20 dicembre 1943. Il rastrellamento del Gabbro (Livorno)

All’alba del 20 dicembre 1943 un gruppo di carabinieri della stazione di Gabbro (Rosignano Marittimo, Livorno) circondò una cascina poco fuori dal centro abitato. L’obiettivo della retata erano tre famiglie ebree recentemente sfollate da Livorno e arrivate da poche settimane nel piccolo centro. I Bayona, i Baruch e i Modiano, in totale diciassette persone, furono tratti in arresto senza alcuna difficoltà. Nella colonica dove si erano sistemate, le tre famiglie si erano dovute adattare a vivere in ristrettezze: «era una stalla, s’è preso nella macchia dei legni, s’è fatto dei letti, insomma ci si arrangiava a quella maniera lì»; al Gabbro si sentivano però al sicuro, «a quell’epoca lì non ci passava nemmeno per la mente di andare da un’altra parte». Isacco Bayona ha lasciato un resoconto dell’arresto particolarmente drammatico nella sua semplicità: «Era ’na domenica, ci siamo trovati con degli amici del Gabbro e s’è fatta ’na festicciola. Ero giovane…s’andava a ballà. Il lunedì mattina, erano le cinque, hanno circondato tutto questo casolare coi mitra spaniati. C’hanno preso gli uomini soli, le donne le hanno lasciate sta’ […]. C’hanno portato alla caserma dei carabinieri del Gabbro, c’hanno tenuto due giorni lì, poi il maresciallo ha dato l’ordine di andare a caricare anche le donne, le bimbe, tutte quelle che c’erano lassù al capannino, dove eravamo sfollati».

Carlo Bayona

Carlo Bayona

Uno degli elementi centrali nella vicenda del Gabbro è l’assenza dei tedeschi dalla scena del rastrellamento. «Il nostro arresto», avrebbe in seguito ricordato sempre Isacco Bayona, «è da imputare senza dubbio al maresciallo di Gabbro che era pure uno squadrista. Di sua iniziativa, forse per farsi benvolere dai tedeschi, ci arrestò tutti consegnandoci a loro». Quella di queste tre famiglie non fu una vicenda isolata. Dopo l’8 settembre, gli ebrei italiani rimasero in uno stato di sostanziale abbandono: pochi potevano immaginarsi cosa sarebbe successo loro e chi ne era cosciente raramente aveva i mezzi materiali per abbandonare il Paese. I Bayona, i Baruch e i Modiano furono anche vittime dello zelo con cui i carabinieri del Gabbro recepirono la celebre ordinanza di polizia n. 5 firmata dal ministro dell’Interno Guido Buffarini Guidi e trasmessa a tutti i capi delle province della Repubblica Sociale Italiana (RSI) il 30 novembre del 1943:

A tutti i capi provincia, comunicasi, per l’immediata esecuzione, la seguente ordinanza di polizia che dovrà essere applicata in tutto il territorio di codesta provincia: Tutti gli ebrei, anche se discriminati, a qualunque nazionalità appartengono e comunque residenti nel territorio nazionale debbono essere inviati in campi di concentramento. Tutti i loro beni, mobili e immobili, debbono essere sottoposti ad immediato sequestro, in attesa di essere confiscati nell’interesse della Repubblica sociale italiana, la quale li destinerà a beneficio degli indigenti sinistrati dalle incursioni aeree nemiche.

Il 12 dicembre, a meno di due settimane da questa circolare, le prefetture ricevettero un nuovo telegramma ancora più perentorio nei toni: «In applicazione recenti disposizioni», scriveva il capo della Polizia, «ebrei stranieri devono essere consegnati tutti ai campi di concentramento. Uguale provvedimento deve essere adottato per ebrei puri italiani». Mentre i capi delle provincie cominciarono ad allestire i campi d’internamento (talora adibendo a tale scopo le carceri o gli edifici delle comunità ebraiche), i questori iniziarono a ordinare gli internamenti. Gli arrestati del Gabbro furono tra i primi della provincia di Livorno, ma ne seguirono molti altri. Nel marzo dell’anno successivo il capo provincia, Edoardo Facdouelle, avrebbe consegnato alle autorità tedesche un gruppo composto di circa sessanta persone che aveva raccolto a Livorno.

Ritratto di gruppo

I rastrellati del Gabbro formavano un gruppo composito. Ne facevano parte: una neonata di pochi mesi (Franca Baruch), quattro bambini (Salvatore Baruch di otto anni, la piccola Flora Modiano di appena cinque anni e le sorelline Dora e Lucia Bayona, di nove e undici anni rispettivamente) e cinque adolescenti (Giosuè, Isacco e Violetta Baruch e i fratelli Bayona, Carlo e Isacco). I più anziani del gruppo erano la nonna di Flora, Gioia Perla Mano (classe 1883), e il capofamiglia dei Baruch, Mosè (classe 1889). In totale erano diciassette persone. I percorsi di quelle tre famiglie offrono uno specchio fedele delle difficoltà che vissero gli ebrei europei negli anni quaranta. I Bayona, livornesi di origine, erano rientrati in Italia solo nell’aprile 1941 provenienti da Salonicco da dove erano dovuti scappare dopo che la città era caduta nelle mani dei nazisti. I Bayona furono rimpatriati in quanto italiani dalle autorità consolari, ma questo non li avrebbe salvati dalla deportazione. Dalla stessa città greca venivano i Modiano, che erano invece giunti a Livorno qualche anno prima, nel 1933. Stesso periodo in cui anche i Baruch si erano trasferiti in Toscana dalla città turca di Smirne. Le vicende della famiglia Bayona sono rappresentative del mondo che fu spazzato via con la Shoah. «Mi’ babbo», avrebbe poi ricordato Isacco, «era vicedirettore del monopolio di tabacchi a Salonicco. Con la posizione che c’aveva si stava abbastanza bene. Io frequentavo le scuole italiane, ma ci insegnavano anche il francese; in casa parlavamo lo spagnolo, fuori il greco, è logico». Quel mondo scomparve con lo scoppio della seconda guerra mondiale e con l’inizio delle persecuzioni. L’arrivo in Italia e l’inserimento a Livorno non furono facili; Isacco, ancora ragazzino, fu costretto a dover lavorare per aiutare la famiglia: «mandavo avanti la mi’ mamma co’ le mi sorelline. All’epoca c’avevo quattordici anni, e facevo già lavori materiali quasi da uomo».

La deportazione

Nahoum_Camelia

Nahoum Camelia

L’arresto del 20 dicembre fu l’inizio di una deportazione che sarebbe finita solo cinque settimane dopo davanti ai cancelli del campo di sterminio di Auschwitz. Immediatamente dopo il fermo, quando furono cioè fermate anche le donne e i bambini del gruppo, le tre famiglie furono trasferite in una caserma a Livorno, in Via Nazionale. Da qui, svolte poche formalità, il gruppo fu trasferito a Firenze; il capo della provincia di Livorno non aveva infatti potuto organizzare un campo di concentramento nel proprio territorio e, in questa prima fase della deportazione, si “appoggiava” alla Questura di Firenze. Le tre famiglie furono prima “registrate” presso il locale comando tedesco e poi internate nel carcere cittadino delle Murate, dove ci fu una divisione tra uomini e donne. Quando le autorità ritennero di aver concentrato un numero sufficiente di ebrei, questi furono portati alla stazione di Firenze e fatti salire su dei vagoni piombati. Erano gli ultimi giorni del dicembre 1943. La tappa successiva fu il carcere milanese di San Vittore. «C’hanno assegnato una cella. Però la sera la nebbia c’entrava nei materassi, eran bagnati praticamente. Ero nella cella insieme a mi’ madre e ho sentito un boato: mi sono affacciato alla ringhiera, ho visto un omo che si era buttato da cinque piani. Ho incominciato a capire che s’andava incontro a cose brutte, infatti io, quando poi ci hanno portati via, ho cercato di scappare. Invece l’ufficiale tedesco m’è venuto incontro, mi ha dato un calcio col fucile una botta sulla mano». Dal settembre del 1943 due raggi di San Vittore erano stati riservati ai detenuti politici e agli ebrei; a gestire questa parte del carcere era stato chiamato il tedesco Helmut Klemm, membro delle SS. Le autorità italiane, in collaborazione con quelle tedesche, stavano radunando gli ebrei arrestati nelle settimane precedenti in tutto il territorio nazionale. Raggiunto il numero minimo per organizzare un convoglio i detenuti furono prelevati in massa da San Vittore e portati alla stazione centrale di Milano. «Tutti gli ebrei, la notte del 30 gennaio, vennero allineati nel grande corridoio del carcere e furono fatti sfilare dal cancello sotto le canne delle mitragliatrici», avrebbe poi ricordato uno dei presenti, «alla stazione i deportati furono portati nei sotterranei, lontano da sguardi indiscreti e caricati direttamente sui carri bestiame in sosta. Su ognuno si trovava una damigiana di acqua e un recipiente di modeste proporzioni per i bisogni corporali. Il vagone fu chiuso e sprangato e il convoglio si avviò». Le famiglie Bayona, Baruch e Modiano erano tra quei circa 600 deportati diretti verso la Polonia in un viaggio che sarebbe durato sette/otto giorni. Dei diciassette arrestati al Gabbro l’unico a tornare dal campo di sterminio di Auschwitz sarebbe stato il diciassettenne Isacco Bayona.

Articolo pubblicato nel dicembre del 2014.




“Oggi e domani”

“Pace”, “lotta al fascismo”, “democrazia” e “socialismo”: intorno a queste  parole si è sviluppato il lungo percorso umano e politico di Enzo Enriques Agnoletti che attraversa il cuore del Novecento.

