Sulla pelle degli operai: Pignone 1953.

La mattina del 5 gennaio 1953 la direzione delle Officine Meccaniche e Fonderia del Pignone di Firenze presentò alla Commissione Interna un piano di riduzione del personale di oltre 300 lavoratori, fra operai, tecnici e impiegati. I licenziamenti, che riguardavano inizialmente un sesto degli addetti occupati, raggiunsero in seguito progressivamente quote più alte, fino a prevedere la totale chiusura dell’impianto. A motivare l’operazione, la SNIA Viscosa, proprietaria del Pignone, riportava deficit di bilancio nel biennio precedente dovuti all’insufficienza delle commesse e agli elevati costi di produzione.

La vertenza, dopo un intero anno di lotta condotta su diversi fronti con inedite modalità politico-sindacali, si concluse tra il 5 e il 13 gennaio 1954 con la rilevazione da parte di ENI dell’azienda e il reintegro di una parte dell’organico, con un minor numero di addetti rispetto al primo piano di esuberi del gennaio ‘53. Più in generale, la parabola dello stabilimento fiorentino s’inseriva nel vasto quadro di licenziamenti e smobilitazioni che la ristrutturazione del tessuto industriale italiano comportò tra la fine degli anni Quaranta e la prima metà del decennio successivo, che a Firenze ebbe pesanti conseguenze, ma ne rappresentava al contempo un caso paradigmatico.

La vicenda del Pignone passò alla cronaca per l’estensione temporale e qualitativa della protesta operaia, condotta unitariamente dai sindacati per la prima volta dalla scissione del 1948, che coinvolse larga parte della cittadinanza fiorentina: i commercianti e le famiglie operaie, i lavoratori degli altri stabilimenti e una parte del clero locale sostennero in diverse occasioni le proteste e la lunga occupazione della fabbrica. Soprattutto, però, la vertenza ottenne una grande risonanza nel dibattito politico grazie all’intervento diretto e deciso del sindaco democristiano Giorgio La Pira, poi della corrente che faceva capo a Fanfani e che proprio in quel periodo stava diventando maggioritaria nel partito.

Tutto ciò, ovviamente, fu oggetto della massima attenzione da parte dell’Ufficio Politico della Questura di Firenze. Tra gli elementi più interessanti riportati dalle fonti di polizia vi è certamente quello relativo all’atteggiamento tenuto nel corso della lunga vertenza da Zenone Benini e Franco Marinotti, gli amministratori delegati rispettivamente del Pignone e della SNIA.

Ciò che qui interessa sottolineare è la discrepanza tra le motivazioni alla base del ridimensionamento e poi della liquidazione del Pignone e la reale situazione economico-finanziaria in cui si trovava lo stabilimento. Per Marinotti e Benini al Pignone mancavano le ordinazioni e i costi produttivi erano insostenibili, mentre  le indagini dell’Ufficio Politico, le analisi delle rappresentanze operaie e la Relazione dei liquidatori della Società concordavano invece nell’attestare la buona salute dell’azienda.

Su un bilancio di oltre 7 miliardi di lire il passivo dell’azienda alla fine del 1952 si attestava intorno a 240 milioni, di cui la quasi totalità riscontrabile nel nuovo ramo produttivo meccanotessile imposto dalla riconversione targata SNIA. Anzi, secondo il parere dei liquidatori i reparti tradizionali su cui si fondava la vecchia come la recente storia del Pignone, compressori, carpenteria e caldareria, avevano addirittura fatto registrare negli ultimi anni un’espansione del fatturato. In merito al “mantra” ripetuto dal padronato della carenza di ordinazioni, le indagini avevano rilevato che gli aiuti ERP non solo avevano finanziato una parte del rinnovamento del parco macchine fra 1949 e 1950, ma avevano anche assicurato fino a quel momento sostanziose commesse offshore. Inoltre alcune ordinazioni erano state gestite in maniera pessima dalla Direzione, come delle lavorazioni per trapani radiali, costate al Pignone tra interruzioni e scarti produttivi un centinaio di milioni di lire.

