“Lucca e dintorni tra antifascismo, guerra e Resistenza”

Figlio unico di un’agiata famiglia cittadina, Carlo Del Bianco nacque a Lucca il 13 gennaio 1913. Studente del prestigioso Liceo classico “Niccolò Machiavelli”, maturò fin da ragazzo forti convinzioni antifasciste, stringendo parallelamente amicizia, fra gli altri, con Nino Russo Perez, Arturo Paoli e Guglielmo Petroni. Iscrittosi alla Facoltà di Lettere dell’Università di Pisa, per alcuni dissapori con il corpo docenti dell’ateneo dovuti al carattere “non allineato” della sua tesi in filosofia della scienza, dovette conseguire la laurea all’Università di Firenze nel 1938. Conclusi gli studi, iniziò ad insegnare come supplente presso vari istituti superiori lucchesi, approdando infine proprio al “Machiavelli”, dove s’impegnò ad educare i suoi alunni all’amore per la giustizia e la libertà. Autore di un volantino contro il regime nel maggio 1942, all’indomani del 25 luglio 1943 Del Bianco organizzò una grossa manifestazione nelle vie di Lucca per festeggiare la caduta del governo Mussolini. Nelle settimane successive all’8 settembre, poi, riuscì a convincere numerosi giovani lucchesi a sottrarsi alla leva della RSI e a radunarsi in Garfagnana, presso il borgo di Campaiana, alle pendici della Pania di Corfino: fu così che Del Bianco dette vita ad una delle prime formazioni partigiane della Provincia di Lucca. Altamente motivato e dotato di grande carisma, in assenza di chiare direttive, si rese conto che non vi erano ancora le condizioni per poter operare in montagna senza far correre eccessivi rischi ai suoi ragazzi: scelse così di smobilitare il gruppo, mentre le forze di sicurezza della GNR raccoglievano informazioni sul suo conto, arrestando e interrogando amici e parenti. Visto che il cerchio attorno al professore si stringeva, il CLN lucchese decise di allontanarlo dalla città per precauzione: accompagnato da Roberto Bartolozzi, operaio della Teti e partigiano comunista, Del Bianco prese dunque il treno per Firenze. Guadagnata la meta, proseguì da solo, intenzionato a raggiungere a Venezia l’amico Nino Russo Perez. Non riuscendo a trovarlo, scelse di prendere il treno in direzione contraria, per tornare indietro: alla stazione di Padova, tuttavia, salirono sul convoglio due SS. Temendo di essere scoperto, Del Bianco si fece coraggio e, all’altezza di Rovigo, decise di lanciarsi dal treno in corsa, rovinando gravemente ferito a fianco ai binari. Prima che giungessero i soccorsi, Carlo riuscì a distruggere alcuni fogli e documenti compromettenti per sé e per i compagni: portato all’ospedale, fu sottoposto all’amputazione di entrambe le gambe e morì poco dopo. Era l’alba del 31 marzo 1944. Oggi, lungo la scalinata che porta al primo piano del Liceo classico “Machiavelli” di Lucca, che vide Del Bianco studente e professore, è presente una lapide, che ricorda a ragazzi e docenti l’opera e il sacrificio di quel maestro generoso e ribelle, «insofferente di ogni servitù», che dette la vita per il riscatto nazionale.

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La copertina della nuova guida “Lucca e dintorni tra antifascismo, guerra e Resistenza”.

La targa in memoria di Carlo Del Bianco è soltanto uno dei numerosi luoghi della memoria raccolti nella nuova guida “Lucca e dintorni tra antifascismo, guerra e Resistenza”, terzo ed ultimo tassello del grande progetto di valorizzazione del patrimonio storico provinciale 1943-1945 portato avanti dall’ISREC Lucca nel corso degli ultimi due anni e mezzo di lavori. Logico seguito dei volumi dedicati a Versilia e Mediavalle/Garfagnana, il nuovo libro, pubblicato poche settimane fa per Pezzini Editore di Viareggio, è stato scritto da Luciano Luciani, membro del Consiglio direttivo dell’ISREC e responsabile del semestrale dell’Istituto stesso “Documenti e studi”, e da Armando Sestani, Vicepresidente dell’ISREC ed esperto del confine orientale italiano. Realizzata sotto la supervisione di Gianluca Fulvetti dell’Università di Pisa e grazie al determinante contributo della Fondazione Cassa di Risparmio di Lucca, la guida contiene descrizioni dettagliate di fatti, volti e siti storici relativi all’ultimo scorcio di Seconda Guerra Mondiale nella città di Lucca e negli altri comuni della Piana.

Interessante compromesso fra approfondimento storico e fruibilità turistica, il volume propone al visitatore anzitutto un itinerario urbano, un cammino guidato per le vie dell’antica città murata alla scoperta di una Lucca altra rispetto a quella dei “canonici” percorsi di età medievale e moderna: la Lucca del lungo anno di occupazione nazista compreso fra l’8 settembre 1943 e la Liberazione americana. Una pagina intensa e drammatica della millenaria storia lucchese, che vide il capoluogo provinciale soggetto per tredici mesi ai bisogni militari di una potenza, quella tedesca, intenzionata a resistere ad oltranza all’avanzata angloamericana verso nord, e fermamente decisa a sfruttare fino all’ultimo le risorse umane ed economiche messe a disposizione dalla città e dalla tranquilla campagna circostante, gettando parallelamente le basi per una futura ritirata in sicurezza sulle vicine postazioni della Linea Gotica. Un periodo certo buio, costellato di rastrellamenti, delazioni, cacce all’uomo, uccisioni e stragi sparse, finalizzate a cancellare ogni tentativo di opposizione popolare ai disegni degli invasori, ma pure un capitolo di notevole fermento politico, grandi speranze per l’avvenire e nobili gesti di solidarietà, portati a termine da studenti ed insegnanti “non allineati”, professionisti ed operai di fabbrica, così come da una vasta rete di assistenza ecclesiastica alle varie categorie di perseguitati dal Nuovo Ordine nazionalsocialista (oppositori politici, ebrei, renitenti alla leva, prigionieri di guerra alleati).

Durante l’occupazione nazista di Lucca, dai locali della Pia Casa di Beneficienza di via Santa Chiara transitarono più di 70000 rastrellati civili.

Durante l’occupazione nazista della città di Lucca, dai locali della Pia Casa di Beneficienza in via Santa Chiara transitarono più di 70000 rastrellati civili.

Affianco ai centri di potere e repressione della Repubblica Sociale Italiana, come Palazzo Ducale, al tempo sede della Prefettura, il temuto carcere di via San Giorgio, il convento di Sant’Agostino, all’epoca base del Comando provinciale della GNR, o la Pia Casa di Beneficienza in via Santa Chiara, «vero e proprio campo di concentramento in piena città», dai cui locali in tutto l’anno di occupazione transitarono più di 70000 rastrellati civili provenienti da tutta la Provincia e da quelle vicine, destinati al lavoro coatto per l’Organizzazione Todt in Italia o alla deportazione in Germania, nella nuova guida troviamo così anche angoli di città che videro l’aggregazione spontanea di spiriti liberi e ribelli, come il Liceo classico “Machiavelli” di Del Bianco, lo studio del medico repubblicano Frediano Francesconi in piazza dei Cocomeri, o, in piazza San Giovanni, l’abitazione dell’azionista Aldo Muston, professore di latino e storia all’Istituto magistrale “Paladini”: proprio in casa sua, il 4 settembre 1944, il CLN lucchese tenne la decisiva riunione che preparò ed anticipò la Liberazione di Lucca, avvenuta il giorno successivo per mano dei soldati afroamericani della 92° Divisione “Buffalo”.

Lucca, via Santa Croce: la targa in memoria dell’operaio della Teti Roberto Bartolozzi, partigiano comunista caduto il 29 giugno 1944 in un tentativo di sabotaggio ai danni di alcune caserme di Carabinieri Reali.

Oltre alle storie di patrioti caduti in città nel corso di attacchi contro le forze nazifasciste o in operazioni di tutela del patrimonio industriale nel delicatissimo momento della ritirata tedesca, come l’operaio comunista Roberto Bartolozzi (1914-1944), il finanziere Gaetano Lamberti (1907-1944) o il giovanissimo Pietrino Piegaia (1930-1944), nel volume trovano quindi posto biografie di lucchesi che condussero la propria Resistenza attiva lontano dalla città murata, come l’intellettuale Guglielmo Petroni (1911-1993), che, trasferitosi a Roma nei tardi anni Trenta per dirigere alcune riviste antifasciste, dopo l’8 settembre prese le armi e quasi finì giustiziato a Regina Coeli, o come Alfredo Sebastiani (1920-1944), giovane impiegato della Manifattura Tabacchi che, richiamato alle armi nel 1940, dopo l’Armistizio del 1943 partecipò con valore alla lotta per la Liberazione dell’Albania, sacrificando infine la propria vita e ricevendo per questo due alte onorificenze alla memoria dal governo di Tirana.

Lucca, Stazione: la targa in memoria del duro bombardamento americano del 6 gennaio 1944.

Lucca, Stazione: la lapide in memoria del duro bombardamento americano del 6 gennaio 1944.

Non mancano naturalmente i riferimenti alla “guerra guerreggiata”, com’è il caso della stazione ferroviaria di Lucca, duramente colpita il 6 gennaio 1944 da un bombardamento americano diretto contro alcuni fabbricati industriali del quartiere di San Concordio, che tolse invece la vita a 25 civili del posto, o, appena fuori città in direzione sud, il cippo in località Ponte dei Frati sul canale Ozzeri, a memoria della spedizione partigiana di Guglielmo Bini, Giuseppe Lenzi, Alberto Mencacci ed Alfonso Pardini, che, la sera del 3 settembre 1944, facendosi largo fra le pattuglie naziste di retroguardia, riuscì a raggiungere il colonnello dell’artiglieria alleata J.T. Sherman, schierato con i propri pezzi nei pressi di Guamo, e a scongiurare l’imminente distruzione del capoluogo, avvisandolo che ormai, in città, non vi erano più tedeschi da colpire.

Particolare rilevanza, nella guida, assume la trattazione della rete di assistenza religiosa a poveri, sfollati e perseguitati, che in città trovò negli Oblati del Volto Santo il proprio punto di riferimento e un instancabile operatore di pace. Oltre a gestire una “Mensa del povero” nella loro sede di via del Giardino Botanico, in aiuto a una popolazione stremata da anni di lutti e privazioni, nell’estate 1944 gli Oblati s’incaricarono di portare un minimo di sollievo anche alle migliaia di rastrellati civili della Pia Casa, costretti in terribili condizioni igienico-sanitarie, e ai profughi raccolti nel Real Collegio presso San Frediano, impegnandosi parallelamente a proteggere e fornire documenti falsi ad un gran numero di ebrei, in collaborazione con la rete Delasem del pisano Giorgio Nissim e con quella fiorentina del cardinale Elia Dalla Costa e del rabbino David Cassuto.

Il borgo di Nozzano Castello, a sud-ovest di Lucca, occupato dalle SS nel luglio 1944.

Il borgo di Nozzano Castello nell’Oltreserchio, a sud-ovest di Lucca, occupato dalle SS nel luglio 1944.