Cresciuto in una famiglia della borghesia intellettuale e laureatosi in Legge con Piero Calamandrei, a cui restò sempre legato dalla frequentazione della La Nuova Italia, casa editrice animata da giovani intellettuali antifascisti, fino all’impegno dell’immediato dopoguerra ne “Il Ponte” prima come redattore fino alla direzione della rivista dopo 1956 per circa un trentennio succedendo proprio al suo maestro.

Il percorso di formazione e attività politica e intellettuale di Enzo Enriques Agnoletti è sicuramente legato al ruolo di primo piano svolto nel corso della Resistenza fiorentina e toscana nelle file del Partito d’Azione, il partito della “rivoluzione democratica” che tanta parte ebbe nell’opposizione e nella lotta al fascismo e di cui fu anche rappresentante all’interno del Comitato Toscano di Liberazione Nazionale (CTLN) oltre che estensore di manifesti e documenti di tale organismo. Tra questi l’ordine del giorno del 3 gennaio 1944 in cui chiede che il Ctln si costituisca come “governo provvisorio di Firenze e provincia” e quello dell’11 agosto dello stesso anno in cui si invita la popolazione all’insurrezione contro il nazifascismo.

La stampa clandestina azionista a partire dal periodico “Oggi e domani” a “La Libertà” lo vide tra i principali animatori e redattore assai attivo mentre la sua militanza antifascista lo porterà al carcere e al confino. Insieme a Carlo Ludovico Ragghianti e soprattutto Ernesto Codignola proprio nella stampa azionista tratteggia già durante la clandestinità i lineamenti di una concezione di stato democratico e federalista in netta rottura non solo ovviamente con il ventennio mussoliniano ma anche con lo stato liberale e monarchico.

Il nesso Resistenza-Costituzione-Repubblica democratica a partire dall’insegnamento di Calamandrei è da lui declinato con particolare attenzione anche ai diritti sociali oltre che civili e con una forte accentuazione di una prospettiva di trasformazione in senso socialista. A dieci anni dalla liberazione lo stesso Calamandrei aveva notato come “…per compensare le forze di sinistra di una rivoluzione mancata, le forze di destra non si opposero ad accogliere nella Costituzione una rivoluzione promessa” ovvero quello che veniva individuato come il carattere “programmatico” della carta costituzionale (pieno diritto al lavoro, decentramento, ampio riconoscimento dei diritti civili e sociali ecc.). Nella sua lunga militanza Agnoletti, insieme all’amico e collaboratore Ernesto Codignola e al gruppo fiorentino di matrice azionista, cercò di essere costantemente attento a questa dimensione senza dimenticare, aspetto legato anche alla sua conoscenza della lingua inglese come traduttore per alcuni anni della casa editrice La Nuova Italia, la dimensione internazionale dei problemi geopolitici che la giovane Repubblica democratica. Da qui anche l’impegno per un’Europa federale ed autonoma dai blocchi politico-militari guidati delle superpotenze della Nato (Usa) e del Patto di Varsavia (Urss).

Ma l’attività di Agnoletti non si limitò a quella strettamente culturale incarnando da subito una figura di intellettuale-militante, tipica dell’antifascismo europeo novecentesco, oggi del tutto scomparsa e che lo spingerà dopo aver condiviso con Ernesto Codignola le esperienze della diaspora azionista (e la stagione di Unità popolare, a fianco di Ferruccio Parri, nata per contrastare la cosiddetta “legge-truffa” maggioritaria del 1953) alla militanza nel Partito socialista fino all’espulsione nel 1981 insieme all’amico Codignola in netto contrasto con il nuovo corso del partito inaugurato dalla segreteria di Bettino Craxi.

Vicesindaco nella giunta del centrosinistra fiorentino guidata da Giorgio la Pira dal 1961 al 1964 il suo nome resta anche legato alla stagione che vede Firenze come uno dei principali centri della distensione internazionale, della “diplomazia dei popoli”, oltre all’elaborazione del piano regolatore, lo sforzo per fare della città un modello di dialogo tra il mondo cattolico e le forze laiche e socialiste. E  in questo senso la nettezza delle sue posizioni a favore del  Divorzio e contro il Concordato tra Stato e Chiesa cattolica non si tradurranno mai in atteggiamenti di pregiudiziale chiusura verso l’universo religioso ma resteranno rivolti sempre a forte critica verso scelte e posizioni ben precise della Chiesa cattolica (e della Democrazia cristiana) non impedendogli rapporti di stima e amicizia con una figura centrale del cattolicesimo democratico fiorentino e nazionale come Giorgio La Pira.

Negli anni sessanta e settante molte delle sue energie verranno incanalate nelle solidarietà con il Vietnam e contro la guerra in Indocina ad opera degli Usa. Sono gli anni, soprattutto la seconda metà degli anni sessanta e la prima dei settanta del novecento, di intensi scambi e qualificate collaborazioni con associazioni, fondazioni e organismi internazionali, a partire dal Tribunale Russell, che lo vedono impegnato intensamente, in prima persona spesso a proprie spese.

Eletto nel 1983 nelle liste della Sinistra indipendente al Senato (di cui ricoprirà anche la carica di vicepresidente) l’anno dopo sarà tra i più convinti oppositori dell’istallazione dei missili a Comiso.

Presidente della Fiap (Federazione italiana associazioni partigiane) dal 1976 al 1986 non ha mai interrotto il suo impegno per la valorizzazione del patrimonio dell’antifascismo e della Resistenza, italiana ed europea, soprattutto delle sue correnti socialiste, Agnoletti è sempre stato vicino all’Istituto storico della Resistenza in Toscana, presso cui sono depositate anche parte delle sue carte relative all’attività di resistente mentre l’archivio personale ha trovato posto presso l’Istituto universitario europeo.

Lo sdegno morale per le ingiustizie e le atrocità di cui quasi ogni mattina abbiamo notizia leggendo i giornali” da Agnoletti attribuito ad Olaf Palme, leader socialdemocratico svedese a lui vicino, è in realtà la stessa molla etica e politica che ha guidato la sua lunga e ricca esistenza dall’impegno partigiano a quello internazionalista, dalle sponde dell’Arno a quelle del Mekong del martoriato Vietnam trasformando l’indignazione “in scelta politica concreta, che deve naturalmente tenere conto delle circostanze”.

Bibliografia essenziale

Giuseppe Sircana Ad vocem, Treccani.it

Enzo Enriques Agnoletti. L’utopia incompiuta del socialismo, a cura di Andrea Becherucci e Paolo Mencarelli, “Il Ponte”,LXX, nn.1-2 (gennaio-febbraio 2014)

Articolo pubblicato nel dicembre 2014.




La Resistenza continua…

Angiolo Gracci nacque a Livorno il primo agosto 1920, da una famiglia con radici contadine. Fu condotto presto dalla Toscana alla Sicilia a causa del mestiere del padre, ferroviere che diresse in successione le stazioni di Sciara Aliminusa e Castellammare del Golfo tra il 1926 e il 1929.

La permanenza nei centri palermitani, dove il piccolo venne inquadrato nelle strutture educative fasciste, lo colpì profondamente e lo rese poi sensibile alla questione del divario socioeconomico Nord-Sud e al disagio materiale di larga parte della popolazione meridionale. Nei suoi racconti agli studenti, durante gli ultimi decenni di vita, affiorava spesso il ricordo di esser stato l’unico ad indossare le scarpe in quella stalla riadattata che era l’aula della scuola elementare frequentata in Sicilia.

 Al termine del  liceo classico Galilei di Pisa, il giovane Gracci si spostò a Roma per frequentare l’Accademia e Scuola di applicazione della Regia Guardia di Finanza e ottenere così l’arruolamento nel Corpo il 23 ottobre 1939. Nominato sottotenente il primo settembre 1941, venne inviato in Albania nel gennaio seguente tra le truppe d’occupazione italiane, con le quali partecipò alle operazioni di guerra.

Rientrato in Italia, il 9 settembre 1943 fu assegnato al Comando della Legione di Firenze della Guardia di Finanza. Assistendo così all’invasione nazista dell’Italia, Angiolo fondò con altri studenti della sinistra del Gruppo Universitario Fascista fiorentino il Movimento giovani italiani repubblicani. Conclusa questa breve esperienza, la maggioranza degli aderenti al gruppo si schierò con la Repubblica Sociale Italiana. Gracci, preso contatto col futuro Commissario Politico della Divisione Arno Danilo Dolfi – del suo stesso quartiere – scelse invece la via della montagna.

Gracci – in alto a destra – con altri partigiani della Brigata Sinigaglia a Monte Scalari, estate 1944

Gracci – in alto a destra – con altri partigiani della Brigata Sinigaglia a Monte Scalari, estate 1944

All’inizio del giugno 1944 Angiolo, che diventava così il partigiano “Gracco”, raggiunse la Brigata Sinigaglia presso Poggio alla Croce, con l’incarico di Capo di Stato maggiore conferitogli dal Corpo volontario della libertà. Un mese più tardi, su designazione del Comando di divisone e dietro conferma dei partigiani, assunse il comando della formazione stessa, riorganizzandola dopo le gravissime perdite subite nella battaglia di Pian d’Albero del 20 giugno 1944.

Compromessa l’importanza strategica di Monte Scalari per i nazifascisti, contribuì a sottrarre all’accerchiamento e alla distruzione la Brigata raggiungendo Poggio Firenze e Fonte Santa. Dopo ulteriori combattimenti, passando alla testa delle avanguardie dell’VIIIª Armata britannica, la Sinigaglia riuscì ad entrare a Firenze il 4 agosto 1944. Soltanto grazie ad una tenace opposizione all’iniziale ordine alleato di disarmare, le formazioni partigiane garibaldine ottennero di partecipare alla liberazione cittadina. “Gracco” condusse allora il rastrellamento dei quartieri di Santo Spirito e San Frediano, che furono liberati dai franchi tiratori nazifascisti. Guidando poi una pattuglia di esplorazione sui piazzali ferroviari di San Iacopino, rimase ferito in combattimento il 13 agosto ma riprese poi il comando della Brigata fino alla smobilitazione.

