“Inciampare” nel passato per capire il presente

Sono sempre inorridito ogni volta che incido i nomi, lettera dopo lettera. Ma questo fa parte del progetto, perché così ricordo a me stesso che dietro quel nome c’è un singolo individuo. [...] L’installazione di ogni Stolperstein è un processo doloroso ma anche positivo perché rappresenta un ritorno a casa, almeno della memoria di qualcuno. (Gunter Demnig)

Che l’arte abbia impressa nelle sue mille anime la sua brava dose di memoria, più o meno esplicita, più o meno varia e consapevole, è cosa palese per chi l’ama e la studia, anche da lontano. I tempi, le temperie culturali, la voglia di appartenere, o di distinguersi, di lasciare segni volti al futuro, che richiamino vissuti, esperienze, afflati o sofferenze singole e corali hanno contrassegnato la comunicazione artistica di tutti i tempi, di tutte le arti. Più espliciti e non scevri di retorica sono talvolta i molti monumenti che nelle piazze ricordano i caduti delle guerre, carichi anche di un’altra memoria forse più inconscia, ma non meno significativa, quella lasciata dalla mano di un artista imbevuto della cultura del suo tempo.

L'artista Gunter Demnig (foto di Karin Richert, tratta da www.stolpersteine.eu)

L’artista Gunter Demnig (foto di Karin Richert, tratta da www.stolpersteine.eu)

La riflessione di Gunter Demnig sulla memoria è intuizione geniale e azione artistica al tempo stesso. Ha scelto di fare della sua vita un’opera di memoria: dare un nome e una presenza a chi vide la propria vita tragicamente spezzata dalla deportazione, la propria identità depredata e negata, sostituita con un numero di matricola. Nel breve spazio di un sampietrino riluce l’ottone con un nome e una biografia sintetica. Inciampa la vista e accende la memoria, ma senza retorica, senza ricorrere a nessun stratagemma volto a commuovere o a commentare. È chi guarda a trovare la memoria e la storia come sua conquista personale, cercare e capire il senso di un vissuto, che è parte di un vastissimo mosaico, ad oggi comprendente 60.000 pietre d’inciampo sparse in tutta Europa ed in continuo incremento. Un’opera maestosa, quella di Gunter Demnig, forse mai realizzabile fino in fondo, e per questo coraggiosissima. E che si avvale necessariamente della collaborazione di altre persone nei paesi di origine per la ricostruzione delle biografie dei deportati razziali, politici, militari; una sorta di ritorno di chi in realtà non tornò mai alla sua casa, o vi tornò con la vita ormai segnata. Un ritorno dimesso, dignitoso, ma immenso e radicato nei tessuti delle città, nel selciato su cui il presente cammina.

Anche Grosseto il 13 di gennaio avrà le sue prime pietre d’inciampo e farà parte di questa opera incredibile: tre piccole pietre verranno poste nel cuore del centro storico a ricordare Albo Bellucci, Italo Ragni, Giuseppe Scopetani, tre deportati politici grossetani.

Questo è il simbolico atto in cui culmina un lavoro di ricerca didattico e divulgativo intrapreso ormai tre anni fa: “Cantieri della memoria. Dalle pietre al digitale”, un progetto realizzato con il contributo del CESVOT, che ha coinvolto 8 associazioni e 5 enti locali della Maremma: Provincia e Comune di Grosseto, Comuni di Manciano Magliano in Toscana e Roccastrada. In ogni Comune sono stati individuati segni della memoria: monumenti, toponomastica, tracce lasciate nei luoghi da eventi, che hanno contribuito a costruire la realtà sociale presente. L’obiettivo era quello di far dialogare memoria e storia, di porre segni di memoria del passato, di sollecitare nelle nuove generazioni un’elaborazione del passato e una consapevolezza delle responsabilità di lutti e violenze che hanno attraversato il Novecento. È stato fondamentale il coinvolgimento degli studenti, che, guidati dai ricercatori dell’Isgrec, hanno intrapreso in ogni comune un lavoro didattico sui segni di memoria, cercandone il profondo significato storico nell’ottica di un recupero e di una valorizzazione.

Il bassorilievo di Tolomeo Faccendi, commissionato da Tullio Mazzoncini, donato al Comune nel 2008 e oggi esposto nell'atrio del Municipio

Il bassorilievo di Tolomeo Faccendi, commissionato da Tullio Mazzoncini, donato al Comune nel 2008 e oggi esposto nell’atrio del Municipio

Significativo al riguardo è stato il lavoro dei ragazzi della IV B a.s. 2014-2015 del Liceo Artistico di Grosseto, indirizzo Arti figurative, che ha ricostruito la complessa vicenda del rilievo in gesso di Tolomeo Faccendi e della sua copia in Bronzo a Campospillo, di proprietà della famiglia Mazzoncini e donato alla città nel 2008, attualmente esposto nell’atrio del Municipio di Grosseto. Partendo dalla costruzione di laboratori sulle fonti storiche, i ragazzi hanno potuto ricostruire la genesi del monumento e la storia della deportazione politica grossetana da esso ricordata, collocando l’opera d’arte nel contesto storico e artistico della Maremma del Secondo Dopoguerra. Alla fine del percorso storico e critico hanno stilato i testi esplicativi confluiti nel sito Cantieri della memoria e richiamabili dal QR code posto nella targa recentemente collocata accanto al monumento.

In questo modo un tassello importante del rapporto arte-memoria è stato ricostruito e ricollocato scientificamente per una corretta fruizione storica sotto gli occhi della cittadinanza.

Ne è emersa la vitalità artistica di Tolomeo Faccendi, importante scultore attivo fino agli anni Settanta del Novecento in città, le sue relazioni di amicizia e condivisione con Tullio Mazzoncini, protagonista insieme a Scopetani e Bellucci della tragica vicenda che ne determinò la deportazione a Gusen e Mauthausen. Attraverso il potere evocativo del linguaggio artistico, che richiama classiche suggestioni, ricorrendo per certi versi addirittura alla maniera michelangiolesca nella rappresentazione del dolore in un lager, l’artista riesce a indurci ad una riflessione, a soffermarci per osservare, per capire. L’opera diventa quindi strumento di conoscenza e testimonianza storica, ma anche momento di crescita etica individuale.

Altro segno artistico legato alla memoria della deportazione nel grossetano è il monumento ai Martiri dell’Antifascismo e della Resistenza, posto nello spicchio di verde all’incrocio di via Giuseppe Scopetani e via Albo Bellucci alla Cittadella dello Studente. Il monumento si presentava mutilo della targhetta esplicativa della data e dell’autore. Anche le guide della città più informate non ne attribuivano la paternità. Un’appassionata ricerca dell’Isgrec, che, ancora una volta e non a caso, ha coinvolto il mondo della scuola, ha dapprima individuato i protagonisti del progetto della costruzione della Cittadella dello Studente, concepita come piccolo campus, luogo di studio e di lavoro, che rende omaggio alla Resistenza e ricorda i martiri dell’antifascismo finanche nella toponomastica, diventando essa stessa luogo di memoria. Si è potuti quindi giungere alla rievocazione della genesi del monumento, simbolicamente affidato alle nuove generazioni.

Costruzione del monumento (Archivio privato Maria Paola Mugnaini)

Costruzione del monumento (Archivio privato Maria Paola Mugnaini)

Fu infatti l’allora studentessa del Liceo Artistico Maria Paola Mugnaini, vincitrice di un concorso tra i suoi coetanei indetto dall’Amministrazione Provinciale, a progettare la struttura con l’aiuto dei suoi insegnanti nel 1984. Il risultato è una struttura architettonica aperta a forma di piccolo tempietto moderno, struttura inclusiva che nell’alternanza di linee orizzontali e verticali spezzate utilizzate simbolicamente insieme alle linee curve, invita ad entrare sedersi e meditare in silenzio. L’uso dei materiali quali metallo e cemento nella libertà della composizione immersa nel verde ne sottolineano il ripudio della retorica a favore di una ricerca di un’intima e personale meditazione, ribadita dalla lettura del testo conservato su un’epigrafe all’interno del tempietto su cui si riporta una lettera di un condannato a morte della Resistenza.

Il confronto con i documenti fotografici dell’inaugurazione, la generosa testimonianza dell’autrice che abbiamo incontrato e intervistato, hanno contribuito ancora una volta alla comprensione di un pezzo di storia recente della città, nell’ottica delle diverse politiche della memoria, tutte oggetto imprescindibile di un doveroso studio critico.

In questa prospettiva si giunge coerentemente all’oggi, alla sensibilità nuova ed europea che pervade l’opera di Demning, in coerenza con le nuove visuali dettate dalla sensibilità contemporanea, nel rispetto della tendenza a ricostruire e a annoverare una per una, tutte le esperienze individuali; in questo solco si colloca la recente storiografia della deportazione, cifra che contraddistingue tante delle più recenti esperienze di ricerca storica (si pensi agli ultimi libri dei deportati o all’Atlante delle stragi nazifasciste in Italia), nella consapevolezza che la storia è fatta di tante infinite piccole storie personali, nell’intento di non dimenticare e di non lasciare nell’ombra nessuna vita, nessuna voce.

Questo spirito è lo stesso che chiede di cercare ancora, di indagare tra le carte e nelle memorie dei testimoni, come si è fatto per i nostri tre deportati grossetani, e che ha condotto a nuove interviste, nuove interpretazioni, nuovi scenari, perché la storia non è cosa morta, scritta una volta per tutte e poi dimenticata, ma essa vive e continua a pulsare in coloro che ogni giorno le sanno rivolgere ancora nuove domande, alla luce del presente, grazie anche al bagliore breve di un piccolo sampietrino.

Articolo pubblicato nel gennaio del 2017.




“L’Ombrone affitta ma non vende”: il patto antico tra Grosseto e le acque.

Le piene dell'Ombrone

Livello delle piene dell’Ombrone

In occasione delle celebrazioni legate al Cinquantenario della drammatica alluvione del 4 novembre del 1966, alluvione che non vide solo Firenze al centro della epocale vicenda, ma innumerevoli altre realtà tra le quali Grosseto e la sua Maremma, emerge con chiarezza la necessità di una riflessione storica di lungo periodo che ci consenta di cogliere le peculiarità di un complesso problema storico e geografico.

La realtà grossetana, infatti, presenta alcuni spunti per definire una prospettiva che nasce da incroci di punti di vista disciplinari e da sensibilità diverse giocate nell’intento di restituire l’organicità complessa del sistema uomo-ambiente nel tempo.

Grosseto non è solcata dal fiume, ma dal fiume è stata segnata per intero la sua esistenza, sin dalla sua origine. Dal legame stretto con l’acqua, buona o cattiva, sgorga la sua stessa essenza e la sua identità, che dà forma alle cose, disegna i contorni del paesaggio, forgia le vite delle generazioni che vi dimorano: un connubio da indagare nelle sue radici profonde e da insegnare a chi sta crescendo in questo luogo, perché impari a rispettare il patto della città con il suo ambiente, lo accolga e lo difenda.

