Febbraio 1920: Livorno in sciopero per la libertà di Malatesta

«Tombolo! Lo ricordiamo più? Nitti tentò il colpo. Ma dovette rendere gorge. Fu nel febbraio del 1920. Erano appena due mesi che era in Italia. Quella piccola borgata presso Livorno, dove un commissario con qualche poliziotto lo dichiarò in arresto divenne presto celebre. Tombolo! Le maggiori città della Toscana scioperarono in segno di protesta» (Armando Borghi)

L’importante sciopero a Livorno del 2 e 3 febbraio 1920 – cento anni fa – attuato per reclamare la liberazione dell’anarchico Errico Malatesta, difficilmente si trova ricordato nei libri di storia locale; ma soprattutto è scomparso dalla memoria cittadina, nonostante la rilevanza della figura di Malatesta nella storia del movimento operaio. Le prime, e probabilmente uniche, ricostruzioni di tale sciopero risalgono al 1990, con il saggio di Paolo Finzi (La nota persona), dedicato alla biografia di Malatesta in Italia tra il dicembre 1919 e il luglio 1920, e il fondamentale lavoro di Tobias Abse,“Sovversivi” e fascisti a Livorno, 1918-1922.

Per cui, oltre a questi due libri e alle informazioni contenute nel fascicolo del Casellario politico centrale intestato a Malatesta, per scrivere le seguenti note sono state utilizzate soprattutto le notizie estrapolate dalla stampa dell’epoca, in particolare dalla testata cittadina «La Gazzetta Livornese» e dai giornali «Avanti!», «L’Avvenire anarchico» e «Il Libertario».

«La Gazzetta Livornese», con classico spirito liberale, racconta i fatti persino con un certo rispetto nei confronti di Malatesta, allora sessantasettenne, definito «vecchio rivoluzionario», «irriducibile ribelle» e «noto agitatore», ma altresì tendendo a mettere in cattiva luce lo sciopero e a ridicolizzare gli scioperanti.

Errico Malatesta, rientrato clandestinamente dall’esilio londinese sul finire del 1919, aveva iniziato un impegnativo tour di propaganda e agitazione in mezza Italia, accolto da una grande partecipazione popolare.

A Livorno giunse in treno alle 9,20 di domenica 1° febbraio 1920, proveniente da Pisa dove il giorno precedente aveva  partecipato ad una manifestazione organizzata dalla locale Camera del lavoro sindacale (aderente all’USI) e conclusasi con un comizio in Piazza dei Cavalieri, dalla scalinata della Scuola Normale. Il prefetto di Pisa aveva informato della partenza il Ministero dell’Interno, precisando che «è partito per Livorno seguito funzionario Ps e segnalato quella questura e quella Sicurezza ferrovia».

Alla stazione di Livorno, oltre agli agenti, ad accoglierlo trovò  un centinaio di amici e compagni informati da poche ore del suo arrivo. Le ultime sue visite nella città labronica risalivano al 1913 e al 1914, prima del suo esilio in Inghilterra, quando era stato ospite del noto anarchico ardenzino Adolfo – anche se da tutti conosciuto come Amedeo – Boschi col quale aveva condiviso il soggiorno coatto a Lampedusa nel 1898 .

Dopo avergli offerta una colazione al Caffè della Posta (poi Teatro Lazzeri), i compagni livornesi accompagnarono Malatesta al Teatro S. Marco. «Già intanto si era propagata – riportava il cronista de «La Gazzetta Livornese – la voce del suo arrivo e di un comizio popolare nel quale  Malatesta avrebbe parlato al pubblico», tanto che molta folla fu costretta a rimaner fuori del Teatro.

Il comizio iniziò attorno alle 10,30 con la partecipazione di lavoratori e oratori anarchici, socialisti repubblicani e sindacalisti. Seguì infine, «salutato da clamorose acclamazioni», l’atteso intervento di Malatesta: «La borghesia non sa più come risolvere le cose e gli eventi che precipitano ed il governo, il quale si trova a difesa di questa borghesia ormai pericolante sui piedistalli corrosi non è più sicuro della propria forza: neppure di quella dell’esercito che al momento della lotta decisiva, certamente non rivolgerebbe le armi contro la forza soverchiante rivoluzionaria […] il proletariato produttore sente che è l’ora di sovvertire il sistema capitalistico borghese: l’unica  forza che sostiene la borghesia è basata sulla disgregazione delle forze proletarie: occorre perciò la concordia. Anarchici, socialisti, repubblicani tendono ad un fine unico, sebbene per vie diverse: l’intendimento è unico […] È quindi necessaria la collaborazione sincera e concorde delle varie tendenze al fine unico: la rivoluzione […] La Rivoluzione non si fa però coi rosari…(a questo punto il cannone annunzia mezzogiorno. Tra le risa generali, per la conferma del cannone intelligente, dal pubblico, un ignoto, dal basso, grida di rimando: «Si fa col cannone!»). Ora la Rivoluzione è possibile. Soltanto bisogna prepararvisi militarmente e economicamente. Nitti dice agli operai: “Producete! Producete!…”. Gli operai hanno ragione di produrre poco e male, oggi, in regime capitalista, e di esigere salari più alti […] Così per le abitazioni. Ci son cave, pietre, sabbia, cemento, muratori e tecnici, e non ci son case e abitazioni. Il male è nel regime capitalista, che bisogna abbattere…».

Terminato il comizio, continua la cronaca su «La Gazzetta Livornese», un folto gruppo di anarchici e socialisti con le bandiere in testa si avviarono verso il centro della città e per via del Porticciolo e Piazza Vittorio Emanuele, cantando l’«Internazionale» e altre canzoni… affini, si diressero alla Camera del Lavoro, e deposti i vessilli rossi e neri subito si sciolsero.

Intanto Malatesta, assieme ad alcuni compagni, si diresse in carrozza ad Ardenza Terra, a casa dell’amico Boschi, in attesa del comizio che tenne nel pomeriggio. In quella che «L’Avvenire anarchico» ebbe a definire «cittadella dell’Anarchia», il secondo comizio iniziò alle ore 16 in un vasto cortile in via del Litorale, alla presenza di un migliaio di persone (lo afferma «La Gazzetta Livornese»).

Dopo l’introduzione di Natale Moretti, seguito dagli interventi di Renato Siglich, Primo Petracchini e Dante Nardi per i giovani socialisti di Ardenza, Malatesta, si rivolse infine ai convenuti, dichiarandosi contrario ad ogni azione di parlamentarismo e chiamando a raccolta anarchici, socialisti e repubblicani e tutte le masse del proletariato, ormai insofferenti di ogni sfruttamento economico e politico. Il comizio terminò senza il minimo incidente e un corteo attraversò via del Litorale al canto di inni rivoluzionari.

Dopo una breve visita a casa di Boschi, secondo la minuziosa cronaca de «La Gazzetta Livornese», Malatesta «e i maggiorenti prendono posto in due vetture che fiancheggiate da agenti ciclisti riprendono alle 18 la via della città». Dopo le fatiche dell’intensa giornata, i compagni offrirono una cena conviviale a Malatesta.

All’indomani, lunedì 2 febbraio, alle ore 5 circa Malatesta, accompagnato dall’anarchico ardenzino Ferdinando Bacci  prendeva il treno per Milano, ma poco dopo la partenza – attorno alle 5,25 – mentre era in sosta presso la piccola stazione di Tombolo, tra Livorno e Pisa, alcuni carabinieri e funzionari in borghese della Questura di Livorno guidati dal commissario di Ps, dott. Dino Fabbris, salivano sul treno e traevano in arresto l’anarchico. Prima di essere fatto salire su un’auto che l’attendeva nei pressi, Malatesta – mostrando la massima calma – nel salutare l’anarchico Bacci gli chiedeva di avvertire i compagni dell’accaduto.

Quindi l’auto partì alla volta di Firenze; secondo una successiva testimonianza dello stesso Malatesta, durante il tragitto, al passaggio d’ogni paese, i questurini gli coprivano il viso, affinché qualcuno non lo riconoscesse e l’auto fosse bloccata a furor di popolo. Giunti nel capoluogo toscano, entrando da Porta S. Frediano, dopo un breve interrogatorio in Questura, Malatesta venne rinchiuso nel carcere delle Murate nella cella n. 32 destinata normalmente ai detenuti per reati comuni dove, attorno alle ore 14, venne interrogato dal giudice istruttore cav. Casentino.

Su Malatesta, infatti, pendeva una denuncia «per eccitamento all’odio di classe e all’insurrezione armata» presentata dal deputato liberale Dino Philipson presso l’autorità giudiziaria fiorentina, con riferimento al comizio tenuto da Malatesta a Firenze, in piazza Cavour, il 19 gennaio che aveva visto la partecipazione di circa temila persone, ma conclusosi con  incidenti in cui era stati ucciso un manifestante.

Appreso della denuncia dello zelante parlamentare, il governo aveva perentoriamente telegrafato al Prefetto di Firenze: «Pregasi far conoscere massima urgenza se Malatesta fu denunciato autorità giudiziaria per parole pronunciate comizio ieri costituenti reato. Se non ancora denunciato dovrà esserlo subito sollecitando autorità giudiziaria emettere immediatamente mandato cattura che vorrà comunicarmi».

Per motivi di ordine pubblico – dato che la situazione sociale era già estremamente tesa per lo sciopero dei ferrovieri – il mandato era rimasto chiuso in qualche cassetto per una decina di giorni, tanto da indispettire l’assai poco liberale on. Philipson che peraltro, pochi anni dopo, avrebbe ammesso di aver finanziato lo squadrismo fascista con «varie centinaia di migliaia di lire».

Conclusosi lo sciopero dei ferrovieri che lo aveva bloccato a Roma, il  31 gennaio Malatesta aveva ripreso il suo giro di propaganda anarchica e agitazione sociale, partecipando alla citata manifestazione a Pisa.