Arricchito da mappe di facile lettura per una rapida collocazione “sul campo” dei luoghi della memoria trattati, il volume si sposta poi sui dintorni di Lucca, passando per una curiosa e affascinante tratteggiatura di alcuni volti della squadra calcistica Lucchese, che, nella massima serie del campionato 1936/1937, sotto la guida dell’allenatore ungherese di origini ebraiche Ernö Erbstein (1898-1949), si ritrovò casualmente in formazione diversi talentuosi titolari antifascisti, come il mediano sinistro Bruno Neri, poi partigiano, il centromediano comunista Bruno Scher e il portiere “ribelle” Aldo Olivieri. Proseguendo l’esplorazione storica della Piana Lucchese, ci addentriamo dunque nell’Oltreserchio, a ponente del capoluogo, dove, presso le scuole elementari di Nozzano Castello, il 24 luglio 1944 i soldati della 16° Divisione Waffen-SS del generale Max Simon (1899-1961) posero il carcere e il tribunale militare del reparto, tetro luogo di detenzione e tortura per moltissimi civili considerati politicamente ostili e quindi arrestati per vere o presunte attività antitedesche: fra di essi, un gran numero di religiosi poi giustiziati in stragi sparse dalla Provincia di Pisa a quella di Massa-Carrara, come Angelo Unti (1875-1944) e Giorgio Bigongiari (1912-1944), rispettivamente pievano e cappellano della parrocchia di Lunata di Capannori, Libero Raglianti (1914-1944), parroco di Valdicastello di Pietrasanta, e don Giuseppe Del Fiorentino (1881-1944), parroco di Bargecchia di Camaiore.

Veduta aerea della splendida Certosa di Farneta, teatro, nella notte fra il 1 e il 2 settembre 1944, di un feroce rastrellamento di profughi e religiosi che nei giorni successivi sarebbe costato la vita a più di 40 persone.

Veduta aerea della splendida Certosa di Farneta, teatro, nella notte fra il 1 e il 2 settembre 1944, di un feroce rastrellamento nazista di profughi e religiosi che nei giorni successivi sarebbe costato la vita a più di 40 persone.

Altro luogo della memoria di grande importanza per l’Oltreserchio è la trecentesca Certosa dello Spirito Santo di Farneta, nell’estate del 1944 trasformatasi in un generoso centro di accoglienza per un centinaio di sbandati, sfollati, ex-militari, partigiani ed ebrei: proprio qua, nella notte tra il 1 e il 2 settembre 1944, le SS del sergente Eduard Florin scatenarono un vasto rastrellamento, fermando tutti gli occupanti e razziando le scorte alimentari del convento. Nei giorni successivi, in una dolorosa scia di sangue che seguì la lenta ritirata nazista sulle Alpi Apuane, trovarono la morte 12 monaci e 32 civili catturati alla certosa, fra cui il padre superiore Martino Brinz (1879-1944) e monsignor Salvador Montes De Oca (1895-1944), assassinati il 7 settembre 1944 in località Pioppetti di Camaiore, il procuratore padre Gabriele Maria Costa di Ravenna (1898-1944) ed un altro ospite di rilievo della struttura, il medico lucchese Guglielmo Lippi Francesconi (1898-1944), già direttore dell’Ospedale psichiatrico di Maggiano, uccisi tre giorni dopo nei dintorni di Massa.

Facendo anche affidamento su un vasto apparato fotografico, la guida completa poi la trattazione dei principali luoghi della memoria della Piana lucchese soffermandosi sulla zona dei Monti Pisani, dove nell’estate del 1944 fu attiva la piccola formazione partigiana “Nevilio Casarosa”, quindi su Monte San Quirico, Capannori e le alture delle Pizzorne, teatro di numerosi scontri fra le truppe nazifasciste e i combattenti del Gruppo Patrioti STS (Sant’Andrea in Caprile – Tofori – San Gennaro).

La chiesa di San Pietro Apostolo a Fiano di Pescaglia, dove, fino all’arresto del 2 agosto 1944, svolse il proprio servizio don Aldo Mei (in alto a destra).

La chiesa di San Pietro a Fiano di Pescaglia, dove, fino all’arresto del 2 agosto 1944, assolse generosamente alle proprie funzioni il parroco don Aldo Mei (in alto a destra), poi fucilato a Lucca fuori Porta Elisa.

A chiudere la nuova guida, corredata da una ricca bibliografia di riferimento e dalle sintetiche biografie degli autori, una descrizione essenziale delle vicende e dei siti storici più rilevanti della Val Freddana, a nord-ovest del capoluogo: fra tutti, merita un riferimento particolare la chiesa di San Pietro a Fiano di Pescaglia, dove, fin dal 1935, operò con dedizione il parroco Aldo Mei (1912-1944), probabilmente il profilo più alto della Resistenza ecclesiastica in Lucchesia. Nativo di Ruota di Capannori, fermamente antifascista, aderì agli Oblati di Lucca e negli anni della guerra si prodigò per accogliere ed accudire nella sua parrocchia un gran numero di sfollati, disertori, partigiani feriti ed ebrei. Arrestato il 2 agosto 1944 durante un rastrellamento tedesco nella zona di Loppeglia, venne trasferito alla Pia Casa di Lucca ed infine condannato a morte con un processo farsa: a nulla valsero gli sforzi dell’arcivescovo di Lucca monsignor Antonio Torrini (1878-1973) per ottenerne la liberazione. La sera del 4 agosto, condotto fuori Porta Elisa, costretto a scavarsi la fossa, venne infine fucilato da un plotone della Wehrmacht. Prima di morire, ebbe parole di perdono per i suoi assassini:

Muoio travolto dalla tenebrosa bufera dell’odio, io che non ho voluto vivere che per l’amore! Deus Charitas est e Dio non muore. Non muore l’amore! Muoio pregando per coloro stessi che mi uccidono. Ho già sofferto un poco per loro… È l’ora del grande perdono di Dio! Desidero aver misericordia: per questo abbraccio l’intero mondo rovinato dal peccato, in uno spirituale abbraccio di misericordia. Che il Signore accetti il sacrificio di questa piccola insignificante vita di riparazione di tanti peccati.

Articolo pubblicato nel marzo del 2017.




Esuli a Lucca. I profughi istriani, fiumani e dalmati 1947-1956

È una fredda sera quella del 9 febbraio 1947, quando giunge a Lucca il primo contingente di profughi proveniente dalla città di Pola. Si sono imbarcati nel porto della città istriana sulla motonave “Toscana”, insieme alle poche masserizie che sono riusciti a portarsi dietro. Giunti a Venezia, sono stati fatti salire sul treno che li ha portati nella città toscana. Altri profughi, di Pola, dell’Istria, di Fiume e della Dalmazia lasceranno le loro case nei mesi e negli anni successivi, per essere sistemati negli oltre cento campi di accoglienza che verranno allestiti in tutta Italia.

Profughe italiane in partenza da Pola: sullo sfondo, il piroscafo "Toscana".

Profughe italiane in partenza da Pola: sullo sfondo, il piroscafo “Toscana”.

Quando arrivano a Lucca, mancano poche ore alla firma a Parigi del Trattato di Pace che sancisce il passaggio dell’Istria, di Fiume e di Zara alla Jugoslavia, diventata alla fine della guerra uno stato federale socialista guidato dal maresciallo Tito, capo indiscusso della lotta armata contro gli invasori fascisti e nazisti che occuparono lo stato balcanico nella primavera del 1941. Un’occupazione feroce e sanguinaria, che aveva visto le truppe e le camicie nere responsabili di crimini di guerra, in parte riscattati dai numerosi soldati italiani che, dopo l’8 settembre 1943, si erano messi al fianco della Resistenza jugoslava. Finita la guerra, Tito si trova al vertice di uno stato che annette all’interno dei suoi confini i territori che dopo la Prima Guerra Mondiale l’Italia aveva stappato all’ormai agonizzante Impero austro-ungarico: anche Trieste, insieme a Trento simbolo dell’irredentismo e del nazionalismo italiani, viene occupata dai partigiani jugoslavi. Tuttavia, quest’ultima città deve essere abbandonata dagli occupanti e consegnata alle autorità alleate.

Nei giorni e nelle settimane che seguono la fine della guerra, si segnala anche la sparizione di migliaia di italiani, alcuni compromessi con il passato regime fascista, oppressore degli slavi residenti dentro i confini nazionali, altri ancora oppositori delle politiche annessionistiche messe in atto dalle autorità jugoslave. Molte di queste sparizioni si concludono con la morte degli arrestati, o dentro le cavità carsiche chiamate foibe, o nelle marce forzate e nei campi di lavoro e concentramento allestiti in Jugoslavia. A causa dei nuovi confini tracciati dagli Alleati e ratificati a Parigi, la popolazione di lingua, cultura e sentimenti italiani si trova ad essere inglobata nel nuovo stato jugoslavo. La scelta di andarsene ha molte motivazioni: identitarie, politiche, di sicurezza personale e un futuro, rimanendo nelle proprie città, percepito in termini molto incerti. Nei vari campi di raccolta profughi (CRP) allestiti in Italia, i profughi istriani, fiumani e dalmati saranno costretti a vivere, spesso in condizioni pessime, per molti anni (l’ultimo campo profughi chiuderà infatti nel 1963).

Fra 1947 e 1956, l'ex-Real Collegio di Lucca funse da campo raccolta profughi (CRP) per gli esuli giuliano-dalmati.

Fra 1947 e 1956, i locali dell’ex-Real Collegio nel centro storico di Lucca, proprio dietro la basilica di San Frediano, funsero da campo raccolta profughi (CRP) per gli esuli giuliano-dalmati in fuga dalle truppe titine.

A Lucca i profughi sono alloggiati in due luoghi del centro storico: in via del Crocifisso, in uno stabile adiacente la Manifattura Tabacchi di cui molti di loro sono dipendenti, e presso il CRP allestito presso l’ex-Real Collegio dietro la basilica di S. Frediano. In questo ultimo edificio risiede la maggioranza dei circa 1000 profughi che decidono di stabilirsi definitivamente a Lucca. La vita all’interno di queste strutture è molto precaria e la dignità dei profughi è messa a dura prova, tanto che nell’estate del 1953 la stampa locale è costretta a lanciare un grido di allarme. Tuttavia, con l’assegnazione progressiva dei primi alloggi popolari, il CRP di Lucca comincia a svuotarsi, per chiudere definitivamente nel febbraio del 1956.

Questo e molto altro ancora può essere letto nel libro “Esuli a Lucca. I profughi istriani, fiumani e dalmati 1947-1956”, scritto da Armando Sestani (vicepresidente ISREC Lucca) e recentemente pubblicato dall’editore Maria Pacini Fazzi.

In allegato, fra i “Documenti dalle fonti”, sono visionabili alcuni interessanti documenti familiari dell’autore del presente articolo, istriani di Pola rifugiatisi in Toscana a bordo dell’omonimo piroscafo subito dopo la Seconda Guerra Mondiale.

Articolo pubblicato nel febbraio del 2017.