Da questa riflessione nasce l’idea dell’urgenza e della necessità di un lavoro didattico organico e mirato per avvicinare i ragazzi alla storia dei luoghi, intesi come nodo problematico nato dall’ambiente e dall’uomo che vi si insedia nella prospettiva storica di lungo periodo. In questo contesto la caratteristica precipua della didattica proposta dagli istituti storici, che risiede nella impostazione del lavoro su base laboratoriale, consente di avvicinare i ragazzi al testo delle fonti storiche: siano quelle classiche o quelle archivistiche, archeologiche o iconografiche, non trascurando le fonti materiali ancora presenti sul territorio né un’organica e strutturata lettura del paesaggio urbano e fluviale, né la copiosa messe di studi editi sulla città e il territorio.

Ci viene incontro a questo proposito la mostra organizzata presso l’Archivio di Stato di Grosseto, “L’Ombrone ed altri fiumi. Breve storia delle alluvioni in Maremma” presentata il 24 settembre 2016, che ci restituisce il panorama storico documentario, offrendoci preziosi spunti per una ricostruzione degli eventi che caratterizzarono la complessa vicenda delle acque e la città, estratti dai documenti conservati nei fondi archivistici grossetani, quali l’Uffizio de’ Fossi e Coltivazioni, Il Genio Civile, l’Ingegnere Ispettore del Compartimento, il Commissario della Provincia Inferiore, La Sottoprefettiura di Grosseto, L’Uffizio di Buonificamento delle Maremme, Il Catasto, la Prefettura Granducale, la Provincia di Grosseto, il Comune di Grosseto.

Ilario Casolani (Siena 1588 - 1661) Madonna col Bambino in gloria e i Santi Cipriano, Sebastiano, Lorenzo e Rocco, 1630  Olio su tela cm.274x160. Già nel coro della Cattedrale, ora custodito nel Museo Archeologico e d'Arte della Maremma e Museo Diocesano d'Arte Sacra.

Ilario Casolani (Siena 1588 – 1661)
Madonna col Bambino in gloria e i Santi Cipriano, Sebastiano, Lorenzo e Rocco, 1630  |   Olio su tela cm.274×160. Già nel coro della Cattedrale, ora custodito nel Museo Archeologico e d’Arte della Maremma e Museo Diocesano d’Arte Sacra.

A sintetizzare mirabilmente le vicende che legano la città all’ambiente fluviale e palustre in cui è immersa, l’antica immagine iconografica forse più suggestiva della città di Grosseto. Si tratta del particolare tratto dalla pala d’altare conservata presso il Museo Archeologico e d’Arte della Maremma, Madonna con Bambino e i Santi Rocco, Lorenzo, Sebastiano e Cipriano di Ilario Casolani del 1630, immagine cara agli storici della città, che l’hanno indagata più è più volte per poter immaginare un ambiente storico lontano nel tempo, ormai totalmente modificato, tanto da risultare irriconoscibile. È la vista a volo d’uccello di una piccola città chiusa nelle sue mura stellate, ancora circondate da un fossato, immersa nella luce dorata riflessa da un paesaggio di terra e d’acqua che si perde in lontananza e sfuma i contorni di una natura che si intuisce ostile indomita e selvaggia, sublimata in una struggente bellezza.

Questa bellezza aspra, che riesce a commuovere chi vive e ama la Maremma, e ne vuole indagarne il segreto, percepirne le forza e la sostanza, costituisce la radice identitaria di un territorio che va capita e fatta capire anche a chi è giunto da poco, a chi è giovane oppure che l’ha dimenticata, perché è qualcosa di delicato e fragile, un equilibrio secolare che ogni tanto si infrange e chiede quindi attenzione, cure, nuove fatiche e ancora riflessione.

Sin dall’antichità le fonti più importanti sono quelle di Tito Livio, (Ab urbe condĭta libri, XXVIII, 45, 18) che parla di contributi in legno d’abete e grano destinate a Scipione che raggiungono Roma forse per vie d’acqua (fluitazione), di Plinio, (Naturalis Historia, III 51 ) che definisce l’Ombrone “Navigiorum capax” o del citatissimo Rutilio Namaziano, (De Reditu suo) che nel 417 ripara la notte presso la foce dell’Ombrone, “Non ignobile flumen” definendo la foce un attracco sicuro ed esprimendo il desiderio impossibile di potervi rimanere più a lungo.

Ma forse l’indizio che ci fa maggiormente intuire il legame d’affetti tra gli antichi abitatori della Maremma con le acque del suo fiume è il frammento con iscrizione ritrovato presso lo Scoglietto (all’interno del Parco della Maremma non distante dalla foce dell’Ombrone) con dedica a Diana Umbronensis e restituitoci dagli studi di Studi di Sebastiani e Cygielman.

Molte questioni rimangono aperte, come la presunta navigabilità dell’Ombrone: per molti studiosi certa per l’ultimo tratto, discussa a fondo con posizioni diverse e contrastanti riguardo al tratto nei pressi di Grosseto.

Certo è che in epoca altomedievale il fiume scorreva vicino alla città: esiste un legame imprescindibile tra l’Ombrone e l’origine della città. Essa infatti compare verso la fine del VI secolo, dopo la decadenza della villa di San Martino accanto al tracciato della Via Emilia Scauri (II sec. a.c.) che aveva percorso più interno rispetto alla vecchia Aurelia (III sec. A .c) e guadava il fiume nei pressi di Grancia. Vi era forse un approdo fluviale: nella direttrice fiume – saline – mare- è da rinvenire la cifra dell’esistenza di questo minuscolo centro abitato nascente sulle rovine di un’antichità che aveva visto fiorire città importanti e potenti come Roselle e Vetulonia. Così il piccolo centro prende vita su piccole alture o su un pianoro sommitale nell’area dell’ attuale Piazza della Palma e via Garibaldi -come ci restituiscono recenti scavi urbani- forse per scongiurare il pericolo delle piene dell’imminente fiume.

Ma Grosseto è città fluviale? Non certo in senso classico, come le grandi città italiane, Roma Firenze o Pisa: non è attraversata dal fiume. Ma in forma simile a Grosseto altre città sono lambite da fiumi, basti pensare ai casi di Casale Monferrato sorta accanto al Po, a Cuneo nata vicino ai fiumi Stura e sul Gesso, a Vicenza, lambita dal Bacchiglione, al caso toscano di Prato sorta a sfiorare il Bisenzio. Una possibile pista di analisi conoscitiva potrebbe nascere dalla comparazione delle realtà storico- geografiche simili, valutando analogie e differenze per meglio comprenderne gli equilibri passati e le prospettive future.

Uno spunto importante, poi, su cui concertare una riflessione è la storia delle alluvioni in Maremma nella documentazione e nella letteratura: se poco si sa delle alluvioni in età altomedievale è facile intuirne la presenza nelle caratteristiche legate alla struttura urbana di Grosseto, come si è detto sviluppatasi su piccole alture nei pressi del corso del fiume, ma anche nella mancanza di locali ipogei e di cantine. Documentate sono invece le alluvioni nel basso Medioevo soprattutto nel 1318 (G. Venerosi Pesciolini, Mura e casseri di Grosseto nell’Evo Medio, Siena 1925) e la grande alluvione del 1333 descritta nella Cronica di Giovanni Villani, libro undecimo:

“negli anni di Cristo 1333, il dì di calen novembre, […] onde quel dì della Tussanti cominciò a piovere diversamente in Firenze ed intorno al paese e nell’Alpi e montagne, e così seguì al continuo quattro dì e quattro notti […] dovunque ha fiumi o fossati in Toscana e in Romagna crebbero in modo che tutti i loro fiumi ne menaro e usciro di loro termini, e massimamente il fiume Tevero e copersono le loro pianure d’intorno con grandissimo dammaggio del contado del Borgo a San Sepolcro e di Castello, di Perugia, di Todi d’Orbivieto e di Roma; e ‘l contado di Siena e d’Arezzo e la Maremma gravò molto.”

Alluvioni imponenti, quasi un flagello divino, un preludio dell’apocalisse tanto che il fiume Ombrone cambiò il suo corso e si allontanò dalla città di oltre un chilometro e mezzo: il toponimo Fiume morto a designare un ampio territorio che va dalla Porta Vecchia della città di Grosseto all’attuale argine in fondo a Via de’ Barberi, ne è la testimonianza più evidente. Il toponimo è altresì attestato sin dal 1258 nei pressi di Istia-San Martino, segno evidente che il fiume tendeva a variare il suo corso con andamento progressivo (G Prisco, Atlante storico topografico)

In Età moderna si segnalano man mano che ci avviciniamo al presente, moltissime alluvioni: la documentazione si fa più ricca e più indagata risulta la storia più vicina a noi. Ci basti ricordare le disastrose alluvioni del 1557 del 1758 e del 1813. Epoche difficili segnate da guerre, crisi, carestie. La prima ha una probabile connessione con il conflitto Franco-Spagnolo in cui è inserita la guerra di Siena, che tanto coinvolse da vicino le sorti della Maremma, consegnata, con tutta la Repubblica di Siena, come premio al nascente stato regionale dei Medici; la seconda è al culmine di quello stato di prostrazione demografica ed economica che ispirò a Sallustio Bandini il Discorso su la Maremma di Siena (scritto probabilmente nel 1737); la terza da mettere probabilmente in relazione con le guerre napoleoniche che avevano insanguinato tutta l’Europa. Epoche in cui, dunque, il patto col fiume viene meno? Difficile dimostrarlo con certezza. Sappiamo solo che alla fine dell’età moderna si inizia veramente in maniera seria e strutturata a pensare di intervenire per mettere finalmente a regime le acque maremmane: è del 1815 un bellissimo progetto di sistemazione dell’argine mediceo dell’Ombrone onde scongiurare il pericolo dell’alluvione per la città (Archivio di Stato di Grosseto, Uffizio de’Fossi 609). Di lì a poco iniziarono i grandi lavori che trasformarono in maniera radicale e irreversibile in senso moderno l’ambiente intorno alla città, con il Motuproprio di Leopoldo II di Lorena del 27 novembre 1828, che dispose l’inizio della bonifica e l’avvio dell’opera di colmata prospettata da Vittorio Fossombroni, deviando all’altezza dell’attuale Steccaia il corso del fiume e dirottando le sue acque torbide all’interno della piana di Grosseto e del Padule di Castiglione.

Feritoie a Porta Vecchia dove doveva incanalarsi la chiusa mobile progettata per arginare le acque, 1868

Feritoie a Porta Vecchia dove doveva incanalarsi la chiusa mobile progettata per arginare le acque, 1868

Purtroppo, però, malgrado le maggiori attenzioni e l’immane lavoro svolto, i documenti ci parlano di continue tracimazioni delle acque dell’Ombrone: il 28 dicembre del 1821, nel settembre del 1848, il 30 novembre 1864, il 4 e 5 ottobre 1868, nel novembre e dicembre del 1869, nel 1874, il 7 agosto del 1880, il 7 novembre 1896. Si moltiplicano documenti e notizie, le stime dei danni, le parole delle popolazioni colpite soprattutto nelle abitazioni, nei lavori agricoli, nella morte del bestiame.

Singolare è poi un progetto di una chiusa mobile a Porta Vecchia di ferro fuso per contenere le piene del 1868 (Archivio di Stato di Grosseto, Comune X 98) di cui ancora leggiamo all’interno dell’arco di Porta Vecchia la scanalatura in cui era inserito il meccanismo, proprio accanto al bastione che riporta le iscrizioni lapidee dei livelli delle piene: un vero e proprio luogo della memoria delle ultime alluvioni storiche della città.

