Prato, 1918-1922. Nascita e avvento del fascismo

Prima dell’uscita di Prato, storia di una città – l’imponente opera pubblicata dal Comune di Prato e dalla casa editrice Le Monnier, i cui due ultimi volumi (il terzo ed il quarto, usciti rispettivamente nel 1988 e nel 1997) sono dedicati alla storia della città laniera fra il 1815 ed il 1993 – la storiografia su Prato in età contemporanea non era molto ricca.
Certo, esistevano alcuni importanti contributi, tutti risalenti agli anni Sessanta-Settanta (si pensi alla Storia economica di Prato dall’Unità d’Italia ad oggi di Renzo Marchi, agli studi di Claudio Caponi sul movimento cattolico, a Le lotte sociali e le origini del fascismo a Prato di Rosangela Degl’Innocenti Mazzamuto), ai quali si affiancavano altre opere, a metà strada tra la memorialistica ed il saggio storico (come Coccodrillo verde, di Aldo Petri, sul periodo resistenziale, Prato, ieri, di Armando Meoni, sulla Prato fra Otto e Novecento, La valle rossa, di Carlo Ferri, sulla Val di Bisenzio, Fermenti popolari e classe dirigente a Prato, di Dino Fiorelli e così via), ma, in complesso, l’esigenza di fare i conti con la storia più recente della città non poteva dirsi soddisfatta.
La pubblicazione di Prato, storia di una città fu dunque un evento periodizzante, che (oltre a rappresentare il primo tentativo da parte della sinistra di far corrispondere all’egemonia politica a livello di amministrazione comunale un’analoga egemonia sul piano dell’elaborazione storiografica) costituì il preludio della successiva fioritura della storiografia su Prato in età contemporanea, concretatasi nella pubblicazione di diverse monografie dovute a Michele Di Sabato, ad Andrea Giaconi, a Giuseppe Gregori, a Federico Lucarini, a chi scrive e ad altri ancora.
Il libro di Alessandro Bicci si situa in questo contesto.
Il terreno scelto dall’Autore per il suo lavoro non può dirsi completamente vergine dal punto di vista storiografico. Altri studiosi si sono infatti occupati prima di lui dei fatti (o almeno di alcuni fatti) accaduti nel Pratese dopo la fine della grande guerra, ma il suo libro ha il merito di ricostruire, per la prima volta in maniera organica ed approfondita, i principali eventi verificatisi tra il 1918 ed il 1922, fornendoci un quadro della situazione economica, politica e sociale della Prato di allora.
Bicci ci parla dunque dei successi riportati dai lavoratori nel corso del cosiddetto “biennio rosso” (1919-1920), quando le classi dirigenti assistettero attonite all’ascesa del movimento operaio che riuscì a conquistare le otto ore, a strappare alla controparte un concordato che prevedeva un aumento del 50% della paga giornaliera dei lanieri e che, col moto del caroviveri del luglio del 1919, sembrò per un attimo padrone della situazione.
Scorrendo l’indice del volume, vediamo però che ben presto la spinta operaia si esaurì e la reazione cominciò a prendere campo, favorita dalle divisioni tra socialisti e comunisti: i primi a farne le spese furono i lavoratori edili della Direttissima, vittime di una serrata che preluse alla nascita ed allo sviluppo del movimento fascista.
Bicci ci parla quindi dei “fatti di Carmignano” (28 marzo 1921), cioè dell’uccisione dei carabinieri Pucci e Verdini, della quale vennero incolpati tre comunisti seanesi. Questo episodio, su cui non è stata mai fatta pienamente luce, è molto interessante perché potrebbe essere stato nient’altro che la cinica applicazione nel comune mediceo, da parte dei fascisti, della nota “formula Pasella-Perrone Compagni”, consistente nel colpire persone in qualche modo legate all’establishment per giustificare poi la repressione contro il movimento operaio e contadino e l’assalto alle amministrazioni democratiche liberamente elette (cosa che puntualmente accadde).
Continuiamo a scorrere l’indice del volume: le violenze fasciste si moltiplicano, il 17 aprile 1921 gli squadristi, con la protezione dei carabinieri, effettuano un sanguinoso raid su Vaiano, cuore della “Valle rossa” e roccaforte del movimento operaio, i tessili registrano una pesante sconfitta in occasione dello sciopero del settembre-novembre di quell’anno (che vide la comparsa sulla scena di un vero e proprio sindacato giallo – il Sindacato economico apolitico – creato in seno all’Associazione nazionale combattenti) e, dopo l’omicidio del ras locale Federico Guglielmo Florio, per mano del comunista Cafiero Lucchesi, i fascisti procedono senz’altro alla conquista del comune, defenestrando l’amministrazione guidata dal socialista Giocondo Papi: siamo così giunti al gennaio del 1922, quando per Prato cominciò, come è stato scritto, “la lunga notte medievale del fascismo” (Ugo Cantini).
Anche a Prato il fascismo fu senza alcun dubbio, come si ricava chiaramente dal lavoro di cui si sta parlando, il prodotto, da un lato, del nullismo massimalista (vale a dire dell’incapacità, da parte dei dirigenti del PSI, di elaborare una strategia politica in grado di dare alle aspirazioni di palingenesi sociale delle masse uno sbocco concreto, senza estenuarle in un’inutile “ginnastica rivoluzionaria” che demoralizzava gli operai ed allarmava anche più del dovuto i padroni) e, dall’altro, della volontà di riscossa del padronato, che delle squadre fasciste fu diretto e generoso finanziatore.
Ma chi erano gli squadristi? Chi erano i violenti, gli assassini, che, a Prato come altrove, si macchiarono di delitti orrendi? (e voglio qui ricordare un episodio, nel quale mi sono imbattuto nel corso della mia attività di ricerca, che mi ha particolarmete colpito: l’uccisione, avvenuta a Borgo a Buggiano nel ’21, di un lavoratore, che rispondeva al nome di Francersco Antonio Puccini, solo perché portava all’occhiello un fiore rosso, simbolo della sua fede politica e delle sue speranze).
Chi erano i fascisti, dunque. Cerchiamo di rispondere a questa domanda. Com’è noto, Antonio Gramsci seppe magistralmente cogliere, in una serie di articoli pubblicati sull’Ordine nuovo fra il 1921 ed il 1922, quelli che erano i tratti distintivi del fascismo, che è sì reazione antiproletaria (cioè una delle forme assunte nel XX secolo dalla lotta del capitalismo contro il movimento rivoluzionario dei lavoratori), ma che si differenzia da altri movimenti reazionari per il fatto di dare corpo alla “mobilitazione violenta della piccola borghesia nella lotta del capitalismo contro il proletariato” (Alfonso Leonetti).
Ebbene, il libro di Bicci ha il merito di sottoporre a verifica, sul terreno concreto dei fatti a livello locale, questa intuizione gramsciana, evidenziando che anche nel Pratese, il fascismo fece proseliti in primo luogo fra i piccoli borghesi, atterriti dalla prospettiva della proletarizzazione, e fra la massa di spostati (nelle cui file rientravano anche diversi operai) venutasi a creare in seguito alla crisi che si abbatté sull’industria laniera locale nel 1921. Gli interessanti profili biografici di alcuni esponenti del fascismo pratese stesi da Bicci (si pensi a personaggi come Tullio Tamburini e come lo stesso Florio) sono, da questo punto di vista, illuminanti. Si può quindi sostenere che la tesi di Gramsci sulla natura piccolo borghese del fascismo trova nell’accurata analisi di Bicci una puntuale conferma.
L’utilità degli studi di caso sul fascismo, di questo particolare tipo di studi di “microstoria”, consiste proprio in questo: verificando a livello locale certe tesi generali, essi permettono di capire come, nell’Italia del primo dopoguerra, poté affermarsi un movimento come quello mussoliniano, che impose al Paese vent’anni di dittatura e lo precipitò infine nell’abisso della seconda guerra mondiale: la lettura di questo libro è quindi quanto mai utile per comprendere uno degli snodi della storia recente della città.