Nell’aprile 1945 venne pubblicato il suo Brigata Sinigaglia, primo libro edito in Italia sulla Resistenza partigiana, a cura del Ministero dell’Italia occupata. Gracci avrebbe poi ricevuto la medaglia d’argento al valor militare nel 1954.

 Intanto, conclusa l’esperienza partigiana, Angiolo riprese servizio attivo nella Guardia di Finanza il 7 settembre 1944, al Comando della Legione di Firenze. Nell’agosto 1948 gli venne conferito per anzianità il grado di Capitano, ma la sua permanenza in Finanza si fece sempre più travagliata. Non tanto per i gravi e recidivi problemi di salute che determinarono una lunga aspettativa, quanto piuttosto per le difficoltà relazionali all’interno del Corpo.

Gracci infatti, che sin dal 1944 aveva aderito al PCI ed era stato tra i membri costituenti del Comitato provinciale dell’ANPI fiorentino, non aveva mancato di manifestare pubblicamente il suo orientamento in varie circostanze. Si procurò così diverse sanzioni e richiami per inosservanza al «criterio assoluto di apoliticità» richiesto ai membri delle forze dell’Ordine, per «scarso senso di disciplina», «tendenza alla polemica», «particolare animosità», «presunzione». È quanto riferiscono le note caratteristiche sul suo conto compilate annualmente dai superiori, che pure gli riconoscevano notevoli capacità e competenze.

Angiolo, sposatosi nel frattempo con Margherita Aiolli, fu seguito dalla famiglia negli spostamenti che gli vennero pertanto disposti tra il 1950 e il 1956, alla volta di Palermo, Bologna ed Udine. Viste le reiterate destinazioni ad incarichi amministrativi e a seguito di un ulteriore ordine di trasferimento a Bari nel dicembre 1956, Gracci scelse di far domanda di pensionamento e congedarsi dal Corpo. Idea coltivata da oltre un anno, per il sempre più problematico permanere nell’Arma e per l’intuibile preclusione riguardo a possibili avanzamenti di carriera.

Cessato il suo servizio nella Guardia di Finanza alla fine del 1957, l’anno successivo ottenne un impiego a Roma come consulente legale alla Lega nazionale delle cooperative, con i cui responsabili aveva già avviato da tempo i contatti. Poté mettere così a frutto la laurea in giurisprudenza conseguita nel 1949, impiegata poi per riorganizzare il servizio di assistenza legale alla Camera del Lavoro di Firenze e per svolgere un’intensa attività professionale di difesa dei lavoratori e dei militanti della sinistra rivoluzionaria nel corso degli anni Sessanta.

Gracci – sulla destra – accanto a Vincenzo Misefari di Reggio Calabria e Salvatore Puglisi di Spezzano Albanese durante una manifestazione a Livorno in occasione della fondazione del Pcd’I (m-l), 16 ottobre 1966.

Gracci – sulla destra – accanto a Vincenzo Misefari di Reggio Calabria e Salvatore Puglisi di Spezzano Albanese durante una manifestazione a Livorno in occasione della fondazione del Pcd’I (m-l), 16 ottobre 1966.

Si tratta di una fase di svolta nella posizione politica di “Gracco”, come continuò ad esser chiamato per tutta la vita. Nel 1966 si dimise infatti dal PCI e fu tra i fondatori del Partito comunista d’Italia (marxista-leninista), che si poneva quale alternativa al primo, reo insieme al PCUS di aver «tradito» la «vera» politica rivoluzionaria di classe. Quella politica che il nuovo organismo, grazie anche alla dedizione assoluta richiesta agli adepti, si proponeva di perseguire per realizzare la dittatura del proletariato, la sola forma di governo in grado di instaurare il socialismo.

Nell’agosto 1968 seguì l’espulsione di Gracci dall’ANPI, con l’accusa di imporre metodi di lotta e di azione politica antidemocratici e non unitari, esclusivamente in linea con il  proprio partito. Decisione che secondo Angiolo era invece motivata dalla propria battaglia «per lo sviluppo di una lotta di massa per cacciare dal paese le basi e i comandi degli imperialisti Usa».

 Lo stesso antimperialismo si rivelò poi una componente essenziale del movimento antimperialista-antifascista La Resistenza continua (RC), che nacque nel 1974 a Milano come associazione partigiana esterna ed alternativa all’ANPI e lo vide nuovamente tra i promotori, accanto ad altri ex partigiani, giovani studenti ed operai. La responsabilità dell’organizzazione fu affidata al Comitato direttivo della rivista, che “Gracco” guidò fino agli ultimi anni di vita, a riprova del suo intenso e prolungato impegno redazionale per varie testate di area marxista-leninista. Si ritrovò così a ricoprire una posizione di primo piano nel movimento, accanto ai veterani, «compagni» marxisti-leninisti ed amici Guido Campanelli e Alberto Sartori.

Resistenza, antimperialismo e meridionalismo rappresentavano per RC componenti inscindibili di un unico programma, che faceva della prima un simbolo guida. La stessa Resistenza che, animata da un avanzato progetto politico, economico e sociale, era stata «bloccata» e «tradita» dalle forze imperialiste anglo-americane, dal «capitalismo monopolistico italiano», dal Vaticano e dall’«ala revisionista-socialriformista» del movimento operaio. Non si poteva pensare all’antifascismo senza l’antimperialismo, essendo il fascismo subordinato all’imperialismo. Antimperialismo – secondo il manifesto-programma del movimento – significava anche lotta contro la soggezione di tipo coloniale e razzista di cui era vittima il Meridione da oltre un secolo. Una subordinazione aggravata dall’imperialismo statunitense ed europeo, instaurato con l’annientamento del movimento spontaneo di Resistenza del popolo meridionale nell’immediato dopoguerra.

Gracci con l’amico Matteo Visconti, altri militanti marxisti-leninisti e alcuni operai durante l’occupazione della fabbrica Berga Sud di Salerno, luglio 1974.

Gracci con l’amico Matteo Visconti, altri militanti marxisti-leninisti e alcuni operai durante l’occupazione della fabbrica Berga Sud di Salerno, luglio 1974.

In virtù di questa rivoluzione «negata», delle ingiustizie e dell’oppressione subite dalle «masse supersfruttate del Meridione», Gracci svolse un’intensa attività di mobilitazione politica e sociale nel Sud, dove erano presenti diverse cellule del Pcd’I (m-l) Linea rossa, il primo degli innumerevoli gruppi in cui si frantumò il Pcd’I (m-l) dal 1968 in avanti e del quale Angiolo rappresentava uno dei principali esponenti. Come testimoniano le stesse immagini della sezione fotografica del fondo archivistico a lui intitolato – recentemente riordinata ed inventariata dallo scrivente – non c’era praticamente anno in cui Angiolo non si spostasse dalla sua casa fiorentina verso località meridionali, di cui abitualmente ritraeva realtà marginali e disagiate. Non mancavano trasferte in Basilicata, Molise, Sardegna, Puglia e Sicilia, ma centri calabresi e campani figuravano tra le sue principali mete. In questi luoghi Gracci sviluppò non solo legami politici, ma anche rapporti amicali e affettivi che avrebbe mantenuto per tutto il corso della sua vita. Emblematiche le relazioni con i militanti marxisti-leninisti Rosario Migale di Cutro e Matteo Visconti di Salerno.

Gracci con Rosario Migale e altri «compagni» a Roma per il I Congresso nazionale di Democrazia proletaria, aprile 1978

Gracci con Rosario Migale e altri «compagni» a Roma per il I Congresso nazionale di Democrazia proletaria, aprile 1978

Oltre che come attivista di La Resistenza continua, Angiolo continuò il suo impegno meridionalista anche in veste di promotore del Movimento leghe lavoratori italiani e quale membro di Democrazia proletaria, in cui la Linea rossa confluì nel 1978. “Gracco” proseguì poi incessantemente la difesa e l’assistenza legale dei militanti, che culminarono con il maxiprocesso alle BR del 1989. Nel 1991 aderì al nuovo Movimento della Rifondazione comunista, che alla fine dello steso anno si costituì in Partito, accogliendo tra gli altri la maggioranza dei dirigenti di Democrazia proletaria.

In questi anni seguitò costante la sua attività antimperialista. Al diretto coinvolgimento in diverse iniziative e manifestazioni pubbliche contro le basi USA e NATO in Italia – come mostrano le stesse foto del suo archivio – e alla collaborazione con varie associazioni, quali la Lega per il disarmo unilaterale e la Lega internazionale per i diritti e la liberazione dei popoli, si aggiunse il sostegno alla causa di Silvia Baraldini. Nella costituzione del Comitato per il rimpatrio di Silvia Baraldini di Firenze del 1991 e del Coordinamento nazionale dei comitati per il rimpatrio di Silvia Baraldini del 1994 Gracci si rivelò ancora una volta tra i principali animatori.

Gli stessi anni Novanta, nel corso dei quali “Gracco” si prodigò anche per la diffusione dei valori della Resistenza e della Costituzione repubblicana tra i giovani, videro poi il suo ritorno nel Comitato provinciale dell’ANPI fiorentino. Il rapporto restò comunque travagliato: è del 25 giugno 2000 un provvedimento disciplinare a suo carico, adottato dai dirigenti provinciali dell’ANPI per l’intervento contro gli USA e la NATO durante la celebrazione del 56° anniversario della battaglia di Pian d’Albero presso Figline Valdarno. Tuttavia Angiolo proseguì fino alla fine la sua militanza nell’organizzazione, rimanendo sempre coerente con le proprie posizioni. Dopo una grave malattia, è venuto a mancare a Firenze il 9 marzo 2004.