Tra queste, l’alluvione del 2 novembre del 1944 è ancora tutta da studiare e da riscoprire. La città liberata da pochi mesi dall’Esercito alleato, ancora dolente per le profonde ferite inferte al tessuto urbano e sociale dai bombardamenti e dalla guerra, stava lottando per tornare ad una difficile e precaria normalità, quando, secondo le testimonianze dei vecchi grossetani, le sirene d’allarme antiaereo suonarono di nuovo, stavolta annunciando un flagello diverso più antico e familiare, ma non meno inquietante. Scarseggiano i documenti e le immagini, si tratta di una storia tutta da ricostruire. Ci vengono in aiuto importanti testimonianze documentarie conservate nell’archivio dell’Isgrec nel fondo del CPLN di Grosseto. A ridosso dell’alluvione, il 9 novembre, si riunisce il Comitato provinciale di Liberazione nazionale per discutere i numerosi problemi di una città che sta ancora in bilico tra la guerra e la pace, tra istanze di democrazia, di ritorno ad un’agognata normalità, e il desiderio di giustizia per le violenze subite. Trova spazio al n.5 dell’ordine del giorno, la voce “aiuti pro sinistrati dell’inondazione del 2 corrente mese” che sviluppa l’idea di creare una commissione formata dai rappresentanti dei sei partiti che formano il CLN unitamente al tenente Rush per la distribuzione degli aiuti. Viene poi stesa una circolare da inviare ai maggiori proprietari della zona per sollecitare donazioni di danaro per i sinistrati.

Fa seguito un nutrito fascicolo di documenti, costituito, tra le altre cose, da una lista di proprietari e persone abbienti di Grosseto, dalle lettere di risposta di alcuni di questi con la comunicazione della cifra donata. Si tratta di uno spiraglio per restituire alla città una memoria che rischia di andare perduta, imprescindibile anello di una catena che ci conduce al presente dando un senso diverso anche all’alluvione di cinquant’anni fa.

In ultima analisi, ciò che ci suggerisce questo breve excursus è l’impellente necessità di conoscere, di studiare il passato per mantenere in futuro un sano equilibrio tra gli uomini ed il loro ambiente che può trasformarsi in qualcosa di temibile e minaccioso se l’avidità, l’immediato interesse la sconsiderata ricerca di profitto prevarranno a oscurare la natura insieme difficile e gentile della Maremma: “L’ Ombrone affitta ma non vende”, dicevano un tempo i vecchi grossetani, gli stessi che per San Lorenzo, patrono della città, giocavano la Giostra del Saracino in via dei Barberi fino ai primi del Novecento. (La Nazione, 10 agosto 1980, Roberto Ferretti). Era una gara tra la città degli uomini e la natura che la accoglieva, sotto gli occhi benevolmente ironici del Santo con la graticola.

Articolo pubblicato nel novembre del 2016.




Gli Internati Militari Italiani di Cinigiano. La storia di una scelta

Un’altra Resistenza venne combattuta da oltre seicentomila Italiani. Fu quella amara e difficile degli Internati Militari Italiani. Fu una Resistenza senza gloria, dimenticata, lontana, nella Germania dei lager, combattuta tra freddo, fame, stenti, malattie. Li hanno definiti “Schiavi di Hitler” perché lavoravano nelle fabbriche della guerra senza salario, senza cibo a sufficienza, lavoravano nelle officine, nelle campagne e a sera tornavano nei campi di concentramento per dormire. A guerra finita ebbero un lungo e difficile ritorno. Non raccontarono allora, perché preferirono costruirsi una vita, nella consapevolezza che nessuno forse avrebbe creduto e capito. Perché la loro era stata una scelta, una scelta in piena regola.

Ma chi erano gli schiavi di Hitler? Erano giovani italiani, che dopo l’armistizio dell’8 settembre del ’43 si trovarono con una divisa addosso e che nella dissoluzione dell’esercito vennero inghiottiti dagli ingranaggi dalla follia nazista e fatti prigionieri.

Allora erano ragazzi Pasquale Cherubini, Zeno Aluigi e Aladino Dari, i testimoni che hanno accettato di ricordare quei momenti drammatici della loro vita. È per salvare questo tesoro di memorie, infatti, che l’Amministrazione comunale di Cinigiano ha voluto finanziare un’iniziativa importantissima di raccolta e conservazione delle testimonianze orali, commissionando all’Istituto storico grossetano della Resistenza e dell’Età contemporanea una serie di videointerviste ai protagonisti della seconda guerra mondiale presenti sul territorio. Così, è stato realizzato un lavoro di ricognizione dei testimoni cinigianesi, scaturito dall’esigenza di consegnare al futuro tutto un patrimonio di esperienze individuali e di vissuti che si sono legati alle sorti della grande storia europea.

ultimato_1589I testimoni hanno raccontato le storie di giovani di campagna, forti lavoratori leali ai valori della tradizione, della terra, della famiglia e della comunità, che si trovarono scaraventati in un panorama agghiacciante di guerra, persecuzioni, distruzioni, deportazioni, nel cuore della Germania nazista.

Furono privati dei loro diritti, furono umiliati e sfruttati come schiavi nelle fabbriche di armi, nell’agricoltura e nei servizi tedeschi, sotto la minaccia dei continui bombardamenti alleati, ma non vennero mai meno alla loro dignità di uomini, non si piegarono alla follia e alla barbarie, affermando con coraggio un chiaro e forte “no” alla guerra. Si tratta di tre vivaci signori che hanno acconsentito a mettere i loro ricordi a disposizione di tutti: sia di chi tenta una difficile ricostruzione della storia, che tenga conto dell’incrocio delle fonti orali e documentarie, sia di chi non sa niente e che vuole sapere, come le giovani generazioni, sempre sensibili alle voci calde e dirette di chi narra cose vissute e sofferte, più che alle pagine stampate un po’ lontane e difficili dei libri di storia.

La Storia, poi, quella ufficiale, non ha reso giustizia agli Internati Militari Italiani. Non tutti si ricordano degli 800mila catturati dopo l’8 settembre del 1943, di cui 650mila rifiutarono la fedeltà ad un’alleanza scellerata ed autodistruttiva (mentre 186mila per motivazioni diverse che vanno dall’ideologia alla sopravvivenza si arruolarono nella milizia della Repubblica sociale o nelle SS): ufficiali e soldati furono rinchiusi nei campi di concentramento, ed i soldati semplici trasformati in lavoratori coatti. Non si rispettò per gli italiani la convenzione di Ginevra del 1929 perché considerati traditori, disprezzati e umiliati, non ultimi solo ai russi, e indegni di essere trattati da prigionieri di guerra. Gli italiani erano piuttosto da considerarsi un “bottino”, utili per mandare avanti le fabbriche o per curare campi e bestiame. Così da metà dicembre del ‘43 furono messi a lavorare duramente e nel rigore dell’inverno nordico; malvestiti e peggio nutriti, molti morirono di freddo e di epidemie. Era martellante la propaganda fascista: se si fossero arruolati ed avessero continuato la guerra per la Repubblica sociale o per i nazisti, avrebbero rivisto la patria, avrebbero avuto vesti adeguate e cibo, ma la maggior parte di loro disse no, non cedette.

Ce lo conferma Pasquale Cherubini che ci ha parlato delle continue richieste di arruolamento nei reparti tedeschi:

Un soldato vestito da alpino ci domandava se eravamo fascisti dicendo “l’Italia è stata invasa dalle truppe a colori, sono molto pericolose per le nostre donne” ..ma nessuno si mosse, “allora, da questo momento, siete considerati come prigionieri” allora fecero le squadre, cinquanta per cinquanta ci mandarono a lavoro

 E Zeno Aluigi motiva il suo rifiuto a quei tedeschi che con un interprete italiano, gli chiedevano di arruolarsi:

…devo andà a ammazzà i miei paesani e gli italiani, io, dissi, non ci vengo. Loro insistevano“siete stati sempre legati a noi, perché non ci volete ritornare?” Saremo stati tre o quattrocento: non ce ne fu uno che avesse firmato per andare con loro… e allora ci tartassavano.

 Hanno descritto la durezza della vita da prigionieri, in Germania le braccia da lavoro servivano: la guerra aveva più bisogno di schiavi che di un improbabile esercito. L’unica cosa concreta che riuscì a fare a quel punto la Repubblica sociale italiana fu promuovere la trasformazione degli Internati Militari Italiani in lavoratori civili, nell’estate del ‘44. Ma non sembra che la situazione cambiasse molto per i nostri testimoni.

Aladino Dari ha raccontato:

So’ stato 17 mesi senza sapere niente dei mieisi portava il carbone alle famiglie, ho lavorato così  per 19 mesierano balle da 50 chili di carbone e si portavano nelle case anche al 4° e 5° piano: si rimediava la vita per andare avanti. Poi bisognava sta’ zitti e non parla’ mai perché avevano paura si parlasse male di loro… Io ero 47 chili… In capannoni lunghi 50 per 15 si stava in 50 persone.

 E ancora racconta di continui bombardamenti tutte le notti, addirittura 280, e dove era, ha visto moltissimi prigionieri con la divisa a strisce, gli ebrei.

Anche Zeno Aluigi ha parlato della sua vita nelle baracche di legno “coi castelli uno sotto e uno sopra”, riscaldate da “una stufettina…” e della fatica:

…si faceva 13 ore di lavoro dalla mattina avanti giorno alla sera… venivano 2 guardie ci prendevano e ci portavano a lavoro nelle fabbriche

Pasquale, Zeno e Aladino raccontano episodi drammatici, scene di vita vissuta, affetti, amicizie e poi di un ritorno reso difficile dalla complessità degli accordi tra i liberatori, dalla mancanza di mezzi di trasporto. Ritorno in una terra tutta da ricostruire con la salute minata dagli stenti e dalle fatiche.

Sono stati tre incontri pieni di verità che per il loro intrinseco valore hanno contribuito a ricostruire una parte del grande affresco della storia del rapporto tra la seconda guerra mondiale e il territorio, che ha potuto confluire in un documentario, Fu la loro scelta, fruibile da chiunque sia interessato a non dimenticare.

Articolo pubblicato nell’agosto del 2016.




La profuganza tra I e II guerra mondiale

Il Novecento, il secolo caratterizzato da due conflitti mondiali che, nell’arco di 30 anni, sconvolsero le nazioni e le popolazioni europee, fu anche il secolo della profuganza, dal momento che le guerre causarono importanti trasferimenti di civili che interessarono tutta l’Europa.

Alla fine del secondo conflitto mondiale, infatti, si verificò un immane spostamento di popolazioni che furono costrette dai Trattati di pace e dalle conseguenti ridefinizioni dei confini ad abbandonare i propri territori, per reintegrarsi in altri paesi. Dal Confine orientale, dall’Istria in particolare, giunsero in Italia circa 300.000 esuli giuliano-dalmati che, tra il 1943 e la fine degli anni ’50, abbandonarono le località di origine per trovare accoglienza nel nostro paese.

 In fuga da Caporetto

In fuga da Caporetto

Non molti anni prima, al tempo della Grande Guerra, si era verificato un analogo allontanamento di uomini, ma soprattutto di donne e bambini, dai paesi che si trovavano lungo il confine nord-orientale, che separava il nostro Stato dall’Impero austro-ungarico. Vennero evacuati interi paesi posti in zona di guerra e le popolazioni furono spostate in Austria, se si trovavano a nord della linea di confine, o in Italia, se vivevano a sud.