Articolo pubblicato nel maggio 2017.




Suor Cecilia Maria Vannucchi, nata Olga Vannucchi (1901-1990)

Suor Cecilia Maria Vannucchi

Nata a Capalle (Campi Bisenzio) nel 1901 da una famiglia benestante, si trasferisce a Prato dove frequenta come educanda il convento di San Niccolò. Dopo aver conseguito la laurea, inizia a insegnare nel 1928 proprio presso la scuola del convento dove è stata allieva. In questi anni chiede di entrare a far parte della comunità domenicana di San Niccolò.

Durante il periodo universitario si è avvicinata molto agli ambienti domenicani di Santa Maria Novella a Firenze e questa esperienza, unita alla frequentazione di San Niccolò, la porta a maturare una profonda vocazione spirituale. Decide così di prendere i voti con il nome di suor Maria Cecilia Vannucchi. Nel 1933 diviene preside e direttrice del convitto; dal 1938 al 1941 ricopre il ruolo di sottopriora, dal 1941 al 1980 è priora del convento. Dal 1945 al 1961 è anche priora generale dell’Ordine domenicano toscano.

Nei mesi dell’occupazione nazista della città, suor Maria Cecilia riveste un ruolo chiave: come madre superiora del convento, si adopera affinché le porte della comunità domenicana siano aperte a tutti gli sfollati dei numerosi bombardamenti. Offre insieme alle consorelle asilo e sostegno, riuscendo inoltre a evitare perquisizioni e rastrellamenti.

Tra la fine di giugno e l’inizio di luglio 1944, Pietro Gini, membro del CLN di Prato in quota DC, si reca a San Niccolò chiedendo a suor Maria Cecilia di accogliere i membri direttivi del comitato. La madre superiora, dopo aver chiesto l’autorizzazione formale a monsignor Eugenio Fantaccini, vicario generale della città di Prato, li accoglie nel convento.

Suor Cecilia ricorderà le relazioni cordiali instaurate coi membri del CLN, che si muovono con discrezione ma liberamente tra gli altri sfollati nel convento. Oltre a Pietro Gini, a San Niccolò si nascondono anche Cesare Grassi e il comandante militare della resistenza pratese Mario Martini. La famiglia Martini è particolarmente legata a Suor Cecilia in quanto la moglie Milena è stata sua compagna di scuola.

Il coraggio dimostrato in questa fase vale a Suor Maria Cecilia un riconoscimento importante: nel ventesimo anniversario della Liberazione della città, il Comune di Prato le conferisce una medaglia d’oro. Suor Maria Cecilia rimane preside della scuola fino al 1966 e vicepreside fino al 1974. Dopo il 1980 lascia anche il ruolo di priora, ma resta a San Niccolò, dove trascorre gli ultimi anni della sua vita. Muore il 24 luglio 1990, all’età di 88 anni.

 

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🎤 Intervista realizzata da Michele Di Sabato il 9 agosto 1982, in “Ultime Voci. Memorie dei combattenti della Federazione provinciale di Prato dell’Associazione nazionale combattenti“, vol. 10, Prato, Casa delle memorie di guerra e di pace, 2017, pp. 45-8

– Mi può dire come e quando ebbe il primo contatto con gli esponenti della Resistenza?

