprattutto quando queste erano osterie o fiaschetterie, come la bottega del vinaio Romeo Galatini nel Mercato centrale, trasformata «in una taverna del ’400, dove si potevano ammirare due avventori in costume dell’epoca» [«Il Nuovo Giornale», 30 aprile 1911], e quella del pizzicagnolo Cecchi, convertita «in una osteria dove i garzoni erano intenti a riempire fiaschi di vino per chi ne voleva»[«Il Nuovo Giornale», 15 maggio 1911.].

Con questi allestimenti il ceto commerciante e artigiano della città celebrava il proprio lavoro in un gioco di rimandi simbolici che intrecciava i temi del lavoro, dell’arte e della tradizione; ed esaltava la Firenze dei secoli d’oro – non a caso i riferimenti al passato coprivano un arco che andava dal 1400 al 1600 – quella dei «cittadini artigiani e mercanti che, sulla base dei suoi ordinamenti democratici e della grande tensione etica che animava i suoi schietti e orgogliosi cittadini, aveva costruito una cultura di estrema raffinatezza proprio agli albori della civiltà europea occidentale» [Pellegrino, 2004, p.20]. Significativo a tale proposito la dislocazione di queste mostre, concentrata soprattutto nel rione centrale, dove la tradizione artigiana era più radicata, e nella zona del Mercato centrale, area di piccole botteghe specializzate.

3La diversa localizzazione delle botteghe, la loro densità relativa e soprattutto la differenziazione degli esercizi incise anche per quanto riguarda la rappresentazione della Patria. Nelle zone del centro e del Mercato centrale, in particolare nelle vie tra Santa Maria Novella e piazza del Duomo, «la nota predominante delle diverse e variate mostre è patriottica, i fattori della nostra unità, gli stemmi delle tre città festeggiano più delle altre il cinquantenario della nostra indipendenza, i tre colori fatidici, sono stati largo incentivo all’immaginazione dei nostri commercianti» [«Il Fieramosca», 30 aprile 1911]. Gli allestimenti di questi esercizi rispondevano ai canoni della pedagogia nazionale in chiave sabauda. Pochissimi erano i gigli bottonati e, quando presenti, erano accompagnati dagli stemmi delle altre capitali, per sottolineare la compartecipazione delle tre città al processo risorgimentale, come nella mostra degli elettricisti Magrini e Testi che «sull’impiantito avevano disposto 140.000 isolatorini per impianti elettrici a formare gli stemmi di Firenze, Roma e Torino e la bandiera nazionale» [«Il Nuovo Giornale», 30 aprile 1911]. La maggioranza dei commercianti optò per una mostra che ricordasse i protagonisti, ma, mentre Garibaldi compariva con un ritratto nella pizzicheria di Giuseppe Ducci, Vittorio Emanuele era riprodotto più volte, in allestimenti curati e creati appositamente per l’occasione. Probabilmente ad influenzare la scelta degli esercenti fu anche l’importanza data nei giornali all’imminente inaugurazione del Vittoriano: il fioraio Emilio Gabbrielli «aveva trasformato la sua grande vetrina in un grandioso e imponente giardino, e la parete di un muro prossimo tutto di fiori recava una grande figura di Vittorio Emanuele II, fatta tutta di fiori»[«Il Nuovo Giornale», 30 aprile 1911]; la pasticceria Scudieri «per l’occasione aveva riprodotto con la cioccolata il Castel Sant’Angelo ed il Campidoglio, nel mezzo della vetrina troneggiava un grande quadro, anche esso di cioccolata, dove con candido zucchero era riprodotto con fedeltà il grandioso monumento che dovrà essere inaugurato a Roma al Padre della Patria»[«La Nazione», 8 maggio 1911]. Infine, resta da segnalare come in due vetrine fosse stata scelta la raffigurazione della nazione in veste di Italia turrita, un’immagine relativamente debole nella pedagogia nazionale. La prima vetrina si trovava in via Nazionale, dove la ditta di Luigi Simoncini, «negoziante di frutta che aveva fato una bella e artistica esposizione. Sotto una pioggia di luce troneggiava una grande figura di donna rappresentante l’Italia. Lo scudo che la donna teneva in braccio era composto di radici, patate e susine che componevano i tre colori nazionali. La corona, era tutta di fichi secchi»; la seconda era collocata «nella fiaschetteria del signor Ovidio Cresci in via di Maggio. L’Italia raffigurata in una statua di burro, sovrastava una zampillante vaschetta» [«Il Fieramosca», 30 aprile 1911].