“Mediavalle e Garfagnana tra antifascismo, guerra e Resistenza”

In una notte di giugno del 1944, una squadra di giovani partigiani penetra nel buio di una galleria della linea ferroviaria Lucca-Piazza al Serchio, tra Ponte a Moriano e Borgo a Mozzano: l’obiettivo è il ponte che si trova proprio all’uscita del tunnel, e i guerriglieri, per ostacolare i movimenti delle truppe naziste lungo la valle, si accingono a farlo saltare con gli esplosivi. A guidare i ragazzi, tutti di origini sarde, è il ventottenne Pietro Pistis, nativo di Lanusei (Ogliastra): fino all’8 settembre 1943 sergente del genio guastatori del Regio Esercito, combatte adesso per la formazione “Baroni”, operativa in Lucchesia. Senza fare rumore, la formazione avanza nella galleria a gruppi di tre, in coda due muli e i conducenti per il trasporto degli ordigni. Il gruppo è già piuttosto avanti nel tunnel, quando Pistis fa cenno con le braccia ai compagni di fermarsi e guardare verso l’uscita: all’imbocco opposto della galleria, si riconoscono infatti le ombre di alcune sentinelle tedesche che si muovono da una parte all’altra della volta. Consapevoli del rischio, i partigiani decidono di proseguire comunque, strisciando ai lati dei binari nel massimo silenzio. D’un tratto, tuttavia, i tedeschi si accorgono di qualcosa ed aprono il fuoco: i giovani si mettono subito al riparo, e, non appena la sparatoria dà un attimo di tregua, avanzano verso il caposquadra per fargli intendere che la missione è fallita, che l’unica scelta, oramai, è la ritirata. Nel buio più totale, bersagliati dai proiettili nazisti, due ragazzi raggiungono il comandante, rimasto indietro: dal momento che non reagisce, decidono di toccarlo, per spingerlo a fuggire quanto prima. Ma Pistis non dà segni di vita: colpito al cuore, è morto senza fare rumore. Devastati dalla perdita dell’amico, i compagni arretrano e, coprendosi l’uno con l’altro, riescono tutti a mettersi in salvo fuori dalla galleria. Sul luogo del sacrificio di Pistis, proprio nelle vicinanze del tunnel che lo vide morire, in un vasto piazzale affianco alla via Ludovica appena prima di entrare nel paese di Borgo a Mozzano provenendo da Lucca, nell’ottobre 1992 il comune e le associazioni combattentistiche e patriottiche vollero erigere un piccolo monumento.

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La copertina della nuova guida “Mediavalle e Garfagnana tra antifascismo, guerra e Resistenza”, scritta da Feliciano Bechelli per Pezzini Editore.

Il cippo in memoria di Pistis in località “Madonnina di Mao” è soltanto uno dei molti luoghi della memoria contenuti nella nuova guida “Mediavalle e Garfagnana tra antifascismo, guerra e Resistenza” (Pezzini Editore), secondo tassello del grande progetto tripartito di valorizzazione del patrimonio storico provinciale del tempo di guerra portato avanti dall’Isrec Lucca nel corso degli ultimi due anni di lavori. Scritta dal lucchese Feliciano Bechelli, giornalista pubblicista e membro del Consiglio direttivo dell’Istituto stesso, direttore responsabile, fra l’altro, della rivista semestrale di approfondimento storico dell’Isrec “Documenti e studi”, la pubblicazione fa seguito al primo volume della serie, dedicato alla Versilia, uscito poche settimane fa, parimenti completato con la supervisione scientifica del prof. Gianluca Fulvetti dell’Università di Pisa e reso possibile dal sostegno economico della Fondazione Cassa di Risparmio di Lucca: adottando un efficace taglio divulgativo, adatto ad un pubblico variegato, il libro raccoglie e presenta un gran numero di siti, vicende e personaggi altamente significativi, capaci di restituire il racconto corale dell’esperienza comunitaria delle genti del Serchio nell’ultimo, terribile anno e mezzo di guerra.

Avvalendosi di mappe, documenti d’epoca ed immagini di oggi e di ieri, Bechelli guida il lettore alla scoperta (o alla ri-scoperta) degli avvenimenti che sconvolsero Mediavalle e Garfagnana fra il settembre 1943 e l’aprile 1945, un territorio caratterizzato dall’ingombrante presenza della Linea Gotica e da quasi quotidiani scontri fra formazioni partigiane e reparti nazifascisti.

La tetra struttura dell'ex-albergo "Le Terme" ai Bagni Caldi di bagni di Lucca, convertita nei mesi dell'occupazione a campo di controvento provinciale per ebrei.

L’ex-albergo “Le Terme” a Bagni di Lucca, convertito nei mesi dell’occupazione in campo di concentramento provinciale per ebrei.

Suddivisa in capitoli dedicati ai singoli paesi e ai rispettivi dintorni, di cui l’autore tratteggia anche la storia nelle epoche precedenti ed evidenzia con apposite schede attrazioni turistiche ed eventi “da visitare”, la narrazione affronta così tutti i principali aspetti del conflitto nel suo scorcio più cruento, di volta in volta condensati in “punti caldi” di grande rilevanza per la memoria locale: dal lavoro coatto per la costruzione della Gotica, esemplarmente rappresentato dal campo tedesco di Socciglia, presso Borgo a Mozzano, ai bombardamenti angloamericani, capillari in tutta la valle del Serchio, ma in particolar modo a Castelnuovo di Garfagnana, dalle stragi naziste, come nel caso delle uccisioni compiute dalla Wehrmacht a Montefegatesi e Ponte a Serraglio (presso Bagni di Lucca) fra il 14 ed il 18 luglio 1944, alle persecuzioni antiebraiche, tristemente identificabili nell’ex-albergo “Le Terme” a Bagni di Lucca, trasformato nei mesi dell’occupazione in campo di concentramento provinciale per ebrei, da cui il 30 gennaio 1944 partì un treno destinato ad Auschwitz con 97 persone, di cui soltanto cinque riuscirono a fare ritorno a guerra conclusa.

Non mancano poi dettagliate ricostruzioni delle principali operazioni di guerriglia delle squadre partigiane locali, come la sanguinosa battaglia del monte Rovaio, presso l’Alpe di Sant’Antonio, nel comune di Molazzana, che, il 29 agosto 1944, vide coinvolto il Gruppo Valanga del gallicanese Leandro Puccetti (1922-1944) contro truppe tedesche e reparti della GNR: anche in questo caso, il dato storico è accompagnato dalle immagini e dalle indicazioni pratiche per la visita ai luoghi e ai sentieri che fecero da sfondo ai combattimenti.

La vetta del monte Rovaio, presso Molazzana, teatro della sanguinosa battaglia fra i partigiani del Gruppo Valanga di Leandro Puccetti e nutriti reparti della Wehrmacht e della GNR, il 29 agosto 1944.

La vetta del monte Rovaio, presso Molazzana, teatro della sanguinosa battaglia del 29 agosto 1944 fra i partigiani del Gruppo Valanga di Leandro Puccetti e nutriti reparti della Wehrmacht e della GNR garfagnina.

Affianco alle iniziative di indomiti resistenti rimasti impressi nel racconto corale della guerra in Valdiserchio, come Giovanni Battista Bertagni, comandante del Battaglione “Casino” della Brigata Garfagnana della Divisione Garibaldi Lunense, e Manrico “Pippo” Ducceschi, a capo dell’XI Zona Patrioti, attiva fra la montagna pistoiese e la Mediavalle, rivivono quindi i giorni della “guerra guerreggiata” lungo la Linea Gotica fra le truppe nazifasciste e gli uomini della 92° Divisione “Buffalo” afroamericana, impegnati in un logorante scontro di posizione dall’autunno del 1944 alla primavera dell’anno successivo: a tal proposito, di grande interesse è il capitolo dedicato a Sommocolonia, borghetto d’altura vicino a Barga, che fu teatro della devastante battaglia di Natale del 25, 26 e 27 dicembre 1944 (nome in codice tedesco: “Wintergewitter Aktion”), ultimo, vano tentativo germanico di spezzare il fronte alleato in direzione sud, conclusosi con intensissimi bombardamenti e vaste distruzioni in tutta la valle.

Giovanni Battista Bertagni, già sottotenente di complemento degli alpini, nell'estate del 1944 fu al comando del Battaglione "Casino" della Brigata Garfagnana della Divisione Garibaldi Lunense.

Giovanni Battista Bertagni, già sottotenente di complemento degli alpini, nell’estate del 1944 fu al comando del Battaglione “Casino” della Brigata Garfagnana della Divisione Garibaldi Lunense.

Oltre a trattare gli eventi della “grande storia” sul territorio, la nuova pubblicazione dell’Isrec di Lucca parla anche di Resistenza civile, di solidarietà umana e cristiana, soffermandosi sulle scelte della gente comune e di non pochi sacerdoti, che, di fronte alla spietata caccia all’uomo scatenata dalle forze nazifasciste contro oppositori politici, ebrei e renitenti alla leva, seppero reagire con decisione, offrendo spontaneamente rifugio, cibo e protezione ad un gran numero di perseguitati: è il caso, ad esempio, di Giuseppe Lombardi e don Gino Bachini a Colognora di Pescaglia, che salvarono la famiglia dell’ebreo viareggino Renato Pieri, di don Giovan Maria Torre, che, oltre ad assistere molti ricercati, s’impegnò a trasferire le attrezzature dell’ospedale bombardato ed inagibile di Castelnuovo nella canonica della propria chiesa, ad Antisciana, per non parlare di don Guglielmo Sessi, parroco di Sillico (nel comune di Pieve Fosciana), che, più volte arrestato dai fascisti e quindi tornato in libertà, s’impegnò fino alla fine del conflitto nell’assistenza agli ebrei e ai prigionieri di guerra alleati in fuga verso le proprie linee.

Utile strumento per una vasta diffusione della conoscenza storica del territorio nel periodo 1943-1945, certamente di grande validità anche a scopi didattici, la guida “Mediavalle e Garfagnana tra antifascismo, guerra e Resistenza” sarà a breve seguita dal terzo ed ultimo capitolo del grande progetto “Luoghi della memoria” dell’Isrec, dedicato al capoluogo provinciale ed alla Piana di Lucca.

Articolo pubblicato nel dicembre del 2016.




“La Versilia tra antifascismo, guerra e Resistenza”

Percorrendo l’antica “via di Marina” (oggi Strada Provinciale 9) che dal Pontile di Forte dei Marmi conduce ai bacini marmiferi di Arni di Stazzema, all’ingresso del paese di Seravezza, in corrispondenza del bivio che porta alla piccola frazione di Riomagno sul torrente Serra, incontriamo il ponte del Pratale: proprio in questo luogo, il 29 luglio 1944, militari tedeschi delle SS, datisi alla rappresaglia dopo l’esplosione di un colpo d’arma da fuoco contro il comando nazista di villa Pilli/Henraux – appena superato il ponte sulla sinistra -, impiccarono con il filo spinato Uria Viti (44 anni) e Virgilio Furi (53 anni), sommariamente catturati sul fianco della montagna antistante la residenza e quindi torturati. Gli altri due uomini arrestati nel corso del rastrellamento, Demetrio Bardini (42 anni) e Filiberto Tardelli (38 anni), anch’essi estranei ai fatti, seviziati per ore allo scopo di ottenere informazioni sui partigiani presenti in zona, furono parimenti condotti al ponte del Pratale e costretti a scavarsi la fossa con le proprie mani ai piedi dei loro compagni: fucilati, vennero sepolti sotto uno strato di scaglie di marmo.