– […] Venne qui il signor Gini, Pietro Gini, che era della Democrazia cristiana, e mi disse: “Madre, lei bisogna che mi faccia un piacere… lei deve… si sente di ospitare il Comitato di liberazione nazionale?”. Io dissi: “Senza il consiglio dell’autorità ecclesiastica, no. Allora, ritorni”. Mi ricordo che furono i primi di luglio, questo, o fine giugno. Andai dal monsignor Fantaccini e lui mi disse: “Non solo quello, ma tutti; apra le braccia a tutti. Bisogna aiutare tutti”. Non lo posso dimenticare quest’atto pastorale, quasi d’abbraccio in quel periodo doloroso che si doveva attraversare e che lui prevedeva come tale. Allora venne Gini e gli dissi di sì, ho avuto il permesso, così il Comitato di liberazione si installò […] dove una volta era l’infermeria dell’educandato, libero, vero. Aveva una porta per contro proprio, un orto dove poter scendere, diverse stanzette, c’era tutto completo il Comitato di liberazione. Vennero Pietro Gini e qualcun altro, tre o quattro ci stavano stabilmente. Venne poi anche il capitano Martini, che è ancora vivo. Era stato… si faceva su e giù con il treno quando io studiavo, era marito di una mia amica e lo conoscevo bene. Più tardi venne, molto più tardi, dopo l’eccidio sul monte a Figline, però sua moglie con i figlioli, con uno dei figlioli, era già qui, perché l’altro i tedeschi lo presero e lo portarono via. […] Poi a poco a poco cominciò a venire gente e io, dico la verità, non rifiutai nessuno. Di qualunque condizione fossero, questo io me lo sentivo in coscienza. Non in questo locale, ma in questo che le farò vedere in biblioteca, c’era la gente più paurosa, e vorrei dire più povera, non nel senso spregiativo: quella che aveva più paura. Le farò vedere, in quella neoclassica laggiù c’era molta mobilia. Portarono i mobili anche i Martini, quella mia amica, insomma c’era un monte di roba, si poté fare, come si può dire… delle camerette disimpegnate e nelle prime due stanze, per poter essere libere e fare un corridoio, c’erano le tende del teatro e io le misi con delle funi e il filo di ferro. M’aiutavano gli uomini che c’erano, tutti desiderosi di aiutarmi, e poi dormivano anche lì. Nelle sale su, dove c’erano le educande, c’erano tutte le famiglie di ex alunne, e così pure qui nelle scuole. Io non so mica quante erano, non l’ho mai contate. C’erano alcuni giovanotti che dormivano nel corridoio con una materassa che tiravano giù; parecchi giovanotti c’erano, di tutte le età, dai diciotto ai trenta, sicché, quando poi suonava l’allarme, quasi tutti scendevano giù dove c’era parecchio posto, perché è una cantina lunga quanto il chiostro. […]

– Come facevate a dare sostentamento a tanta gente?

– C’era qualcuno che portava qualcosa. Questa gente modesta si faceva da mangiare qui sotto, nei chiostri. Vede questi archi: uno per ciascuno […] e poi, vede, c’era una suora… – le suore sono state impagabili, straordinarie: hanno dato la medaglia d’oro a me, ma è il convento che rappresentavo […]




Anna Martini (1924)

Anna Martini (©️Archivio Fondazione CDSE)

Nasce a Prato il 9 marzo 1924, in una famiglia composta dai genitori Mario e Milena Dami, i fratelli minori Piero (1926) e Marcello (1930). Entrambi i genitori di Anna sono insegnanti; quando il padre vince il concorso per la docenza nelle scuole pubbliche, l’intera famiglia si trasferisce a Pistoia.

Anna si diploma all’Istituto magistrale e comincia a insegnare: continuerà a lavorare e insieme a studiare anche dopo la guerra. Grazie al suo lavoro riesce a pagarsi delle lezioni di greco e a ottenere la licenza di liceo classico da privatista. Con lo scoppio del conflitto, la vita di Anna viene stravolta: il padre, ufficiale di complemento, viene richiamato; non le è più possibile andare a Firenze per continuare la frequenza del corso universitario in Lettere moderne al quale si è iscritta e la casa di Pistoia viene danneggiata da un bombardamento, costringendo i Martini a sfollare dapprima a Cerreto, poi a Montemurlo, in provincia di Prato.

L’8 settembre Mario Martini riesce a far fuggire i suoi soldati e, sventata la cattura, si ricongiunge con i propri familiari; si lega al Partito d’Azione come esponente della corrente repubblicana clandestina. Tutta la famiglia inizia a collaborare con la Resistenza, soprattutto tenendo contatti con Radio CoRa e occupandosi dei messaggi cifrati di Radio Londra.

Questo coinvolgimento li espone a gravi rischi. Quando Radio CoRa viene scoperta il 7 giugno 1944, tutta la famiglia viene presa, ad eccezione di Piero che non si trova in casa. Mario riesce a fuggire, Marcello viene portato prima al carcere delle Murate a Firenze e successivamente deportato a Mauthausen, dal quale ritornerà dopo tredici mesi. Anna e Milena vengono detenute per un mese.

Anna Martini (©️Archivio Fondazione CDSE)

Durante la permanenza nel carcere di Santa Verdiana, viene aiutata da alcune suore e dialoga spesso con le altre prigioniere, o svolge “lavoretti” che le vengono commissionati, conosce anche le partigiane Tosca Martini e Tosca Bucarelli. Anna e la madre Milena sono due tra le quattordici prigioniere liberate dai gappisti di Bruno Fanciullacci il 9 luglio e si rifugiano da alcune parenti a Firenze.

Dopo la guerra si laurea in Lettere moderne e diventa insegnante. Svolgerà anche il mestiere di guida turistica, grazie al quale potrà viaggiare molto. Rimane nubile per aiutare il padre e i fratelli; si sposa poco prima dei quarant’anni e ha una figlia.

Non si affilia ad alcun partito né svolge attività politica. Riconosciuta partigiana, si iscrive all’ANPI, ma in seguito a disaccordi decide di lasciare la tessera; riprende a collaborare con l’ANPI in età avanzata, per parlare con gli studenti e raccontare la sua storia.