Volendo trarre delle conclusioni si può affermare che la rappresentazione della Patria e della città assumono caratteri diversi a seconda del tipo di esercizio commerciale e, di conseguenza, del tessuto sociale del rione. In particolare nei quartieri dove le botteghe sono più legate al concetto di produzione e di artigianalità l’idea patriottica è più legata al livello locale. In particolare quello che viene più celebrato è la città di Firenze (attraverso i personaggi e la storia dei “secoli d’oro,  o il simbolo della città) oppure la tradizione e l’orgoglio di essere artigiano. Nelle zone a più alta densità di esercizi commerci svincolati dalla dimensione della piccola “bottega artigiana” l’idea di Patria connessa con quella di Nazione e alla pedagogia sabauda, e quindi vediamo comparire raffigurazioni abbastanza complesse come l’Italia turrita. Molto probabilmente ad influire sulle scelte dei commercianti avevano influirono anche le migliori condizioni di istruzione degli esercenti che erano stati in grado di mediare, grazie al ruolo determinante della scuola, la visione locale e nazionale.

 Riferimenti archivistici:

 Archivio Comune di Firenze, (ACF), Fondo Cerimonie, Feste Esposizioni (FCFE), CF5055, La mostra delle botteghe.

Riferimenti foto:

Fotografia 1: Mostra della Cartoleria Del Lungo. Zona Oltrarno. in ACF, Fondo Cerimonie, Festeggiamenti, Esposizioni, CF5055

Fotografia 2: Fiaschetteria del Pianello trasformata in taverna del XVI con avventore in costume. Zona Centro. in ACF Fondo Cerimonie, Festeggiamenti, Esposizioni, CF5055.

Fotografia 3: Italia di Burro. Esposizione della Premiata Pizzicheria Ovidio Cresci. Zona Oltrarno. In ACF Fondo Cerimonie, Festeggiamenti, Esposizioni, CF5055.

L’articolo è una forma abbreviata di un paragrafo all’interno di A. Gori, Tra patria e campanile. Ritualità civili e culture politiche a Firenze in età giolittiana, Milano FrancoAngeli, 2014.

Articolo pubblicato nel gennaio 2015.




Dalla parte del lavoro: Giulio Braga

Giulio Braga nacque a Ferrara il 25 agosto 1868 da Annetta Braga e da padre ignoto, falegname. Abbandonato dalla madre in tenera età, fu ospitato a Torino da una famiglia di conoscenti e poi condotto a Firenze da un operaio che gli fece da padre. Nella città toscana Braga iniziò l’attività politica, costituendo un gruppo anarchico nel rione di San Niccolò.

Nel marzo del 1892 si trasferì a Prato, dove, forte delle letture fatte e dell’esperienza acquisita, svolse un’intensa propaganda e collaborò alla Tribuna dell’operaio, un settimanale di indirizzo socialista-anarchico di cui era direttore Giovanni Domanico. Ricoprì anche la carica di cassiere provvisorio del Fascio operaio, costituitosi poco dopo la conclusione del congresso di Genova. Nel 1893 si sposò con Pia Casini, da cui ebbe sei figli (due maschi e quattro femmine). Alla fine del 1893, in una lettera indirizzata al direttore di un settimanale pratese, Braga, parlando della condizione di sfruttamento in cui versavano gli operai in generale e quelli di Prato in particolare, espresse così i suoi convincimenti di rivoluzionario: «la causa prima, noi socialisti senza distinzione di scuola la ravvisiamo nel capitale accentrato in mano di pochi […] Quali i rimedi! Facili ad indovinarsi! Se il capitale accentrato è la causa prima, il suo rovescio ne sarà il rimedio […] Quali i mezzi?…Ammaestrato dalla storia delle generazioni passate […] mi formai la convinzione che per sciogliere l’arduo problema non avvi che un mezzo: quello cioè che adottò la borghesia francese per emanciparsi dalla nobiltà e simultaneamente dal clero» (La luce, 6 gennaio 1894, la lettera è datata 24 dicembre 1893).