Il 1° febbraio il governo giunse quindi alla decisione d’arrestarlo e tramite il Ministero dell’Interno l’aveva comunicata con telegrammi ai prefetti di Livorno e Firenze, non senza preoccupazione per le prevedibili reazioni.

A quello di Livorno veniva consigliato di procedere al fermo in una  «piccola stazione intermedia lungo tragitto», mentre a quello di Firenze si raccomandava «vivamente» di interrogarlo e scarcerarlo in giornata. Così infatti avvenne e il giudice istruttore incaricato dispose la libertà provvisoria, con l’obbligo di rimanere «a disposizione dell’autorità giudiziaria di Firenze».

Appena uscito dalle Murate, Malatesta incontrava gli anarchici fiorentini coi quali si intrattenne in un caffè di piazza Santa Maria Novella per festeggiare la liberazione ma anche per fare il punto della situazione; la sera stessa parlò presso la Camera del Lavoro sul tema «Il proletariato nel momento attuale».

Di certo, anche se la sua scarcerazione era stata decisa in anticipo, il governo aveva dovuto registrare una risposta istantanea e di massa: nel giro di poche ore scioperi e manifestazioni si erano allargati da Livorno a Piombino, a Pisa, alla provincia di Massa-Carrara e alla Versilia, a La Spezia, sino a Perugia dove i lavoratori senza attendere la riunione serale della Camera del Lavoro confederale erano entrati in sciopero.

A Livorno, la notizia dell’arresto di Malatesta si sparse velocemente, diffusa sia dall’anarchico Bacci che dai ferrovieri. La prima notizia era stata data al mattino dal quotidiano «Il Telegrafo», ma i particolari  dell’arresto furono forniti da «La Gazzetta Livornese» che «andò a ruba». Fin dalla tarda mattinata, riferisce quest’ultima: «Gli elementi anarcoidi erano in gran fermento […] Buona parte dei lavoratori del Porto, che non sono ascritti alla Camera del Lavoro, volle disertare subito il lavoro. Nelle officine e negli stabilimenti corse la parola d’ordine e  le staffette ebbero in gran da fare». In pratica lo sciopero generale era già stato deciso, ma la Camera del lavoro convocò il Consiglio generale delle Leghe per la sera stessa, in cui prevalse la linea più combattiva sostenuta da massimalisti e anarchici.

Attorno alle 22, i vice-commissari della Questura Ruggero e D’Ambrosio si recarono nei pressi della Camera del lavoro portando la notizia della scarcerazione e quindi accompagnarono una commissione, capeggiata dall’anarchico Bacci e seguita dai giornalisti della stampa locale, dal Prefetto Gasperini che confermò ufficialmente la notizia. La commissione fece quindi ritorno alla Camera del lavoro, mentre fuori, in via Vittorio Emanuele, sostava una folla impaziente di lavoratori; da una finestra della sede sindacale intanto un giovane sventolando una bandiera «inneggiò allo sciopero generale, a Errico Malatesta e gridò abbasso alla polizia e al Niccoletti» funzionario della squadra politica presente sul luogo.

La notizia della liberazione non fu ritenuta abbastanza credibile, d’altra la maggioranza (e non certo una «minoranza turbolenta» come ebbe a scrivere «La Gazzetta Livornese») del Consiglio evidentemente ritenne necessario dare comunque un segnale politico forte al governo, quale monito contro la sua politica repressiva. Quando il segretario della Camera del lavoro Zaverio Dalberto annunciò la proclamazione per l’indomani dello sciopero «suscitò tra la folla molto entusiasmo e gran clamore di applausi».

Il 3 febbraio lo sciopero risultò compatto e la città apparve pressoché paralizzata: «niente trams, niente carrozze, botteghe aperte nelle strade secondarie e botteghe e negozi sprangati nelle vie del centro», registrava «La Gazzetta Livornese». Nel pomeriggio si tenne un comizio nella piazza davanti al Palazzo Comunale, dalla cui scalinata parlarono Dalberto, l’anarchico Augusto Consani – particolarmente applaudito – e il repubblicano Gualtiero Corsi.

La manifestazione e lo sciopero si conclusero alle 17. Il giorno seguente, 4 febbraio, Malatesta decise di tornare a Livorno, per sottolineare l’importanza della mobilitazione dei lavoratori  livornesi a favore della sua libertà. Partito da Firenze in automobile – la stessa con cui la polizia l’aveva sequestrato – e accompagnato da alcuni compagni, si diresse alla volta del porto tirrenico; lungo la strada dovette fermarsi a Signa, Empoli, Santa Croce sull’Arno, Pontedera e Fornacette per tenere, in piedi sull’auto, brevi discorsi a quanti lo stavano aspettando per festeggiarlo.

GazzettaLivorneseFinalmente giunto nel pomeriggio a Livorno, accolto dal segretario camerale Dalberto, da Bacci e da altri compagni, dopo una breve visita a Boschi e un “ponce” presso il Caffè della Posta, verso le 17,30 uscendo dal Caffè su via del Fante s’incamminò verso piazza Goldoni, seguito da numerosi manifestanti e poliziotti, dove era previsto un suo comizio presso la palestra “Sebastiano Fenzi”. Dato che i presenti nella piazza erano migliaia, il comizio fu tenuto sotto il loggiato del Regio Teatro Goldoni; il commissario di Ps presente, da parte sua, ritenne saggio non impedire tale manifestazione pubblica.

In piedi su un tavolo accanto a una delle colonne del loggiato, l’anarchico livornese Natale Moretti aprì il comizio sottolineando che il proletariato livornese aveva mantenuto «l’impegno manifestato domenica al teatro S. Marco di opporsi con ogni mezzo all’arresto di Malatesta». Toccò quindi a Malatesta salire sul tavolo, salutato da intensi applausi e da grida d’entusiasmo; l’anarchico esordì quindi dicendo «Non viva Malatesta, ma viva Livorno, viva l’Unione Sindacale anarchica».

Il suo discorso – annotato in modo sommario nei rapporti di polizia  – risulta attendibilmente riportato su «La Gazzetta Livornese»: «Ed il Malatesta entra in argomento sostenendo che la sua scarcerazione fu grande vittoria non per lui ma per l’idea. Vittoria di grande importanza,  poiché gli anarchici premendo collo sciopero salvarono – come i ferrovieri –  la libertà di propaganda ed ogni volta che si arresterà qualcuno reo solo sia pure di propaganda, il proletariato lo appoggerà […] Certo che Modigliani con tutto il suo parlamentarismo non avrebbe ottenuto quello che in poche ore collo sciopero immediato il proletariato ottenne». Malatesta soggiunse che però, per quanto animato da idealità anarchiche, simpatizza pure per le masse dei socialisti che sono lavoratori, ma non per i deputati che seggono a Montecitorio.

Cessati gli applausi, intervenne il segretario camerale Dalberto, che si scagliò «ferocemente contro la stampa borghese, di quella borghesia pavida che da quando Malatesta rientrò in Italia fu invasa dalla tremarella». Aggiunse pure che Malatesta era «di tutta la gente che lavora» e «disopra di ogni partito» in quanto era «il campione della emancipazione del popolo».

Parlarono quindi Pratali dell’Unione anarchica fiorentina, e Gentili a nome dei comunisti fiorentini. Dopo un applauso accompagnato dal canto di «Bandiera rossa», il comizio si andò sciogliendo, mentre Malatesta tornò in carrozza ad Ardenza a casa Boschi; «più tardi rientrava in città per una bicchierata al Circolo repubblicano in via Pellegrini».

L’indomani mattina Malatesta riprendeva il suo giro di propaganda, partendo alla volta di Bologna, dove lo attendevano Armando Borghi e gli anarchici bolognesi. Nella stessa serata tenne un comizio presso la Vecchia Camera del lavoro di Porta Lame durante il quale, riferendosi a quanto avvenuto, affermò che l’articolo 246 del Codice Penale, all’origine del suo arresto a Tombolo, era stato di fatto cancellato grazie all’azione diretta del proletariato e alla forza dimostrata dalle forze sindacaliste. In tale valutazione apparentemente trionfalistica, c’era invece molta più verità di quanto potrebbe apparire; lo dimostrano le motivazioni del Direttore generale della Ps in una comunicazione del 7 febbraio al Sottosegretario degli Interni, attorno al ritardo di dieci giorni con cui era stato effettuato l’arresto di Malatesta. L’alto funzionario di polizia sostenne infatti che ciò era stato determinato dalle «continue peregrinazioni» di Malatesta, quando questi invece, a causa dello sciopero ferroviario, in tale periodo era sempre rimasto a Roma, partecipando a una festa di finanziamento per il giornale «Umanità Nova» il 25 gennaio e ad altre iniziative pubbliche, tra le quali un grande comizio presso la Casa del Popolo alla presenza di settemila persone.

Evidentemente quindi, le autorità di governo e di polizia, anche se non potevano ammetterlo, prima avevano rimandato e poi deciso di procedere all’arresto prevedendo già un rapido rilascio, nel timore delle conseguenze per l’ordine pubblico che tale provvedimento avrebbe innescato.

A distanza di un anno, nel 1921, davanti alla Corte di Assise di Milano, Malatesta, nuovamente accusato di istigazione all’odio di classe, avrebbe risposto ironicamente: «Ora, signori giurati e signori della corte, dirvi che io ammetto la lotta di classe, è come dirvi che io ammetto il terremoto o l’aurora boreale».

Articolo pubblicato nel febbraio del 2020.




La “CASA DELLA CULTURA E DELLA MEMORIA”: la nuova sede della BIBLIOTECA F. SERANTINI

La Biblioteca Franco Serantini nel 2019 è entrata nel suo 40° anno di vita e attraverso una sottoscrizione nazionale molto partecipata è riuscita a festeggiare il compleanno con l’acquisizione di una nuova sede ubicata in una frazione, Ghezzano, del comune di S. Giuliano Terme al confine con la città di Pisa.