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I fratelli Anna, Piero e Marcello Martini al mare (1947-48) (Credits: L. Antonelli, A. Giaconi, “Una famiglia in lotta. I Martini tra fine Ottocento, Grande Guerra, Resistenza e Deportazione”, Museo Deportazione/Consiglio Regionale Toscana, 2017)

 

Mario Martini con i figli Anna, Piero e Marcello, 1930) (Credits: L. Antonelli, A. Giaconi, “Una famiglia in lotta. I Martini tra fine Ottocento, Grande Guerra, Resistenza e Deportazione”, Museo Deportazione/Consiglio Regionale Toscana, 2017)

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🟥 Stralcio di intervista ad Anna Martini in L. Antonelli, Voci dalla storia, Prato, Pentalinea, 2006,642-643

– Quando siete arrivati a Montemurlo come avete cominciato la collaborazione con la Resistenza?
– In realtà, con precisione non lo so, qual è stata la causa scatenante non lo so, il mio babbo è sempre stato antifascista, lui era il comandante militare, ma non era iscritto a nessun partito; a Montemurlo aveva cominciato un po’ il mio zio, il fratello, quello che era tipografo e quindi probabilmente fu lui che mise il babbo in contatto con altri.
Poi si entrò in contatto con Radio CoRa e tutta l’attività si svolse lì. I manifestini, quelli famosi dello sciopero io c’ho dormito sopra, il babbo li portò a casa per poi distribuirli e io ingenua li presi e li misi sotto il materasso e c’ho dormito una notte sopra per tenerli ben nascosti.
Noi s’era consapevoli, la mia mamma no, furono proprio i famosi manifestini che la mamma la mattina nel rifare il letto ce n’era rimasto uno, si accorse e allora disse: “Se i ragazzi devono correre un rischio allora lo corro anch’io insieme a tutti voi”. Allora cominciò anche lei.
Noi s’era cercato di tenere la mamma, sapendo quanto era apprensiva nei nostri riguardi, di tenerla un po’ estranea. Il babbo aveva chiesto a noi di collaborare, di sentire per esempio i famosi messaggi segreti quelli che venivano trasmessi da Radio Londra, quello era uno dei nostri compiti, noi si stava a sentire le notizie di Radio Londra proprio per sentire i famosi messaggi speciali. Il babbo poteva essere fuori mentre noi ragazzi invece si stava chiusi, intabarrati in casa proprio per sentire piano piano Radio Londra.
Io e Marcello si sentiva i messaggi speciali di Radio Londra, tu dirai i messaggi, se ti trovavano venivi fucilato. I messaggi erano tre, il “coccodrillo verde” era il primo, il secondo era “Beatrice ti saluta” e il terzo era “Martino non parte”, in quest’ordine. Il primo indicava che il messaggio era per il nostro gruppo, poi veniva mandato il secondo per tre volte e poi se veniva mandato una quarta volta voleva dire che avveniva il lancio, se invece mandavano “Martino non parte” il lancio era annullato. Noi si preparava il campo, mandavano viveri, si doveva spengere tutto, sotterrare i paracadute e quello era soprattutto compito di mio fratello Piero. I lanci venivano fatti nella zona della Collina. Di solito mandavano roba, poi fu lanciato i paracadutisti, i radiotrasmettitori, i paracadutisti furono paracadutati tutti insieme, dovevano essere cinque, misteriosamente furono sei, però il sesto misteriosamente l’ho rivisto vivo, gli altri cinque furono presi tutti (4 a Firenze, uno con noi) e furono tutti fucilati. […]
Siccome io avevo il terrore dei bombardamenti e le suore [del carcere femminile di Santa Verdiana] lo sapevano, la suora di questo primo reparto dove ero con le detenute comuni che si chiamava suor Rosina mi diceva: “Guarda che io non ti chiudo mai la cella, te la chiudo e poi te la riapro, però non andare a girare per i corridoi perché se le altre ti vedono a passeggiare…”. […] Poi veniva, mi nascondeva un pochino con il suo mantello nero e mi portava lì accanto in quella che chiamavano il cellone, dove c’erano le ebree, erano otto, dieci. Mi diceva: “Ti porto a parlare con delle persone per bene” e mi portava a parlare con le ebree. […] Dopo qualche giorno dal nostro arrivo, furono deportate tutte le ebree […]. Con le ebree misero in fila anche noi, eravamo prigioniere delle SS, fecero l’appello delle ebree, io, la mamma e l’Andreina Morandi con la sua mamma anche loro arrestate, rimanemmo lì, allora ci chiesero se eravamo ebree, gli dissi di no e ci ributtarono dentro.
L’Andreina Morandi la conoscevo già prima del carcere perché andavamo insieme all’Università, entrambe eravamo in prigione con la mamma e poi eravamo unite per Radio CoRa. Dopo eravamo unite perché cercavamo notizie io del mi’ fratello e lei del su’ babbo che era stato deportato e che non è tornato. S’andava insieme a cercare notizie. […]
Quando si fu liberate delle 57 donne prese dalle SS s’era rimaste solo io, la mamma e l’Andreina, ogni sera ne spariva una.
La mamma dell’Andreina invece l’avevano rilasciata di già perché soffriva tanto di dolori alla spina, non poteva stare a letto, non poteva stare a sedere, la lasciarono, tanto il marito glielo avevano deportato, il figliolo l’avevano ammazzato e la figlia era in carcere, che poteva fare? La mamma dell’Andreina era stata liberata qualche giorno prima.
Noi s’era capito che agli ebrei capitava qualcosa di brutto, gli davano ad intendere che riunivano le famiglie, che li portavano nei campi di lavoro, tante erano quasi contente di partire, ci credevano che le riunivano alle famiglie, ma noi s’era cominciato a capire che non era così, però si pensava a campi di prigionia normali, che non riunivano le famiglie, che pativano la fame, ma non si immaginava quello che era davvero, non si pensava ad uno sterminio, anche se c’era una caccia forte agli ebrei. […]
Anche mio fratello Marcello che era stato portato alle Murate quando noi eravamo state portate in Santa Verdiana perché aveva già compiuto da due mesi quattordici anni, fu deportato, noi l’abbiamo saputo da radio carcere che gli uomini erano già stati deportati.