Il ponte del Pratale è soltanto uno dei molti siti storici inclusi nella nuova guida “La Versilia tra antifascismo, guerra e Resistenza”, primo volume di un progetto tripartito dell’Isrec di Lucca teso a valorizzare i luoghi della memoria presenti sul territorio provinciale. Testo originale, bilanciato fra approfondimento scientifico e fruibilità turistica, il libro, edito per i tipi di Pezzini Editore di Viareggio (Lu), raccoglie i contributi di Federico Bertozzi, Jonathan Pieri ed Andrea Ventura, giovani storici versiliesi coordinati dal prof. Gianluca Fulvetti dell’Università di Pisa.

La copertina della nuova guida storico-turistica "La Versilia tra antifascismo, guerra e Resistenza", pubblicata da Pezzini Editore di Viareggio (Lu).

La copertina della nuova guida “La Versilia tra antifascismo, guerra e Resistenza”, scritta da Federico Bertozzi, Jonathan Pieri ed Andrea Ventura e pubblicata da Pezzini Editore.

I tre autori, dopo essersi suddivisa la ricca bibliografia di riferimento presente sul tema, hanno effettuato una difficile opera di cernita fra i molti siti esistenti, inserendoli quindi, affianco ad un percorso introduttivo “speciale” dedicato al Parco della Pace di Sant’Anna di Stazzema, in quattro “Percorsi della memoria” principali: percorribili anche in auto, questi tracciati, senza pretese di completezza, hanno tuttavia lo scopo di ricostruire dei contesti spazio-temporali, conducendo il visitatore interessato alla scoperta di fatti puntuali, dinamiche e volti della guerra in Versilia. Aiutato da numerose immagini di oggi e di ieri, assistito da indispensabili mappe per localizzare i vari luoghi e seguire le indicazioni per le mete successive, il lettore interessato, residente o turista che sia, potrà così scegliere fra il Percorso 1 (Forte dei Marmi – Sant’Anna di Stazzema), il Percorso 2 (Strettoia di Pietrasanta – Arni di Stazzema), il Percorso 3 (Massaciuccoli – Valpromaro) ed il Percorso 4 (Città di Viareggio), toccando con mano le case, i ponti, le strade, le storie ed i boschi che composero l’esperienza collettiva della Seconda Guerra Mondiale in Versilia, attraverso le tragedie dell’occupazione nazista, le speranze della Resistenza armata, i drammi dello sfollamento, le angosce dei bombardamenti e dei combattimenti sulla Linea Gotica, le distruzioni del territorio, la gioia della Liberazione angloamericana e lo sforzo corale della ricostruzione postbellica.

Il monumento dei "Pioppetti", posto all'ingresso della Valfreddana nel comune di Camaiore (Lu), incluso nel Percorso Massaciuccoli-Valpromaro, ricorda le decine di vittime civili della strage nazista del 4 settembre 1944.

Il monumento dei “Pioppetti”, posto all’ingresso della Valfreddana nel comune di Camaiore (Lu), incluso nel Percorso Massaciuccoli-Valpromaro, ricorda le decine di vittime civili della strage nazista del 4 settembre 1944.

Realizzata grazie al fondamentale contributo della Fondazione Cassa di Risparmio di Lucca, la guida, frutto di un anno e mezzo di lavori, comprende poi, per ogni percorso principale, una serie di “Altri luoghi”, ovvero siti non inclusi nei tracciati primari ma da essi facilmente raggiungibili: pensati per il visitatore più attento, essi vanno a completare le ricostruzioni storiche delle varie micro-aree componenti il territorio versiliese. L’ultima parte dell’opera comprende infine tre “Sentieri della memoria”, semplici tracciati di montagna, studiati con l’assistenza dell’esperto Filippo Fambrini di Valdicastello di Pietrasanta (Lu), per conoscere avvenimenti e protagonisti della Resistenza e della repressione antipartigiana sulle Alpi Apuane. A chiudere la pubblicazione, che sarà seguita a breve dagli altri due “tasselli” del progetto editoriale, ovvero le guide sulla Mediavalle/Garfagnana e sulla Lucchesia, una sintetica bibliografia/sitografia utile al lettore per eventuali approfondimenti. Dopo la prima presentazione tenutasi presso il C.R.O. Darsene di Viareggio lo scorso 30 settembre, la guida versiliese (prezzo di copertina: 10 Euro) tornerà alla ribalta il prossimo venerdì 14 ottobre 2016, quando, alle ore 17:30, verrà nuovamente presentata nella prestigiosa sede di Sala Cosimo I del Palazzo Mediceo di Seravezza (Lu): dopo i saluti del Sindaco di Seravezza Riccardo Tarabella e del Presidente del Consiglio comunale Riccardo Biagi, interverranno il curatore Gianluca Fulvetti e due degli autori, Federico Bertozzi ed Andrea Ventura.

Articolo pubblicato nell’ottobre del 2016.




Leonetto Amadei, uno spirito gentile

Figura di primissimo piano del panorama giuridico italiano del secondo dopoguerra, l’avvocato versiliese Leonetto Amadei, in ogni frangente della sua vita intensa, seppe conciliare competenza professionale e sensibilità d’animo, ardente passione politica ed integerrima coerenza morale.

Nato a Seravezza (Lucca) il 7 agosto 1911, figlio di uno scultore e di una maestra elementare, il giovane Amadei rivelò fin da ragazzo una mente acuta e brillante negli studi, arricchita da un temperamento comprensivo e generoso. Diplomatosi al Liceo classico “Pellegrino Rossi” di Massa, si iscrisse quindi alla Facoltà di Giurisprudenza dell’Università di Pisa: bruciando le tappe, nel 1931 risultò a soli venti anni il più giovane laureato d’Italia nella sua sessione accademica.

Mentre cominciava la propria carriera di penalista frequentando come tirocinante lo studio dell’avvocato seravezzino Luigi Salvatori (1881-1946), già deputato socialista per la Versilia negli anni 1919-1920 e figura di elevatissimo spessore morale, aveva inizio per Leonetto un altro importantissimo capitolo della vita: quello del servizio militare, che avrebbe contribuito in maniera decisiva alla formazione del suo carattere carismatico e coscienzioso, coraggioso e leale, tenendolo impegnato, alla fine, per quasi quindici anni.

Richiamato una prima volta nel 1931, come allievo ufficiale ed ufficiale di prima nomina dovette in seguito affrontare numerosi periodi lontano da casa, sperimentando in prima persona gli effetti della politica estera aggressiva che il regime fascista veniva sempre più affilando: fra una pausa e l’altra, Leonetto faceva ritorno in Versilia e tirava avanti la formazione giuridica. Proprio nei mesi in cui studiava per diventare procuratore, conobbe Nora Cancogni, cugina del celebre scrittore e giornalista Manlio (1916-2015): i due si sposarono nel 1938.

1931: Leonetto Amadei, fresco di laurea in giurisprudenza all'Università di Pisa, ritratto al tempo del servizio di leva.

1931: Leonetto Amadei,  secondo in piedi da sinistra, fresco di laurea in giurisprudenza all’Università di Pisa, ritratto al tempo del servizio di leva. (Leonetto Amadei. L’esemplare linearità, Mauro Baroni, 2000)

Mentre sviluppava una crescente sensibilità professionale in difesa degli umili e degli oppressi, Amadei dovette partire per la guerra: in un primo tempo, come capitano di artiglieria, fu destinato al comando di alcune batterie costiere del distretto militare della Spezia, dapprima sull’isola Palmaria, quindi a Lerici. Nell’aprile 1943, tuttavia, fu trasferito a Lero, nell’Egeo meridionale.

Al sopraggiungere dell’8 settembre, assieme a tutti gli altri militari italiani presenti sull’isola greca, Leonetto scelse di rispondere armi in pugno alle pressioni dei nazisti che intimavano la resa: nonostante i volantini tedeschi minacciassero di scatenare contro i ribelli una seconda Cefalonia, pur scontando una gravissima inferiorità di mezzi e materiali, Lero resistette per più di due mesi, fino al 18 novembre 1943. Alla fine, tuttavia, giunse la capitolazione, e, assieme ad essa, per Leonetto come per le migliaia di suoi commilitoni, la prigionia: per il coraggio e lo spirito combattivo dimostrato in battaglia, il giovane seravezzino fu comunque decorato di Medaglia d’Argento e di Bronzo al Valor Militare sul campo e ricevette un encomio solenne.

Arrestato dai tedeschi, condotto sulla terra ferma, Amadei fu caricato su un carro-bestiame diretto verso nord, che, dopo un trasferimento lungo e sfibrante attraverso i Balcani, lo portò allo Stammlager 328 di Siedlce, in Polonia. Anche nei mesi della prigionia, Leonetto avrebbe mantenuto un comportamento esemplare, pronto ad animare i compagni e a sostenerli nelle difficoltà, in attesa di tempi migliori. Di fronte alle continue lusinghe dei carcerieri, poi, disposti a liberarlo in cambio della sua adesione alla Repubblica Sociale Italiana, non esitò mai, confermando sempre con fierezza ed orgoglio il valore della propria scelta, compiuta nel nome della dignità umana e dell’onore nazionale. Ecco come avrebbe ricordato quei giorni, mettendo in relazione il sacrificio degli internati militari italiani e i contenuti della futura carta costituzionale democratica, nello scritto Internati e Costituzione del 1996:

È così che la nostra Costituzione è una conquista di grande valore democratico, favorita dal coraggio degli italiani dei campi di concentra-mento.»

Dopo un altro, estenuante spostamento su treno, il 17 marzo 1944 Amadei fu tradotto nel campo di concentramento per ufficiali Oflag XB di Sandbostel, in Bassa Sassonia, dove ebbe modo d’incontrare personaggi eccellenti, oltre a numerosi compaesani. Nonostante il rigore della sorveglianza tedesca e le terribili condizioni ambientali in cui erano costretti a vivere, i prigionieri italiani non si dettero affatto per vinti, promuovendo numerose iniziative culturali clandestine. Adibita una baracca a cappella, infatti, dedicata a Maria Mater Captivorum (“Maria Madre dei Prigionieri”), vi tennero incontri e piccole esposizioni d’arte: addirittura, gli internati furono in grado di costruire una radio portatile e facilmente smontabile in caso di perquisizioni, la cosiddetta “Caterina”, con cui captare Radio Londra e sentirsi un po’ meno fuori dal mondo. Oltre a periodici incontri con ufficiali informati dei fatti per illustrare ai compagni la situazione politico-militare, come riferisce anche il giornalista ed umorista Giovannino Guerreschi (1908-1968), altro “prigioniero d’eccellenza” del lager, nel suo Diario clandestino, i deportati organizzarono la “Regia Università di Sandbostel”, in cui docenti di valore tenevano lezioni delle materie più diverse, per mantenere alto il morale dei compagni, superare lo sconforto e conservare un certo grado di dignità personale ed autostima: dietro la “Baracca Y”, l’onegliese Alessandro Natta (1918-2001) parlava di letteratura, mentre poco lontano il bresciano Guido Carli (1914-1993) disquisiva di economia e commercio. Incessante animatore della resistenza interiore contro i carcerieri, Leonetto intratteneva invece i compatrioti dietro la “Baracca X”, discutendo dei principi fondamentali della giurisprudenza e di diritto penale. Nel gennaio 1945, l’avvocato seravezzino dovette subire l’ennesimo trasferimento, stavolta nel vicino campo per ufficiali Oflag 83 di Wietzendorf, dove, nonostante gli espliciti divieti in tal senso della Convenzione di Ginevra, i prigionieri italiani furono obbligati a lavorare per conto del Reich: Leonetto, in particolare, fu spedito nei campi, sfruttato come manodopera gratuita presso alcune fattorie della zona.