Un anniversario speciale da molti punti di vista, infatti non è comune che una struttura culturale nata dalla società civile, autofinanziata e autogestita riesca a raggiungere una tale età! La Biblioteca in questi anni, oltre a svolgere un’attiva e intensa promozione culturale e editoriale, è cresciuta nel suo patrimonio bibliografico e archivistico, raggiungendo una consistenza di tutto rispetto, in gran parte inerente la storia politica e sociale dell’Ottocento e del Novecento e ottenendo riconoscimenti sul piano non solo nazionale ma anche internazionale: oltre 50.000 monografie; quasi 6.000 testate di giornali, riviste e numeri unici; 87 fondi archivistici con migliaia di documenti, fotografie, dischi, opere artistiche, carteggi, registrazioni di testimonianze orali, bandiere, manifesti, volantini e cimeli).

Oggi la biblioteca fa parte, come ente collegato, della rete nazionale degli Istituti della Resistenza e dell’età contemporanea e dell’International Association of Labour History Institutions (IALHI). Nel 1997 la Biblioteca è stata censita dal Ministero dei Beni culturali, che le ha attribuito un codice identificativo ufficiale (PI 0368), fa parte della Rete regionale bibliotecaria e del portale ToscanaNovecento. Nel 1998 l’archivio della Biblioteca è stato dichiarato di «notevole interesse storico» nazionale dalla Soprintendenza archivistica della Toscana con notifica n. 717 del 12 marzo 1998.

Interno_3La nuova “casa della cultura e della memoria” che ospita la Biblioteca nasce con l’intento di raccontare, conservare e condividere la memoria e la storia del Novecento con particolare attenzione alle vicende del territorio della provincia di Pisa in relazione ai territori contigui. Si è consapevoli, infatti, che la storia della provincia di Pisa è parte integrante di un vasto territorio, con caratteristiche storiche peculiari, che è racchiuso nell’area della Toscana Nord-Occidentale, una zona da sempre caratterizzata da flussi migratori in entrata e in uscita che l’hanno proiettata nella più vasta area del bacino del Mediterraneo e dei paesi che vi si affacciano – in particolare quelli, ma non solamente, di lingue neolatine come la Francia e la Spagna.

All’attività e gestione della “casa della cultura e della memoria” parteciperanno associazioni che rappresentano la memoria storica dell’antifascismo, della Resistenza, della guerra di Liberazione, delle vicende sociali e politiche del Ventesimo secolo.

Ampio è il ventaglio delle iniziative in programma per il 2020, ne daremo puntualmente notizia ai lettori di ToscanaNovecento, nel frattempo con l’occasione si ringraziano tutti coloro che non hanno fatto mancare il proprio sostegno alla biblioteca contribuendo alla realizzazione di un sogno quella di dare una nuova casa alla Serantini.

 

 

Questi sono i nuovi recapiti della Biblioteca:
Biblioteca Franco Serantini
archivio e centro di documentazione di storia sociale e contemporanea
via G. Carducci n.13, loc. La Fontina
56017 GHEZZANO (PI) – Italia –
Tel. ++39 3311179799 ++39 0503199402
e.mail: segreteria@bfs.it

Articolo pubblicato nel gennaio del 2020.




Il movimento anarchico pratese nel secondo dopoguerra

Nel secondo dopoguerra la massiccia adesione degli operai pratesi al Partito comunista ridusse praticamente a zero lo spazio politico occupato dagli anarchici. Morto nel 1957 Anchise Ciulli – una delle figure “storiche” del movimento libertario locale, che non aveva mai cessato del tutto l’attività politica e sindacale – l’anarchismo  attraversò in città un periodo di crisi, per rianimarsi sull’onda del Sessantotto e conoscere poi una nuova fase di riflusso insieme con tutti i gruppi della sinistra rivoluzionaria. Su questi temi abbiamo realizzato un’intervista con Federico Sarti, attivo nel movimento anarchico pratese negli anni Settanta. Ne proponiamo il testo ai lettori di ToscanaNovecento.

  

Nel secondo dopoguerra il movimento anarchico attraversò in Italia una fase di crisi che durò almeno fino al Sessantotto. Ciò vale anche per Prato?

Sì, sicuramente. Senza il Sessantotto con tutti i suoi fermenti, con la sua carica contestataria e, in fondo, libertaria, non ci sarebbe stata, neanche qui, una ripresa del movimento.

Che cosa puoi dirci a proposito di tale ripresa?

So che verso la fine degli anni Sessanta si costituì in città un gruppo anarchico che portava il nome di Gaetano Bresci. Io non ne ho fatto parte e non posso dire nulla di preciso sulla sua attività, ma il gruppo è esistito con certezza, tanto è vero che ne conoscevo all’epoca tre componenti.

E poi? In città si formarono altri gruppi?

Sì. Successivamente, nell’inverno del 1975, dall’incontro di alcune persone che si dichiaravano anarchiche, nacque un secondo gruppo a cui sono appartenuto anch’io (detto per inciso, io mi sono avvicinato all’anarchismo partendo da posizioni marxiste-leniniste). Questo gruppo, che non ebbe mai un nome, arrivò a contare una dozzina di membri, studenti ed operai, tutti intorno ai vent’anni (e anche meno). Molto rilevante era la presenza femminile: tra i componenti del gruppo figuravano infatti ben sei compagne. Il nucleo – che era vicino alle posizioni della Federazione comunista anarchica (FCA) ed esplicava la sua attività solo sul piano teorico – ebbe contatti con i compagni di Firenze (Crescita politica), Pistoia, Arezzo ed altre città toscane e decise di sciogliersi in seguito ad una consultazione interna perché la maggioranza (solo io votai contro lo scioglimento) riteneva che non ci fosse la possibilità di un inserimento proficuo nel tessuto sociale cittadino. Questo accadde nella prima metà del 1977, ma poco dopo in città si formò un terzo gruppo.

scansione0004Ce ne vuoi parlare?

La riunione costitutiva di questo nuovo gruppo, che assunse il nome di Coordinamento lavoratori comunisti anarchici, si svolse il 23 giugno 1977. Gli aderenti erano in tutto una dozzina, fra cui due donne. Nel corso della riunione costitutiva fu deciso di articolare l’organizzazione in tre gruppi di studio: uno sul decentramento produttivo (formato da tre persone), uno su ambiente e lavoro ( quattro persone) ed uno che si occupava di equo canone (quattro persone). Nell’occasione fu deciso di tenere un’assemblea di gruppo nei giorni di lunedì, mercoledì e venerdì e un’assemblea generale il martedì. I membri dovevano versare una quota mensile di cinquemila lire. Il gruppo disponeva anche di un cassiere per redigere i bilanci trimestrali.

Il Coordinamento fu particolarmente attivo sul fronte della lotta contro il nucleare ed ebbe quindi il merito di sollevare in ambito cittadino dei problemi che solo in seguito sarebbero stati ripresi da altre organizzazioni. Nel dicembre del 1977, nei locali del circolo culturale Il Ponte (che si trovava al di là del Ponte Mercatale, in via Matteotti 7) si tenne un convegno antinucleare regionale. Nel corso del convegno si costituì un comitato antinucleare locale ed in città venne diffuso un volantino che metteva in guardia contro i rischi legati alla costruzione delle centrali atomiche.

Il gruppo produsse anche un bollettino ciclostilato (che non sono purtroppo riuscito a rintracciare). Il bollettino venne distribuito in occasione del 1° maggio 1978: le copie erano in vendita ad offerta libera e rammento che vennero vendute tutte per un ricavato complessivo di ventiduemila lire.

Va poi detto che il Coordinamento stilò un volantino, molto critico nei confronti dei partiti della sinistra tradizionale: noi eravamo infatti convinti che, tramite la propaganda (dibattiti, filmati, mostre e così via), esistesse la possibilità di spostare su posizioni radicali i lavoratori che seguivano tali partiti, facendo maturare in loro una coscienza rivoluzionaria e rendendoli capaci di gestire da soli le loro lotte.

Il gruppo cessò l’attività verso la fine del 1978, ma continuò la campagna antinucleare per tutto l’anno successivo.

In quegli anni vi furono due appuntamenti elettorali molto importanti: le elezioni regionali del 15 giugno 1975 e quelle nazionali del 20 giugno 1976. Come vi comportaste in quelle occasioni?

La maggioranza di noi, coerentemente con i principi anarchici, era astensionista e quindi non si recò alle urne.

In voi c’era coscienza dell’esistenza di una tradizione anarchica a Prato oppure l’unico nome noto era quello di Gaetano Bresci?

No, almeno io non sapevo nulla dell’esistenza di una tradizione anarchica in città. L’unico nome conosciuto era quello di Bresci.

Quali furono le cause del riflusso successivo?

Furono le stesse che portarono prima alla crisi e poi all’esaurirsi dell’esperienza della sinistra rivoluzionaria.

 

Sai niente a proposito dell’approdo politico dei militanti anarchici di allora?

No, non lo so perché non ho mantenuto rapporti con la maggior parte di loro, e dei pochissimi che ancora vedo non conosco l’attuale tendenza politica.

 

Qual è oggi la situazione a Prato? Non vi è più nemmeno una parvenza di organizzazione? Vi sono solo degli elementi isolati e l’anarchismo è ridotto a pura testimonianza?

Sì, a Prato l’anarchismo è ridotto a pura testimonianza. Gruppi organizzati, che io sappia, non ce ne sono. Gli abbonati a Umanità nova  sono tre in tutto, me compreso (lo so perché il giornale pubblica l’elenco degli abbonati). Ad una manifestazione ho visto un compagno con una bandiera anarchica, ma non l’ho avvicinato e non so neppure chi sia…

 

Intervista a cura di Alessandro Affortunati.