La riflessione sulla profuganza e sull’esodo che hanno caratterizzato la I e la II Guerra mondiale apre uno spaccato sul dolore di un popolo costretto a provare sentimenti quali l’abbandono, lo spaesamento, il traumatico distacco da ciò che aveva caratterizzato fino a poco tempo prima il loro vivere quotidiano. Tale riflessione ci permette di cogliere analogie e differenze tra le due esperienze.

Le zone interessate dai due esodi sono in parte le stesse: è dal Confine orientale, in particolare dall’Istria, che a partire dal 1943 iniziò l’esodo dei giuliano-dalmati, mentre il I Conflitto mondiale, con la sua guerra di trincea combattuta lungo tutto il confine nord-orientale, coinvolse nella profuganza, oltre al Friuli, anche il Veneto e il Trentino.

Ciò che fece realmente la differenza, oltre ai numeri (più di 600.000 profughi quelli della I Guerra mondiale, circa 300.000 gli esuli della II), furono le motivazioni che portarono migliaia di persone in Italia come luogo.

Nel corso della Grande Guerra le evacuazioni dai territori interessati dal conflitto furono predisposte dalle autorità italiane e da quelle austriache per motivi legati alla sicurezza delle popolazioni, ma anche per la necessità di garantire ai comandi militari libertà d’azione, nonché per la diffidenza nei confronti dei civili. Se da parte italiana si temeva il lealismo degli abitanti della Venezia Giulia nei confronti della monarchia asburgica, da parte austriaca si temevano i sentimenti filoitaliani di buona parte della popolazione.

Profughe, loro malgrado, queste popolazioni furono indirizzate e accolte in molte città italiane, da cui ripartirono alla fine della guerra per ritornare nelle loro terre di origine.

Diverso l’esodo che si verificò, a partire dal 1943, dalle terre poste al Confine orientale.

Arrivo dei primi profughi istriani a Porta Nuova a Torino, febbraio 1947 © Archivio Storico della Città di Torino

Arrivo dei primi profughi istriani a Porta Nuova a Torino, febbraio 1947
© Archivio Storico della Città di Torino

In questo caso la popolazione non dovette rispondere a nessun decreto di espulsione o a nessun piano di evacuazione che la costringesse a lasciare Pola, Trieste e le altre città dell’Istria. La guerra, in queste terre, generò violenze inaudite, nate e perpetrate all’interno delle stesse comunità in cui convivevano da anni italiani e slavi. Gli infoibamenti del 1943 e soprattutto quelli del 1945, dopo l’arrivo dell’esercito di Tito, caratterizzarono un periodo in cui venne applicata su vasta scala la pratica del terrore, volta a cancellare ogni traccia della presenza istituzionale italiana sul territorio.

Ebbero così inizio i primi esodi di massa da Fiume, a cui fece seguito l’esodo dei quasi 30.000 abitanti di Pola. Anche in questo caso la meta immediata degli esuli fu l’Italia, ma non sempre il loro inserimento nelle nuove realtà fu possibile da realizzarsi con la necessaria serenità, a causa anche delle condizioni materiali del nostro paese, devastato in ogni senso dal conflitto appena terminato.

Un filo rosso congiunge la I e la II Guerra mondiale, attraverso questo fenomeno della profuganza/esodo.

Fu con la Grande guerra, infatti, che città come Gorizia, Trieste, Fiume e tutta l’Istria entrarono a far parte del Regno d’Italia e con esse una pluralità di popoli, lingue, culture e religioni. Fu il fascismo che, con la sua politica deslavizzante e fortemente nazionalizzatrice, approfondì la frattura tra l’elemento slavo e quello italiano. Fu la seconda guerra mondiale, con il gioco delle varie ingerenze politiche che si svolse a fine guerra sulla zona del Confine orientale, che portò agli estremi una ormai insanabile frattura che causò, come risposta alla politica slava decisamente anti-italiana, l’esodo di migliaia di italiani che abbandonarono le loro terre e tutti i loro beni per affermare la propria italianità.

Pochi di questi esuli tornarono nelle loro terre, loro italiani non potevano e non volevano riconoscersi nella Jugoslavia di Tito che, così come il fascismo nei confronti degli slavi anni prima, aveva fatto propria una politica di intolleranza nei confronti dell’elemento italiano.

Profughi, dunque, quelli della I Guerra mondiale, costretti da decisioni militari a lasciare le loro terre a cui fecero poi ritorno.

Esuli quelli della II Guerra mondiale, liberi di rimanere nelle terre di origine a costo della privazione della loro italianità e che per scelta esercitarono il diritto di opzione. Il Trattato di pace, secondo quanto riportato all’Articolo 19, prevedeva infatti il ricorso al diritto di opzione: optare significò scegliere la cittadinanza e optare per la cittadinanza italiana significò di fatto lasciare le terre dove si era nati, dove si era vissuti fino a quel momento, le terre che la diplomazia internazionale aveva assegnato alla Jugoslavia, optare significò in definitiva lasciare tutto quello che si aveva: la terra, la casa, gli affetti e prendere la via dell’esodo, per non tornare più nelle loro terre.

Articolo pubblicato nel febbraio del 2016.




Sulle tracce della Grande Guerra a Grosseto

La dimensione di «grande cesura» rappresentata dalla prima guerra mondiale rappresenta ormai un paradigma storiografico consolidato: per dimensioni, durata, numero di vittime e caratteristiche del conflitto (una guerra di posizione senza battaglie campali risolutive, e la prima guerra industriale) essa rappresentò un evento senza precedenti, destinato ad influire sull’intera storia del XX secolo.

Per l’Italia la prima guerra mondiale si configurò come la prima grande prova dopo l’unità. Non fu, certamente, il primo conflitto armato: altri ve ne erano state, quelli coloniali tra il 1896 e il 1912 in Africa Orientale e Libia, senza dimenticare il coinvolgimento nella cosiddetta «ribellione dei boxer» in Cina nel 1900-1901. Ma si era trattato di conflitti minori, non paragonabili allo sforzo necessario nel 1915-18. Per la prima volta, dunque, l’intera comunità nazionale fu coinvolta in un cimento collettivo che, essendo peraltro la prima guerra totale della storia, richiese sacrifici senza precedenti anche alla popolazione civile, quel fronte interno che assumeva ora un’importanza non così inferiore a quello di battaglia.

Cattura9Questi aspetti macroscopici rappresentano lo sfondo sul quale si sviluppa la mostra virtuale Sulle tracce della Grande Guerra a Grosseto. Storie di guerra, di prigionia, di coraggio di abbattimento, realizzata dall’Istituto Storico Grossetano della Resistenza e dell’Età Contemporanea. Scopo fondamentale della mostra è quello di tenere insieme, di riunire la dimensione nazionale (e globale) del conflitto con quella locale; di mostrare gli effetti della guerra su un territorio strategicamente periferico (perché lontano dal fronte) ma che, come qualunque altra “periferia”, ne subì le conseguenze umane, sociali, economiche e politiche. La mostra si articola su tre sezioni fondamentali (oltre ad una introduttiva): Al fronte¸ La guerra e il territorio e Il dopoguerra e la memoria, a loro volta articolate in più sotto-sezioni che evidenziano specifici temi, come la propaganda, la corrispondenza dei combattenti, la questione dei profughi, il ruolo delle donne e della cittadinanza, le memorie e i monumenti, la toponomastica cittadina. Questo museo virtuale si avvale di una varietà di fonti e riferimenti, da quelle più tradizionalmente storiografiche come la documentazione d’archivio (in particolare proveniente dall’Archivio di Stato di Grosseto) o le memorie, edite ed inedite, di singoli reduci; e poi la stampa dell’epoca, materiale fotografico prodotto autonomamente o reperito in rete, fino ai contributi di cittadini che hanno messo a disposizione le proprie collezioni di memorie ed immagini. La realizzazione della mostra ha dunque richiesto uno sforzo autenticamente multimediale, con la consapevolezza di dover utilizzare strumenti vecchi e nuovi della ricerca storiografica per la realizzazione di uno strumento agile e fruibile per qualunque utente. La dimensione digitale della ricerca lascia inoltre spazio per futuri contributi ed integrazioni, alcuni dei quali già in cantiere.

rimembra_grLa dimensione locale della guerra ha oggi, quando ricorre il centenario da quei tragici avvenimenti, la funzione decisiva di ricondurre ad un orizzonte intelligibile un evento che rischia altrimenti, per le sue stesse dimensioni, di risultare incomprensibile. E di finire così fagocitato, come troppo spesso avviene, nella retorica degli anniversari, con toni variamente più luttuosi oppure celebrativi, ma lasciando intatta una memoria che troppo spesso si affida (nel caso della prima guerra mondiale) ai topoi del sacrificio, della pietà per i morti, infine della vittoria. La mostra virtuale vuole invece dare un nome, e quando possibile un volto, ai caduti, ai feriti e mutilati; ricordare la tragedia dei profughi provenienti dalle zone di combattimento (oltre 1.500 quelli che giunsero in territorio grossetano); il coinvolgimento della cittadinanza nella Croce Rossa o nei comitati «pro patria» che si occupavano di raccogliere denaro e beni di prima necessità per i combattenti; l’assistenza ai reduci durante e dopo la guerra; il ruolo di alcuni istituti peculiari del territorio, come il Centro Militare Veterinario (CEMIVET), tuttora esistente, da cui partirono per il fronte cavalli e muli destinati alle operazioni militari; il peso morale e politico di avvenimenti quali la cerimonia per la sepoltura del milite ignoto, nel 1921, la realizzazione del parco della rimembranza nel 1926 e la denominazione di strade e piazze, inquinate dalla retorica nazionalista e, poi, dalla propaganda fascista.

mutilati_chiedono_il_pane_al_GovernoIl quadro complessivo offerto dal territorio grossetano rispecchia alcuni dati acquisiti dell’epoca: ad esempio la contrapposizione tra interventisti e neutralisti, assai forte soprattutto in alcuni centri di consolidata tradizione radicale e risorgimentale (su tutti Massa Marittima), le problematiche lavorative – in particolar modo in agricoltura – legate alla partenza di tanti uomini, da cui emerse un ruolo sociale della donna senza precedenti, e quelle di natura economica per la crisi causata dal conflitto, con il forte carovita e la scarsità di beni di prima necessità. Ma sono ovviamente emerse le specificità: si pensi al fenomeno del rifiuto della guerra e della diserzione, che produsse una manifestazione notevole come la «Banda del Prete», o alla vicenda delle tenute lorenesi (quindi austriache) di Alberese e Badiola, confiscate dallo stato italiano e al centro, nel dopoguerra, di un aspro conflitto tra l’Opera Nazionale Combattenti e l’Associazione Combattenti grossetana.

Le problematiche specifiche di una “periferia” si proiettano dunque sullo sfondo della guerra italiana e mondiale: e così come la vicenda di tanti giovani maremmani finiti a combattere su fronti lontanissimi (dall’Africa ai Balcani alla Manciuria), danno vita ad un dialogo fecondo con la «grande storia» di cui, infine, anch’esse fanno parte.

Articolo pubblicato nel novembre del 2015.




Egemonia e potere: 40 anni di governo comunista in provincia di Grosseto.