Ofelia Giugni (1906-2001)

Giugni Ofelia (©️Archivio Fondazione CDSE)

 

Nasce a Schignano (frazione di Vaiano, allora nel Comune di Prato) nel 1906, tredicesima di quattordici figli. Da giovanissima si trasferisce a La Briglia per lavorare alla fabbrica tessile Forti e fin da subito mostra una forte avversione al regime e a qualsiasi forma di sopruso, tanto che non ha alcuna difficoltà a schiaffeggiare un fascista noto molestatore di sue colleghe.

Ofelia Giugni

Dopo l’8 settembre 1943, con l’inizio dei bombardamenti alleati, la famiglia Giugni sfolla alla cosiddetta Casa Rossa, punto di riferimento dei partigiani della zona, che si trova in un’area collinare in prossimità del Monte Javello. Lì conosce l’antifascista Armando Bardazzi, futuro comandante militare della Brigata Buricchi, che diventerà compagno per la vita e che sposerà in articulo mortis.

Secondo alcune testimonianze orali, all’indomani dell’armistizio, con la collaborazione della madre e della sorella Ada aiuta cinque renitenti che, fermati a un posto di blocco tedesco, sono già destinati all’internamento in Germania. Nasconde anche molti altri soldati permettendo loro di raggiungere i partigiani sul Monte Javello, che domina il paese di Schignano. Lei stessa partecipa alla Resistenza come staffetta della Brigata Bogardo Buricchi, portando instancabilmente comunicazioni, armi e viveri. Nel 1944, ad esempio, si reca a Vaiano per recuperare medicine e lungo il sentiero s’imbatte in un tedesco addormentato: non esita a sottrargli la pistola per consegnarla ai partigiani.

Prende parte a numerose azioni che le fanno conoscere da vicino tutti i più importanti membri della Resistenza pratese, ai quali rimarrà sempre fortemente legata. Terrà sempre in camera una foto dei 29 partigiani uccisi a Figline di Prato il 6 settembre 1944.

Nel dopoguerra le è riconosciuta la qualifica di partigiana combattente; continua a impegnarsi nella vita pubblica per tenere viva la memoria dell’antifascismo e della Resistenza. Si spegne il 18 maggio 2001 a Prato; le sue ceneri riposano all’ombra dei Faggi di Javello, il luogo della “sua” brigata.

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🟧 Stralcio dall’intervista realizzata da Laura Antonelli ad Anna Martini nel 2005, in: Laura Antonelli, Voci dalla storia. Le donne della Resistenza in Toscana tra storie di vita e percorsi di emancipazione, Prato, Pentalinea, 2006, pp. 644-5. 

Ofelia Giugni al funerale di Gilberto Favini (©️Archivio Fondazione CDSE)

[…] facevo quello che serviva, il volantinaggio, portare qualcosa, avere rapporti con la famosa Ofelia che era il nostro punto di riferimento poiché stava nella zona di Schignano, dei Faggi. L’Ofelia era una donna piena di iniziativa, lei e l’Ada2 ricordo. Anche quando finita la guerra s’andò a vivere in via Magnolfi si stava accanto, siamo rimasti amici anche dopo con l’Ofelia e Armando, anche lui veniva quando facevano i lanci perché c’era da preparare il campo con tutte le luci sennò l’aereo non sapeva dove buttare la roba, loro quindi li ho conosciuti durante il periodo clandestino. Lei era un po’ tipo maschiaccio, sempre con i pantaloni, con tutti i capelli tirati su, non aveva paura. L’Ada era più dolce, anche se anche lei era piuttosto decisa, ma era più dolce non perché l’Ofelia non sia stata poi una donna dolce, generosa e gentile, ma magari anche fisicamente l’Ada era più grassoccia, più pacioccona, invece l’Ofelia era più scattante.
L’Ofelia se ha potuto fare i piaceri s’è prestata in tutti i sensi, sempre, anche dopo, era una donna sulla quale potevi sempre contare se avevi bisogno di qualche cosa.

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🟦Stralcio della testimonianza di Ennio Saccenti in: Luca Squillante (a cura di), Ultime Voci. Memorie dei combattenti della Federazione Provinciale di Prato dell’Associazione Nazionale Combattenti, Prato, 2012

Ofelia Giugni (Credits: L. Squillante (a cura di), “Ultime Voci”, Prato, 2012)

[…] Ofelia comincia subito la sua attività come staffetta fin dal settembre 1943 ed il suo primo atto di resistenza è il favorire la fuga di alcuni militari italiani fermati e costretti dai tedeschi a scendere dal camion su cui viaggiavano poiché si rende conto che li attende una sorte incerta. Il camion era stato fermato proprio davanti a casa sua a La Briglia ed Ofelia fa capire a gesti ai giovai di entrare in casa e poi, con la collaborazione della madre e della sorella Ada, anche in seguito sua compagna nella lotta partigiana, li fa uscire dalla porta posteriore che si apre sul bosco.

[…] Ofelia insieme alla madre ed alla sorella aiuta questi giovani soldati, ma uno dei ragazzi che si è rifugiato da loro rifiuta di scappare nel bosco perché troppo impaurito e le donne sono quindi costrette a nasconderlo sotto il letto anche se si rendono conto del pericolo che corrono ed addirittura si preparano con alcuni bastoni a difendere il giovane in caso di perquisizione dei tedeschi, fortunatamente a fuga non viene scoperta ed il ragazzo per il momento è salvo.