Articolo pubblicato nel dicembre del 2019.




Una nuova rubrica di ToscanaNovecento

È la sera del 9 novembre 1989; Günter Schabowski, funzionario del partito di unità socialista della Germania, durante una conferenza stampa in diretta Tv, incalzato dal corrispondente dell’ANSA, Riccardo Ehrman, sui tempi della concessione dei permessi di viaggio ai tedeschi dell’Est, risponde con solo due parole: “Ab sofort”: da subito.Ci si è interrogati sulle ragioni di queste parole: sfuggite in un clima di incertezza e confusione o scelta consapevole?L’effetto è, prevedibilmente, immediato: i berlinesi si riversano in massa nei pressi del muro; le guardie, spiazzate e senza chiari ordini in merito, aprono i varchi per evitare episodi di disordine.

(Fonte: ansa it - copyright Ansa/Epa)

(Fonte: ansa it – copyright Ansa/Epa)

Dalla tv entrano nelle case di tutto il mondo le immagini festanti dei tedeschi di entrambe le parti, ora di nuovo insieme, degli abbracci e della commozione di un popolo separato per 28 anni, delle prime picconate al muro.

(Fonte: ansa it - copyright Ansa/Epa)

(Fonte: ansa it – copyright Ansa/Epa)

La caduta del muro di Berlino ha una carica e un valore simbolico tali da essere indiscutibilmente collocata tra i grandi eventi del Novecento. Barbara icona della Guerra Fredda, emblema della contrapposizione politica, ideologica, economica e militare tra Usa e Urss, ma anche garanzia di stabilità e di equilibrio tra i due blocchi in Europa, in una notte il muro diventa, con la sua caduta, simbolo dell’implosione di regimi fondati sull’ideologia comunista. Con il muro viene giù un mondo. Il processo è iniziato da tempo e non si concluderà la sera del 9 novembre ma quell’evento resta nell’immaginario collettivo quale simbolo visibile e tangibile del fallimento della via sovietica al socialismo. Di lì a poco inizierà lo smottamento degli altri regimi comunisti e la crisi di quei partiti che, pur con distinguo, criticità e declinazioni diverse, erano parte della galassia del comunismo europeo. Tutto ciò, non senza contraccolpi su tutto l’universo della sinistra.

A trent’anni di distanza il rumore del crollo del muro, prima, e dell’Unione Sovietica, poi, arriva fino a noi, riecheggia nella ritrovata unità della Germania, nei nuovi assetti geopolitici che l’Europa si è data a partire dagli anni Novanta con l’accelerazione del processo dell’integrazione europea e l’allargamento dell’Unione ai paesi dell’Est; ma risuona anche nei conflitti che hanno squarciato l’ormai ex Jugoslavia, nell’attacco russo in Georgia del 2008, nell’ostilità, ora aperta, ora celata, fra Stati Uniti e Russia dal 2014 in Ucraina.

(Fonte: ansa.it – copyright Ansa/Epa)

(Fonte: ansa.it – copyright Ansa/Epa)

La redazione di ToscanaNovecento ritiene utile aprire uno spazio di riflessione e conoscenza sulle trasformazioni che l’evento simbolico “caduta del muro” ha prodotto, sulle conseguenze che esso ha avuto non solo da un punto di vista geopolitico ma anche sul modo di pensarsi e (auto)rappresentarsi della politica e del potere in Italia: lutto per alcuni, liberazione per altri, la fine della contrapposizione tra blocchi ha messo in discussione i riferimenti di chi, nato e vissuto in un mondo bipolare, forse fatica ancora oggi ad elaborarne la portata e il significato. Quello che proponiamo, e che andrà avanti con almeno un appuntamento al mese per l’ultimo scorcio del 2019 e per tutto il 2020, è un esperimento per questo portale: non articoli su singoli episodi storici di rilevanza locale o generale, ma una serie di interviste a personalità politiche, sindacali, culturali toscane sulle conseguenze della caduta del muro, sui significati di questo evento epocale, sia su un piano strettamente personale, sia sul piano pubblico dei rapporti e degli schieramenti politici.

Ci muoveremo in un “terreno accidentato tra memorie individuali e ricordi collettivi” (Passerini, 2003), ben consapevoli della differenza tra storia e memoria, quest’ultima “permanentemente in evoluzione, aperta alla dialettica del ricordo e dell’amnesia, inconsapevole delle sue deformazioni successive, soggetta a tutte le utilizzazioni e manipolazioni, suscettibile di lunghe latenze e improvvisi risvegli” (Nora, 1984). Ma ci sembra un percorso necessario per comprendere il recente passato e il presente.

Il primo appuntamento con la nuova rubrica del portale è per il mese di dicembre.

Articolo pubblicato nel novembre del 2019.




Una Toscana fascistissima?

L’11 novembre 2019, presso l’Archivio di Stato di Prato, Alessandro Bicci e Marco Palla hanno presentato il volume di Andrea Giaconi intitolato La fascistissima. Il fascismo in Toscana dalla marcia alla notte di San Bartolomeo. In quell’occasione abbiamo rivolto alcune domande all’autore: proponiamo il testo dell’intervista ai lettori di ToscanaNovecento.

 

Ha senso parlare di un “fascismo toscano”? Il fascismo ebbe cioè nella regione dei tratti distintivi, in parte diversi da quelli che il movimento presentava a livello nazionale?

Parlare di “fascismo toscano” ha senso nella misura in cui si voglia da una parte sottolineare il ruolo primario svolto dalla Toscana nella conquista e nel mantenimento del potere da parte del fascismo; dall’altra esaltare alcuni tratti che indubbiamente furono comuni all’intera regione. La realtà fascista toscana si distinse sia per una nascita tarda del movimento ma anche per una sua tanto rapida quanto violenta ascesa che nel giro di pochi mesi (tra il dicembre 1920 e il marzo 1921) portò a raddoppiare i fasci e quintuplicare gli iscritti. Fu quello toscano un fascismo “insonne”, combattente, che si segnalò soprattutto come componente essenziale nella scalata al potere del biennio 1921-1922, carico di tutti i miti e i riti squadristi volti a fomentare la violenza contro le opposizioni e a rinsaldare la retorica poi divenuta componente essenziale nel consolidamento del regime. In tal contesto, la regione si allontana soprattutto da realtà (soprattutto nell’Italia meridionale) in cui il fascismo quale fenomeno di massa è un elemento successivo alla marcia dell’ottobre 1922. Eppure, a ben vedere, piuttosto che di “fascismo toscano” è forse più esatto parlare di “fascismo in Toscana”. Toscana che fu, infatti, contenitore di manifestazioni del fascismo tra loro tanto vicine quanto distinte. La non uniformità corografica, economica e sociale della regione si riflesse in una difformità politica che dette vita ad esperienze tra loro assai diverse. Così come la grande mezzadria conviveva con la piccola proprietà e le significative realtà industriali, egualmente la supremazia di ras come Renato Ricci (Carrara) e Carlo Scorza (Lucca) si affiancava ad aree in cui il PNF fu attraversato da vibranti lotte per la conquista della leadership locale (che molto spesso ponevano di fronte opposte visioni del movimento) dalle quali seppero avvantaggiarsi protagonisti (Ciano a Livorno, Sarrocchi a Siena) non immediatamente assimilabili al movimento della prima ora. Infine vi furono pure zone (Prato, Grosseto) in cui larga parte del fascismo fu riassorbita nell’orbita del servilismo agli agrari e all’imprenditoria industriale.

 

Gli industriali e gli agrari toscani appoggiarono senza riserve il movimento fascista durante il cosiddetto “biennio nero” (1921-22) o è necessario articolare meglio il discorso?

Sicuramente la quasi totalità di industriali e agrari appoggiò il movimento negli anni precedenti alla conquista del potere vedendolo come necessario strumento di repressione contro le richieste provenienti dalle organizzazioni operaie e mezzadrili e dalle organizzazioni tanto socialiste (e poi anche comuniste) quanto cattoliche. Tuttavia, la stessa retorica “rivoluzionaria” della “prima ora” mal si conciliava con le intenzioni di restaurazione dell’ordine (sociale prima ancora che politico) del notabilato e della grande imprenditoria. Ne conseguì un progressivo avvicinamento alle gerarchie di partito e l’istituzione di un sistema clientelare volto ad emarginare l’elemento più sincero del movimento fascista delle origini e delle forze che ne avevano appoggiato la carica radicale attraverso un connubio tra antiche classi dirigenti, le frange più corruttibili del partito e comunque caratterizzate da una pronunciata vena d’arrivismo e una cospicua componente criminale.

 

Quali furono i rapporti fra la massoneria toscana ed il fascismo locale, prima e dopo la marcia su Roma?