Grosseto e la sua provincia sono stati governati per tutto il secondo dopoguerra dal PCI; un governo egemonico, protagonista della modernizzazione e autore delle più importanti scelte politiche, economiche e sociali che ancora oggi caratterizzano questa provincia. Sin dalle prime consultazioni elettorali post-Liberazioe il PCI risultò partito di maggioranza relativa nel capoluogo e in molti comuni della  provincia di Grosseto. Amministrò con giunte di coalizione, mantenendo un’alleanza con il Partito Socialista che, al di là di brevi parentesi di cui si dirà più avanti, non venne rotta dall’inaugurazione dei governi nazionali e in qualche caso locali di centro-sinistra. Caso che ha una sua singolarità, l’ inaugurazione del  sostegno a una giunta a guida repubblicana già nei primi anni ‘70. Tema rilevante è il rapporto con la Democrazia Cristiana, partito egemone a livello nazionale, soggetto localmente rilevante in certi momenti storici, soprattutto nella fase di attuazione della Riforma Fondiaria.

Osservando la società grossetana tra la fine dell’800 e gli inizi del ‘900 è facile notare una fitta trama di associazioni e di gruppi fortemente connotati da una più antica tradizione repubblicana, garibaldina, anarchica che mostra chiaramente un carattere identitario ribelle e sovversivo.

In questo contesto si svilupparono facilmente le idee socialiste e soprattutto quelle comuniste. Nel 1921 quando la frazione comunista decise la scissione dal Partito Socialista Italiano anche a Grosseto vennero immediatamente fondate numerose sezioni comuniste. Una sentita tradizione sovversiva della zona rendeva ancora forte l’attaccamento ideologico delle masse operaie e contadine locali al partito socialista; i comunisti non erano invece riusciti né a fare proselitismo né a strutturare il partito e nelle elezioni politiche del maggio 1921 i socialisti risultarono il primo partito in provincia; i comunisti non riuscirono a eleggere nessun deputato. Da lì a poco, sotto la spinta delle violenze fasciste, le sezioni comuniste si svuotarono velocemente e i pochi militanti rimasti si organizzarono in partito clandestino.

Dunque, da cosa deriva il consenso dei comunisti nel secondo dopoguerra?

È sicuramente fondamentale il periodo clandestino durante il regime, in cui il partito assume un ruolo dominante nella compagine antifascista. I comunisti grossetani, infatti continuarono sotto il fascismo la propria attività politica, tanto che un protagonista dell’epoca, Aristeo Banchi, detto Ganna, così descriveva la fortuna che i comunisti raccolgono in quegli anni:

“Il fatto che molti comunisti fossero arrestati e continuamente perseguitati nelle forme più diverse, attirò l’attenzione e la simpatia di molti, per lo più giovani, di tendenze politiche diverse e appartenenti alla media borghesia cittadina: studenti, impiegati, artigiani e commercianti. Il comportamento di questi uomini, tenaci, entusiasti della loro attività antifascista, onesti nel lavoro e nella vita, li fece riflettere e cominciarono ad interessarsi della loro attività e vollero conoscere questo Partito Comunista, che era riuscito, a differenza degli altri partiti che erano spariti, a dare speranza per periodi migliori” (Aristeo Banchi, Si va pel mondo).

Ma il consenso verso i comunisti si accrebbe senza dubbio durante i difficili anni della Resistenza, quando il Partito comunista ebbe un ruolo predominante nella guerra partigiana; è in quei pochi mesi che vanno dall’8 settembre 1943 alla Liberazione nel giugno del 1944 che il Partito Comunista iniziò a costruire la propria egemonia nella provincia di Grosseto.

Una volta liberata, la provincia visse un periodo di grande fermento sociale ed economico con le numerose proteste dei contadini che chiedevano la terra e quelle dei minatori che volevano migliorare le proprie condizioni di lavoro ed economiche. È in questo contesto che il partito comunista locale riesce a legarsi con le masse popolari del territorio creando una solida e indissolubile base elettorale e di consenso per il futuro. Per i comunisti grossetani le lotte ebbero una duplice importanza, poiché, da una parte, furono il luogo dove si formò politicamente ed umanamente la classe dirigente che dopo pochi anni prenderà in mano il partito, e dall’altra, le lotte rappresentarono un’opportunità di crescita di consenso. Grazie ad un attento e duro lavoro di propaganda i comunisti grossetani riuscirono a mettersi alla guida di quelle battaglie; era grazie al lavoro di massa, come si diceva all’epoca, che il PCI riuscì a guidare le proteste e a condurle, attraverso le parole d’ordine che il partito stesso decideva, verso il voto comunista.

È necessario sottolineare che le lotte sociali in quei primi anni della Repubblica rappresentarono per un partito di massa come il PCI la vera e propria ragione d’essere: grazie a queste il PCI aumentava la propria forza e il proprio radicamento sociale. Ma non bisogna dimenticare che il PCI a Grosseto era anche un partito di governo che, fin dalla Liberazione, iniziò ad amministrare la quasi totalità degli enti locali. Non potendo prescindere dalle masse popolari e dalle proteste, questi due aspetti costringevano il PCI ad avere un duplice e parallelo modus operandi: da una parte, dovendo governare localmente il territorio, era obbligato a mantenere basso lo scontro sociale verso gli enti locali ma dall’altra parte, continuava a dirigere i movimenti di protesta e il conflitto sociale convogliando il malcontento contro il governo nazionale democristiano. La vera sfida che il PCI dovette affrontare nelle province come Grosseto, dove aveva un ruolo di governo, era quella di riuscire ad avere il monopolio della critica sociale subordinata alla propria idea politica.

Ma la costruzione del consenso comunista nel grossetano doveva passare anche da una capillare organizzazione territoriale e da una forte militanza.

Il PCI, fin dal primo congresso di Lione, aveva scelto una forma di organizzazione non verticistica ma basata su un forte rapporto con il territorio attraverso le federazioni, le sezioni e le cellule. Quest’ultime rappresentavano una vera e propria novità del movimento operaio italiano ed avevano lo scopo di propagare e diffondere le idee del partito sul territorio; con le cellule il partito poteva riuscire a conquistare e a coinvolgere le masse popolari. Il segretario della Federazione comunista Grossetana Guglielmo Nencini, nel Comitato Federale del 28 ottobre 1944 (uno dei primi dopo la liberazione di Grosseto) così riassumeva l’importanza dell’organizzazione cellulare del partito:

“La cellula è il tipo di organizzazione che più di ogni altro permette una intensa vita di partito, una più facile e continua opera di chiarificazione ideologica ed è quella che permette una maggiore tutela del partito contro ogni frazionismo o scissionismo. Ma non basta: la cellula è lo strumento più perfetto e potente di penetrazione politica nella massa popolare, è l’organismo che meglio di ogni altro permette al partito di orientare, guidare le classi popolari e quindi di stringerle attorno alla classe operaia in un blocco unitario veramente inscindibile” (Fondo Nencini, Isgrec).

Fin dalla Liberazione, nella provincia di Grosseto furono aperte numerose sezioni comuniste tanto che il PCI ben presto ottenne una enorme e capillare diffusione territoriale. Ogni paese, ogni città, aveva una sezione; soltanto a Grosseto fino alla prima metà degli anni ’80 si contavano ben 5 sezioni cittadine e altre 15 sparse per tutto il territorio comunale; mentre in provincia si contavano all’incirca altre 135 sezioni per un totale di circa 155 in tutta la Federazione. La nascita, e spesso la costruzione, delle sezioni comuniste era possibile grazie alle sottoscrizioni dei militanti che raccoglievano denaro o che spesso mettevano a disposizione del partito le proprie competenze o il proprio lavoro per la costruzione materiale delle sedi. sottoscrizione sedeLa vecchia sede della Federazione provinciale di Grosseto venne realizzata grazie alla sottoscrizione e al lavoro volontario dei militanti comunisti; una volta ultimata, venne inaugurata nel 1957 da Palmiro Togliatti. Stessa cosa avvenne per la Casa del Popolo di Bagno di Gavorrano che venne inaugurata nel 1973 da Pietro Ingrao.

Ovviamente l’organizzazione e la diffusione sul territorio non poteva reggere senza la militanza di migliaia di grossetani che accrebbero e favorirono l’egemonia comunista in provincia. I militanti comunisti, nei loro luoghi di lavoro e nei loro paesi di residenza donavano volontariamente e con passione il proprio tempo libero al partito, per migliorarne l’organizzazione, per le campagne elettorali e per le Feste de l’Unità.

La rigida morale comunista del primo dopoguerra obbligava i militanti ad una vita sobria e completamente donata alla causa comunista. Questi avevano il dovere, come si legge nell’articolo 9 dello Statuto del PCI del 1951, oltre a “partecipare regolarmente alle riunioni e a svolgere attività di partito secondo le direttive dell’organizzazione”, ad avere rapporti di lealtà e fratellanza con gli altri militanti; vigilare sulle buone sorti del partito e mantenere una “vita privata onesta, esemplare”. Il militante comunista, quindi, doveva dare l’esempio morale anche nella propria vita privata e aveva l’obbligo di “esercitare la critica e l’autocritica per il miglioramento della sua attività e di quella del partito” attraverso anche una continuo miglioramento della propria “conoscenza della linea politica e la propria capacità di lavorare per la sua applicazione”.

Purtroppo non è possibile descrivere uno scenario organico per quanto riguarda le iscrizioni dei militanti poiché mancano molti dati nell’archivio della Federazione comunista, conservato presso l’Istituto Storico Grossetano della Resistenza e dell’Età Contemporanea; tuttavia è possibile affermare che il numero degli iscritti in provincia di Grosseto rispecchiava le medie delle altre province toscane.

L’egemonia comunista non aveva bisogno solo di una forte base sociale su cui fondare la propria organizzazione, ma necessitava anche di rapporti stabili con le altre forze politiche locali. Infatti, senza una solida politica delle alleanze, il partito non avrebbe potuto mantenere la propria posizione.

Manifestazione comunista a ribolla (anni '50)

Manifestazione comunista a ribolla (anni ’50)

Osservando i risultati elettorali del PCI nelle varie elezioni amministrative, si notano due tendenze distinte. La prima mostra, dagli anni ’50 fino alle elezioni regionali del 1970, un sostanziale consolidamento del consenso elettorale del PCI, a scapito chiaramente sia delle opposizioni (DC, Psdi, Pli, Pri), che del principale alleato di sinistra ovvero il PSI. La seconda tendenza, che riguarda il periodo dal 70 fino alle fine del 90, mostra invece una lenta e parziale erosione del consenso elettorale comunista a favore degli alleati socialisti. Questa perdita di voti però non si traduce in una diminuzione di consenso e l’egemonia comunista rimane ben salda; piuttosto la lieve crisi elettorale va imputata alla crescente fortuna politica che il PSI vive in quegli anni.

Il PCI, quindi, costruì il proprio potere locale sull’alleanza strategica con il PSI, creando una sostanziale continuità di governo e dando alle istituzioni locali una forte stabilità politica. Questa alleanza non solo aveva radici ideologiche, ma si basava su un preciso accordo elettorale politico e programmatico che tra le altre cose prevedeva una ferrea e rigida distribuzione, sia delle cariche politiche elettive, che delle cariche di nomina politica nei vari enti locali e collaterali. Nella distribuzione di questi vari incarichi il PCI, forte del suo peso elettorale, faceva valere la propria egemonia ed aveva la meglio sugli alleati socialisti, creando così non pochi malcontenti. Leggendo i verbali dei Comitati federali comunisti di quegli anni è facile trovare numerose notizie a riguardo ma bisogna tenere ben presente che le nomine politiche all’interno degli Enti Locali erano una pratica diffusa, considerata normale ed erano soprattutto permesse dalla legge.