In seguito sarà sempre Ofelia a portarlo al sicuro presso la casa di un contadino a Popigliano ed a mandare un messaggio alla famiglia del ragazzo, messaggio in cui, fingendosi una parente, rassicura sulle sue condizioni di salute e si firma con il nome di Nicoletta, poiché il ragazzo si chiama Nicola. Poco tempo dopo, in conseguenza di questo messaggio la famiglia del soldato manda a La Briglia un cappellano militare per riportare a casa Nicola, dopo un primo momento di diffidenza in cui Ofelia, chiamata dal prete del paese, nega di conoscere il ragazzo il cappellano militare le mostra il messaggio scritto da lei ed allora Ofelia ammette di conoscerlo e li fa incontrare.

Ofelia per far partire con sicurezza i due uomini li accompagna anche a casa di una cugina dove Nicola può travestirsi da prete, il suo timore infatti è che far uscire da casa sua due preti possa dar adito sospetti ai fascisti locali, essendo una cosa assai insolita ed essendo La Briglia una piccola frazione in cui tutti si conoscono, da casa della cugina poi, rassicurando continuamente il giovane, li accompagna a fino alla stazione per assicurarsi che prendano il treno per tornare sani e salvi a casa.

Ofelia è una donna molto decisa ed anche impulsiva, in un’altra occasione trova un soldato tedesco addormentato su un sentiero e, dopo essersi accertata con un calcio che dorme profondamente, anche a causa dell’alcol ingerito gli porta via la pistola per consegnarla ai partigiani.

L’attività partigiana di Ofelia è ininterrotta fino alla liberazione, nel settembre del ’44, instancabile porta armi, viveri e messaggi ai partigiani della Bogardo Buricchi, ai faggi di Javello; una testimone la ricorda così: “… l’Ofelia, pantaloni bermuda, scarponi con certi calzini e i capelli ricciuti al massimo, tirati su con le forcine, non legati, abbastanza grande, non bella, determinata, bandoliera, energica però brava e buona …”. Una donna forte e decisa che non ha paura dei pericoli e che proprio tra i partigiani incontra anche l’amore della sua vita, il comandante Armando Bardazzi a cui rimane accanto per tutto il resto della sua esistenza e che sposa in punto di morte nel 2001.




Anna Fondi (1924-2013)

Anna Fonti (©️Archivio Fondazione CDSE)

Nata il 19 gennaio 1924 a Prato, Anna Fondi abita in via del Cilianuzzo con la madre, il padre, un fervente antifascista, il fratello Giovanni (nato nel 1926), il nonno e la nonna.

A scuola è un’allieva brillante: ama studiare e leggere, vince molti premi, è spesso lodata dagli insegnanti. Tuttavia, per motivi economici, è costretta a interrompere gli studi dopo la quinta elementare. Durante questo periodo partecipa ad un solo saggio ginnico, perché il padre non vuole farle indossare la divisa da Piccola italiana.

A 12 anni e mezzo inizia a fare l’operaia nello stabilimento tessile del Fabbricone. Qui entra in contatto con altri antifascisti che, insieme al padre, contribuiscono a formare le sue idee.

Nel marzo 1944, su ispirazione del PCI, viene organizzato nell’Italia occupata uno sciopero generale che invoca la fine della guerra e un miglioramento delle condizioni economiche e alimentari. Questo atto di resistenza ha come epicentri le città di Milano e Torino, ma significativa è anche la partecipazione in Toscana, specie a Firenze, Prato ed Empoli. Anna partecipa attivamente, anche perché il padre è tra gli organizzatori. In fabbrica prende contatto con altri antifascisti e contribuisce a informare i lavoratori sulle ragioni della protesta. Allo sciopero segue un’ondata repressiva, con l’arresto e la deportazione di oltre 330 uomini rastrellati in Toscana.

Dopo la fine della guerra non presenta domanda di riconoscimento dell’attività partigiana. Si iscrive al PCI e frequenta la scuola di partito a Reggio Emilia per tre mesi; terminata l’esperienza, lascia la fabbrica e diventa responsabile femminile delle donne del PCI. Sposatasi nel 1951 con il sindacalista Bruno Fattori, nel 1958 rimane vedova con una bambina piccola.

Dai primi anni Cinquanta Anna ricopre diversi ruoli: lavora alla Camera del lavoro pratese, è consigliera comunale e assessora ai Servizi sociali; si impegna in particolar modo per l’istituzione di asili nido, per l’inserimento di persone con disabilità, per la creazione di servizi di assistenza domiciliare agli anziani. Dopo la pensione crea, insieme ad Eliana Monarca, l’Università della terza età, poi rinominata Università del tempo libero.

Nel 1998 le vengono consegnate la chiave d’oro e il premio “Città delle donne” dalla città di Prato per il suo impegno politico e sociale.

Anna Fonti (©️Archivio Fondazione CDSE)

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Intervista in: L. Antonelli, “Voci dalla storia. Le donne della Resistenza in Toscana tra storie di vita e percorsi di emancipazione“, Prato, Pentalinea, 2006, pp. 611-5