Articolo pubblicato nel dicembre del 2014.




Parlare di Norma, settant’anni dopo

Può stupire che siano occorsi settant’anni prima del tentativo di ricostruire compiutamente un episodio eclatante, come l’ uccisione di una donna medaglia d’oro al valor militare della Resistenza, il 23 giugno 1944 a Massa Marittima, alla vigilia della Liberazione. Ma non più di tanto, in ragione di un contesto complicato da capire e narrare, e di una lotta resistenziale tra le più aspre del territorio.

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Norma Parenti con il marito, Mario Pratelli, s.d.

Era una giovane donna di ventitre anni Norma Parenti, nata a Monterotondo Marittimo, presso Massa Marittima. Fu “prelevata” dalla trattoria di famiglia insieme alla madre, trascinata via, lei sola trattenuta e barbaramente uccisa. L’arresto fu opera di soldati tedeschi, le sevizie e l’uccisione videro con certezza la partecipazione di fascisti. Le ragioni dell’arresto e della condanna a morte: l’aiuto offerto alle bande partigiane, l’audacia, percepita come sfrontata provocazione dalle autorità della Repubblica Sociale.

Ma non è stata scritta una biografia di Norma, né quando si cominciarono a scrivere storie di Resistenza, meno che mai quando le ondate revisioniste tesero a ribaltare stereotipi, sminuirla o reinterpretarla. Il primo e a lungo unico testo pubblico in memoria di Norma è un opuscolo dell’UDI, in cui è “giovane sposa e madre”, “avviata al suo doloroso calvario”. La richiesta della medaglia d’oro al valor militare indirizzata al Ministro della guerra il 12 gennaio 1945 dalla “Commissione dell’UDI per la Guerra” e le carte allegate danno conto di un impegno forte dell’UDI, del Partito Comunista massetano e del Comune fino a quella data. C’è tra i documenti una scarna relazione del comandante della banda Camicia rossa, Mario Chirici; null’altro finora è emerso dalle carte del Comitato di Liberazione Nazionale.

Di Norma in un intenso, breve richiamo parla Wanda Parracciani, staffetta sull’Amiata, fra le fondatrici dell’UDI, alla Conferenza organizzativa del PCI a Grosseto nell’agosto del 1944. Quella di Wanda è una relazione tutta politica sul ruolo delle donne nella ricostruzione; della loro Resistenza parla per legittimarne il ruolo in tempo di pace, perché, sostiene, “la donna non intende fermarsi a quello che ha fatto in circostanze eccezionali”. Norma è definita martire, eroina e “compagna”. In realtà è il marito a comparire nei documenti “rappresentante del P.C.I. nella Commissione epurazione” di Massa Marittima.

Frammenti della vicenda e qualche tratto della personalità si leggono negli anni Settanta, nel volume Donne e Resistenza in Toscana e nello studio di Marcella Vignali Clero e Resistenza nella Provincia di Grosseto. Si devono attendere i Duemila per trovare nella letteratura locale dati, testimonianze, ma non un organico studio. È così che si arriva a un risveglio di interesse nei dintorni di un appuntamento imposto dal calendario civile: il settantesimo. Il 2014 è l’anno della pubblicazione di un volume di testimonianze inedite, della produzione di un documentario, di due spettacoli teatrali. Si racconta del fortunoso ritrovamento di una scatola di fotografie di Norma, ora in mostra nel Palazzo del Comune, fonti per gli scritti e le rappresentazioni.

Un progetto in attesa di essere realizzato dall’Istituto storico grossetano della Resistenza e dell’età contemporanea e dal Comune di Massa Marittima – Norma e le altre – pone domande su questa e altre figure femminili, per scavare nel tessuto della cultura civile e politica locale. Qui la tradizione mazziniana si era radicata nell’Ottocento con esiti importanti: un forte partito repubblicano, la nascita precoce del movimento sindacale, una presenza che attraversa un secolo di quella particolarissima cultura operaia, patrimonio dei lavoratori delle miniere. Ma Massa Marittima è anche luogo di lacerazioni forti: allo scontro consumatosi tra fascismo e antifascismo si sommerà già durante la Resistenza e nel dopoguerra il conflitto tra le due anime dell’antifascismo, la repubblicana e la comunista. Le donne danno prova di una maturità politica che le inserisce nella vita dei partiti e nelle istituzioni: consigliere, assessori nel tempo della ricostruzione. Ma anche testimoni dolenti e vittime di lutti – enorme quello della strage di Niccioleta, seguito da un processo che squassò le famiglie del villaggio minerario, ma con echi profondi nella stessa vicinissima Massa Marittima. Furono condannati non gli esecutori del massacro degli 83 minatori e i responsabili tedeschi della strategia del terrore, ma i fascisti, accusati di aver sollecitato e indirizzato i carnefici. Testimonianze raccolte in tempi diversi restituiscono una narrazione toccante, che disegna il clima di quello che doveva essere il tempo del superamento delle devastazioni della guerra totale, mentre più che altrove ne conservava profonde ferite.

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Norma Parenti con il marito, Mario Pratelli, s.d.

È stata scritta la storia della strage della Niccioleta e tuttora si continua a scavare. Della Resistenza, con una certa continuità si è parlato, anche polemicamente, e si è scritto. Su Norma il tempo dei silenzi è stato più lungo delle fasi di memoria. La distanza ha accresciuto la difficoltà di raggiungere un’interpretazione. Rigida e ferma nel suo essersi schierata a fianco delle bande partigiane e contro i fascisti e i loro alleati occupanti, quanto indefinibile rispetto alle categorie delle appartenenze politiche. Cattolica fervente, moglie di un comunista, sempre presente dove c’era da aiutare, nutrire, nascondere, convincere gli indecisi a raggiungere le bande alla macchia, seppellire morti partigiani. Scrisse Marcella Vignali che Norma era attiva nel Circolo Giovanna d’Arco dell’Azione Cattolica, distribuiva volantini con la falce e il martello e dopo la Liberazione “una delle più belle e attendibili testimonianze sulla personalità di Norma” fu offerta al Teatro Mazzini dal Vescovo di Massa Marittima.

La memoria recente di una massetana, bambina all’epoca, trasmette il pensiero della madre: “era un po’ impulsiva, la sua era una scelta dettata da una vitalità estrema, non una scelta politica”. Il suo racconto dei giorni dell’uccisione, del ritrovamento del cadavere e del funerale, raccolti dalla madre e dalle altre tocca i contorni umani: la disobbedienza di Norma al divieto di dare sepoltura al corpo del partigiano Guido Radi evoca l’archetipo femminile della legge del cuore – il sacrificio di Antigone. Tuttavia quella pietas è al confine tra pubblico e privato: la trasgressione all’ordine imposto dal potere nazifascista invia un messaggio che è anche politico a chi assiste al suo gesto.

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Norma Parenti con un bambino, probabilmente il figlio Alberto, s.d.

Così, dall’incerta definizione delle ragioni dell’agire di Norma emerge uno dei nodi più difficili da sciogliere per la Resistenza, sempre, a maggior ragione per la Resistenza femminile: la scelta. Gli scatti che la ritraggono descrivono una ragazza vivace, forse trasgressiva, certo molto bella. La retorica della “sposa e madre” e di una “eroina del secondo Risorgimento” – il linguaggio delle prime celebrazioni – si confonde con un’immagine di modernità che vediamo oggi, ma in tutta evidenza era presente anche allora. Forse è stato così che, passato il momento della compassione e dell’esaltazione del sacrificio necessario per la rinascita politica del paese, non è stato facile per nessuna delle parti assumersi, dandole una appartenenza, la memoria di Norma. C’è poi l’atrocità di quell’uccisione, delle sevizie che il corpo rivelò. La domanda sulla scelta di Norma è insieme domanda sulla scelta di lei come vittima, capro espiatorio, il più adatto a imporre uno sfregio tanto profondo da essere insopportabile a una città che aveva espresso un’opposizione tenacissima al nazifascismo: una ragione in più per spiegare la difficoltà a cimentarsi con una ricostruzione storica puntuale.

Finora, è l’intuito dell’artista – la regista e attrice Irene Paoletti – quello che forse ha saputo meglio restituire il clima cupo di terrore che fu preludio dell’orribile morte di Norma e la rabbiosa e meditata offesa con cui, ormai alla vigilia della rotta, il fascismo volle imprimere un marchio duraturo sulla città. È un caso, non unico, in cui l’arte aiuta la storia.

Articolo pubblicato nel dicembre del 2014.




“Qualche grinza dalla pancia si cominciò a levarla!”

All’indomani dell’8 settembre 1943, con l’inizio dell’occupazione tedesca e la nascita della RSI, la popolazione civile versiliese, già stremata da più di tre anni di lutti e sacrifici, comprese che l’unica speranza per una rapida fine del conflitto in corso, oltre all’attività partigiana, era costituita dagli Alleati: in loro si confidava, ascoltando in gran segreto i bollettini di Radio Londra, in attesa di conoscere i progressi più recenti della difficile risalita della penisola.

Durante il rigido inverno fra 1943 e 1944, l’avanzata angloamericana rimase bloccata lungo la Linea Gustav, mentre in Versilia la repressione nazista si faceva sempre più spietata, e la situazione alimentare ogni giorno più difficile: le razioni assicurate dalle tessere annonarie si assottigliavano, mentre dalla dieta scomparivano carne, sale, zucchero, farina di grano e pane bianco. Le autorità fasciste repubblicane si dimostravano incapaci di gestire le necessità quotidiane della popolazione civile, mentre con bandi e minacce provvedevano a sequestrare capi di bestiame e mezzi di trasporto, pretendendo inoltre la consegna di esose derrate per “necessità militari”. Il tracollo completo della situazione si ebbe con le ordinanze di sfollamento dell’estate del ’44, mentre le truppe angloamericane si facevano attendere, impiegando più di un mese per attraversare l’Arno.