Spesso però le alleanze politiche locali venivano influenzate dalla politica nazionale, come nel caso dell’unificazione socialista del 1966 che portò all’allontanamento del PSI dalle giunte locali. Nel 1967, i socialisti uscirono dalla Giunta provinciale e i comunisti dettero vita ad monocolore con il Presidente Palandri; stessa dinamica avvenne nelle altre amministrazioni locali compreso il Comune di Grosseto. Nel comunicato stampa che i comunisti grossetani diffusero in quell’occasione si legge della grande preoccupazione comunista nel constatare che

“la gravità di questa decisione che avviene con motivi estranei ai problemi e agli impegni programmatici di quelle assemblee elettive nelle quali, da 20 anni e con un sensibile lavoro unitario, la collaborazione tra PCI e PSI ha consentito il conseguimento di estesi successi nell’interesse della città e delle masse popolari” (Archivio PCI-PDS, Isgrec).

Per i comunisti grossetani la crisi dell’alleanza con il PSI era palesemente influenzata dalla politica nazionale ma metteva in serio pericolo la stabilità stessa dei governi locali:

“il disimpegno del PSI-PSDI unificati non è altro che il primo passo di una politica che obbiettivamente può portare le amministrazioni pubbliche grossetane a serie difficoltà, con la conseguenza immediata di sacrificare e ritardare soluzioni urgenti ed inderogabili e con il pericolo di aprire la via a gestioni commissariali in ossequio agli obbiettivi e alla volontà della DC di cancellare la posizione di potere delle forze di sinistra” (Archivio PCI-PDS, Isgrec).

Il PCI, nonostante l’unificazione socialista e la crisi che ne scaturì, rimase al governo con le proprie forze e quando nel 1970 la riunificazione naufragò, i socialisti grossetani rientrarono in tutte le amministrazioni locali e la crisi poté dirsi conclusa. Se il rapporto con i socialisti fu continuo e costruttivo, ben diverso fu il rapporto politico con le altre formazioni democratiche locali.

X Congresso Provinciale del PCI (1972)

X Congresso Provinciale del PCI (1972)

Con il Partito repubblicano italiano, ad esempio, non ci fu mai una vera e propria alleanza politica-elettorale, nonostante il dialogo portato avanti dai comunisti dagli anni ’70 e che vide l’entrata dei repubblicani nell’amministrazione Valentini del Comune di Grosseto negli anni ’80.

Nonostante questo, il massimo punto di avvicinamento politico tra PCI e PRI, sia a livello politico, ma soprattutto mediatico, si ebbe nel 1974, durante le elezioni amministrative del Comune di Monte Argentario, quando Susanna Agnelli, eletta consigliera comunale per il PRI, ottenne l’astensione dei comunisti per varare la propria giunta. Quella di Monte Argentario, con l’astensione comunista a favore dell’amministrazione Agnelli, fu la prima esperienza di maggioranza alternativa all’alleanza social-comunista.

La crisi a livello nazionale che si andò a creare tra la fine degli anni ’70 e gli inizi degli anni ’80 tra il PCI e il PSI ebbe degli echi anche in provincia. Nel 1976 Aldo Tonini, Segretario provinciale del PSI, nel suo discorso durante il XXXI Congresso Provinciale descriveva i rapporti tra il PSI e il PCI “sempre tranquilli e senza problemi” pur tuttavia sottolineando un malcontento:

“in virtù della politica del compromesso storico che il PCI persegue ad ogni livello, nella ricerca costante di un rapporto privilegiato con la DC si verificano contrasti e tensioni all’interno della maggioranza di sinistra. In tempi anche recenti autorevoli esponenti comunisti locali hanno affermato che le difficoltà che di volta in volta sorgono nei rapporti tra PSI e PCI all’interno delle maggioranze sono dovute alla riottosità dei socialisti di fronte ad ogni ipotesi di allargamento delle maggioranze stesse e persino alla chiusura ed agli ostacoli verso ogni tentativo di realizzare un rapporto nuovo con le minoranze” (Archivio PCI-PDS, Isgrec).

Quando poi, sulla scia dei successi elettorali nazionali, il PSI migliorò i propri risultati elettorali locali, la crisi tra i due alleati si fece ancora più palese soprattutto perché il PSI iniziò a chiedere sempre più peso e potere politico. A riguardo può essere utile la posizione democristiana che, dopo anni di isolamento, negli anni ’80 iniziò a cercare di scalzare il potere comunista, proponendo un accordo con i socialisti. Hubert Corsi, durante il Congresso provinciale della Democrazia Cristiana del 22 febbraio 1981, nel suo discorso da Segretario provinciale lamentava l’atteggiamento frontista e la chiusura politica del PCI, affermando che il PCI “è stato abile a cedere certe posizioni [al PSI], talora anche contro la logica elettorale, pur di coinvolgerlo in un’alleanza di carattere generale” in modo da soddisfare “le crescenti aspettative di potere” ottenendo in cambio “certezze e potere”; il PSI di contro, nella lettura democristiana “è stato abile a cercare di trarre dalle difficoltà del tradizionale alleato, il maggiore vantaggio; assicurandosi posizioni di forza superiore alla propria forza elettorale”.

Tra minacce di maggioranze alternative e miraggi pentapartitici, la crisi tra PCI e PSI si rese ancora più palese quando nel 1988 problemi di natura giudiziaria coinvolsero membri socialisti della giunta comunale.

In quella situazione però furono chiari almeno due aspetti: da una parte le opposizioni e i socialisti non avevano una forza tale per rappresentare una vera alternativa al governo comunista; dall’altra invece, ancora una volta, risultò evidente, a Grosseto e in provincia, come il PCI fosse l’unica forza egemonica.

Articolo pubblicato nell’ottobre del 2015.




Da vicino nessuno è normale. Appunti su una storia dei Manicomi Criminali in Italia

Tra gli Ospedali Pischiatrici Giudiziari (OPG) che dal 1 aprile di questo anno sono in fase di graduale dismissione e saranno sostituiti dalle Residenze per l’Esecuzione delle Misure di Sicurezza Detentive (REMS) vi è quello di Montelupo Fiorentino in provincia di Firenze. L’OPG si trova nella Villa Medicea dell’Ambrogiana, costruita alla fine del cinquecento come residenza di caccia dei Medici; nell’ottocento, una volta abbandonata dai Medici e dagli Asburgo-Lorena, l’imponente struttura divenne prima una struttura sanitaria per “dementi acuti”, poi uno stabilimento di correzione femminile, per poi passare nel 1886 a Manicomio Criminale. Quello di Montelupo fu la seconda struttura di questo tipo nata in Italia dopo l’unità. Molti furono i rei folli che scontarono la loro pena nella struttura, alcuni famosi come Giovanni Passannante, l’anarchico che tentò di attentare alla vita di Umberto I di Savoia nel 1878. In questo articolo Valerio Entani tratteggia le fasi salienti di una storia dei manicomi criminali italiani.

La stultifera navis.

Racconta Michel Foucault nel suo celebre Storia della follia nell’età classica che fino al Rinascimento il lebbroso aveva un ruolo fondamentale nella società, poiché incarnava il prototipo del malato; ma soprattutto era il simbolo di tutto il male nella società e fungeva da memento mori per chi era ancora sano. L’allontanamento e la segregazione dei malati in luoghi di cura lontani dalle città non solo era necessario per motivi sanitari, ma soprattutto aveva una valenza rituale nell’allontanare dalla società il male come paura atavica dell’uomo. Dal rinascimento in poi la lebbra inizia ad essere debellata come malattia endemica, le strutture sanitarie di cura rimangono inattive e nella società rimane vacante un ruolo fondamentale. Per Foucault è il folle che prende progressivamente questo ruolo nella società moderna.

Simbolo di questo processo è una immagine letteraria che ancora oggi viene citata: la stultifera navis. Nella tradizione letteraria, questa nave attraversava i fiumi della Renania e i canali fiamminghi carica di folli che venivano scacciati dalle città. Questo loro vagabondare era un vero e proprio processo di esclusione sociale e Foucault spiega che “il gesto che li scaccia, la loro partenza e il loro imbarco non possono venire spiegati solo con l’utilità sociale o con la sicurezza dei cittadini. Altri significati più vicini al rito erano certamente presenti (…)”. Nella lettura antropologica foucoltiana il folle è il simbolo delle paure più ataviche dell’uomo, dalla morte fino alla paura del diverso; la nave dei folli quindi “simbolizza tutta un’inquietudine, apparsa improvvisamente all’orizzonte della cultura europea verso la fine del medioevo. La follia e il folle diventano personaggi importanti nella loro ambiguità: minaccia e derisione, vertiginosa irragionevolezza del mondo e meschino ridicolo degli uomini”.

Foucault ci insegna che la categoria del folle ha racchiuso dentro di sé una molteplicità di declinazioni che andavano dal malato mentale tout court, al povero, al dissociato sociale fino al ribelle, ovvero tutte quelle categorie sociali che andavano contro il progetto di buon governo della società.

È per questo motivo e per la necessità di esclusione che nacquero i manicomi che ebbero, in alcuni casi, lo stesso ruolo anche i carceri.

Erving Goffman nel suo Asylums chiama questi luoghi istituzioni totali ovvero “luoghi di residenza e di lavoro di gruppi di persone che, tagliate fuori dalla società per un considerevole periodo di tempo, si trovano a dividere una situazione comune, trascorrendo parte della loro vita in un regime chiuso e formalmente amministrato”. Le istituzioni si impadroniscono delle vite dei loro ospiti e ne amministrano il tempo in una sorta di “azione inglobante” che viene rappresentata dall’impedimento concreto dello scambio sociale e dell’uscita verso il mondo esterno. Chi vive dentro le istituzioni totali viene risucchiato in una specie di non-luogo al di fuori del mondo, dove lo spazio e il tempo seguono percorsi indipendenti e paralleli e dove soprattutto, viene negato il diritto di esistere come essere umano.

In questo contesto, il rapporto tra chi ospita e chi viene ospitato, ovvero tra carceriere e carcerato o tra psichiatra e malato, diventa un vero e proprio rapporto di potere tra governatore e governato, dove l’uso della forza e della violenza diventano prassi. La pratica e l’uso della violenza non solo, sono alla base dei rapporti di forza all’interno delle istituzioni totali ma, riescono a distruggere il degli internati i quali si ritrovano assoggettati totalmente al potere dell’istituzione stessa.

Franco Basaglia nella postfazione al libro di Goffman, scrive che nei manicomi “la violenza è drammaticamente palese, dato che la malattia è essa stessa giustificazione in atto di ogni sopraffazione ed arbitrio: se il malato è incurabile e incomprensibile, l’unica azione possibile è oggettivarlo nella realtà istituzionale, nella cui azione distruttiva egli dovrà identificarsi”.

La chiusura degli Ospedali Psichiatrici.