Fu proprio nei mesi della prigionia che Amadei decise che, a Liberazione avvenuta e guerra finita, sarebbe entrato in politica, anche se non aveva ancora ben chiaro in quale partito. E la Liberazione arrivò, il 16 aprile 1945, per mano del XXX Corpo britannico del generale Brian Horrocks: prima di rivedere casa, ad ogni modo, il giurista versiliese dovette attendere fino all’agosto successivo.

Rientrato in Italia, Leonetto cominciò subito a muoversi per contribuire attivamente alla costruzione dell’Italia nuova, che voleva repubblicana, libera e democratica, generosa e pacifista, rinsaldata nei valori umanitari della Resistenza per i quali aveva tanto combattuto e sofferto nei mesi della prigionia. Considerandosi a tutti gli effetti un membro del movimento di Liberazione nazionale, entrò nell’ANPI ed in altre associazioni reducistiche dello stesso genere, sostenendone con passione le attività fino al resto dei suoi giorni. Iscrittosi al Partito Socialista Italiano di Unità Proletaria, forte di un’altissima reputazione popolare e di una notevole capacità oratoria, venne ripetutamente eletto consigliere comunale a Seravezza e Pietrasanta nelle prime amministrazioni postbelliche, divenendo perfino consigliere provinciale a Lucca.

L'avvocato seravezzino Leonetto Amadei (1911-1997), padre costituente, deputato socialista eletto nelle prime sei legislature ed infine giudice e Presidente della Corte Costituzionale. (Archivio fotografico Camera dei Deputati)

L’avvocato seravezzino Leonetto Amadei (1911-1997), padre costituente, deputato socialista eletto nelle prime sei legislature ed infine giudice e Presidente della Corte Costituzionale. (Archivio fotografico Camera dei Deputati)

L’onore più grande, tuttavia, giunse per Amadei con le elezioni del 2 giugno 1946, quando, contestualmente al referendum istituzionale, si tenne il voto per l’Assemblea Costituente: con sua immensa gioia, Leonetto venne infatti eletto deputato socialista per la circoscrizione di Pisa, che, all’epoca, riuniva le province di Pisa, Livorno, Lucca e Massa-Carrara. Giunto a Roma, per via della sua specifica preparazione giuridica fu chiamato a far parte della Commissione per la Costituzione, nota anche come “Commissione dei Settantacinque”, ovvero dell’organo che, all’interno della Costituente, aveva il particolare compito di redigere la nuova carta costituzionale: più nel dettaglio, Amadei partecipò attivamente ai lavori della Prima Sottocommissione, che, presieduta dall’avvocato democristiano Umberto Tupini (1889-1973), ebbe l’incarico di stendere la Parte prima del documento, riguardante i Diritti e Doveri dei cittadini. Per Leonetto, reduce dalla guerra e dalla prigionia, fu l’occasione per contribuire, con il proprio ingegno e le proprie energie, a condensare in articoli ampi ed autorevoli i principi che erano sempre stati alla guida della sua esistenza di avvocato, militare ed uomo civile, principi che da quel momento in avanti avrebbero dovuto ispirare ed innervare la quotidianità della comunità nazionale, valorizzandone le ricchezze fisiche e spirituali, armonizzandone le diversità e temperandone gli inevitabili conflitti: libertà personale, inviolabilità del domicilio e della corrispondenza, libertà di appartenenza religiosa e di manifestazione del pensiero, parità dei diritti nell’accesso alle cariche, libertà d’iniziativa economica, pur nel rispetto del bene comune, e carattere personale della responsabilità. Per Amadei, in altre parole, la Costituzione della Repubblica fu il risultato più alto di un’opera di ricostruzione morale del Paese, un’opera, con le sue parole, tratte ancora da Internati e Costituzione del 1996, di

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Cessato l’impegno alla Costituente, Leonetto, stimato per la cortesia personale e l’altissimo senso di responsabilità della propria funzione pubblica, circondato dall’affetto dei propri elettori, ebbe modo di proseguire la propria carriera politica entrando in Parlamento. Scelto come deputato socialista alle elezioni del 18 aprile 1948, già nel corso della prima legislatura (1948-1953) dette prova di una straordinaria sensibilità nel dar voce ai bisogni locali della propria circoscrizione, senza tuttavia dimenticare le proprie aspirazioni ad un’ampia ed equilibrata legislazione nazionale: spesso relatore di importanti richieste di autorizzazione a procedere e membro di numerose commissioni speciali, si batté per ottenere aiuti d’emergenza per alcuni comuni della Versilia e della Lunigiana devastati dalla guerra, si pronunciò sul disegno di legge sulla protezione della popolazione civile in caso di calamità ed intervenne di frequente sul tema dell’amministrazione della giustizia, presentando anche numerose mozioni su casi di denunciato arbitrio della polizia giudiziaria in indagini su gravi delitti.

Apprezzato anche dalle formazioni politiche avversarie per l’equilibrio e la fermezza morale con cui svolgeva il proprio dovere, Amadei venne riconfermato nel suo seggio alle elezioni del 1953: nel corso della seconda legislatura (1953-1958), intervenne spesso in materia di lavoro e svecchiamento del codice di procedura penale, al tempo ancora contenente larghe sezioni di eredità fascista. Rieletto nel 1958, durante la terza legislatura (1958-1963), oltre a proseguire il proprio impegno in campo giudiziario, operò soprattutto in merito alla riforma della circolazione stradale e alla revisione delle regole dei concorsi per l’accesso alle cariche pubbliche. Parallelamente, proseguiva la sua attività professionale, proteggendo i soggetti più deboli e difendendo la causa della Resistenza in occasione dei numerosi processi che furono intentati contro i partigiani in vari parti d’Italia a partire dai primi anni ’50.

Il deputato socialista Leonetto Amadei fotografato negli anni del sottosegretariato di Stato all'Interno dei primi tre governi Moro (1963-1968) e del sottosegretariato alla Giustizia del primo governo Rumor (1968).

Il deputato socialista Amadei fotografato negli anni del sottosegretariato di Stato all’Interno dei primi tre governi Moro (1963-1968) e del sottosegretariato alla Giustizia del primo governo Rumor (1968). (Leonetto Amadei. L’esemplare linearità, Mauro Baroni, 2000)

Nel corso della quarta legislatura (1963-1968), l’attività parlamentare di Leonetto fu caratterizzata dalla presenza nella Commissione Affari costituzionali, nella Commissione Interni e nella Commissione giustizia, di cui, per breve tempo, fu anche presidente: fatto di particolare rilevanza, Amadei venne nominato sottosegretario di Stato all’Interno nei primi tre governi di Aldo Moro. Caratterizzato da una grande presenza di spirito e da un’oratoria efficace e convincente, l’avvocato versiliese, europeista convinto, fu protagonista di una carriera politica straordinariamente lunga e feconda: eletto ancora una volta nel turbolento 1968, nel corso della quinta legislatura (1968-1972) fu dapprima sottosegretario alla Giustizia del governo Rumor, quindi ancora deputato socialista – prima per il gruppo unificato PSI-PSDI, poi, dopo la nuova scissione del luglio 1969, di nuovo per il PSI – autorevole ed attivissimo, soprattutto in merito all’ordinamento della giustizia.

Riconfermato deputato con moltissimi voti anche alle consultazioni politiche del 1972, a poche settimane dall’inizio delle attività della sesta legislatura (1972-1976), grazie al suo eccellente curriculum di giurista e rappresentante popolare di specchiata onestà, fu candidato dal Parlamento a giudice della Corte Costituzionale: accettata la candidatura, Leonetto venne eletto il 27 giugno 1972 a Camere riunite, con ben 733 voti su 833 votanti. Nei successivi nove anni di durata del mandato (1972-1981), Amadei avrebbe partecipato a tutte le attività del prestigioso organo dello Stato, dapprima come giudice, quindi come vicepresidente, infine, negli ultimi due anni della carica, come presidente (1979-1981) della Corte: per Leonetto, si trattò dell’incarico più autorevole della vita, del coronamento più alto cui potesse aspirare per concludere la propria carriera di uomo politico al servizio del diritto e dell’umanità. Fu estensore di molte sentenze di rilevanza storica, fra cui la n. 204 del 1974, con cui il potere di concedere la liberazione condizionale ai condannati fu sottratto al ministro della giustizia ed affidato alla magistratura, e la n. 290 dello stesso anno, che, annullando l’art. 503 del codice penale Rocco, dichiarava la legittimità anche dello sciopero politico, purché non diretto a sovvertire l’ordinamento costituzionale o ad ostacolare il libero esercizio dei poteri in cui si esprime la sovranità popolare.

1977: Leonetto ritratto assieme al nipotino Pietro sulla spiaggia della Versilia. (Leonetto Amadei. L'esemplare linearità, Mauro Baroni, 2000)

1977: Leonetto ritratto assieme al nipotino Pietro sulla spiaggia della Versilia. (Leonetto Amadei. L’esemplare linearità, Mauro Baroni, 2000)

Raggiunti i limiti di legge, nel 1981 Amadei lasciò la Corte Costituzionale e si ritirò a vita privata nella sua amata Versilia, anche se continuò a partecipare alle attività delle associazioni di cui era membro e a tenere appassionati interventi pubblici, in cui spronava i giovani ad assolvere con onestà le proprie funzioni nella società e a credere fermamente nei valori sanciti e protetti dalla Costituzione democratica. Rattristato osservatore degli scandali di Tangentopoli, non smise di credere nelle grandi potenzialità della politica vera, conservando fino all’ultimo quell’ottimismo autorevole e composto che l’aveva sempre contraddistinto, fin dagli anni della vita militare e della prigionia. Mirabile esempio di trasparenza solidale e coerenza morale, dapprima resistente nei lager nazisti in nome della libertà, della giustizia sociale e della dignità umana che già ne avevano ispirato la vocazione di avvocato, quindi estensore di tali diritti in Assemblea Costituente e infine vigile custode di quelle stesse conquiste in Corte Costituzionale, Leonetto Amadei si spense a Marina di Pietrasanta (Lucca) il 10 novembre 1997.

A due anni dalla sua morte, i familiari vollero omaggiarne la memoria istituendo, di comune accordo con l’amministrazione comunale di Seravezza e l’Università di Pisa, la Fondazione “Leonetto Amadei”, ente culturale «che ha come scopo principale la promozione dello studio, della ricerca e della conoscenza del diritto costituzionale»: oltre a progettare ed organizzare mostre e convegni, la Fondazione assegna borse di studio e contribuisce al finanziamento di corsi di dottorato di ricerca in diritto costituzionale.

Articolo pubblicato nel settembre del 2016.