Dalle parti della Questura dunque, come del resto anche nella CCdL, con il passare delle settimane andava accumulandosi una certa perplessità sulla buona fede delle scelte aziendali, dato che Benini non solo chiudeva sistematicamente qualsiasi spiraglio di trattativa con la Commissione Interna e confermava la necessità di ridimensionare l’azienda – anzi la rilanciava portando a 400 il numero delle sospensioni -, ma allo stesso tempo stava imponendo ore di lavoro straordinario obbligatorio a una consistente fetta di tecnici, disegnatori e operai.

Le perplessità dei funzionari di polizia si fecero più consistenti quando, poco prima delle elezioni politiche del giugno 1953, la stima delle riduzioni di organico  era praticamente triplicata rispetto alle sospensioni avviate a gennaio, attorno alle «900 persone su 1800 dipendenti». L’Ufficio Politico riteneva:

«Urgentissimo provvedere acciocché la direzione dell’azienda non vada a questi estremi che porteranno al fallimento. Infatti il costo/ora commerciale, che prima delle sospensioni era circa 1400-1500 lire, è salito a oltre 1800 lire, come anche un qualunque essere ragionevole aveva capito e detto fino da quando furono minacciate le sospensioni: le persone che producono  diminuiscono e le spese generali rimangono le stesse. È perciò da considerare:

1) Il completo fallimento della politica dei vari Benini, Gerla e Torrini.

2) Il prossimo tracollo della Società (le azioni vanno scendendo di nuovo rapidamente), dato che sarà impossibile vendere anche un solo spillo, anche perché l’ora produttiva del Pignone costa il triplo di quelle della concorrenza.

3) La necessità di un forte intervento governativo presso la SNIA Viscosa e la Direzione del Pignone per impedire in ogni modo la rovina della Società, eventualmente assegnando del lavoro per un importo della consistenza tale da salvare alcune centinaia di operai».

Qualche mese più tardi gli investigatori informavano che Benini, «alla luce di una voce raccolta in qualche ambiente interno delle officine del Pignone, solitamente bene informato, […] avrebbe più che raddoppiato il suo capitale in seno all’azienda, giuocando al ribasso quando le azioni, alcuni mesi or sono, ebbero un apparente fortissimo tracollo; da un lato, faceva sapere a tutti ufficialmente che si era giunti al disastro dell’azienda, mentre dall’altro, comprava a tutto spiano le azioni che medi e piccoli azionisti gettavano sul mercato, vendendo a qualunque prezzo pur di disfarsene».

Nel novembre 1953 infine, quando ormai la vertenza entrava nelle sue fasi più acute a seguito della decisione aziendale di liquidare la Società, gli indizi si facevano più chiari per i questurini, che consideravano ormai «buona parte della mancanza di lavoro» dovuta «all’atteggiamento della SNIA Viscosa nei riguardi del Pignone». Nei mesi precedenti il colosso lombardo aveva richiesto la progettazione e la realizzazione di «due prototipi di macchine TPS, poi, dopo averle testate e valutate positivamente, si faceva consegnare progetti tecnici per commissionare la produzione di un centinaio di questi macchinari, per l’importo di oltre un miliardo di lire, ad un altro impianto, lo Stabilimento Meccanico che essa stessa possiede in Torino».

Così, a nove mesi di distanza dall’apertura della vertenza, i funzionari di polizia  erano portati a «supporre che la crisi di lavoro in cui l’azienda si dibatte [fosse] stata creata ad arte».

Effettivamente l’attività speculativa emersa dalle carte della Questura sul caso Pignone conferma non solo, e non tanto, «il fallimento di una classe imprenditoriale culturalmente arretrata e dotata di scarsa “coscienza industriale”»; indica piuttosto una scelta preordinata, una strategia imprenditoriale sostenuta dalla proprietà in quella fase di ristrutturazione complessiva del tessuto industriale italiano. Una volta presa coscienza dell’errata scelta di riconversione al tessile a scapito invece della  tradizione produttiva della fabbrica fiorentina, la gestione Benini-Marinotti già tra il 1948 e il ’50 aveva optato per il definanziamento delle produzioni di casa Pignone, incentrando il proprio indirizzo strategico nel taglio dei costi e alimentando di conseguenza il conflitto interno allo stabilimento.