La lettura dei testi di Foucault e di Goffman influenza a partire dagli anni ’60 il movimento antistituzionale che si sviluppa in Italia a favore della chiusura dei manicomi. Franco Basaglia con il suo esperimento dell’ospedale psichiatrico di Gorizia e di Trieste diventa il capofila di questo movimento che vede l’appoggio di intellettuali e politici. Basaglia è il primo ad abbattere il muro che circonda il manicomio sia concretamente che idealmente. Seguendo il filone interpretativo di Foucault e di Goffman, lo psichiatra accentua l’aspetto più prettamente sociale e quindi più politico della malattia mentale. Gli ospedali psichiatrici per Basaglia sono “istituzioni della violenza” dove tra malato e psichiatra si instaura un “rapporto di sopraffazione e di violenza fra potere e non potere, che si tramuta nell’esclusione da parte del potere del non potere: la violenza e l’esclusione sono alla base di ogni rapporto che si instauri nella nostra società” (L’ istituzione negata, 1968). Il movimento antistituzionale in questo è molto simile ai movimenti di contestazione giovanili che si sviluppano attorno al 1968; il vero nemico da combattere è l’autorità ovvero, l’autorità del padre, del potere, della scuola e in questo caso dello psichiatra e dell’Ospedale Psichiatrico. L’autorità era per Basaglia la vera causa dell’annientamento umano del malato mentale: “una organizzazione basata sul solo principio di autorità, il cui scopo primo sia l’ordine e l’efficienza, deve scegliere tra la libertà del malato ed il buon andamento del ricovero. È stata sempre l’efficienza e il malato è stato sacrificato in suo nome” (L’istituzione negata, 1968). Basaglia definisce rivoluzionario l’uso dei nuovi farmaci psichiatrici che hanno “concretamente reso evidente allo psichiatra di non trovarsi di fronte ad una malattia, ma ad un uomo malato, egli non può continuare a considerarlo come un elemento da cui la società deve essere protetta” (L’istituzione negata, 1968), e che hanno mostrato alla psichiatria questa contraddizione. Lo psichiatra veneto è ancora più chiaro nell’affermare che “questa società tenderà sempre a difendersi da ciò che le fa paura e ad imporre il suo sistema di restrizioni e di limiti alle organizzazioni delegate a curare i malati mentali: ma lo psichiatra non può continuare ad assistere alla distruzione del malato a lui affidato, reso oggetto, ridotto a cosa […]” (L’istituzione negata, 1968).

Questa visione politicizzata, dalla spiccata interpretazione sociologica, riesce a permeare tra gli anni ’60 e gli anni ’70 grossi strati dell’opinione pubblica e della classe dirigente. Ed è in questo clima di rivolta contro il sistema e l’autorità che l’ospedale psichiatrico diventa un simbolo dello sfruttamento e per questo deve essere abbattuto ed annientato.

Nel 1978, per la prima volta nel mondo, uno Stato decide per legge la chiusura degli Ospedali Psichiatrici; è l’Italia con la legge 180 del 1978 che porta il nome di Orsini, suo primo firmatario ma che è conosciuta con il nome del suo ispiratore morale ovvero Legge Basaglia.

Il cono d’ombra tra follia e criminalità.

La Legge 180 chiude quindi gli Ospedali Psichiatrici in Italia ma lascia aperte diverse problematiche sia culturali (il rapporto tra società e malattia mentale) che strutturali ed organizzative (le leggi attuative regionali tardano ad arrivare). La180 però presenta anche un vero e proprio cono d’ombra poiché non tocca il problema dei malati mentali che hanno commesso un reato, i rei folli.

Si tratta di una questione complessa perché mette insieme il concetto di follia con quello di reato e deve fare i conti sia con le pratiche di cura che con la giustizia. Nel corso del tempo, il problema è stato risolto con il dare più importanza alla pena o alla pericolosità del reo invece che alla cura del malato mentale; ne è la prova il fatto che la gestione dei rei folli è sempre stata di competenza delle varie Amministrazioni Penitenziarie e non degli enti preposti alla cura dei malati.

La storia dei rei folli è quindi una storia di esclusione totale, esclusione dalla società, esclusione dal sistema penitenziario consono ed esclusione dal sistema sanitario. Questo, nel corso del tempo, ha portato a conseguenze drammatiche che hanno costruito un sistema di cura e di detenzione spesso inadeguato con strutture fatiscenti e atteggiamenti disumani: un vero e proprio cono d’ombra organizzativo, legislativo ed umano dove i rei folli una volta entrati affogavano nell’oscurità.

Ma il problema dei rei folli ha radici ben più lontane. Nella seconda metà dell’Ottocento in Italia si sviluppa un vivace dibattito sul diritto penale. Si formano due scuole di pensiero: la prima, quella classica con Francesco Carrara e, la seconda, quella positiva con Cesare Lombroso. La prima adottava il concetto del libero arbitrio e quindi ogni uomo colpevole di un reato era responsabile in prima persona delle proprie azioni; il grado di colpevolezza e la misura della pena erano così proporzionalmente determinati dalla gravità del reato compiuto. La seconda scuola di pensiero invece, seguendo le teorie di Lombroso, credeva che alcuni condizionamenti esterni (come la fisiognomica o cause sociali) potessero influenzare un soggetto nel compiere un reato; la responsabilità individuale del reato non esisteva e la pena aveva una funzione prettamente rieducativa e di prevenzione sociale.

È da questo ultimo tipo di approccio che nasce il primo Manicomio Criminale, quello di Aversa nel 1876. L’istituzione accoglieva i cosiddetti rei folli e di fatto sanciva la nascita del binomio tra follia e pericolosità sociale, nel quale persone colpevoli di reato e mentalmente disturbate, venivano isolate dalla società per la loro cura ma soprattutto per preservare gli altri carcerati e la società stessa. Il codice Zanardelli del 1889, per la prima volta dall’unità, mise ordine nel caos giuridico italiano. Pur non parlando mai di manicomio criminale il codice introdusse il concetto della non imputabilità per vizio totale di mente (in questo caso il reo se considerato pericoloso era affidato ad un manicomio provinciale) e stabilì inoltre, nel caso di seminfermità di mente, una diminuzione della pena. Anche se con il nuovo “Regolamento generale degli Stabilimenti carcerari e dei riformatori” (Regio Decreto numero 260 del 1 febbraio 1891) venne formalizzata la nascita dei manicomi giudiziari, nel mondo penitenziario rimaneva molta confusione poiché queste strutture che raccoglievano i rei folli non riuscivano ad essere troppo diversi dai carceri comuni. Nascono così gli altri Manicomi Giudiziari in Italia: nel 1886 nasce il Manicomio di Montelupo Fiorentino, nel 1892 quello di Reggio Emilia, nel 1923 quello di Napoli e infine nel 1925 quello di Barcellona Pozzo di Gotto (Messina).

La prima vera svolta per quanto riguarda la gestione della malattia mentale si ha nel 1904 con la legge numero 36 “Disposizione sui manicomi e sugli alienati”. Venne infatti istituito sia il manicomio comune sia quello criminale ma soprattutto venne introdotto il concetto di pericolosità sociale del malato di mente comune e soprattutto del malato mentale criminale. Nel primo articolo infatti si legge:

debbono essere custodite e curate nei manicomi le persone affette per qualunque causa da alienazione mentale, quando siano pericolose a sé o agli altri e riescano di pubblico scandalo e non siano e non possano essere convenientemente custodite e curate fuorché nei manicomi. Sono compresi sotto questa denominazione, agli effetti della presente Legge, tutti quegli Istituti, comunque denominati, nei quali vengono ricoverati gli alienati di qualunque genere”.

Il considerare la malattia mentale pericolosa per la società porta a diverse conseguenze sul piano culturale e pratico. Se il folle, in quanto tale, diventa pericoloso per la società è lecito e moralmente giustificabile, applicare tutti quei meccanismi di esclusione che portano il malato fuori dalla società stessa; nel caso in cui il folle sia anche reo questo processo è ancora più facile perché la colpa criminale offre una giustificazione ancora più forte. Questa nuova concezione però induce le istituzioni manicomiali a porre in secondo piano tutti quegli aspetti medici e psichiatrici atti alla cura del malato per dare maggiore importanza alle pratiche di costrizione e di isolamento, utili appunto a rendere il malato meno pericoloso. Questa nuova concezione del malato mentale pericoloso per la società si traduce nell’obbligo da parte delle autorità preposte di trascrivere sul casellario giudiziario del malato i trattamenti medico-psichiatrici; questi così valgono come una condanna a vita, allo stigma perpetuo e al difficile reinserimento del malato nella società una volta dimesso.

Con il fascismo venne nuovamente aggiornato il diritto penale. Nel 1930 il cosiddetto Codice Rocco, introdusse per la prima volta il concetto (ancora in uso) del doppio binario, caratterizzato dalla presenza di due sanzioni distinte tra di loro: la pena e la misura di sicurezza. La pena è commisurata alla gravità del reato commesso, mentre la misura di sicurezza si basa sul concetto di pericolosità sociale del soggetto. Le due categorie vengono così parallelamente applicate. Per quanto riguarda la gestione dei rei folli il Codice Rocco decise che il ricovero nel manicomio giudiziario dovesse essere applicato solo se l’infermo di mente era considerato pericoloso per la società. Questo significò principalmente due cose: da una parte, ancora una volta la malattia mentale era considerata pericolosa per la società e quindi era giustificabile isolare il malato di mente; dall’altra il codice sottolineava che la tutela della collettività e della società stessa fosse ben più importante della salute e della cura del malato mentale. A riguardo infatti, il codice penale legalizzava un vero e proprio paradosso che dava più importanza alla misura di sicurezza rispetto alla pena; questo spesso creava un prolungamento della misura di sicurezza in manicomio anche una volta terminata la pena detentiva.

La situazione dei carceri e quindi dei manicomi criminali rimane praticamente invariata fino al secondo dopoguerra quando a partire dagli anni ’60, sotto l’influenza del movimento anti manicomiale, si sviluppò nell’opinione pubblica la necessità di riformare e rendere più umane le carceri e quindi anche i manicomi criminali.

La prima vera svolta che toccò il mondo della psichiatria fu la legge Mariotti, la numero 431 del 18 marzo 1968, che cercò di riformare il sistema di cura della malattia mentale ma che non toccò il mondo dei rei folli. La vera novità di questa legge era la cancellazione definitivamente dell’obbligo di annotare su casellario giudiziario il ricovero psichiatrico; la legge Mariotti così, distrusse per sempre il binomio tra malattia mentale e delinquenza ma non riuscì a cancellare l’idea della pericolosità sociale della malattia mentale.

A partire dagli anni ’70 l’opinione pubblica iniziò però ad interessarsi ai problemi dei malati mentali anche nelle carceri italiane; alcuni ex detenuti psichiatrici denunciarono le condizioni disumane dei manicomi criminali e soprattutto la popolazione fu fortemente colpita da un tragico fatto di cronaca. Nel dicembre 1974 nel Manicomio Criminale di Pozzuoli, Antonietta Bernardini legata nel suo letto di contenimento morì a causa di un incendio scoppiato nella sua cella. La tragedia fu l’occasione per riaccendere un forte dibattito sulla riforma dei manicomi criminali in Italia.

Questo nuovo clima di critica verso il sistema carcerario psichiatrico aveva tuttavia già portato ad un significativo cambiamento, infatti, il 23 aprile del 1974 la Corte Costituzionale con la sentenza numero 110 si esprimeva a favore della revoca della misura di sicurezza prima del periodo minimo stabilito per legge. Questo significava non permettere la permanenza nel manicomio criminale oltre la pena, come spesso era consuetudine succedere. Era un primo passo verso la demolizione del binomio tra malattia mentale e pericolosità sociale che tuttavia cessò definitivamente solo con la Legge Gozzini nel 1986.