Versilia anno zero: sminamento e ricostruzione

Gli strateghi militari nazisti iniziarono a progettare la Linea Gotica nell’estate del 1943, con l’obiettivo di predisporre un secondo baluardo fortificato da contrapporre all’avanzata alleata una volta che la Linea Gustav nel Meridione avesse ceduto: una volta completata, essa avrebbe abbracciato la penisola italiana come una cintura, correndo lungo i crinali dell’Appennino tosco-emiliano. Nel suo settore più occidentale, la grande opera militare avrebbe attraversato in pieno la Versilia, risalendo il percorso dell’omonimo fiume fino a raggiungere le colline attorno al borgo di Strettoia (Pietrasanta, Lu), per poi slanciarsi in alto sulle vette dei monti Canala, Folgorito, Altissimo e Corchia, fino a toccare le Panie e discendere quindi verso la Garfagnana, sfruttando al massimo le naturali doti difensive del territorio.

Genieri nazisti seppelliscono una mina anticarro di tipo Tellermine 42 ("mina a piatto")

Genieri nazisti seppelliscono una mina anticarro di tipo Tellermine 42 (“mina a piatto”), caricata con 5.5 kg di TNT

La costruzione dello sbarramento, affidata all’Organizzazione Todt, prese avvio nella primavera del 1944: squadre di operai italiani, sotto guida e sorveglianza di militari tedeschi, iniziarono a predisporre reticolati, trincee, fossati anticarro, bunker, piazzole per mitragliatrici e postazioni per cannoni e mortai, trasformando le Alpi Apuane in un’unica, imprendibile fortezza. Nel corso dell’estate del ’44, poi, i genieri della Wehrmacht, timorosi di uno sbarco nemico, disseminarono la spiaggia versiliese di ordigni esplosivi di ogni genere: la Versilia, detto altrimenti, si stava trasformando in terra bruciata in attesa della battaglia. Allo scopo di rimuovere gli ostacoli alla linea di tiro delle armi sulle alture dominanti la piana, i nazisti demolirono case, chiese, edifici storici e mulini, anche per non offrire sgraditi ripari alle truppe avversarie in avanzata: abbatterono ponti e pontili, tagliarono al calcio vigne ed oliveti secolari, deviarono torrenti e canali, provocando così l’allagamento di grandi aree.

Militari nazisti stendono lo Stacheldraht ("filo spinato")

Militari tedeschi stendono lo Stacheldraht (filo spinato)

Mentre la gente del posto veniva costretta ad evacuare il territorio con dure ordinanze di sfollamento verso la Pianura Padana, le truppe germaniche facevano saltare in aria interi abitati, come Strettoia, con la sua chiesa dei SS. Ippolito e Cassiano, Ripa, con Sant’Antonio Abate, Corvaia, con Santa Maria Assunta, parte di Querceta, con Santa Maria Lauretana, il rione dell’Annunziata a Seravezza e vaste zone di Forte dei Marmi, poste a breve distanza dalla foce del fiume Versilia.

Giunti in zona, dopo ripetuti ed infruttuosi attacchi gli Alleati furono obbligati ad arrestare la propria avanzata ai piedi della Gotica, come previsto dagli strateghi militari tedeschi: liberarono Forte dei Marmi e Pietrasanta il 19 settembre, ma arrivarono a Seravezza, a pochi chilometri in linea d’aria, il 6 ottobre, e presero il controllo del comune di Stazzema solo nel mese di novembre, con la significativa eccezione di Arni, isolata frazione nel cuore delle Apuane, rimasta in mano nazifascista fino all’aprile 1945.

Macerie della chiesa di Santa Maria Lauretana di Querceta (Seravezza, Lu), distrutta dai nazisti nel luglio 1944

Macerie della chiesa di Santa Maria Lauretana di Querceta (Seravezza, Lu), distrutta dai nazisti nel luglio 1944 per “far spazio” alla Linea Gotica versiliese

Al momento di rientrare alle proprie case, gli sfollati, trascorsi i mesi dell’occupazione e del fronte fermo nascosti su per le montagne, spesso in alloggi di fortuna come soffitte, scantinati, metati abbandonati e perfino grotte umide e malsane, sofferte le conseguenze di rastrellamenti, bombardamenti, fame e malattie, si trovarono di fronte a scenari profondamente destabilizzanti: i paesi, lasciati in tutta fretta sotto la minaccia delle armi, se esistevano ancora, apparivano infatti sconvolti, sfregiati, spesso irriconoscibili, ed i centri di vita di un tempo, come le chiese, le piazze, le scuole e i monumenti, non esistevano più. Molti versiliesi, poi, non ritrovarono più le proprie abitazioni, ridotte in macerie dai nazisti o dai bombardamenti dell’artiglieria alleata nei lunghi mesi della battaglia lungo la Linea Gotica: si doveva ricostruire tutto. In tal proposito, ecco come Maria Lucia Barsi, classe 1928, costretta nel settembre 1944 ad abbandonare Strettoia per Roma Imperiale, frazione residenziale e relativamente sicura di Forte dei Marmi, rievoca il suo primo ritorno al paese natale:

Quando siamo rientrati per la prima volta a Strettoia, nell’aprile del ’45, non siamo passati dalla strada principale, perché era tutta macerie. Le case rurali di una volta erano distrutte. C’era da passare sopra, verso monte, ma c’era da stare attenti alle mine: rientrare a Strettoia era molto pericoloso! […] Eravamo ragazzi. C’erano i corpi degli americani: erano tutti soldati neri. Arrivavano fino in piazza. In piazza di Strettoia, c’era un tedesco, biondo: aveva il naso pieno di sangue. Era un soldato, tutto vestito da militare. Quando lo rividi, la sera stessa, era rimasto nudo: l’avevano spogliato. Gli avevano portato via le scarpe, i calzoni, la camicia, il berretto, il fucile. Sai quanti ce n’era, di tedeschi! Qui a Strettoia, hanno continuato per anni, a raccogliere tedeschi.

Prima di ricostruire, tuttavia, si doveva liberare il territorio dalla terribile piaga delle mine. Durante il conflitto, infatti, allo scopo di rallentare il più possibile l’avanzata alleata, le truppe tedesche avevano sepolto ovunque decine di migliaia di mine anticarro ed antiuomo, che a guerra finita si trasformarono in altrettante trappole mortali per decine e decine di civili, soprattutto bambini, desiderosi di tornare alla vita dopo le gravi privazioni del fronte: nascosti sotto la sabbia, la terra dei campi e l’erba dei prati, i micidiali dispositivi esplosivi colpivano all’improvviso, investendo l’ignaro malcapitato di schegge di ferro, legno e cemento, provocando nel “migliore” dei casi vaste lacerazioni e perdite di arti. Ancora oggi, gli anziani testimoni ricordano con angoscia le urla strazianti udite di tanto in tanto, vicino ai paesi: non di rado, si trattava di contadini tornati ad arare, di madri recatesi sulla spiaggia a prendere un secchio d’acqua di mare, di bambini caduti vittime della loro stessa curiosità e voglia di vivere.

Rastrellatori civili italiani bonificano un terreno nei dintorni della città di Pisa

Rastrellatori civili italiani bonificano un terreno nei dintorni della città di Pisa, ricorrendo alle picche per sondare il sottosuolo

Le complesse operazioni di sminamento del territorio versiliese presero avvio immediatamente dopo il passaggio del fronte, che lasciò la zona a seguito della vittoriosa offensiva americana del 5-8 aprile 1945: non essendo numericamente sufficienti i limitati contingenti di sminatori militari alleati disponibili, furono soprattutto i rastrellatori civili italiani a farsi carico della rimozione degli ordigni lasciati dalla Gotica. Organizzata a livello nazionale in cinque grandi zone operative, facenti capo a Genova, Bologna, Firenze, Roma e Capua, la Bonifica Campi Minati (B.C.M.), attiva fra 1944 e 1948, arrivò a contare più di 3000 giovani volontari, desiderosi di liberare la propria terra dall’infida minaccia delle mine. Istruiti da militari del Genio attraverso specifici corsi di formazione offerti dalle scuole di zona e di sottozona – la Versilia rientrava ad esempio nella sottozona di Pisa, una delle prime attive in Italia -, i rastrellatori erano dotati del più moderno materiale alleato al tempo disponibile e venivano ricompensati con uno stipendio di tutto rispetto, per l’epoca. In soli quattro anni, gli sminatori civili riuscirono a bonificare più di 200000 ettari di suolo nazionale, rimuovendo circa 12 milioni di mine e 3 milioni di bombe e proiettili d’artiglieria inesplosi. I rischi, tuttavia, rimasero sempre elevatissimi, immensamente superiori ad ogni possibile ritorno economico: collegamenti imprevisti fra gli ordigni, deterioramento ed instabilità degli inneschi, e, alle volte, scarsa esperienza degli elementi più giovani, potevano portare infatti a tragiche conseguenze. Fra 1944 e 1948, a livello nazionale, si contarono quasi 400 rastrellatori civili morti e centinaia di feriti e mutilati: nella sola Versilia, furono in sei a cadere in questa insidiosa battaglia combattuta contro un nemico invisibile a guerra conclusa. Ecco i loro nomi: Mafaldo Aladino Coluccini (1913-1946), Romeo Gregori (1897-1946), Antonio Landi (1907-1945), Giovanni Paoli (1907-1945), Armando Masckee Reinke (1927-1946), tutti caduti sul Monte di Ripa, e Guido Manetti (1904-1945), deceduto in località Centoquindici, nei pressi della Palude del Lago di Porta, fra il fiume Versilia ed i colli di Strettoia, uno dei punti più pesantemente minati di tutta la Gotica versiliese. Fra i “Materiali correlati”, il lettore interessato potrà trovare una breve biografia dello sminatore Antonio Landi, ricostruita attraverso la testimonianza del figlio Bruno, nativo di Arni, classe 1932.

Sminatore civile italiano della sottozona B.C.M. di Pisa alle prese con un ordigno anticarro tedesco

Sminatore civile italiano della sottozona B.C.M. di Pisa alle prese con un ordigno anticarro tedesco

Non appena un lotto di terra era dichiarato libero dagli ordigni, si rendeva disponibile per la ricostruzione, un processo intenso e vivace, che i versiliesi vissero con entusiasmo e grande fiducia nel futuro: assistita dai fondi e materiali messi a disposizione dapprima dal programma delle Nazioni Unite U.N.R.R.A. Casas, quindi dal Piano Marshall degli USA, la popolazione intera, spesso contribuendo come poteva allo sforzo collettivo, donando generosamente ore di fatica e duro lavoro in base alle proprie qualifiche e possibilità, cominciò a riedificare partendo proprio da quegli edifici che maggiormente avevano costituito il fulcro della vita sociale anteguerra, innervandone l’identità collettiva: le chiese, metodicamente distrutte dall’esplosivo nazista per “far spazio” alla Linea Gotica. Subito dopo, ma sempre nel giro di pochi anni, ripresero forma le scuole, le fabbriche, gli edifici amministrativi e le abitazioni private, mentre i tecnici dei comuni ripristinavano i servizi idrici e le piazze rinate si punteggiavano di statue e lapidi a memoria dei drammatici avvenimenti del conflitto. Il maestro elementare in pensione Domenico Sacchelli, originario di Strettoia, classe 1936, ricorda con le seguenti parole i dinamici anni della ricostruzione in Versilia:

C’hanno aiutato tanto, con le perizie di guerra, con i risarcimenti per i danni di guerra. Si faceva fare la perizia da un tecnico, si inoltrava la domanda all’ufficio provinciale, poi veniva l’ispettore, e, dopo poco, arrivava il materiale: mattonelle, cemento, ferro, ghiaia – ci fornivano tutto! Mandavano addirittura anche il legno, per fare gli infissi. Naturalmente, prima bisognava dimostrare che la casa era stata distrutta. Era chiamato Unrra, l’Unrra Casas. A Strettoia, fecero anche due o tre baracche, dove abitavano le persone che non avevano proprio più nulla.