Pur distinguendo tra le due principali obbedienze, la massoneria tout court fu uno dei principali punti d’appoggio del fascismo antemarcia. Si può anzi sicuramente affermare che tanto Palazzo Giustiniani (salvo tanto isolate quanto eclatanti eccezioni, come il pratese Giuseppe Meoni, Gran Maestro Aggiunto) quanto Piazza del Gesù fiancheggiarono e finanziarono il fascismo nello stesso evento della Marcia. Di fatto, la visione delle massonerie fu offuscata dalle dinamiche successive al dopoguerra, quando dinanzi alle rivolte del “biennio rosso”, esse intravidero nel fascismo una forza radicale capace di riportare un ordine democratico comunque lontano dalle precedenti consorterie. Fu un tragico equivoco di cui si ravvidero solo dopo l’ottobre 1922 e ancor di più, dopo il febbraio 1923, con la dichiarazione d’incompatibilità tra fascismo e massoneria. Da allora le strade si divisero. Il fascismo tese ad emarginare e ad epurare le proprie componenti massoniche o le obbligò a ripudiare l’istituzione. Dinnanzi a ciò il Grande Oriente si pose progressivamente in opposizione al Partito fascista. La Gran Loggia, almeno nei suoi vertici, si attestò (pur non mancando isolati casi di resistenza) in un piatto ossequio al regime. Ma egualmente non si può ridurre il rapporto tra massoneria e fascismo ad uno scontro tra partito e istituzione. Di fatto, il vincolo massonico (almeno per il fascismo toscano) fu una delle corde sulle quali vibrarono più fortemente le tensioni interne al partito, per l’imposizione di una propria visione politica o anche per la più gretta conquista del potere. Sotto questa prospettiva potevano essere letti gli scontri tra Enrico Spinelli e Dino Philipson (Pistoia), tra Tullio Tamburini e Dino Perrone Compagni (Firenze), tra Bruno Santini e Filippo Morghen (Pisa), tra Dario Lupi e Alfredo Frilli (Arezzo). Le lotte tra obbedienze, la carica antimassonica del partito e la coerenza liberomuratoria, con i dettati della “prima ora”, furono forse i principali motori delle lotte intestine al PNF. Non a caso, la piena normalizzazione e acquiescenza alle direttive del partito si realizza con atti di violenza contro la massoneria, quali le spedizioni squadriste della “notte di San Bartolomeo” (ottobre 1925).

 

E quale fu l’atteggiamento della chiesa?

È ormai noto da tempo come il fascismo adoperasse una distinzione tra struttura ecclesiastica e movimento cattolico. Laddove l’associazionismo bianco era forte e ben radicato (Lucchesia, in alcune zone del Pistoiese e dell’Aretino…), il fascismo non esitò ad utilizzare qualsiasi mezzo per disarticolarne la struttura. Ben diverso era l’atteggiamento verso la gerarchia ecclesiastica, intesa come possibile punto d’appoggio e fattore di legittimazione del regime anche a livello locale. Eppure, non mancarono casi di vescovi toscani come il pistoiese Gabriele Vettori che denunciò le violenze squadriste. Non fu un fatto limitato alla gerarchia: molti parroci si schierarono contro le azioni squadriste e, per questo, ne furono bersagli. Basti pensare che, nei tre mesi precedenti alle elezioni politiche del 1924 quasi quaranta furono i parroci aggrediti tra la Lucchesia e il Pistoiese.

 

Antonio Gramsci ha individuato nella mobilitazione violenta della piccola borghesia contro il proletariato l’elemento caratterizzante del fascismo. Questa analisi è valida anche per la Toscana?

Questo può essere valido solo in parte. Basti pensare che quasi il 40% degli iscritti ai fasci di combattimento era costituito da lavoratori della terra e dell’industria e che un campione di marciatori toscani su Roma ricavato da pubblicazioni coeve abbassa tale percentuale non di molto. Vero è che le cifre si modificarono abbastanza rapidamente quando, una volta al potere, il fascismo si trovò a gestire la redistribuzione dei poteri anche a livello locale. Significativa è infatti la composizione dei primi sindaci fascisti, laddove circa la metà degli eletti (49%) era formata da possidenti e nobili. Si andava così assistendo quasi a un ritorno dei potentati terrieri in un negoziato tra antiche gerarchie e nuovi regimi. Ne riuscivano bilanciamenti dai quali vennero progressivamente escluse le forze riformiste e radicali che pure erano entrate nel “calderone” del primo fascismo (ed ovviamente le organizzazioni “rosse” e “bianche” che al fascismo si erano opposte). Emersero invece il grande interesse, l’opportunismo e, in parte, l’elemento criminogeno e criminale (quest’ultimo poi parzialmente estromesso a seguito della linea epurativa guidata da Augusto Turati successivamente alla “notte di San Bartolomeo”, dell’ottobre 1925).

 

Nella primavera del 1921 un foglio comunista fiorentino ravvisò nei fascisti del Carmignanese “tutta la delinquenza del vasto comune di campagna, assoldata dalla borghesia terriera locale” (L’azione comunista, 21 maggio 1921). Puoi dirci qualcosa a proposito del ruolo dell’elemento criminale all’interno del movimento fascista nella regione?

L’elemento criminale fu una componente che sempre caratterizzò lo squadrismo fascista, prima convivendo con gruppi formatisi in opposizione alle rivolte del cosiddetto “biennio rosso”, ma con sinceri intendimenti radicali e di ritorno all’ordine (ne fu un esempio l’ex-combattente Bruno Santini a Pisa), poi assumendo una rilevanza che fu alla base dei potentati dei ras, delle lotte interne al PNF per la conquista del potere locale, della seconda violenta ondata squadrista. Per comprenderne la consistenza che aveva assunto in alcune zone, basti citare un dato relativo all’adunata squadrista svoltasi nella violenza a Firenze nel dicembre 1924. Su 3.000 fascisti provenienti da Lucca, l’allora prefetto locale Enrico Cavalieri segnalava il coinvolgimento «in atti criminali anche comuni» per «almeno la buona metà» di essi.

 

Il fascismo fiorentino era diviso in due filoni, spesso in contrasto fra loro. Uno faceva capo a Dino Perrone Compagni, l’altro a Tullio Tamburini. Quali erano le principali differenze fra queste due correnti?

La divisione tra Perrone Compagni e Tamburini può essere in larga parte circoscritta a una lotta per la conquista del potere locale. Fascinazioni per le quali le rispettive iscrizioni alle obbedienze massoniche potevano dar adito a uno scontro tra ordini libero-muratori deve necessariamente rimanere sullo sfondo (tant’è che lo stesso Tamburini sarebbe divenuto tristemente famoso per le violenze utilizzate sui suoi stessi “fratelli”). Di fatto, i due schieramenti potevano essere assimilati alle “bande criminali” in lotta per il controllo di un territorio. Il fascismo fiorentino poteva segnalarsi per la propria inquietudine, per gli scontri e per le divisioni interne alle proprie file già nel biennio 1921-1922. Era questo un periodo che vide anche la compresenza di tre fasci fiorentini di cui uno ufficiale e due autonomi. Di questi ultimi due, uno poteva addirittura contare più iscritti del fascio ufficiale. Il prosieguo di tali divisioni doveva molto alla mancata rassegnazione alla sconfitta dei leaders fascisti perdenti. Sicuramente ciò vale per Perrone Compagni, il cui avvicinamento a gruppi dissidenti come la nota “Banda dello sgombero” o all’esperienza dei Fasci nazionali, deve necessariamente essere letta quale sostegno all’azione antitamburiniana in prospettiva di un ritorno al potere.

 

Tullio Tamburini era un pratese. Cominciò la sua carriera come squadrista e la concluse come capo della polizia della Repubblica di Salò. Vuoi parlarci brevemente di lui?

Di Tamburini, nato a Vaiano, allora frazione del comune di Prato, hanno scritto diffusamente molti storici del fascismo, eppure ancora oggi manca una biografia che ne inquadri il percorso. Già membro attivo dell’interventismo pratese al tempo della guerra di Libia, ex impiegato alla Forti, grande industria tessile della Valle del Bisenzio, si era ridotto a vivere d’espedienti. Nota è la sua attività di calligrafo, creando biglietti da visita o per eventi quali nozze e battesimi. Combattente decorato durante il primo conflitto mondiale, fu segnalato per furto e appropriazione indebita. Si evince sin da ora come Tamburini fosse un personaggio per lo meno contiguo all’elemento criminale dal quale il fascismo attinse una parte non trascurabile dei propri appartenenti. Iscrittosi al fascio di combattimento fiorentino già nel 1919, egli fu protagonista della scissione tra i due fasci fiorentini, divenendo uno dei più diretti responsabili delle violenze che imperversarono tra il 1921-1922. Espulso per indisciplina nel marzo 1922 dal PNF, non tardò a rientrarvi, guidando la piazza di Firenze nei giorni della Marcia e dirigendosi egli stesso a Roma a capo della prima legione fiorentina. Negli anni seguenti Tamburini fu, nonostante le frizioni con Perrone Compagni, a capo del fascismo fiorentino, gestendo le reti delle bische clandestine e di altre attività criminose nel capoluogo toscano. Lo fece attraverso la violenza e legami clientelari che gli permisero di uscire indenne dagli scontri interni al fascismo fino almeno al 1925. Di questi anni sono per lo meno da ricordare le violente spedizioni del dicembre 1924 e dell’ottobre 1925. Quest’ultima, di carattere ferocemente antimassonico, fu identificata come la “notte di San Bartolomeo” e chiuse di fatto il cerchio sugellando la formazione del regime. Fu proprio però per tali recrudescenze e per il ripetuto ricorso all’illegalità che Tamburini fu allontanato dalla Toscana e inviato in Libia. Da qui egli tornò prima come ufficiale della Milizia forestale di Trento e poi come prefetto del regno nelle sedi di Ancona, Avellino e Trieste. Aderì alla RSI, di cui fu capo della polizia. Coinvolto in un losco  giro di appropriazioni indebite anche a danno di altri gerarchi, fu arrestato e inviato nel campo di concentramento di Dachau nel reparto riservato ai criminali comuni. Liberato dalle truppe alleate, fu processato e condannato a sei anni di carcere ma, in seguito, amnistiato. Espatriato in Argentina, dal paese sudamericano inviò finanziamenti al Movimento sociale italiano. Tornato in Italia nella seconda metà degli anni Cinquanta, Tamburini morì a Roma nel 1957. Di fatto può essere identificato come il volto del più brutale squadrismo e allo stesso tempo uno dei protagonisti non troppo secondari del consolidamento del regime.

 

Renzo De Felice distingue un “fascismo movimento”, che avrebbe avuto in sé una carica in qualche modo innovativa, da un “fascismo regime”, risultato di una serie di compromessi con i centri di potere tradizionali. Questa distinzione è valida anche per la Toscana?