Ritenuto la personalità di maggior spicco del movimento anarchico pratese ed «un individuo assai pericoloso all’ordine ed alla tranquillità pubblica» (Archivio centrale dello stato, Ministero dell’interno, Direzione generale di pubblica sicurezza, Divisione affari generali e riservati, Casellario politico centrale, Fascicoli personali, b. 812, fasc. Braga Giulio di ignoti, scheda biografica compilata dalla prefettura di Firenze, 8 agosto 1895), venne inviato nel 1894 al domicilio coatto, prima alle Tremiti, dove fu coinvolto nella sollevazione contro quel regime carcerario, poi a Favignana, infine a Ustica. Tornato a Prato il 21 novembre 1896, riprese subito l’impegno politico, tenendo numerose conferenze, scrivendo un lungo racconto sulla sua esperienza alle Tremiti per un numero unico pubblicato dal Comitato pratese per l’abolizione del domicilio coatto e dando un importante contributo alla costituzione della Camera del lavoro (4 luglio 1897), di cui fu il primo segretario. Ricercato dalla polizia e costretto a riparare in Francia dopo i tumulti del maggio 1898, rientrò in città l’anno successivo. Dopo l’uccisione di Umberto I (29 luglio 1900), fu tratto in arresto, insieme con altri compagni, perché sospettato di essere in relazione con Gaetano Bresci: in agosto, tuttavia, era di nuovo in libertà, nulla essendo emerso a suo carico.

Nei primi anni del secolo Braga continuò la sua opera di propaganda e di proselitismo sia attraverso l’attività giornalistica (fu corrispondente del giornale anarchico fiorentino Il risveglio, che ebbe l’incarico di diffondere a Prato) sia attraverso quella di conferenziere, particolarmente brillante ed efficace: nel 1903 la polizia lo considerava “il capo della setta anarchica di Prato” (ibidem, cenno di variazione del 12 giugno 1903). Rappresentante della sezione falegnami della Camera del lavoro al II congresso dei lavoranti in legno (Milano, settembre 1903), egli assunse l’anno successivo la direzione de Il fascio operaio, un nuovo settimanale socialista-anarchico che si pubblicava a Prato. Il 7 giugno 1906, in quanto direttore di tale giornale, venne condannato dalla corte d’assise di Firenze a tre mesi e dieci giorni di detenzione «per i reati di vilipendio all’esercito, eccitamento alla disobbedienza delle leggi e dei doveri del giuramento e della disciplina» (ibidem, cenno di variazione dell’8 giugno 1906), in seguito alla pubblicazione, nel numero del 29 novembre 1905, di un articolo intitolato “Se fossi mamma”. Il fascio operaio chiuse nel 1907. L’anno dopo Braga aderì al Partito socialista. Alle elezioni amministrative parziali del 28 giugno 1908 fu candidato al consiglio comunale in una lista formata da repubblicani e da socialisti.

Negli anni successivi il suo impegno politico e sindacale lo portò, fra l’altro, ad essere segretario della Camera del lavoro di Empoli, assessore nella prima giunta rossa di Prato, guidata da Ferdinando Targetti (1912-1914), direttore de La sveglia, organo della Confederazione italiana fra i lavoratori dell’Arte bianca, segretario propagandista e poi segretario generale dell’Arte bianca stessa, membro del consiglio direttivo della Confederazione generale del lavoro, di nuovo assessore a Prato dopo le amministrative del 31 ottobre 1920, quando i socialisti riconquistarono il comune e Giocondo Papi divenne sindaco.

Protagonista di tante battaglie per l’emancipazione del proletariato, fu uno dei primi bersagli dei fascisti locali, che, nella notte fra il 24 ed il 25 giugno 1921, lo aggredirono nella sua abitazione, e, sotto gli occhi della moglie e delle figlie terrorizzate, lo trascinarono in strada percuotendolo selvaggiamente. Bandito dalla città nel 1922, Braga vi fece ritorno due anni dopo, ma le sue condizioni di salute, compromesse dall’aggressione subìta, si aggravarono progressivamente. Morì a Prato il 9 febbraio 1925. Sulla facciata della casa di via Santo Stefano dove Braga risiedeva si trova oggi una lapide con questa iscrizione: «Qui abitò dal 1893 / Giulio Braga / e lottò per il socialismo per / la democrazia per un sindacalismo / libero e qui morì il giorno / 9 febbraio 1925 in seguito / a vile aggressione fascista».

BIBLIOGRAFIA:

Alessandro Affortunati, Sotto la rossa bandiera. Profili di dirigenti del movimento operaio pratese, Prato, Camera del lavoro di Prato, 1996, pp. 1-18
Id., Fedeli alle libere idee. Il movimento anarchico pratese dalle origini alla Resistenza, Milano, Zero in condotta, 2012, pp. 119-122
Valerio Bartoloni, I fatti delle Tremiti. Una rivolta di coatti anarchici nell’Italia umbertina, Foggia, Bastogi, 1996, ad indicem
Claudio Caponi, Gli albori del movimento operaio a Prato: la figura di Giulio Braga, Prato storia e arte, a. 17, n. 47, dicembre 1976, pp. 39-71.

Articolo pubblicato nel gennaio del 2015.