Ma che cosa si aspettava dagli Alleati la popolazione versiliese? Come già detto, la preoccupazione fondamentale era quella del cibo: semplicemente, non si aveva di che mangiare, mentre i gruppi di sfollati crescevano, assottigliando sempre più le già scarse risorse delle Apuane. In secondo luogo, si aveva bisogno di medicine: molti, infatti, erano i versiliesi ammalati o indeboliti, sfiancati da anni di angosce e malnutrizione, negli ultimi mesi, per di più, costretti in condizioni di igiene e promiscuità intollerabili. In terzo luogo, tutti si aspettavano il ripristino di condizioni di vita più dignitose: la fine, insomma, del terrore di veder portati via i propri cari, a lavorare sui cantieri della Gotica, deportati in Germania, o, peggio ancora, giustiziati in feroci operazioni di rappresaglia. Si sognava, in altre parole, un ritorno alla normalità. Per farsi un’idea più chiara di quali potessero essere le aspirazioni di un ragazzo versiliese di quel tempo, si legga fra i “Materiali correlati” la vivida testimonianza del fortemarmino Fabio Giannelli, classe 1927.

Seravezza 5 Aprile '45, mezzi corazati americani sparano ve

Seravezza 5 Aprile ’45, gli alleati preparano l’offensiva finale (fonte F. Bertozzi, cit., p. 192)

Nonostante le preghiere, i versiliesi dovettero attendere a lungo l’arrivo degli Alleati. Accolte con entusiasmo e trepidazione, le prime pattuglie in divisa verde oliva entrarono in Versilia il 19 settembre del 1944, quando i primi soldati americani misero piede a Pietrasanta e Forte dei Marmi: nel corso delle settimane successive, i reparti iniziarono la loro prudente opera di penetrazione dell’entroterra, sotto il tiro costante delle artiglierie tedesche arroccate sulle alture. In effetti, per i nuovi arrivati, prendere il controllo della zona si rivelò più difficile del previsto, e l’avanzata verso nord rimase a lungo impantanata ai piedi delle montagne, bloccata dalle temibili difese naziste.

In fatto di bisogni concreti, tuttavia, le truppe americane seppero pienamente soddisfare le aspettative della gente, che fantasticava da mesi sulla straordinaria abbondanza della macchina bellica statunitense: dove arrivarono, i soldati della “Buffalo” instaurarono fin da subito un legame schietto e cordiale con la popolazione del posto, non lesinando aiuti materiali ed assistenza medica.

Anzitutto, gli Alleati portarono del cibo, molto cibo, solitamente distribuito con generosità presso le cucine dei numerosi accampamenti del territorio: finalmente, dopo mesi di fame e sofferenze, i civili poterono tornare ad assaggiare il sale, lo zucchero, il caffè, il gustoso pane bianco – così diverso dall’insipido “pane nero” dei tedeschi -, e permettersi anche il lusso di assaporare vivande un tempo irraggiungibili, come la cioccolata e le noccioline americane.

Con grande meraviglia, i versiliesi scoprirono lo scatolame, fino ad allora mondo perfettamente sconosciuto: all’interno di lattine multicolori dalle forme più svariate, poterono trovare piselli, fagioli, carne di manzo in gelatina, tonno, sardine, e addirittura prodigiose “zuppe istantanee”. Sensazionale fu poi la rivelazione dei chewing gum e della “Coca-Cola”, novità assolute, che, in pochi mesi di “frequentazione”, seppero inserirsi nelle abitudini alimentari di tutti gli italiani.

Dal canto loro, le truppe alleate manifestarono di gradire vino, cognac e grappe alla frutta fatte in casa: in alcuni casi, li gradirono anche troppo, lasciandosi andare a risse, urlerie, a volte molestie ai danni di qualche ragazza della zona. In cambio di corvée, piccoli servizi di fatica, come il rifornimento di acqua potabile ai comandi o il trasporto di materiali e munizioni, i militari americani dispensavano volentieri birra e sigarette a chi avesse dato loro una mano: fu proprio così che molti versiliesi cominciarono a fumare, giovani compresi. Per i più piccoli, poi, i camion erano sempre ben forniti di biscotti e caramelle. Per approfondire, sono consultabili fra i “Materiali correlati” i ricordi del fortemarmino Mario Pellegrini, che, a quel tempo quindicenne, si ritrovò a trascorrere un lungo periodo a stretto contatto con le truppe afroamericane, vivendo anche momenti di gioia e spensieratezza, ricostruiti con parole semplici ed efficaci.

Enormi progressi si registrarono anche da un punto di vista sanitario: nelle retrovie del fronte, i nuovi arrivati allestirono subito diversi ospedali da campo, dove medici ed infermieri di grande umanità assistettero civili feriti e ragazzi denutriti, distribuendo cure, farmaci e sapone, altrimenti introvabili: merito capitale, gli Alleati portarono la penicillina, miracoloso antibiotico che permise di salvare la vita di moltissimi sfollati versiliesi, debilitati da mesi di pessima igiene e malnutrizione.

Nel successivo inverno di battaglia lungo la Linea Gotica, le truppe angloamericane seppero dunque normalizzare i rapporti interpersonali, restituendo alla gente di Versilia quella rassicurante dimensione di quotidianità, che da troppo tempo aveva perduto: scomparso il timore della violenza arbitraria, recuperata la pienezza e la dignità del corpo, i versiliesi seppero affrontare con rinnovato slancio i residui mesi del conflitto, in attesa di poter far ritorno alle proprie case, e di rimettere assieme i pezzi della propria esistenza.

Federico Bertozzi, laureato in storia contemporanea presso l’Università di Pisa, si occupa di storia della seconda guerra mondiale, con particolare attenzione alle esperienze dei civili in guerra e alla raccolta delle loro memorie. Recentemente ha  pubblicato per Pezzini editore, “Attaccarono i fogli: si doveva sfollà!” – Indagine storico-antropologica sull’esperienza dello sfollamento in Versilia nella Seconda Guerra Mondiale. 

Articolo pubblicato nel novembre 2014.




Romano Bilenchi, a 25 anni dalla morte

Venticinque anni fa, il 18 novembre 1989, moriva nella sua casa di via Brunetto Latini, a Firenze, Romano Bilenchi. Aveva da poco compiuto 80 anni (era infatti nato il 9 novembre 1909 a Colle di Val d’Elsa), aveva lavorato fino all’ultimo ai suoi progetti letterari, portando avanti quella tenace volontà di riscrittura (che significa anche ripensamento, riconsiderazione, analisi) che da sempre caratterizzava come un tratto distintivo il suo lavoro.

Nella sua casa – da cui ormai da anni non si allontanava più, per l’aggravarsi della malattia che lo affliggeva – aveva esercitato il suo ruolo di intellettuale, di coscienza critica e di testimone del suo tempo; lo aveva fatto in modo appartato e dimesso, senza spocchia o boria, discutendo tuttavia animatamente e calorosamente, con grande schiettezza, insomma dialogando nel senso più pieno del termine, con chiunque, amici intellettuali, giovani, semplicemente amici, si rivolgesse a lui, anche con la curiosità di ascoltare le sue parole, gli infiniti episodi della sua vita, da autentico “narratore orale” quale era stato definito.

Nel momento in cui ci si avvicina a Romano Bilenchi, ci si scontra immediatamente con la complessità irriducibile della sua figura e con la stratificazione di interessi (culturali, letterari, politici) che la connotano (dunque di prospettive o punti di vista con cui è possibile accedervi). E’ proprio questo elemento a rendere particolarmente arduo il tracciarne un profilo, un ritratto, che risulterà sempre inevitabilmente una copia sbiadita e parziale del modo di essere di Bilenchi.

Certo, l’approccio più immediato e all’apparenza (solo all’apparenza, però) più facile è quello che lo vede testimone impegnato inromano-bilenchi-160x250 prima persona nelle vicende del suo tempo, che lo vede cioè attraversare il labirinto del Novecento, con le ideologie, le incurvature, le idealità, le delusioni che lo hanno caratterizzato. Bilenchi muore proprio in quel 1989 che vede la caduta del muro di Berlino, ovverosia di uno dei simboli del percorso travagliato del Novecento, che chiude il ‘secolo breve’ e questa coincidenza di date getta una luce particolare sul nostro discorso.

Bilenchi si muove nello spazio temporale del Novecento attraversandone i momenti più emblematici: pur venendo da una tradizione familiare socialista, aderisce in gioventù al fascismo, con la forza ‘eversiva’ di un giovane che vede in quel movimento lo strumento per rompere con il passato, nella convinzione di voler partecipare alla costruzione di un mondo nuovo, di una nuova società, fondata su nuovi valori morali.

Ma l’adesione al fascismo non significa affatto una identificazione acritica o un annullamento della coscienza critica; al contrario Bilenchi si trovò ad esercitare la sua adesione da uomo libero, e fu proprio questo esercizio di libertà del pensiero, unito all’incondizionato riconoscimento del valore in sè dell’amicizia, ad erodere dal di dentro le sue convinzioni e a collocarlo su un nuovo fronte. Si è definito Bilenchi ‘fascista di sinistra’, così come si è parlato di ‘fascismo rivoluzionario’, per sottolineare il fortissimo senso antiborghese e anticapitalistico delle sue posizioni. Definizioni che a stento racchiudono la complessità delle scelte e del pensiero bilenchiani.