– Suo padre era originario di Prato?
– Il babbo era originario di Pistoia ed era venuto a Prato finita la Prima guerra mondiale dopo essere stato tanti anni in Svizzera a lavorare in miniera. A Prato era venuto grazie ad un amico conosciuto in guerra che l’aveva ospitato e in via Filicaia conobbe la mia mamma. Io da quando ho incominciato a capire qualcosa ho capito che il babbo era nell’antifascismo. Fecero una retata […] vicino a Montemurlo, quella strada che va a Albiano, ad un certo punto c’era una vecchia trattoria e lì si riuniva un gruppo di antifascisti. Tra loro s’era intrufolata una spia, ma loro avevan l’accortezza di non si chiamare per nome, di non dire dove stavano di casa perché avevano sempre timore. Quindi questa spia parlò e fece arrestare tutt’il gruppo, il Vanni, il Brunini, il Bellandi, tutt’il gruppo del mi’ babbo. La spia continuava a dire che c’era anche un forestiero nel gruppo perché il mì babbo che era stato dieci anni in Svizzera non parlava pratese, però il nome di questo forestiero non lo sapeva quindi il babbo fu l’unico di questo gruppo a salvarsi dall’arresto. Ho sempre avvertito l’antifascismo del babbo da quando ho cominciato a capire qualcosa, per esempio non m’ha mai voluto far vestire da Piccola italiana, diceva che s’aveva tanta miseria e non si poteva e aveva ragione, però…
Io avevo una maestra straordinaria, aveva capito la situazione di casa nostra e quindi non mi obbligava a vestirmi da Piccola italiana, soltanto una volta qualcuno mi prestò il vestitino perché c’era un saggio ginnico all’Ippodromo. Capivo che il babbo trovava dei pretesti, a me sarebbe tanto piaciuto in realtà vestirmi come le altre bambine. Insomma quest’atmosfera si viveva. […]
Il babbo era uno degli organizzatori dello sciopero del ’44, le riunioni le facevano a Narnali sicché una sera il babbo tornò con tutti i volantini da portare la mattina davanti alle fabbriche. Allora io sapendo che dovevo fare sciopero, presi contatto con questi compagni antifascisti di fabbrica, si parlò con tutti i lavoratori perché la gente aveva voglia che finisse la guerra, non aveva da mangiare, erano momenti drammatici. Allora tutti i lavoratori di Prato il sette, l’otto marzo fermarono le macchine, si rimase un paio di giorni a casa, poi il babbo mi disse: “C’è arrivato l’ordine ora si può rientrare, ma non lavorare”. Si rientra in fabbrica e non si fa partire i telai e questo tutti, anche un fascista istupidito dalla paura.
La mattina del 25 luglio sto poer’omo che paura gl’ebbe. “Grullo” – gli si disse – tu sei un operaio, tu sei fascista pe’ i’ che,1 che ci s’arrabbia con te, che ci si piglia con uno sciagurato come te?” Quindi si calmò.
S’aveva i telai fermi, verso una cert’ora arrivano i fascisti co i’ mitra e ci obbligano a far partire le macchine, c’erano anche dei fascisti che conoscevo con i mitra che ci spingevano.
Quando c’era loro in fabbrica si doveva produrre, ma praticamente si stava in fabbrica per produrre per i tedeschi.




Tosca Martini (1914-1988)

Ritratto di Tosca Martini, anni Trenta (©️Archivio famiglia Maullu Martini)

 

Nata a Cantagallo nel 1914 in una numerosa famiglia contadina della zona, a dodici anni Tosca va a lavorare nella fabbrica tessile di La Briglia, di proprietà della famiglia ebrea Forti. Proviene da un ambiente antifascista, come pure l’amato fratello minore Lido, che nel dopoguerra sarà dirigente sindacale della Val di Bisenzio e di Prato. Sotto il regime, Tosca diviene un punto di riferimento per le rivendicazioni operaie e per la propaganda antifascista.

Lido, fratello di Tosca Martini (©️Archivio Fondazione CDSE)

Dopo l’8 settembre 1943 agisce da staffetta nella formazione “Orlando Storai” di stanza sul Monte Javello; aiuta i renitenti a raggiungere i partigiani diventando anche punto di riferimento per le loro famiglie e fidanzate.

Nel suo percorso è cruciale la decisione di far cucire in segno di protesta una bandiera rossa per la festa dei lavoratori del 1944. La mattina del 1° maggio il paese di Usella, nel fondovalle, si sveglia con una bandiera rossa che sventola su un alto cipresso, sopra la strada provinciale (oggi SR 325), e con manifesti che tappezzano i muri delle case (“morte ai fascisti, fuori i tedeschi e viva il 1° maggio”). Di nascosto dalle famiglie, infatti, nei giorni precedenti Tosca e altre donne di Usella (Giulia Lavati, Martina Martini, Nigella Catani, Fernanda Ferrantini, Rosa “la merciaia”) hanno confezionato il drappo con un nastrino tricolore. I militi della Guardia nazionale repubblicana accorrono immediatamente per togliere la bandiera e per arrestare Tosca, ritenuta autrice della protesta. Già il 2 maggio è nel carcere femminile di Santa Verdiana a Firenze, dove conosce la partigiana fiorentina Tosca Bucarelli, che di lei racconterà: “insieme a me era la più torturata di tutte”.

Tosca Martini, al centro, con una sorella e un’amica di Usella, anni Trenta (©️Archivio Fondazione CDSE)

Viene interrogata numerose volte dalla Banda Carità presso Villa Triste e torturata per circa due mesi, ma non rivela mai informazioni sulla Resistenza. Secondo la sua testimonianza è salvata dalla possibile deportazione grazie all’intervento, tra giugno e luglio, di un noto avvocato pratese su insistenza dei compagni partigiani.

Tornata a casa, benché debilitata dalle sevizie e dal carcere, continua a dare il proprio contributo all’organizzazione della Resistenza fino al passaggio del fronte in Val di Bisenzio nel settembre 1944. Il 23 aprile 1951 si aprirà a Lucca il processo alla Banda Carità e Tosca Martini verrà chiamata più volte a testimoniare.

Nel Dopoguerra riprende a lavorare nel tessile, impegnandosi nel sindacato con il fervore che sempre l’ha contraddistinta; è riconosciuta partigiana combattente il 12 marzo 1947.

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🟪Stralci dall’intervista realizzata da Laura Landi il 10 settembre 1988, pubblicata in Alessia Cecconi, Francesco Venuti (a cura di), Sul cipresso più alto. La storia di Tosca Martini e altre vicende di guerra e Resistenza, Montemurlo, Fondazione CDSE, 2013, pp. 66-69.

Io entrai al Forti alla briglia appena finito dodici anni, sono nata di gennaio, a marzo ero già a lavorare nel reparto orditura. Si lavorava tante ore e ho imparato alle macchine di ritorto, sempre in orditura. Poi c’era il magazzino e poi si andava alla grande tessitura, perché il Forti è sempre stata una grande ditta, lì siamo cresciuti. […]

In fabbrica ci andavo in bicicletta, dopo parecchio tempo hanno messo un autobus. Noi donne non si prendeva la stessa paga degli uomini, per carità, e allora ho dovuto fare la sindacalista.