Così, nel 1946 rinacque la borgata di Corvaia, mentre fra 1949 e 1951 venne riedificata la chiesa di Santa Maria Lauretana di Querceta: fra 1950 e 1952, al centro di un paese completamente nuovo ricostruito sulle macerie del vecchio abitato, tornò a guidare la comunità di Ripa la nuova chiesa di Sant’Antonio Abate. La Versilia, riplasmata dalla guerra, poteva finalmente rinascere a nuova vita.

Articolo pubblicato nel maggio del 2016.




La federazione lucchese del PCI e la Cantoni

Le proteste che avevano avuto luogo alla Cucirini Cantoni Coats verso la metà degli anni Cinquanta si erano fondamentalmente risolte in un nulla di fatto. La repressione, decisamente dura, aveva invece recato conseguenze spesso pesanti, riscontrabili tanto nei licenziamenti degli attivisti sindacali quanto nel trasferimento degli stessi nei reparti più duri, come la battitura e la filatura. A. G., ex impiegato della Cantoni, ha raccontato esemplificamene che, durante gli anni Cinquanta, la madre – operaia dello stabilimento – «aveva un collega malato gravemente ai polmoni, che la Direzione costringeva però a lavorare fuori, spesso al freddo, cercando di isolarlo perché tesserato alla Camera del Lavoro».

Strettamente connessa alle distorsioni introdotte dal sistema delle “gabbie salariali”, era comunque la questione salariale – tra le più esigue nella già bassa graduatoria delle retribuzioni industriali – ad occupare una posizione predominante nelle rivendicazioni sindacali. Condizione che “l’Unità” non aveva tardato a denunciare, puntando il dito contro un misero compenso quindicinale – oscillante tra le 11 e le 13mila lire – che impallidiva dinnanzi a profitti aziendali capaci di raggiungere – nel 1958, sempre secondo le stime riportate dal quotidiano comunista – quota 2 miliari e 220 milioni. I dipendenti oltretutto erano scesi approssimativamente da 4.600 a 3.000, nel mentre che di straordinaria attualità restava la battaglia condotta in prima linea dalla Filta-Cgil per garantire la parità retributiva di genere. A gravare sui lavoratori – nella lettura di Antonio Perria – persistevano soprattutto condizioni deficitarie, segnalate al giornalista da alcune maestranze in un’intervista (comunque politicizzata) effettuata pochi giorni dopo lo sciopero generale del 12 marzo 1959: «Vuol sapere come ci trattano? […] è una vergogna. Cinque anni fa dovevo badare a 25 rocchetti e oggi me ne sono stati assegnati cinquanta. Quando lascio lo stabilimento non ho più voglia di muovermi, di pensare, di leggere, di andare al cinema. A volte mi sveglio durante la notte e ripeto istintivamente lo stesso gesto che compio dinnanzi alla macchina, per otto ore e tre quarti, tutti i giorni»; «almeno ci pagassero con salari decenti», riferiva una lavoratrice più anziana: «una donna che lavora a giornata prende ogni quindicina dalle undici alle tredici mila lire. Chi si sottopone al cottimo riesce a guadagnare qualcosa di più, mai però più di mille lire al giorno».

Nell’interpretazione sindacale, la Direzione aveva risposto a questa impennata di malcontento con disinteresse, operando ulteriori tentativi di divisione che si andavano a riflettere sia nell’introduzione di premi di “buon servizio” (legati a criteri disciplinari), sia nel tentativo del proprietario Henderson di distogliere l’attenzione dai problemi di fabbrica, legando il proprio nome ad associazioni sportive e sociali sul modello dello Sporting Club scozzese. In questa dimensione, ancora sulle pagine de “l’Unità” trovava progressivamente spazio lo sguardo acuto e competente del sociologo Aris Accornero: egli vi definiva Henderson «un riformista in casa ed un reazionario in colonia», segnalando la presenza di un paternalismo ancora diffuso nel sistema di fabbrica italiano, capace di resistere sottoforma di “riverenza al padrone”; a conferma di ciò, si legga quanto testimoniatomi da due ex-delegati Cgil alla Cantoni. Il primo, parlando del padre, ha raccontato:

“Mio padre tornava a casa e piangeva per quel che gli facevano in fabbrica. Poi lui era un intagliatore molto bravo, un giorno fece un cofano, tutto scolpito, con tutti i simboli di Lucca e glielo regalò (a Henderson). Ma lui, veramente io l’ho visto più di una volta piangere perché lavorava in battitura, aveva il mal di stomaco. Era una situazione strana: da una parte queste condizioni frustravano i lavoratori, ma dall’altra con il paternalismo tenevano tutto sotto controllo”.

Così invece il secondo, sulla stessa linea:

“Quando arrivava Henderson, con gli altri capi, gli operai si mettevano in riga lungo il viale, lui passava con la macchina o a piedi e noi si applaudiva. C’era un paternalismo profondo. Avevano inserito un ragionamento che era questo, di sudditanza. Le donne, ad esempio, si sentivano così responsabili della loro macchina considerandola quasi qualcosa che loro portavano anche a casa. Non c’era l’idea di quello accanto: la fabbrica era divisa in reparti, ogni reparto in sezione, ogni sezione in piccoli gruppi e c’era un caporeparto che agiva sulla testa delle persone, dando l’idea che quella era la famiglia, era il mondo”.

Nel volere rendere un’immagine ancora più chiara, ecco come nel 1955 Oreste Marcelli introduceva un suo pezzo su “l’Unità”:

“La visita del signor Henderson al suo stabilimento […] veniva sempre annunciata molto tempo prima, e tutti si mobilitavano per riceverlo: i dirigenti della fabbrica, le autorità, i parroci. Il suo ingresso nello stabilimento era trionfale: fiori e tappeti in tutti i reparti, discorsi e regali, come per il matrimonio di un principe ereditario. Molte lavoratrici gli si gettavano ai piedi e gli baciavano le mani.[…]. Così gli era stato sempre insegnato, e loro gli manifestavano riconoscenza. Sullo avvenimento si stampava persino una rivista che raccontava la cronaca minuta di ogni passo fatto dal padrone e riportava ogni frase ch’egli si degnava di pronunciare”.

cucirini cantoni 1930-1940Alla metà degli anni Cinquanta, emergeva così un quadro ancora fortemente limitato in prospettiva rivendicativa: «nessuno – ricorda ancora A. G. – voleva perdere il posto di lavoro; la vita di fabbrica non era facile, ma il pane bisognava pur portarlo a casa». Era dunque in questa cornice che la Cgil si trovava a cercare la sua dimensione di rilancio, tra persistenti dissidi organizzativi e programmi operativi ambiziosi ma difficilmente attuabili. Non a caso Sergio Gigli (secondo quanto appuntato da Merano Bernacchi nella sua agenda), futuro leader della Camera del Lavoro lucchese, in occasione del V Congresso provinciale del Pci, aveva posto al centro della questione il fatto che «la burocrazia della Federazione» non avesse consentito «di fare nulla verso le fabbriche. La perdita di voti alla Cantoni – continuava – è il segno della mancanza di dirigenti sul posto e del sindacato» (Documento 1). Alla base di una simile riflessione si collocava principalmente un’eccessiva politicizzazione dei conflitti sindacali che troppo spesso era andata incentrandosi sul verticismo contrattuale piuttosto che sulle condizioni di fabbrica; pesava oltretutto la mancanza di unità settoriale, condizione messa in risalto già nel corso di una riunione del Comitato Federale della Federazione comunista della Versilia (Documento 2):

In alcuni settori, come a Viareggio, dove è presente un forte e combattivo nucleo di classe operaia, pesa ancora in modo assai negativo nello sviluppo delle lotte una visione ristretta, di tipo economicistico e sindacalista. Le lotte operaie sono concepite, nei fatti, come staccate dalle lotte generali e completamente isolate nell’ambito aziendale. Questi limiti settari e il permanere di una insufficiente chiarezza sui problemi dell’autonomia sindacale sono i motivi principali che hanno impedito di dare ai grandi scioperi unitari per il rinnovo dei contratti […] un più ampio respiro ed un carattere nuovo, popolare, di massa.

Certe problematiche assumevano forme ancor più complesse all’interno di uno stabilimento in costante mutamento come la Cantoni, intento ad assorbire nuova manodopera che, giovane e proveniente nella maggior parte dal contado lucchese, non aveva vissuto il clima più teso della guerra fredda e la scissione del 1948, restando sostanzialmente distante da qualsiasi parvenza di sindacalizzazione. Condizioni che tuttavia avrebbero contribuito al riemergere di una nuova conflittualità nelle sale della Cantoni, destinata a sfociare nella grande vertenza del 1963.

Articolo pubblicato nel novembre del 2015.




Il sindacato apuo-versiliese tra riformismo e azione diretta (1900 – 1915)

Il movimento operaio italiano, finita l’illusione di una impossibile alleanza tra capitale e lavoro a cui Giuseppe Mazzini ed i suoi adepti si erano dedicati con cura, lasciatosi alle spalle definitivamente il periodo insurrezionalista della cosiddetta “propaganda attraverso i fatti”, dopo vari travagli interni, polemiche, scissioni, unità più fittizie che reali, riesce ad intravvedere nell’organizzazione politica lo strumento di lotta più efficace per il raggiungimento dei propri obiettivi. Nel 1891 a Capolago, una cittadina del Canton Ticino,  gli anarchici danno vita alla Federazione Italiana del Partito Socialista Anarchico Rivoluzionario, con lo scopo specifico di poter meglio inserirsi fra i lavoratori e diffondervi la propaganda rivoluzionaria. Un anno dopo, a Genova, viene costituito il Partito dei Lavoratori Italiani (nel 1895 trasformerà la sua denominazione in Partito Socialista Italiano), avvenimento, quest’ultimo, che segue in campo politico la definitiva separazione tra le due anime che avevano travagliato, per lungo tempo, il movimento operaio: la riformista e la rivoluzionaria. Al tentativo di alcuni delegati al suddetto congresso di Genova di giungere ad un a riappacificazione, Camillo Prampolini fa efficacemente osservare, rivolto agli anarchici,  che “noi siamo essenzialmente due partiti diversi, percorriamo due vie assolutamente opposte, fra noi non ci può essere comunanza”.

Anche in campo sindacale le due tendenza mostrano la impossibilità di una qualsiasi coesistenza all’interno di uno stesso organismo. Nel 1906 sorge la Confederazione Generale del Lavoro (CGL) e al suo interno appaiono immediatamente due componenti: la maggioritaria, che accetta i principi del gradualismo e si spartisce i ruoli col Partito Socialista (la lotta politica spetta a quest’ultimo e le rivendicazioni economiche al sindacato) e la minoritaria che insiste invece sull’efficacia dell’azione diretta antistatale e antilegalitaria di un sindacato che deve bastare a se stesso, non avendo bisogno di appoggiarsi ad alcun partito per attuare il suo progetto di trasformazione radicale della società.