La distinzione tra “fascismo movimento” e “fascismo regime” ha alcune sue basi anche in Toscana, a patto di non considerare una divisione netta tra le due parti. In realtà gli anni del “movimento” furono segnati da pesanti infiltrazioni ed importanti interessi da parte dei centri tradizionali del potere e, anche alla luce di tali vincoli tra fascismo e potentati locali, si può ben dire che la compresenza delle due componenti fosse all’origine delle lotte interne per il controllo del territorio e del partito. Lotte che, di fatto, si intensificarono in momenti apicali di scontro ma, paradossalmente, anche di coalizione tra le componenti del PNF, quali le fasi di campagna elettorale. A ben vedere, le svolte elettorali se da un lato amplificarono e inacerbirono gli scontri interni, dall’altro furono capaci di riassorbire i malumori e di catalizzarli verso gli avversari politici. In sintesi, in Toscana questi due tipi di fascismo coesistettero con svariate sfumature in base alla zona considerata e, proprio tale compresenza fu alla base delle lotte che caratterizzarono gli anni compresi tra il 1922 e il 1925.

 

Nel tuo lavoro si parla anche della tristemente nota “notte di San Bartolomeo” fiorentina. Siamo nell’ottobre del 1925. Che bilancio si può fare dei primi tre anni di dominazione fascista in Toscana?

La “notte di San Bartolomeo” (il 3 ottobre 1925) fu un punto di svolta dopo il quale non fu più possibile un’opposizione al fascismo da parte dei suoi avversari. Né tantomeno fu più possibile un dissenso interno al PNF. È da tale svolta violenta che, di fatto, giunge a maturazione il regime in Toscana. Prima di tale evento non è giusto parlare di “dominazione” quanto piuttosto, parafrasando l’ormai classico studio di Lyttelton, di conquista e di consolidamento del potere. Conquista che avvenne non solo con la violenza delle spedizioni squadriste ma con un ripetuto esercizio retorico ed evocativo di miti e ritualità volti da un lato a cementare le file interne del partito e dall’altro ad emarginare gli avversari esterni. Per cui, il computo finale di quei tre anni trascorsi tra la Marcia e la nascita del regime non può esimersi da notare che in Toscana si manifestarono per intero ed assai pronunciate le tensioni interne al PNF post-marcia. Esse non permisero di definire il fascismo come un dato definitivo quanto piuttosto come un oggetto politico in divenire, alla ricerca di una sua compiutezza, acquisita solo attraverso la totale eliminazione delle voci discordi. E questo lo si ebbe solo col 1925. Era in definitiva la nomalizzazione.

Intervista a cura di Alessandro Affortunati.

Articolo pubblicato nel novembre del 2019.




Per una storia del movimento politico cattolico livornese

Pierangelo Zari (1917-2006) ha avuto un ruolo importante nella storia del movimento politico cattolico livornese, ma non ha avuto certamente una posizione di primissimo piano. Lo troviamo tra il ristretto gruppo di livornesi che il 22 luglio 1944, tre giorni dopo la liberazione della città dal nazifascismo, diede vita alla prima sezione della Democrazia Cristiana livornese. Fu poi segretario amministrativo della DC livornese negli anni ’50, consigliere provinciale dal 1956 al 1960, assumendo un ruolo pubblico defilato, ma mosso da interessi variegati, che lo mise in contatto con tanti ambienti della cultura e del potere cattolico: lavorò per lunghi anni alla Cassa di Risparmi di Livorno, fu governatore dell’Arciconfraternita Misericordia, consigliere dell’Istituto Case Popolari, console del Touring Club italiano. Eppure, oggi possiamo dire che quella di Zari è una figura fondamentale per la storia della Democrazia Cristiana livornese, e in generale, per la storia della cultura cattolica a Livorno. Perché Zari nel corso della sua vita è stato una sorta di archivista autodidatta conservando tra le mura domestiche un patrimonio documentario molto interessante relativo non solo alla storia del partito democristiano e della cultura cattolica livornese, ma più in generale alla storia politica e sociale, locale e nazionale a partire dagli anni del fascismo.

Pierangelo Zari (Fondo Zari, Archivio Istoreco, Livorno)

Pierangelo Zari (Fondo Zari, Archivio Istoreco, Livorno)

Le carte appartenute a Zari fanno luce in particolare sull’attività del partito democratico cristiano tra la fine degli anni ’40 e tutti gli anni ’50: oltre alla corrispondenza con la sede centrale e con le varie sezioni zonali, tra i suoi documenti si trovano anche dettagliate relazioni sulla gestione economia del partito e dati e commenti relativi alle varie tornate elettorali. La famiglia Zari ha poi conservate carte riguardanti l’attività dell’associazionismo cattolico livornese degli anni ’30 e ’40 e degli anni del dopoguerra. Ma la passione di Zari per libri, giornali, riviste lo ha portato ad accumulare un patrimonio che va ben oltre il movimento cattolico: si va dalle pubblicazioni e riviste della propaganda fascista, relative all’attività politica, alla politica scolastica, ai costumi sociali, all’attività dell’Ovra, alla propaganda di guerra. Fino alla pubblicistica varia prodotta dalla Democrazia Cristiana (riviste, opuscoli, materiali di propaganda) e ad alcune collezioni di riviste locali molto rare come il settimanale diocesano livornese “La Domenica” di fine anni ’30.

Il patrimonio di Pierangelo Zari, grazie alla disponibilità della sua famiglia, è stato oggi raccolto e depositato presso l’Istoreco Livorno, come parte fondamentale di un fondo archivistico dedicato al movimento politico cattolico livornese costruito con la collaborazione dell’Istituto Luigi Sturzo di Roma. Il progetto ideato dall’Istoreco e dall’Istituto Sturzo ha inteso rispondere ad una problematica di natura archivistica molto comune per quanto riguarda la storia della Democrazia Cristiana: come è accaduto in molte parti d’Italia, la fine non indolore della DC alla metà degli anni Novanta ha significato a Livorno e provincia una dispersione del suo patrimonio documentario: nessuno cioè si è preoccupato di salvaguardare l’archivio del comitato provinciale e comunale della DC di Livorno che dunque si è disperso in mille rivoli. Si è dunque provato a dar vita ad una operazione di “salvataggio” di carte e materiali che documentano la storia politica e culturale dei cattolici di Livorno attraverso una attività di indagine volta a scoprire se e dove questa documentazione potesse ancora trovarsi.

L'insegna luminosa della DC della sezione di Campiglia Marittima, Livorno, recuperata nell'ambito del progetto Istoreco-Sturzo (Archivio Istoreco, Livorno)

L’insegna luminosa della DC della sezione di Campiglia Marittima, Livorno, recuperata nell’ambito del progetto Istoreco-Sturzo (Archivio Istoreco, Livorno)

Ciò che ne è risultato è la costituzione di una sorta di archivio provinciale del movimento politico cattolico livornese, depositato all’Istoreco, strutturato come raccolta di tanti piccoli o grandi fondi privati. Si tratta di un progetto che, oltre ad esser parte integrante dell’articolata operazione varata dell’Istoreco sulla conservazione degli archivi politici, si inserisce all’interno di un progetto nazionale di lungo periodo che l’Istituto Sturzo ha dedicato agli archivi locali. Il progetto “Archivi locali in rete”, cominciato nel 2001, consiste nel recupero degli archivi delle organizzazioni periferiche della Dc (al momento sono stati recuperati 18 archivi di Comitati Provinciali e 5 archivi di Comitati regionali) e nella creazione di un sistema nazionale di informazione sulle fonti archivistiche relative alla storia della Democrazia Cristiana. La novità del progetto livornese sta nel fatto che si tratta del primo caso di costituzione di un archivio come raccolta di fondi privati. Un metodo che ha ricevuto anche l’appoggio della Soprintentenza Archivistica della Toscana che lo ha definito «meritevole del più ampio sostegno», sostenendo che «il tipo di intervento è […] scientificamente valido e ben disegnato, ed è probabilmente l’unico modo per arrivare ad un recupero il più possibile ampio di questa memoria storica».

Grazie a questa operazione oggi il fondo archivistico del movimento politico cattolico livornese conservato all’Istoreco ammonta a circa 200 buste, provenienti da 12 fondi distinti. Oltre alle carte Zari, sono in particolare da segnalare i documenti depositati da Enrico Dello Sbarba – che fu segretario della DC livornese alla metà degli anni ’70 e che ha avuto un ruolo essenziale nelle fasi iniziali di ideazione del progetto Istoreco-Sturzo – e il fondo della Sezione DC di Campiglia Marittima (Livorno). Quest’ultimo fondo, in particolare, si distingue, insieme alle carte Zari, per la consistenza e il valore della documentazione conservata: grazie ad una operazione di “salvataggio” particolarmente fortunata è stato infatti possibile recuperare buona parte dei materiali (tutti destinati al macero) che documentano l’attività della sezione campigliese della DC dal 1945 al 1994 e quella relativa all’attività del Partito Popolare e della Margherita (regolamenti, statuti comunali, verbali di sezione, protocolli di sezione, carteggi e manifesti).

Articolo pubblicato nell’ottobre del 2019.




Il 1917 in Toscana

Il 1917 è stato un anno di svolta generale nella storia della prima guerra mondiale. Eventi eccezionali come la rivoluzione russa, l’ingresso nel conflitto degli Stati Uniti nel conflitto, la gravissima crisi alimentare e la rotta di Caporetto sottoposero a molteplici ansie e a notevoli sfide i “fronti interni”, intensificando il senso di stanchezza verso le condizioni sempre più dure imposte dallo stato di guerra.