“Fascista lo sono stato quando ero più giovane, soprattutto quando ero un ragazzo. (…) ora se debbo dirle la verità non lo sono più”: così ad Ezra Pound, ma è solamente una delle tante ammissioni (o confessioni) di un mutamento ideologico che Bilenchi ci consegna con una folgorante, essenziale semplicità.

bilenchi-bottone“Non essere più fascista” ci rivela in controluce la sensazione sgradevole e amara di speranze tradite, di disillusioni e delusioni andata maturando nel corso di tanti anni e insieme l’esercizio di una coscienza critica inesausta, che lo conduce a scelte diverse, a trovare nuovi orizzonti, dunque un nuovo spazio ideologico in cui riversare il peso delle speranze e degli ideali per un mondo nuovo.

Bilenchi si muove con passione e passioni, sul versante delle ideologie del Novecento, non è un gretto opportunista o un voltagabbana, ma un uomo che crede e difende i suoi valori appassionatamente, che sa compiere scelte di campo. Passione e amicizia costituiscono chiavi di lettura significative nel percorso umano e politico di Bilenchi.

Se era stato un fascista non accomodante e per molti aspetti scomodo, Bilenchi sarà ancora un comunista non ortodosso, capace di coniugare la carica sovversiva, antiborghese, anticapitalistica del comunismo con la sua idea di libertà e di uomo. Altra definizione, quella di comunista liberale, che presenta gli stessi limiti di cui dicevamo.

Bilenchi aderì al PCI con convinzione, senza dubbio, ma per tutto il resto della vita ebbe bisogno di ripercorrere e spiegare (spiegarsi) quello che era successo a lui e ad un’intera generazione. Da qui, il lavorio continuo di riscrittura, di scavo e di illuminazione sui percorsi segreti della sua parabola. Da qui emerge ancora l’intreccio indissolubile tra la passione politica e la scrittura, la letteratura. Ma emerge anche, senza retorica, la categoria dell’amicizia, che è la chiave per penetrare nell’uomo, nella personalità di Bilenchi e che ha ispirato alcune delle sue pagine più belle.

L’amicizia, la condivisione di destini, non sempre e non necessariamente di idee, la comprensione tra uomini costituiscono un valore ininterrottamente affermato da Bilenchi, nell’arco della sua esistenza e della sua produzione letteraria. “L’unica cosa che vale è l’amicizia e tenersi stretti tra coloro che, o fessi o intelligenti, sono in buona fede”: così scrive, nel 1935, a Mino Maccari, offrendoci un’altra scoperta ammissione, di cristallina semplicità ma insieme di grande vigore.

romano bilenchiDopo la liberazione di Firenze e dopo l’impegno in prima persona nella Resistenza, Bilenchi si dedica ad una intensa attività pubblicistica, a testimonianza del suo impegno civile. Straordinaria è l’esperienza del “Nuovo Corriere”, da lui diretto, che diventa a poco a poco un momento di incontro e confronto delle forze democratiche fiorentine, un momento di feconda apertura culturale. Per otto anni, Bilenchi si concentra sul lavoro giornalistico, trascurando la letteratura; vi tornerà dopo la ferita del 1956, dopo cioè la chiusura del quotidiano, riprendendo così il lavorio di scavo e riscrittura a lui congeniale, con nuovi progetti editoriali.

Bilenchi infine rientra nel PCI nel 1972, nel momento in cui si apre una nuova fase politica per il partito, tornando così ad impegnarsi in prima persona per la costruzione di una nuova sinistra.

Le date che, sommariamente, abbiamo indicato rappresentano autentici snodi della storia del Novecento italiano e vedono sempre Bilenchi impegnato ad offrire contributi significativi. Accanto a questo, intrecciata con tutto questo, la passione per la letteratura, l’esercizio, anche se talvolta trascurato per lunghi periodi, della scrittura, con prove che lo collocano tra i più grandi autori del Novecento. E certo quest’ultimo, non secondario aspetto della personalità di Bilenchi, pure noi lo abbiamo trascurato e ce ne rammarichiamo, consapevoli dell’inestricabile intreccio di passioni che ci offre.

Articolo pubblicato nel novembre 2014.




Guidare la diplomazia in tempo di guerra

Il 5 novembre del 1914, a poco più di tre mesi dalla dichiarazione di guerra dell’Austria-Ungheria alla Serbia, Sidney Sonnino (Pisa, 11 marzo 1847-Roma, 24 novembre 1922) prestava giuramento come nuovo Ministro degli Esteri nel secondo governo presieduto da Antonio Salandra. Il politico toscano, chiamato alla guida della politica estera italiana nel pieno della conflagrazione mondiale, vi sarebbe rimasto fino al giugno del 1919, divenendo pertanto il quarto ministro degli esteri dell’Italia liberale per durata di incarico, dopo Visconti Venosta, Tommaso Tittoni e Antonino di San Giuliano. In questi quattro anni e mezzo Sonnino svolse un ruolo centrale nell’entrata in guerra dell’Italia a fianco delle potenze dell‘Intesa e rappresentò nel 1919 assieme a Orlando gli interessi italiani alla Conferenza di Pace di Parigi.

Con Sonnino, Salandra, oltreché un amico personale e un antico alleato, aveva voluto chiamare alla guida della politica estera uno dei leader dell’Italia liberale di maggior esperienza che proprio con quella nomina coronava una lunga carriera pubblica iniziata giovanissimo nella diplomazia italiana quando, poco dopo la laurea conseguita a Pisa in giurisprudenza, aveva servito come volontario tra il 1867 e il 1871 presso le Legazioni italiane di Madrid, Vienna e Berlino.

Ritratto di Sidney Sonnino (gentile concessione dell'Archivio Sidney Sonnino Montespertoli)

Ritratto di Sidney Sonnino (gentile concessione dell’Archivio Sidney Sonnino Montespertoli)

Precoce studioso, secondo la migliore lezione di Pasquale Villari, della questione sociale e contadina nonché della rappresentanza parlamentare, Sonnino elaborò sin dalla gioventù un proprio pensiero politico che a un progetto di consolidamento delle istituzioni interne legava la necessità di condurre sul piano internazionale una politica estera che consentisse il raggiungimento di una completa sicurezza dei confini nazionali e al contempo permettesse il rilancio di un ruolo attivo dell’Italia nel contesto mediterraneo e del Vicino Oriente, anche tramite la ricerca di una politica di espansione coloniale considerata come mezzo utile al miglioramento delle condizioni dell’emigrazione italiana.
Convinto che molti di questi obiettivi si potessero conseguire sul piano diplomatico, Sonnino giudicò positivamente l’ingresso dell’Italia nel 1882 nella Triplice Alleanza con Austria-Ungheria e Germania, un blocco di potenze ritenuto in grado di assecondare gli interessi di espansione e sicurezza del governo di Roma, nonché fornire una soluzione pacifica al completamento dell’unificazione nazionale. In particolare, l’eventuale applicazione dell’articolo VII del trattato di alleanza, che prevedeva in caso di una espansione asburgica nei Balcani la concessione di ipotetici compensi territoriali all’Italia, poteva costituire, secondo Sonnino, lo strumento col quale ottenere pacificamente i territori irredenti del Trentino e della Venezia Giulia. Questa lettura pratico-strategica della alleanza basata più su un calcolo degli obiettivi esteri nazionali che su ragioni ideologiche (tanto che Sonnino la intese come «un connubio che non esclude il divorzio») assieme al principio di nazionalità guidarono tra Otto e Novecento le sue convinzioni sulla politica estera.

Chiamato nel novembre 1914 da Salandra al Ministero degli Esteri in seguito alla morte improvvisa di San Giuliano, Sonnino agì in continuità con la politica di quest’ultimo, sostituendo però un atteggiamento più dinamico all’incertezza e all’attendismo del San Giuliano. Anziché attendere dall’andamento della guerra il profilarsi di un vincitore per porvisi vicino, Sonnino, persuaso anche di una rapida vittoria austro-tedesca si convinse che, per evitare i pericoli di un isolamento internazionale del paese, fosse necessario rompere la neutralità dichiarata dal governo italiano il 2 agosto e scendere in guerra a fianco di Vienna verosimilmente entro la primavera del 1915, non prima però di aver concordato con quest’ultima, anche in cambio dell’intervento italiano, la natura delle compensazioni territoriali che in base all’art. VII sarebbero spettate all’Italia a seguito delle nuove conquiste balcaniche compiute dall’esercito asburgico.
Contrariamente a quanto spesso sostenuto, Sonnino rimase fino all’ultimo sostenitore della fedeltà alla Triplice e fu in realtà solo l’intransigenza del governo austroungarico nell’ignorare le precise richieste italiane di compensazione territoriale che spinsero il governo Salandra-Sonnino a troncare le trattative con Vienna e negoziare in segreto con le potenze dell’Intesa (Gran Bretagna, Francia e Russia) il Patto di Londra. L’accordo, firmato il 26 aprile 1915 e mantenuto segreto, fu un grande successo diplomatico di Sonnino perché dava soddisfazione agli obiettivi della politica estera italiana ricercati nei decenni precedenti. Oltre a garantire un equilibrio nel Mediterraneo centro-orientale e prevedere qualche allargamento delle colonie italiane, il patto stabiliva che in cambio dell’intervento l’Italia avrebbe così ottenuto, oltre al Trentino e al Sud Tirolo (con confine sul Brennero), il controllo della Venezia Giulia e dell’Istria (ad eccezione di Fiume), della Dalmazia settentrionale e della gran parte delle isole, di Valona e del suo retroterra.