Ma l’attenzione creata sulla malattia mentale in generale e sul mondo dei rei folli in particolare, portò al varo nel 1975 della legge 354 che pose le basi, anche se non in maniera così determinante, ad una riforma dei Manicomi Criminali. Infatti, la legge oltre a cambiare il nome alle strutture in OPG (Ospedali Psichiatrici Giudiziari) obbligava tali strutture ad avere almeno uno psichiatra nel proprio organico. Questo stava a significare che dopo decenni, il malato mentale che doveva scontare una pena detentiva, iniziava ad essere anche curato e non solo custodito.

Chiaramente la legge 354 non pose fine agli innumerevoli problemi all’interno del mondo carcerario psichiatrico; ne sono la prova le innumerevoli leggi mai approvate per la chiusura degli OPG e le commissioni di inchiesta che denunciavano le condizioni disumane di queste strutture.

L’attuale chiusura degli OPG è stata preceduta da una importante commissione parlamentare d’inchiesta sulle “condizioni di vita e di cura all’interno degli OPG” del 2011. La relazione a cura dei senatori Saccomanno e Bosone è molto chiara e decisa nel giudizio: gli OPG sono strutture fatiscenti e inadatte alla cura del malato mentale criminale. Si legge infatti che sono “gravi e inaccettabili le carenze strutturali e igienico-sanitarie rilevate in tutti gli OPG” anche perché tutte le strutture “presentano un assetto strutturale assimilabile al carcere o all’istituzione manicomiale, totalmente diverso da quello riscontrabile nei servizi psichiatrici italiani”. Una vera e propria isola anacronistica dove ancora vengono mantenuti i meccanismi e le problematiche tipiche degli ospedali psichiatrici. In effetti la commissione continua nel descrivere la carenza numerica del personale incaricato dell’assistenza socio-sanitaria ma soprattutto sottolinea la presenza di pratiche di contenzione fisica ed ambientale:

[…] se da un punto di vista giudico, la coercizione o contenzione fisica in psichiatria viene da taluni giustificata da una rigorosa interpretazione dello stato di necessità […], le modalità di attuazione osservate negli Opg lasciano intravedere pratiche cliniche inadeguate e, in alcuni casi, lesive della dignità della persona, sia per quanto attiene alle azioni meccaniche, sia talora per i presidi psicofarmacologici di uso improprio […]”.

La relazione della commissione continua nel descrivere numerose scene di degrado trovate nei vari OPG italiani e per questo auspica la chiusura di quelle strutture inadatte e fatiscenti e propone un’alternativa e un vero e proprio superamento delle strutture.

Solo tre anni dopo le conclusioni di quella Commissione di inchiesta il Parlamento licenzierà la legge 81 che sancisce la definitiva chiusura degli OPG.

La chiusura degli Ospedali Psichiatrici Giudiziari.

Lo scorso 31 marzo quindi sono stati chiusi definitivamente tutti gli Ospedali Psichiatrici Giudiziari in Italia e con essi si è chiuso idealmente un percorso iniziato nel 1978 con quella riforma Basaglia.

Attualmente la legge prevede di sostituire gli OPG con le Residenze per l’Esecuzione delle Misure di Sicurezza Detentive, i cosiddetti REMS, ovvero strutture che ospiteranno al massimo 20 detenuti, provviste di particolari misure contro l’evasione e dove gli ospiti potranno essere seguiti dal punto di vista psichiatrico; inoltre la legge prevede che siano presentati dalle Regioni e dalle USL progetti individuali di cura e di riabilitazione dei malati per ottenere misure alternative al REMS stesso

Il problema è che oggi la situazione in Italia è ancora incerta: gli OPG ancora ospitano pazienti, poche sono le REMS già attive e molte sono già sovraffollate.

La decisione di chiudere gli OPG viene certamente da lontano ed ha scopi senza dubbio positivi, tuttavia, questo processo, se non governato in modo adeguato, rischia di aprire nuove problematiche invece di risolverne. Il problema infatti è di cadere, come avvenne con l’applicazione della 180, in soluzioni ideologizzate o di riproporre una lunga transizione prima di creare una vera e concreta alternativa.

E’ chiaro che in questo momento è prevista una fase di transizione, così come è chiaro che sia giusto chiudere gli OPG, in quanto strutture che ledono i diritti delle persone ospitate; tuttavia rimangono molti dubbi ed è pertinente e necessario trovare una soluzione adeguata sia dal punto di vista psichiatrico che giudiziario e sociale.

E’ evidente che la questione meriterebbe un dibattito approfondito da parte della politica e della cultura di questo Paese, perché il rischio di stigmatizzazione e di pregiudizio è ancora forte; solo con un approccio multidisciplinare e concreto è possibile trovare una soluzione che rappresenti il bene del detenuto psichiatrico e della società.

Articolo pubblicato nell’agosto del 2015.




La liberazione di Grosseto

E’ una Resistenza breve, quella di Grosseto, primo capoluogo di provincia liberato, dopo Roma, il 15 giugno 1944. Tanto breve il tempo della lotta armata, quanto lungo il cammino dell’antifascismo, erede di una tradizione democratica pre-fascista. I fasciscoli dei sovversivi grossetani negli anni del regime documentano i percorsi dell’emigrazione politica, il confino, le presenze nella rete europea dell’antifascismo, tra Brigate internazionali in Spagna e Resistenze.

Il 9 settembre, a Grosseto, la prima riunione, interrotta da un bombardamento alleato, aveva creato le condizioni per la costituzione del Comitato di Liberazione. Ce ne consegna una vivace narrazione Aristeo Banchi, “Ganna”, uno dei protagonisti (1993). La direzione provinciale del Comitato fu di lì a poco trasferita a Casteldelpiano; infatti “la città, stremata dalle  incursioni dell’aviazione americana, era quasi spopolata, la gente sfollata, scarsi gli interlocutori”.  Questo descrive una Resistenza che ha i luoghi caldi nelle zone interne, dove le formazioni partigiane avevano le basi nelle macchie in collina e nei boschi del Monte Amiata. A determinarne i caratteri in questa subarea toscana furono, è ovvio, molti fattori, non ultimi la morfologia della zona e le grandi opzioni strategiche degli eserciti, che “fecero sentire le loro conseguenze sul territorio molto prima che esso diventasse teatro di combattimenti terrestri” (Perona, 2009).

A Grosseto operava la formazione di orientamento comunista intitolata a Vittorio Alunno, caduto nella guerra civile spagnola, a Campillo, il 17 febbraio 1938, nome-simbolo della lunga durata dell’antifascismo locale. Le sue azioni furono circoscritte al “servizio informazioni, sottrazione di armi” per le formazioni collegate al Comando Militare di Grosseto. Unica azione segnalata dalla relazione della banda, il sabotaggio di un ponte sull’Ombrone, nel maggio 1944, fino a quando, gli ultimi giorni, fu necessario proteggere dall’esercito tedesco l’acquedotto e la centrale elettrica, prima di quella che è definita “l’unica, ma epica lotta finale” del 15 giugno.

Grosseto stava sulla linea della “ritirata aggressiva” dell’esercito tedesco. Rapida tra Roma e Grosseto – la V^ armata avanzò di 140 chilometri tra 4 e 16 giugno, più lenta dopo, se “il ritmo dell’avanzata alleata venne rallentato a 30 chilometri nella settimana tra il 16 e il 23 giugno e successivamente a 30 chilometri in tre settimane” (Von Senger, Etterling, 1968). Dalla storia in buona parte già scritta della guerra ai civili ingaggiata dall’alleato occupante, ricaviamo elementi utili a rappresentare la sofferenza di un territorio che ne sperimentò la ferocia.

civili con americani

Popolazione civile e soldati alleati (AUSSME)

Ancora la relazione della Alunno fornisce notizie essenziali sugli ultimi due giorni. La notte tra 14 e 15 Ganna, assunto il comando, “consegna le armi ai patrioti e prende possesso del Comune e degli altri edifici più importanti”. La mattina del 15, SS tedesche provenienti dall’Aurelia Sud si scontrano con i partigiani e lasciano a Grosseto “sei partigiani morti, dodici morti tedeschi e trenta prigionieri” e una  bandiera bianca, orgogliosamente issata  dai grossetani per segnalare agli alleati l’avvenuta liberazione.

Le carte del CLN provinciale documentano l’immediata nascita di istituzioni democratiche con diverse componenti politiche, che non danno conto della preponderanza comunista relativa non a tutto il territorio, ma certo alla composizione del Comando militare. Fonte eccellente per contestualizzare questi accadimenti sono quattro lettere al Duce di Alessandro Pavolini, che si aggiungono alla fonte di parte tedesca, le Militar Kommandantüren, per uno sguardo incrociato sul clima di quei giorni. Nicla Capitini Maccabruni (1985) ne estrae tracce utili a inquadrare la condizione di Grosseto. Il 18 giugno Pavolini così la rappresentava “…estenuata dal mitragliamento, pervasa dal ribellismo bene armato dal nemico e favorito dal terreno con forze fasciste e repubblicane esigue, le uccisioni dei fascisti e dei militi avevano già progressivamente ridotta la zona di nostro effettivo dominio, imponendo il ripiegamento e la concentrazione delle forze. A un dato momento, sotto la spinta di ribelli in parte a carattere militare […] in parte a carattere insurrezionale e comunista, la provincia, capoluogo compreso, è caduta in mano agli avversari, e l’esodo dei fascisti e delle ultime autorità è avvenuto  [il 12 giugno]  fra aggressioni e inseguimenti”. La situazione di Grosseto nel linguaggio dello scrivente è “pessima”, con effetti di “contagio morale” verso le altre province, “lo squagliamento” dei carabinieri, di reparti dell’esercito e persino di parte della GNR, e “un acuirsi della sfiducia germanica”. Nel messaggio al Duce: il tentativo di mascherare con la speranza di una ripresa lo sfascio e la difficile relazione con i tedeschi via via che la linea del fronte arretrava. Uno dei tanti, inutili appelli al centro a soccorrere la periferia, nella cronaca dei mesi della RSI.

Singolarità grossetana fu il pieno riconoscimento del ruolo del CLN da parte dell’AMG, il rispetto di nomine e poteri delle amministrazioni. Immediata la creazione di un organo di stampa del Comitato “Etruria libera”, che riprese in parte il titolo del repubblicano “Etruria nuova”; rapido l’avvio della ricostruzione, sia istituzionale che fisica (altissimo era il numero dei senza-casa), con un impegno forte sul versante delle inchieste sui crimini fascisti e delle pratiche per l’epurazione. Accanto alle rappresentazioni del clima positivo, autentico per molti aspetti, non si possono ignorare le faticose relazioni con il governo e, in capo a pochi anni, l’attacco al Sindaco Lio Lenzi, lo scioglimento, seppure subito rientrato, del consiglio comunale, con decreto prefettizio del 20 aprile 1949 per il rinvenimento nel Palazzo comunale di armi. La legalità costituzionale e democratica, anche se faticosamente, si affermò, ma le macerie della guerra totale e le ferite della guerra civile non passarono in fretta.

Articolo pubblicato nel giugno 2015.