Nel 1943 morì la mia povera sorella Duilia di malattia e lasciò due bambine. Succede il patatrac di Badoglio, a questo punto mi venne chiesto di iscrivermi al sindacato di Badoglio, ma io non volevo assolutamente accettare, perché dovevo badare alle bambine ed ero troppo occupata, gli dissi “sentite, non ho proprio punta voglia di mettermi a fare la sindacalista perché ho altre cose, m’hanno lasciato due bambine”, non volevo accettare. Allora cosa hanno fatto? Hanno fermato tutte le macchine, i magazzinieri, 14 orditoi, tutte le macchine da ritorto, poi tutte quelle che facevano le rocche e i fusi, tutta la tessitura, era una grande ditta e io mi son trovata in mezzo a tutti gli operai in quella maniera, “lo devi far te, lo devi far te”, e alla fine ho accettato.

Ora succede che Badoglio sta poco, liberano il Duce e ritorna il sindacato fascista. Noi tutti in fabbrica si era d’accordo che questa cosa non si poteva assolutamente accettare. E allora vengono in tessitura a sparare con le rivoltelle, allora quel pover’uomo del mio zio di Vaiano, fratello della mia mamma, disse che accettava lui di essere delegato del sindacato fascista, mentre tutti urlavano e scappavano come pazzi. Poi [dopo l’8 settembre] successe la ribalta un’altra volta e allora io sono rimasta lì al sindacato mio, che non era più il sindacato di Badoglio, ma era il nostro. Sono sempre rimasta all’avanguardia della briglia fino a quando il 1° maggio non sono stata arrestata e portata via.

Dall’8 settembre al maggio ’44 si lavorava con le formazioni partigiane. Io avevo tutta l’organizzazione: quando venivano gli aerei americani o inglesi a portare la roba sulle colline, informavo le formazioni sugli arrivi: s’aveva il nostro ordine del giorno. […]

Salivo anche ai Faggi personalmente a portare le notizie e si vede che il Barellini2 l’hanno messo a fare la spia e mi ha visto. io e la povera Teresa moglie del mio povero fratello [Lido] si fece finta di andare a lavorare perché mi seguivano. Si aveva il segretario del partito fascista che stava lì a dormire nell’ultima casa in fondo, era di Prato, era un gobbino e diceva “benedetto il Dio, quella donna ci va la mia padrona di casa a veglia la sera e vado a chiamarla delle volte, ci resto anche io, l’è tutta casa e lavoro, possibile che lei la faccia codeste cose?”.

Insomma, mi presero il 1° maggio del ’44, qui [facendo riferimento a un libro] è un po’ raccontato, un po’ tralasciato, ’un possono mica dire tutto. Si capisce quanto è importante, c’è fatti per fare un libro. Mi arrestarono per cosa si è fatto con il mio cognato che era ferroviere di Vaiano.

Al mio cognato dissi: te la metti, e io preparo la bandiera, e vai per il 1° maggio a metterla proprio in cima al cipresso, quello che va al cimitero gl’era bello alto. Proprio in cima in cima aveva messo questa bandiera rossa, l’aveva legata con una maniera che lui figurati gl’ha avuto il primo premio che ha in casa, andava a allacciare i fili quando va il treno.3 L’aveva messa in un modo che non c’era modo nemmeno levarla, mandarono a levarla e non lo sapevano fare. La vedevano proprio bene dalla ferrovia, la si vedeva proprio bene, tutti la vedevano. La sera prima gli si dette la botta, si mise tre manifesti “morte ai fascisti”, ma grandissimi, tre di qua e tre di là, rivolti alla chiesa, e la mattina tutti li leggevano: “morte ai fascisti, fuori i tedeschi, viva il 1° maggio”, grandi così, io e la povera Fernanda sia andò a metterli. Non mi avevano visto, era notte.

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🟥Amiche per la libertà – Tosca Martini, Tosca Bucarelli e le altre – Corto realizzato dalla Scuola di Cinema “Anna Magnani” di Prato con regia di Massimo Smuraglia, ispirato alla vicenda della partigiana Tosca Martini di Usella, alla cui sceneggiatura ha collaborato la Fondazione CDSE (il film è liberamente ispirato al libro “Sul cipresso più alto”, edizioni CDSE). Con Francesca Cellini e Doriana Clemente. Musica Originale di Samuele Luca.

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🟪ISRT, Fondo Calamandrei, Processo alla Banda Carità, Busta 4.1.3. Stralcio della sentenza della Corte di Assise di Lucca del 28 luglio 19512, 25esimo episodio – Martini Tosca – (imputazione n. 27) – Il documento integrale è pubblicato in pubblicata in Alessia Cecconi, Francesco Venuti (a cura di), Sul cipresso più alto. La storia di Tosca Martini e altre vicende di guerra e Resistenza, Montemurlo, Fondazione CDSE, 2013 

[…] Questi come primo atto la prese per il petto nonostante le proteste della donna che irritarono maggiormente il Bellesi, quindi cominciò a coprirla con pugni e ceffoni al viso così violenti da farle uscire copioso il sangue dalle orecchie e dal naso. Dicendo poi che non voleva farsi male alle mani, si tolse la cinghia dei pantaloni e con questa prese a colpire la ragazza, in maniera che la placca di metallo piuttosto grossa la colpiva sulla carne che in tal modo veniva a lacerarsi avendole sollevato all’uopo anche le vesti e riducendola tutta pesta. Le cinghiate sempre più violente si protrassero per lungo tempo e la Martini per il dolore continuava ad urlare in modo tale che alcuni funzionari della Questura, che si trovavano nella stanza vicina, si affacciarono alla porta per protestare contro quel trattamento inumano. […]