Firmato segretamente l’accordo e denunciata la Triplice solo il 3 maggio, il 20 Sonnino presentò al Parlamento una raccolta di atti diplomatici che documentavano le fallite trattative tra Roma e Vienna e illustravano le ragioni della guerra (il cosiddetto Libro Verde). L’Italia dichiarò guerra all’Austria-Ungheria il 23 maggio 1915 mentre l’adesione all’Intesa fu resa pubblica solo il 30 novembre. Sonnino il 1° dicembre, in un discorso tenuto alla riapertura delle Camere, poté presentare le ragioni e gli obiettivi della guerra a fianco dell’Intesa. Il rapporto diplomatico con gli alleati si rilevò però subito complicato per via dell’atteggiamento sospettoso degli anglo-francesi che ritenevano l’Italia poco affidabile, imputandole di condurre una sorta di guerra separata con Vienna sulla base dei soli interessi nazionali (in effetti la dichiarazione di guerra alla Germania, richiesta all’Italia dal Patto di Londra, sarebbe giunta solo il 28 agosto 1916). Fu soprattutto Sonnino che con lento lavoro diplomatico poté ricucire in parte i rapporti, assicurare il rispetto dei patti da parte dell’Italia e divenire l‘uomo forte dell’Intesa a Roma: egli «è il solo che ha l’autorità all’interno ed inspira vera fiducia all’estero», scriveva nel 1916 sul suo diario Guglielmo Imperiali ambasciatore italiano a Londra. Tuttavia, l’andamento complessivo delle operazioni belliche sfuggito oramai a ogni previsione, il successivo intervento statunitense a fianco dell’Intesa nell’aprile del 1917 e lo scoppio della rivoluzione bolscevica in Russia, mutarono non solo la situazione politica interna ma soprattutto gli equilibri politici e diplomatici. La pubblicazione inattesa da parte della stampa sovietica dei contenuti del Patto di Londra costrinse Sonnino nel dicembre 1917 a difendere in parlamento le ragioni del segreto diplomatico e a respingere le richieste di dimissioni presentate dall’opposizione. Sul piano internazionale, negli ultimi anni del conflitto Sonnino continuò a lavorare soprattutto per creare il terreno favorevole affinché al futuro tavolo della pace potessero essere mantenuti gli accordi sanciti nel Patto di Londra.

Sonnino alla Camera nella seduta del 18 dicembre 1916 spiega le ragioni dell'inopportunità di una pace separata con Vienna (La Domenica del Corriere)

Sonnino alla Camera nella seduta del 18 dicembre 1916 spiega le ragioni dell’inopportunità di una pace separata con Vienna (La Domenica del Corriere)

Il suo rifiuto, tra la fine del 1916 e gli inizi del 1917, di accettare le offerte di parte tedesca per fa siglare all’Italia una pace separata con Vienna era motivato proprio dal timore che con questa sarebbero andate in frantumi le acquisizioni promesse all’Italia col Patto. Tuttavia, al pari di molti altri leader europei, Sonnino non colse probabilmente fino in fondo che l’intervento statunitense in Europa e soprattutto la politica di pacificazione del Presidente Wilson avrebbero imposto una netta presa di distanza dalle logiche di potenza e dalle dinamiche della diplomazia segreta che in passato avevano retto le relazioni tra gli stati europei e che alcuni ritenevano di poter riproporre ancora dopo il 1918. Le future condizioni di pace indicate da Wilson nei celebri 14 punti smentivano queste aspettative e in particolare respingevano la legittimità delle rivendicazioni italiane riconosciute nel Patto di Londra, bollandole come imperialiste. Sonnino stesso, ricercando sempre con gli alleati un’applicazione integrale dei termini del Patto di Londra si dimostrò forse troppo intransigente, trascurando l’eventualità di adeguare la sua posizione ai nuovi equilibri internazionali mutati a seguito dell’ingresso in guerra degli Stati Uniti.

 Queste premesse, assieme all’allineamento franco-britannico sulle posizioni statunitensi, al termine della guerra avrebbero fortemente condizionato i lavori della Conferenza di Pace tenutasi a Parigi tra il 18 gennaio 1919 e il 21 gennaio 1920. La classe dirigente liberale italiana, nonostante avesse incassato il successo politico di Vittorio Veneto e della conseguente conquista italiana dei territori irredenti, vi si presentò delegittimata da una crisi di rappresentanza parlamentare e incalzata dall’opposizione socialista e cattolica. Sonnino, la cui presa sulla politica estera italiana era ora subordinata al protagonismo del nuovo presidente del consiglio Vittorio Emanuele Orlando, rappresentò meglio di altri il simbolo di questa fragilità nazionale. Ormai settantunenne e dopo circa quattro anni «di estrema tensione nervosa, senza un giorno di riposo», come ebbe a scrivere lui stesso, Sonnino non riuscì a far valere le sue doti diplomatiche né a sfruttare la sua profonda conoscenza delle lingue per avvantaggiare la posizione italiana: alla conferenza «Sonnino tace in tutte le lingue che sa ed Orlando parla in tutte le lingue che non sa» recitava un motto molto diffuso al tempo. Sonnino, dovette peraltro allinearsi alla impostazione diplomatica data da Orlando che anziché chiedere la semplice applicazione del Patto di Londra, come da lui suggerito, puntava anche a ottenere l’annessione di Fiume. L’opposizione statunitense alle rivendicazioni dell’Italia sulla Dalmazia (dopo che le erano stati invece riconosciuti i diritti sul Trentino e l’Istria occidentale) e la proposta di Wilson di fare di Fiume una città libera impedirono di raggiungere in sede di trattative un accordo e furono alla base nell’aprile 1919 dell’abbandono dalla conferenza della delegazione italiana e poi delle dimissioni del governo Orlando-Sonnino il 23 giugno successivo.

Lo statista toscano, da quel momento e negli anni seguenti fu spesso additato come il responsabile del fallimento della diplomazia italiana e della vittoria mutilata. Il giornale della federazione socialista fiorentina, “La Difesa”, nell’agosto 1919 lo chiamò ad esempio «l’inetto bocciato di Parigi», «unico e vero responsabile della rovina d’Italia per averla coinvolta e trascinata, contro volontà, nell’inumana carneficina». Per Giovanni Amendola, il metodo diplomatico di Sonnino tenuto a Parigi fu causa «di tutte le cecità e di tutte le rovine», mentre più tardi Togliatti vi avrebbe rintracciato «il vero responsabile del fallimento della diplomazia italiana». In realtà, se è vero che a Parigi la stella di Sonnino apparve assai opaca, va però detto che la macchina diplomatica da lui diretta nel corso della guerra si era rivelata efficiente e la sua politica estera coerente con il raggiungimento degli interessi nazionali.

Se per alcuni dei suoi detrattori la sua visione degli interessi italiani nell’Adriatico fu ritenuta troppo moderata o accondiscendente alle rivendicazioni degli altri Stati balcanici questo lo si dovette in parte al fatto che la sua politica estera non fu mai di tipo imperialista ma tenne anzi conto delle altre nazionalità oltre che della propria. La decisione pur dolorosa assunta all’inizio del 1915 assieme a Salandra di non includere tra i territori richiesti dall’Italia nel Patto di Londra la città di Fiume, fu presa anche perché si ritenne giusto che in caso di dissoluzione dell’Impero asburgico l’Ungheria o, in caso di indipendenza da questa, la Croazia potessero avere uno sbocco sul mare per le esigenze commerciali delle loro popolazioni. Più in generale, la defaillance della politica estera italiana al termine dei negoziati di Parigi, anziché addossarsi solo a Sonnino dipese più che altro dalla profondità della crisi interna alla classe dirigente liberale, dalle contraddizioni di un paese affetto da evidente arretratezza economica e sociale, nonché in sede diplomatica dall’intransigenza statunitense e dall’atteggiamento ostile di Francia e Gran Bretagna, oltreché dall’effettivo difetto negoziale della delegazione italiana. Il giudizio severo che toccò allo statista toscano fu perciò in buona parte esagerato. Guglielmo Imperiali, che pure dalla politica estera del toscano aveva spesso dissentito, scrisse sul suo diario dopo l’abbandono di Sonnino della conferenza di Pace: «non posso però non inchinarmi dinanzi all’onestà, rettitudine ed altissimo sentimento patriottico dell’uomo, di cui gli sforzi e l’importanza dei risultati comunque già ottenuti meritavano miglior sorte».

Articolo pubblicato nel novembre 2014.




La “città satellite della grande città madre”

Il 6 novembre 1954 la città di Firenze si ingrandiva con la creazione di un nuova zona residenziale situata a sud-ovest del centro storico, lungo il fiume Arno, di fronte al Parco delle Cascine. Quel 6 novembre per inaugurare il villaggio denominato Isolotto fu organizzata una grande cerimonia ufficiale.

A presiederla fu il cattolico Giorgio La Pira: esponente di spicco dell’ala dossettiana della democrazia cristiana, eletto sindaco di Firenze nel 1951. Parteciparono alla cerimonia coloro che si erano impegnati nella progettazione e creazione della nuova area abitativa, i professionisti, architetti e ingegneri,  gli assessori comunali e anche il rettore dell’Università insieme al prefetto. Furono invitati alcuni esponenti politici e ministri in carica come dimostrano le lettere che La Pira rivolse a Fanfani, segretario della democrazia cristiana, a Gronchi, presidente della Camera dei deputati, a Vigorelli, Ministro del Lavoro e della Previdenza sociale, a Medici, Ministro dell’Agricoltura.

Nazione Isolotto 2La cerimonia ebbe luogo nella piazza centrale dell’Isolotto, iniziò alle tre del pomeriggio e proseguì con i discorsi ufficiali tenuti dal cardinale Elia Dalla Costa, dal sindaco e dall’ingegnere Filiberto Guala.

I veri protagonisti di quella cerimonia furono senz’altro i nuovi abitanti del quartiere vestiti con l’abito delle grandi occasioni. Dopo aver ascoltato gli interventi suddetti, accompagnati dalla banda musicale dei vigili urbani, seguirono con trepidazione il responsabile di condominio, ‘colui che aveva in mano il sacchetto pieno di chiavi’. Le cronache locali raccontano che queste persone, prese dall’emozione di ricevere finalmente una nuova casa dove vivere degnamente, aprirono le case “con le mani che tremavano” .