L’Italia, come la Germania e la Russia, fu uno dei paesi maggiormente interessati dalla cosiddetta “crisi dei fronti interni”. Dopo quasi due anni di rassegnazione o di proteste sommesse, in tante aree del paese riesplosero tensioni che riportavano con il pensiero a due anni prima, ai momenti più caldi delle mobilitazioni che avevano preceduto il tardivo e osteggiato ingresso del Regno dei Savoia nel conflitto.

In tale contesto conflittuale, la Toscana è stata tradizionalmente percepita come un territorio assai coinvolto da quella nuova esplosione di agitazioni e proteste espressione del disagio popolare verso il conflitto. Una fama legata un po’ alla leggendaria notorietà di alcuni episodi, come la grande marcia per la pace delle donne della Valle del Bisenzio del luglio 1917 guidata da Teresa Meroni, in parte a quanto messo in luce dagli esiti di alcuni sporadici e specifici studi o ancora al vivo ricordo delle forti e spesso radicali proteste antinterventiste del periodo della neutralità che avevano agitato non poco i sonni delle autorità in tutta la regione. Questa impressione è ampiamente confermata adesso da una mappatura organica di quel ciclo di manifestazioni di rivolta, e delle variegate forme che esse assunsero, effettuata da un recente volume promosso dalla rete degli Istituti toscani della Resistenza e curato da Roberto Bianchi e da Andrea Ventura dal titolo Il 1917 in Toscana. Proteste e conflitti sociali. Il testo affronta infatti il tema in maniera ampia, grazie a un complesso di saggi di vari autori dedicati alle diverse province della regione (da Massa Carrara a Lucca, da Pisa a Livorno, dall’area pratese e pistoiese alle zone rurali del territorio fiorentino, maremmano, aretino e senese).

La geografia delle proteste finì effettivamente per abbracciare l’intera regione, e per coinvolgere, dal punto di vista ambientale e socio-economico, aree urbane e medie cittadine, ma anche borghi di campagna e realtà rurali in cui forse per la prima volta risultarono scossi i consolidati equilibri della “pace sociale” garantita dal proverbiale regime mezzadrile. Lotte operaie in grossi centri urbani come Livorno si intrecciarono dunque con grandi e piccole mobilitazioni contadine come quelle ad esempio di aree tipicamente mezzadrili quali Greve o San Casciano nel Chianti.

Teresa Meroni, fine anni ’20.

Dal punto di vista della composizione sociale, la crescente conflittualità vide assai attivi le donne e i ragazzi, che come la storiografia sul primo conflitto mondiale ha largamente messo in luce furono un po’ ovunque i soggetti privilegiati delle mobilitazioni avvenute a conflitto in corso. Nella Toscana del 1917 tali soggetti diedero vita a un’estate particolarmente «incandescente» in tante realtà del contado pisano, dove grossi opifici artigianali che impiegavano numerose operaie coabitavano con la perdurante centralità del mondo agricolo, e per intensità e durata il fenomeno della protesta femminile investì in maniera significativa e con diversi episodi di mobilitazione anche diversi comuni interni e costieri della provincia di Massa-Carrara. Un’altra zona calda di forte attivismo delle donne in piazza contro la guerra furono il circondario pistoiese e quello immediatamente confinante del pratese che si segnalarono in particolare per la diffusione e il successo delle cosiddette “marce della pace” che si svolsero nel corso dell’estate. A ruota del particolare protagonismo di queste aree, il fenomeno non mancò però di di lambire contesti per tradizione ritenuti politicamente assai più quieti come la città di Lucca, dove a distinguersi furono le agitazioni delle numerose sigaraie della grande Manifattura tabacchi cittadina, o spaccati esemplari della placida Toscana rurale come appunto il Chianti fiorentino o località della profonda campagna senese. Queste agitazioni fortemente connotate in chiave di genere e generazionale, cominciate a inizio anno con petizioni e preghiere alle autorità, presero nel corso delle settimane la forma di presidi di fronte a palazzi ed uffici delle istituzioni e si radicalizzarono nei mesi a venire con veri e propri cortei e manifestazioni contrassegnati da grida ed espliciti slogan contro la guerra, spesso animati da centinaia di popolane e fanciulli e che giunsero in molti casi a infrangere con fare minaccioso l’ordine costituito e a scontrarsi apertamente con la forza pubblica. Arresti e processi colpirono numerose partecipanti a queste azioni e con particolare durezza alcune delle leader riconosciute delle proteste; esemplare in tal senso il destino di Teresa Meroni, la sindacalista milanese attiva da un paio di anni nel pratese e postasi a capo degli scioperi e delle marce nella Valle del Bisenzio che prontamente punita con diversi mesi di carcere e una cospicua multa fu poi internata in Garfagnana fino al termine della guerra.

Laddove vi erano numerosi, grazie al vasto operare del meccanismo degli esoneri per la presenza di fabbriche di interesse bellico dichiarate “ausiliarie”, anche gli operai maschi non si astennero altesì dal prendere sempre più parte col trascorrere dei mesi a episodi di protesta. Emblematico da questo pinto di vista il caso di una delle non molte realtà a forte industrializzazione della Toscana dell’epoca come quella livornese. Negli stabilimenti militarizzati del capoluogo o del polo siderurgico di Piombino si assiste infatti a un escalation di proteste culminate nella seconda metà dell’anno in grandi e massicci scioperi, pur vietati dal regime di guerra, e in eclatanti forme di rifiuto della propaganda patriottica e antidisfattista imposta dopo Caporetto; spicca in proposito il caso delle conferenze patriottiche inaugurate a fine anno in pompa magna nei grandi stabilimenti del proprio cantiere dai fratelli Orlando e sospese nel giro di un solo mese per l’ostinata, massiccia e “imbarazzante” diserzione opposta ad esse da parte delle maestranze operaie.

Per quanto concerne le caratteristiche e le forme della protesta antico e moderno si mescolarono, consueti bisogni e nuove idealità si sovrapposero. Così a deferenti istanze verso le autorità superiori e a tumulti spontanei per il pane, ad atti di ostruzionismo e di sabotaggio che attingevano al tradizionale repertorio della protesta popolare, si associarono sempre più pratiche d’azione più avanzate quali scioperi, cortei di protesta e altre agitazioni in cui non mancarono occasionalmente di fare capolino segnali o simboli di espresso carattere politico (di intonazione pacifista e rivoluzionaria), che contribuirono a un mutamento del clima generale con cui le autorità e la società in guerra furono chiamate a fare i conti.

Del resto a lungo la storiografia è stata incline a considerare le dimostrazioni contro la guerra del primo conflitto mondiale quali espressioni di protesta frutto di un’istintiva reazione popolare a un concreto disagio economico e sociale (l’assenza di mariti e fratelli, carichi di lavori insostenibili, il carovita, l’insufficienza dei sussidi). Rivolte per il pane a cui è stata fondamentalmente negata ogni valenza politica di fondo. In realtà nei grandi stabilimenti cantieristici e metallurgici di Livorno, ma anche fra le “fabbrichine” del pisano, o fra le lavoratrici del pratese dietro i comportamenti che segnavano una presa di distanza dallo sforzo di mobilitazione interna trame e movimenti – ma finanche gesti simbolici – di natura politica, come affiora da alcune delle pagine del libro, appaiono largamente riscontrabili. Sembra peraltro di osservare nel corso dei mesi un mutamento di tono dello stato della protesta in cui il semplice rifiuto della guerra quale aspirazione al ripristino del tradizionale ordine di cose si trasforma sempre più in richiesta ed esplicito desiderio di pace, percepita quale un orizzonte ideale nuovo e alternativo rispetto al presente.

Non un’effervescenza prodotta da uno stato di bisogno dunque, ma qualcosa di più profondo e radicato pare muoversi dietro il disagio e le tensioni. Un altro aspetto di parziale novità che pare affiorare dagli spunti offerti dalle ricerche di questa recente mappatura, rispetto alle consuete conclusioni della storiografia sulla protesta, è non a caso l’emergere di una scansione temporale variegata delle agitazioni che non sempre mostrano una ciclicità lineare nei diversi territori. Dopo il picco del 1917 infatti non dappertutto si registra un rapido riflusso della conflittualità fino alla scomparsa delle lotte e delle inquietudini dell’anno precedente, ma il fenomeno conflittuale non sempre si spegne e tenderà semmai a saldarsi con le agitazioni e le rivendicazioni dell’immediato dopoguerra e più avanti ancora del “biennio rosso”.

*Marco Manfredi ha conseguito nel 2005 il titolo di Dottore di Ricerca presso l’Università di Pisa. Dal 2007 al 2009 è stato borsista postodottorato al Dipartimento di Scienze della Politica dell’Università di Pisa, mentre dall’anno accademico 2009-2010 è Professore a contratto di Storia Contemporanea. Attualmente è collaboratore dell’Istituto Storico della Resistenza e della Società Contemporanea nella provincia di Livorno.

Articolo pubblicato nel settembre del 2019.




Emilio Angeli: il “nonnino” della Resistenza toscana

«Chi ricorda la situazione livornese dal ’45 al ’48 sa che cosa voleva dire, allora, agire nel piano sociale per una idea cattolica apertamente professata. [Emilio Angeli] era ancora dolorante per le percosse e le fratture riportate dalla aggressione di centinaia di scalmanati e ripartiva per affrontare in altre parti il rischio di nuove aggressioni. “Non sono questi i guai” diceva sorridendo e ricominciava la sua battaglia. Erano giorni in cui solo i manifesti murali del “Fides” osavano affrontare il terrorismo comunista per far conoscere le cose vere della città. La polizia non era sufficiente per proteggere, la gente era spaventata: affiggere quei manifesti, periodicamente, tra continue minacce significava rischiare letteralmente la vita: ma il sor Emilio insieme ad Alfio e a pochi altri, sempre diversi, non mancava mai. Non si trattava di episodi ma di una lotta continua ed estremamente rischiosa condotta in difesa dei valori cristiani con l’umiltà di chi la credeva un semplice dovere»[1].