 L’inconciliabilità delle due posizioni è così evidente che la fittizia unità non può durare a lungo. Infatti, dopo un breve periodo, caratterizzato da aspri confronti, convegni contrapposti, tentativi unitari e inevitabili successive scissioni, l’anno 1912, con la nascita dell’Unione Sindacale Italiana (USI), contraddistinta dai principi del sindacalismo rivoluzionario e dell’anarco-sindacalismo, occasionalmente uniti per contrapporsi al riformismo della CGL, l’anno 1912, dicevo,  segna l’inevitabile chiarimento tra le due correnti.

Il movimento operaio di Carrara e della Versilia è ben inserito all’interno di questo clima e partecipa attivamente sia alle lotte che alle polemiche, fornendo un suo contributo significativo ed una testimonianza che è utile ricordare anche alla luce di avvenimenti che hanno caratterizzato la vita sindacale di questo ultimo periodo e che dimostrano come l’azione diretta nelle lotte sociali  sia comunque apportatrice di migliori risultati, se non immediati, almeno in prospettiva, rispetto alla via burocratica e compromissoria.

meschi Nel 1901 sorge a Carrara la Camera del Lavoro il cui statuto riproduce i principi riformistici usciti dal primo congresso delle Camere del Lavoro, tenutosi a Parma nel 1893. Per i riformisti, compito fondamentale del sindacato è quello del miglioramento delle condizioni economiche e sociali degli operai, con particolare attenzione ai giovani ed alle donne, attraverso la stipulazione dei contratti di lavoro. Viene sancita inoltre l’estraneità delle associazioni operaie da ogni questione politica. In particolare, per i sindacalisti socialisti di Carrara, la Federazione di mestiere, aderente alla Federazione Nazionale Edile, è l’organismo più avanzato e maggiormente capace di attuare il programma sindacale, rispeto alla Camera del Lavoro, alla quale viene attribuito un ruolo subalterno. Per repubblicani e anarchici, anch’essi aderenti al nuovo organismo, la Camera del Lavoro è vista, non tanto come organizzazione economica di classe, quanto come strumento di lotta politica. E’ inevitabile,  pertanto,  di fronte a due posizioni così distanti tra loro,  che, prima o poi,  si giunga ad uno scontro. L’occasione viene offerta dalle elezioni per il rinnovo delle cariche all’interno della Camera del Lavoro nel gennaio 1902. Il responso vede vincitrice la corrente anarco-repubblicana che ne assume così il controllo.

La vicenda di Carrara non lascia immune la vicina Versilia, ove lo scontro si presenta di lì a poco. Infatti il 19 gennaio 1902, organizzato dalla Lega Marmisti di Pietrasanta, si tiene il primo congresso delle leghe operaie della Versilia e Lunigiana, allo scopo di costituire una federazione regionale tra le leghe marmisti, comunque aderenti alla federazione nazionale. Al convegno partecipano in forze gli anarchici di Carrara cercando di costituire una Federazione Regionale autonoma autonoma dalla riformista “Edilizia”. Durante il tumultuoso dibattito, il segretario dell’Edilizia, Quaglino,  esce dalla sala del congresso, seguito dai rappresentanti di molte Leghe ci Carrara e della Versilia, annullando perciò l’intento degli anarchici che in questo primo scontro coi socialisti devono rinunciare ai loro intenti. Ma questo è solo il primo tentativo di “irruzione” in Versilia da parte della Camera del Lavoro di Carrara; altri due ne seguiranno con alterne sorti nel 1908 e nel 1912.

 Nel 1908 la simpatia che la Camera del Lavoro di Carrara riscuote fra i cavatori dell’alta Versilia è determinato dall’atteggiamento assunto dal Comitato Provinciale Edile (CPE), nuova denominazione assunta dal sindacato controllato dai socialisti, sulla vertenza per il rinnovo del contratto di lavoro dei cavatori. Alla richiesta dei lavoratori di aumenti salariali e riduzione di orario di lavoro, la controparte padronale oppone un rifiuto, giustificato, secondo lei, dalla crisi del commercio del marmo. Il CPE di Seravezza, che evidentemente ritiene valide le obiezioni degli industriali,  in riunioni in cui è presente anche la Camera del Lavoro di Carrara, tenta di convincere le leghe a recedere dalle loro richieste. Gli industriali, forti della posizione conciliante del CPE, sono intransigenti nel ribadire le loro posizioni cosicché i lavoratori sono costretti a dichiarare lo sciopero. Il sindacato riformista giudica l’agitazione un movimento inconsulto e rifiuta ogni solidarietà ai cavatori che praticamente sono costretti a subire le controproposte padronali. Il CPE giustifica il suo atteggiamento con obiezioni formalistiche, rifacendosi ai deliberati del congresso operaio della Versilia e Lunigiana del 21 gennaio 1908, ove, fra l’altro, veniva deciso di far obbligo ad ogni sezione di sottoporre ogni questione agli organi dirigenti del sindacato prima di iniziare ogni agitazione e proclamare ogni sciopero. Nella stessa assemblea veniva inoltre stabilito che nel  caso in cui una sezione mancasse a questo dovere, sarebbe stato possibile negare a questa la solidarietà e l’aiuto dell’organizzazione dirigente, quando le agitazioni non fossero ritenute giustificate. L’episodio lascia qualche traccia all’interno delle leghe versiliesi ed anche preoccupazione nel CPE. I lavoratori più ricettivi alla propaganda anarco-sindacalista cominciano a nutrire seri dubbi sull’efficacia del comportamento del sindacato riformista ed alcune leghe danno la loro adesione alla Camera del Lavoro di Carrara. Il fatto è significativo perché mostra quali atteggiamenti possano derivare da una concezione burocratica della gestione sindacale, che non è disponibile ad avallare richieste, seppur giuste in linea di principio, che non partano però dall’interno e con l’avallo dell’organizzazione centrale: una concezione cioè di un sindacalismo, seppur teoricamente democratico, pericolosamente inquinato però di formalismo. E’ comprensibile pertanto la disaffezione ed  il conseguente abbandono del CPE da parte di molti lavoratori versiliesi. Con la sola eccezione dell’agitazione dei cavatori dell’alta Versilia nell’estate 1910, che, con l’appoggio del CPE, ottengono miglioramenti salariali e riduzioni d’orario, la Federazione Edilizia sembra perdere quella dinamicità che aveva posseduto in passato. I lavoratori si rivolgono altrove per trovare l’appoggio, l’incoraggiamento ed il sostegno, anche materiale,  alle loro rivendicazioni. Mi riferisco al Sindacato dell’Azione Diretta ed alla sua emanazione  territoriale, la CdL di Carrara, che è guidata dal 1911 da Alberto Meschi e che riuscirà ad espandere la sua influenza oltre che sulla Garfagnana e Viareggio, anche sulla Versilia “storica”. Il motivo di tutto ciò può essere in parte spiegato dalla concezione settoriale che privilegiava i sindacati di mestiere a scapito dell’attività di una Camera del Lavoro che volevano limitata territorialmente mentre  molti lavoratori vedevano con  simpatia la scelta del  sindacato libertario di favorire la costituzione di una unica Camera del Lavoro estesa su tutta la regione del marmo. Un altro possibile motivo della crisi del sindacato riformista può essere attribuito alla  sua diffidenza ed alla successiva dissociazione da quelle azioni di lotta che nascevano spontaneamente dagli operai suscitando negli stessi la convinzione di essere lasciati soli nella lotta contro il padronato.

 L’episodio che determina il progressivo allontanamento delle leghe dall’influenza del CPE e l’adesione al sindacato dell’azione diretta è la totale mancanza di appoggio e di solidarietà alle richieste dei cavatori del Monte Altissimo nel 1912. L’obiettivo reale dei lavoratori in questa vertenza è la riunificazione delle paghe e della normativa di tutti i cavatori della regione del marmo e lo sciopero v iene proclamato nella primavera del 1912. La solidarietà della CdL di Carrara non si fa attendere, anche perché le richieste dei lavoratori dell’Altissimo sono in linea con la sua battaglia qualificante: eliminazione delle disparità di trattamento fra i lavoratori. I motivi del mancato appoggio del Sindacato Provinciale Edile (SPE) possono così venir riassunti: un accordo della controparte non può essere disdetto prima della scadenza (ma i lavoratori fanno osservare che la controparte aveva promesso lo stesso trattamento dei lavoratori di Carrara e con quella lotta volevano appunto la equiparazione delle paghe); questa agitazione era vista come azione di disturbo di altri obiettivi cari al sindacato riformista: la costituzione di una Cassa di Mutuo Soccorso per i malati e quella per le famiglie delle vittime delle cave.

 Lo sciopero viene autonomamente proclamato il 4 maggio e dura compatto sei mesi, favorito anche dalla solidarietà della CdL di Carrara che agli scioperanti ha trovato lavoro altrove. La vertenza viene definitivamente sistemata con un accordo  favorevole agli operai l’8 novembre. Nello stesso periodo il panorama sindacale è arricchito da due altre importanti iniziative: la battaglia per le pensioni operaie e quella per le otto ore. Sul primo argomento Alberto Meschi interviene con un articolo pubblicato dal periodico di Carrara “La Battaglia” e lo incanala in un preciso ambito sindacale considerandolo una conquista operaia, fiducioso dell’appoggio  della classe operaia unita. Gli operai di Carrara ottengono questo diritto dopo oltre dieci giorni di sciopero. Pure la vertenza per la conquista generalizzata delle otto ore di lavoro tiene impegnati gli operai dell’intera regione del marmo in una serrata lotta nei primi mesi del 1913. Fino ad allora i marmisti di Carrara, non addetti alle cave, erano impegnati in media otto ore e trentasette minuti, mentre i segatori lavoravano dodici ore consecutive, in Versilia,  invece, con una paga inferiore, gli operai avevano un orario di lavoro ancora più lungo. Quindi la lotta per una riduzione d’orario è sentita dai lavoratori  versiliesi che rispondono senza esitazione agli appelli ed alle sollecitazioni che vengono dalla CdL di Carrara, assente anche in questo caso il SPE di Seravezza. Dopo un mese di inutili riunione con la controparte padronale il 15 marzo 1913 viene proclamato lo sciopero accompagnato da agitazioni e comizi. La vertenza si conclude con la vittoria dei lavoratori che ottengono l’applicazione del nuovo orario di otto ore con l’intervallo di un’ora.

Questa è l’ultima importante vertenza prima della Grande Guerra che porta di conseguenza il ristagno del commercio del marmo. I primi a pagarne le conseguenze sono i lavoratori che si vedono inesorabilmente negare quel lavoro così necessario per il loro sostentamento, mentre i generi di prima necessità subiscono un sensibile aumento di prezzo. Così un intenso periodo di lotte e di conquiste sindacali termina con l’avvio di tanti giovani lavoratori a difendere i confini di una patria che, a fronte di grandi sacrifici richiesti, ha sempre concesso poco a coloro che hanno avuto la sventura di appartenere alle classi subalterne.

Articolo pubblicato nel settembre del 2015.