La realizzazione dell’Isolotto, allo stesso modo di altri quartieri residenziali edificati in varie città d’Italia dopo la seconda guerra mondiale, fu possibile grazie alla legge n. 43 approvata il 28 febbraio 1949, il titolo della legge recitava ‘Progetto per incrementare l’occupazione operaia, agevolando la costruzione di case per lavoratori’. La legge n. 43/49, che creò anche un ente apposito l’Ina-Casa per vigilare sulla costruzione degli appartamenti da destinare in locazione o a riscatto, fu denominata dall’opinione pubblica ‘legge o piano Fanfani’ proprio perché il Ministro del Lavoro, Amintore Fanfani, ne fu uno dei massimi promotori insieme al suo sottosegretario La Pira durante il V governo De Gasperi.

Il Piano-Fanfani fu la principale testimonianza dell’impegno dei politici democristiani verso una ‘modernizzazione’ del Paese “accompagnata da elementi solidaristici volti a mitigare l’impatto disgregante” dell’economia neocapitalista. Secondo La Pira esso “costituiva un esempio del tipo di azione che il partito cattolico era chiamato a svolgere per la costruzione di una società solidale”.

Il Piano dell’Ina-Casa del 1950 per l’Isolotto prevedeva: una superficie di circa 500.000 mq, 9.000 abitanti, edifici dai due ai quattro piani, plurifamiliari o unifamiliari e inoltre “(…) due scuole elementari, due scuole per l’infanzia, una casa torre per uffici e servizi, una chiesa ed opere parrocchiali; un mercato con negozi; un cinema-teatro; edifici culturali e ricreativi; installazioni per sport leggero. Nel 1954 vennero consegnati 774 alloggi, 1005 risultarono pronti nel 1955, il completamento del quartiere si sarebbe avuto solo nel 1963.”

Il 6 novembre 1954 alla cerimonia di inaugurazione dell’Isolotto, il sindaco pronunciò un discorso ispirato al principio cristiano della comunità, inteso come “promozione di un ideale sociale fondato su lavoro, famiglia e proprietà.”. Egli definì il nuovo quartiere come una “organica, armoniosa, vasta, umana, città satellite di Firenze, (…) la prima, si può dire, autentica città satellite della grande città madre”; dotata di misura, volto e bellezza tali da renderla “figlia in tutto proporzionata alla città madre”. In questa nuova città, realizzazione terrena di una ideale città divina, i nuovi abitanti avrebbero sviluppato a pieno le loro vite in un clima di solidarietà, fraternità e amicizia.

L'Unità Isolotto senza servizi 23_1Ma se questi furono gli intenti dei costruttori in realtà il nuovo centro abitativo non si presentava nel 1954 come un luogo accogliente dove poter vivere in armonia e serenamente. Sorse privo di infrastrutture e servizi  necessari: mancavano collegamenti con il centro storico, non era ancora pronta una linea Ataf che collegasse la zona residenziale col centro storico. E l’unico modo per raggiungere il parco delle Cascine era attraversare una passerella in legno a pagamento o farsi traghettare fino all’altra sponda dell’Arno. La passerella sull’Arno in cemento, già prevista nel progetto del 1951, sarà realizzata solo nel 1962. Le strade non erano state pavimentate, mancava l’illuminazione e le due piazze principali erano da completare. Non c’erano negozi, né una scuola per i numerosi bambini che per un primo periodo dovettero accontentarsi di frequentare degli edifici di legno fatiscenti, le cosiddette “baracche verdi” prive di acqua e servizi igienici. Alcuni progetti come quelli per la realizzazione di un cinema-teatro o la costruzione di edifici ricreativi e culturali non saranno mai realizzati.

Isolotto festa alberi 1954_NOVMancava anche il verde tra le nuove case, nonostante l’architetto Tiezzi le avesse progettate prendendo a modello le città giardino inglesi. Fu così che l’amministrazione comunale, su proposta di alcuni cittadini, organizzò il 20 novembre all’Isolotto la festa degli alberi. Alla presenza dall’assessore alla pubblica istruzione e alle belle arti il Professor Bargellini, i bambini del nuovo quartiere vennero chiamati a piantare il loro albero vicino alla porta di casa; alberi di cui sarebbero diventati simbolicamente i custodi.

Chi erano i primi abitanti della nuova città satellite? Da un’indagine condotta dalla ricercatrice Marina Tartara, tra il giugno 1958 e il febbraio dell’anno successivo, apprendiamo che la maggior parte era originaria della Toscana e aveva alle spalle un’esperienza di inurbamento dai centri minori iniziata già negli anni Trenta e proseguita all’indomani del 1945. Il 70% dei capifamiglia proveniva dalla Toscana ma solo il 22% era nato a Firenze, gli altri nei comuni limitrofi alla città come Fiesole, Sesto fiorentino, Scandicci, Bagno a Ripoli e Galluzzo. Oltre l’80% dei capifamiglia toscani viveva a Firenze già prima della seconda guerra mondiale.

Solo un terzo delle famiglie proveniva da altre regioni d’Italia: centro-nord, sud e Isole, in proporzione quasi uguali. Una minoranza veniva dall’estero: 105 famiglie di profughi da quei territori perduti nel corso della seconda guerra mondiale, soprattutto dall’Istria, e rimpatriate dalla Grecia, dall’Albania e dall’Africa orientale.

Firenze nel dopoguerra aveva visto la sua popolazione aumentare sensibilmente e molti di questi futuri abitanti dell’Isolotto, che provenivano dalle vicine campagne o dai quartieri fiorentini di Santa Croce, San Frediano, Santo Spirito, si erano trovati a vivere in una condizione di forte disagio abitativo: o in coabitazione, o sfrattati o sfollati.

Archivio Locchi 1954_2Una popolazione molto giovane, composta per la maggior parte da operai attivi nelle fabbriche della città, Galileo, Pignone, Stice, Manifattura Tabacchi, ma vi era anche un nucleo consistente di dipendenti delle Ferrovie, Vigili del Fuoco, Finanza, Forze Armate e impiegati delle amministrazioni pubbliche. Le donne erano per lo più operaie, in particolare dipendenti della Manifattura Tabacchi, oppure lavoratrici domestiche a domicilio, poche di loro erano impiegate.

La ricercatrice Tartara nella sua analisi si era soffermata a lungo sulle differenze tra coloro che avevano ricevuto la casa a riscatto e coloro che l’avevano avuta in locazione. Alla fine faceva confluire le differenze in un’unica distinzione: “gli assegnatari a riscatto godono di migliori condizioni economiche e sono professionalmente e culturalmente ad un livello più elevato”.

Al di là delle considerazioni della ricercatrice, questa umanità così eterogenea per cultura, stili di vita, appartenenza sociale, lingua, idee politiche, credo religioso, si trovò a vivere insieme nello stesso luogo.

Il Piano Ina-Casa prevedeva oltre alla costruzione di case anche la realizzazione di spazi sociali per favorire la nascita di una comunità. Il Centro sociale dell’Ina-Casa aveva il compito di “guidare dall’alto la costruzione di un’identità comunitaria”, favoriva l’inserimento delle famiglie attraverso l’aiuto di assistenti sociali. Dato che il Piano Ina-casa delegava l’amministrazione degli immobili (spazi abitativi e giardini) direttamente ai condomini, i nuovi abitanti furono chiamati a confrontarsi per arrivare a stabilire delle regole condivise. Negli spazi del Centro sociale dell’Ina-Casa gli assegnatari si riunivano per discutere dei vari problemi del nuovo quartiere e qui organizzarono alcuni servizi quali:  la biblioteca, l’ asilo,  il teatro-palestra.

Nel 1955 per volontà della Chiesa fu aperto un altro centro-sociale, guidato da Enzo Mazzi il parroco del villaggio Isolotto; qui si offriva un’assistenza di tipo morale e  un sostegno concreto fatto di aiuti monetari e materiali come la distribuzione dei pacchi forniti dalla Opera Pontificia di Assistenza. Inoltre fu attivo fin dal 1956, in una rimessa lungo l’Arno, un circolo con una sala adibita alle riunioni della sezione del PCI e uno spazio ricreativo con la televisione e il bar.

I nuovi abitanti, nonostante le diversità, si trovarono ben presto uniti e solidali nelle lotte che sorsero spontanee per rivendicare presso l’amministrazione comunale ciò che mancava nel quartiere. La prime lotte interessarono vari ambiti come la casa e i servizi. La prima battaglia importante fu quella per la scuola nel 1959. La sezione socialista dell’Isolotto, guidata da Silvano Miniati, allora componente della segreteria provinciale della FIOM-CGIL, promosse un’assemblea pubblica che scelse di costituire un comitato di lotta e proclamare una giornata di astensione dalla scuola da parte degli alunni. Tale protesta, che vide anche l’adesione dei cattolici con Enzo Mazzi, fu un successo: nessun bambino si presentò in classe e una delegazione venne ricevuta a Palazzo Vecchio dall’assessore Nicola Pistelli. Poco tempo dopo iniziarono alla Montagnola i lavori di costruzione di un edificio scolastico in muratura che venne ultimato soltanto nel 1963.

Questo solidarietà degli abitanti nel conflitto sociale, superando le contrapposizioni ideologiche tipiche dell’epoca, portò il quartiere ad essere negli anni successivi uno dei centri di dissenso più attivi in Italia: ne sono un esempio sia la mobilitazione di comunisti e cattolici dell’Isolotto in sostegno agli operai delle Officine Galileo minacciati di licenziamento nel 1959, sia la vicenda della comunità cristiana guidata da Enzo Mazzi che si trovò in profondo disaccordo con la chiesa ufficiale nel 1968.

Articolo pubblicato nel novembre 2014.