Così scriveva il 20 gennaio 1957 sul «Fides» don Renato Roberti, nel terzo anniversario della morte di Emilio Angeli, il «nonnino»[2] della Resistenza toscana.

Emilio Angeli (Archivio Centro Studi R. AngelI)

Emilio Angeli (Archivio Centro Studi R. AngelI)

Due giorni prima il vescovo coadiutore di Livorno monsignor Andrea Pangrazio inaugurava in memoria del padre di don Roberto Angeli il «Centro di Assistenza Sociale Emilio Angeli»[3], situato vicino al Cantiere Orlando tra Borgo S. Jacopo e via Micheli. Quel Centro avrebbe raggruppato il “cuore” delle attività del Comitato Livornese Assistenza (CLA) di cui nel 1948 Emilio «fu uno dei più entusiasti e preziosi iniziatori»[4]: in Borgo S. Jacopo col tempo si raggrupparono un notevole numero di attività, tra cui una Casa di educazione per adolescenti, la Scuola Tipografica «Stella del Mare», un Centro medico-psico-pedagogico, un Refettorio e ricreatorio post-scolastico oltre agli Uffici e servizi vari del CLA[5]. Per la Pontificia Commissione Assistenza (PCA) e per il CLA, Emilio Angeli aveva speso senza risparmiarsi l’ultimo decennio della sua vita, occupando il tempo che gli restava libero finito il turno di operaio alla Motofides. «Senza mio padre – affermò don Angeli – non avremmo potuto fare per i ragazzi quello che abbiamo fatto»[6]. Scrive don Roberti: «Con lo stesso impegno e la stessa generosità del periodo clandestino si dava anima e corpo al successo dell’opera, ne amava intensamente le finalità e non c’era niente che egli considerasse estraneo alle sue premure e alle sue fatiche. […] Più di una volta, per un insieme di circostanze, si è trovato praticamente solo a sostenere il peso della organizzazione di tutto il C.L.A. Allora saltava notti in bianco, pasti, conversazioni estranee, e si moltiplicava per fare tutto quello che occorreva. […] I bimbi delle colonie, dei doposcuola, dei ricreatori, li amava, li difendeva»[7].

Gli scontri coi comunisti nel dopoguerra, anche seri e gravi[8], non furono niente a confronto con le nerbate e con le torture subite da Emilio Angeli nelle carceri di via Tasso a Roma durante gli interrogatori a cui fu sottoposto dal responsabile del Massacro delle Fosse Ardeatine in persona, Herbert Kappler, il famigerato comandante del Servizio di Sicurezza  (Sicherheitsdienst-SD), e della polizia segreta nazista (Geheime Staatspolizei-Gestapo) di Roma.

Tradito da un certo Ghirelli, che operava ai margini della Resistenza romana, Angeli fu arrestato dalla Gestapo sul ponte Milvio. «Fui portato in via Tasso in Roma – ricordava Angeli nel 1945 – bella villa, finestre murate, dimora delle S.S. luogo principale di tortura di Roma. Spogliato, perquisito, privato di quanto possedevo fui portato in cella dove si trovavano altri sei disgraziati. La mia persona parve alle S.S. tedesche molto importante perché fui subito sottoposto a lunghi e estenuanti interrogatori interrotti da nerbate perfino sotto le piante dei piedi. Il mio viso serviva come esercizio di box anche al colonnello Kappler comandante delle S.S. a Roma. Il mio viso era diventato gonfio come un pallone ciò durò per cinque giorni alla fine dei quali si sentenziò: “domani sotto torchio parlerete…”»[9]. Kappler «credeva nientemeno che fosse un generale – scrive don Angeli nel capitolo dedicato a suo padre nel Vangelo nei Lager – […] Questo – disse una volta Kappler ai suoi collaboratori dopo un’estenuante seduta, mentre il detenuto a testa bassa, taceva ancora ed il pavimento era chiazzato di sangue – questo è veramente un soldato…»[10].

Nel dopoguerra il Maresciallo d’Italia generale Giovanni Messe decorò Emilio Angeli con la Medaglia d’argento al Valor Militare con la seguente motivazione: «Nel corso di un lungo periodo di attività clandestina collaborava alla attività di due nuclei informativi operanti in territorio italiano occupato dai tedeschi. Arrestato e sottoposto a lunghi ed estenuanti interrogatori, manteneva ferma e dignitosa fierezza. Condannato a morte riusciva ad evadere e a raggiungere le truppe alleate»[11]. Anche il rabbino capo di Livorno, Alfredo Toaff, riconobbe che quello di Angeli fu un «esempio fulgido di bontà, di fede e di eroismo»[12].

Sia don Angeli che Renato Orlandini descrivono il fortunato epilogo del suo arresto[13]. Emilio Angeli lo ricordava così: «Per una ventina di giorni fui lasciato in pace e me ne chiedevo la ragione quando la sera del 3 giugno fui condotto in una sala dove mi legarono le mani dietro la schiena. La stessa sorte toccò ad altri 28, a un certo momento giunse in cortile un piccolo camion dove ci fecero salire, dopo il quattordicesimo non ce ne stettero altri, io ero il quindicesimo. Il maresciallo mi respinse e il carico partì. Noi ritornammo nella sala, si prolungava di qualche ora la nostra agonia, anche allora Iddio mi protesse. La macchina non fece ritorno e alle ventiquattro fummo slegati e ricondotti in cella. La mattina del 4 giugno sentimmo gran confusione, erano i tedeschi che dal palazzo di via Tasso fuggivano perché si sentiva la mitraglia e il cannone vicino Roma. Alle sette del mattino eravamo liberi, la popolazione ci aveva aperto le porte».

Erminia Cremoni e Emilio Angeli (Archivio Centro Studi Roberto Angeli)

Erminia Cremoni e Emilio Angeli (Archivio Centro Studi Roberto Angeli)

Ma perché c’era stato tanto accanimento contro Emilio Angeli? E in cosa consistette il suo «lungo periodo di attività clandestina»?

Merlini lo sintetizza così: «Si trattava di salvare tanti ebrei perseguitati, di portare aiuti a tanti soldati italiani e a tanti prigionieri alleati braccati sui monti, di raccogliere informazioni militari, di divulgare la stampa clandestina e soprattutto di dare vita ai primi gruppi di partigiani. E il “nonnino” compariva dappertutto, con tutti i mezzi, ad aiutare ed a risolvere le più disperate situazioni»[14].

[1] R. ROBERTI, Alla generosità della sua lotta non può mancare il premio del Signore, in «Fides», 20 gennaio 1957. Emilio Angeli era nato nel 1887 e morì nel gennaio del 1954.

[2] «Lo chiamavamo così perché, a noi ventenni, un cinquantenne o poco più sembrava vecchio. E, in effetti, era il più anziano del nostro gruppo [dei cristiano-sociali]», cfr. R. ORLANDINI, Attorno al quarantatré, MCS, Livorno 1989, p.49

[3] A Emilio Angeli vennero intitolate anche la Colonia montana presso Cutigliano (Pistoia) e nel 1969 il Soggiorno montano in località Talento presso Marliana (Pistoia), cfr. 1948-1964 Gli anni e le attività, in «Il Ponte», notiziario del Comitato Livornese Assistenza, n.2, aprile 1964 e 30 anni, «Il Ponte», n.1, maggio 1976

[4] Cfr. Emilio Angeli, «Il Ponte», n. 2, aprile 1964

[5] Cfr. Il Vescovo e il Prefetto inaugurano il nuovo Centro di Assistenza Sociale “Emilio Angeli”, in «Fides», 20 gennaio 1957

[6] Cfr. Il «nonnino» che aveva per amici i bambini, in «Fides», 24 gennaio 1954

[7] Cfr. R. ROBERTI, Rischiare la vita per il bene degli altri fu la sua soddisfazione più bella, in «Fides», 21 febbraio 1954

[8] In Archivio Centro Studi don Roberto Angeli, si trova una lettera di don Angeli a Gianfranco Merli, datata 1963, in cui il sacerdote ricordando il decennio 1945-1955 e gli scontri con i comunisti afferma che «a mio padre, che scortava i nostri “attacchini” [del “Fides” edizione murale], venivano rotte due costole». In R. ROBERTI, Perché voglio parlare di don Pessina, in «Darsena Toscana», 21 settembre 1991 don Roberti sostiene che nel dopoguerra «il “nonnino”, il babbo di don Angeli, l’eroico antifascista, torturato dai nazisti a Roma in via Tasso, senza che riuscissero a farlo confessare, aggredito dai comunisti a S. Jacopo e bastonato a sangue – ricoverato all’ospedale con due costole rotte – accusato e punito come un “bieco fascista”»; concetto ribadito in Id., Delitto di leso giornalismo, in «Darsena Toscana», 21 settembre 1996: «il babbo di don Angeli, l’eroico “Nonnino” della Resistenza, lo picchiarono a sangue i comunisti».

[9] La testimonianza inedita si trova nell’Archivio ISRT, Fondo Clero, Busta n.6, Fascicolo XIII, Diocesi di Livorno.

[10] R. ANGELI, Vangelo nei lager: un prete nella Resistenza, Stella del Mare, Livorno 1985,  pp. 20-21

[11] Cfr. R. ROBERTI, Rischiare la vita per il bene degli altri fu la sua soddisfazione più bella, in «Fides», 21 febbraio 1954.

[12] ibid.

[13] R. ANGELI, Vangelo nei lager, cit.,  pp. 21-22 e R. ORLANDINI, Attorno al quarantatré, cit., pp. 48-50

[14] L. MERLINI, In memoria di Emilio Angeli, in «Il Tirreno», 20 gennaio 1954

Articolo pubblicato nel luglio del 2019.