Nel 1953 però, a differenza delle precedenti dismissioni di manodopera, la Direzione non dovette fronteggiare solo una decisa e determinata protesta sindacale unitaria, ma anche un mutato assetto del contesto politico generale e territoriale, in cui le istanze sociali rappresentate dalla corrente di Fanfani e La Pira si stavano imponendo sulle linee di governo. In altre parole la dirigenza si trovava di fronte un doppio ostacolo: la combattiva resistenza operaia (tanto alle scelte contingenti di licenziamento quanto più compiutamente a tutto l’indirizzo produttivo imposto nel ’46); la volontà del sindaco e di una parte della DC di sostenere la lotta del Pignone.

Per questa via, già a ridosso delle elezioni del 7 giugno, e poi più realisticamente con il progressivo emergere del protagonismo di La Pira e le voci di un intervento governativo, Benini e Marinotti maturarono la scelta di disfarsi dell’azienda, tanto più che dopo la salita di Fanfani al Viminale trovarono nella disponibilità istituzionale alla mediazione la sponda idonea per superare l’empasse a proprio favore.

Concretizzatesi finalmente le iniziative governative per salvare il Pignone con il coinvolgimento della neonata ENI guidata da Mattei, e una volta accentrate il più possibile le azioni, la SNIA e il vecchio patron Benini riuscirono a ricavare profitto da una fabbrica estremamente politicizzata e conflittuale, che versava in buona salute finanziaria ma risultava da anni in crisi nel ramo produttivo che più interessava alla SNIA.




Liberali, sovversivi e partito dell’ordine a Montespertoli. 1919-1921

L’articolo costituisce un’anteprima del nuovo volume sui fatti di Montespertoli a firma di Francesco Catastini, Paolo Gennai, Andrea Pestelli, Liberali, sovversivi e partito dell’ordine a Montespertoli. Concentrazione di potere, gruppi familiari e politica (1919-1921), Pisa, Pacini, 2021 

Nel giugno del 1914 si tennero in tutta Italia le elezioni amministrative. Anche a Montespertoli vinsero le forze liberali ma il risultato della vicina Firenze agì da ‘lento’ detonatore per una serie di drammatici eventi che maturarono alcuni anni dopo e che coinvolsero non solo la città fiorentina ma anche alcuni comuni del suo circondario che avevano con Firenze intensi rapporti commerciali, politici ed economici. Montespertoli era appunto uno di questi centri.

Sindaco Bini Augusto

Augusto Bini, primo sindaco socialista di Montespertoli eletto alle amministrative del 1920

Le elezioni del giugno 1914 avevano riportato nel Consiglio comunale di Montespertoli una schiera di persone che ormai da decenni guidavano l’Amministrazione comunale (il barone Sidney Sonnino, i marchesi Lamberto Frescobaldi e Alessandro Bartolini Salimbeni, i conti Lorenzo e Lodovico Guicciardini, i cavalieri Alceste Salvadori, Gustavo Pacchiani e Ubaldino Baldi, il notaio Giulio Peruzzi, gli avvocati Giulio Rapi e Gino Giani) tanto che si può affermare che la cosa pubblica si era col tempo strutturata a loro immagine e somiglianza. Insieme a questa categoria di personaggi certamente molto influenti, avevano fatto la loro comparsa anche i rappresentanti di quel ceto di piccoli e medi borghesi originari del territorio, che con il passare del tempo si dimostrarono sempre più in grado di condizionare la vita pubblica e la gestione del potere locale, grazie al fatto che potevano vantare alleanze economiche con i grandi possidenti, sfruttando in modo utilitaristico e a proprio vantaggio i rapporti gerarchici che intrattenevano con essi. Questi “nuovi borghesi” si dimostrarono, peraltro, sempre più in grado di tessere una ragnatela affaristica che travalicava i confini della singola Amministrazione locale per insinuarsi nei gangli vitali anche di quelle confinanti, giocando in questo modo su più tavoli e volgendo a loro favore le occasioni che si presentavano via via nella gestione della cosa pubblica. A Montespertoli era soprattutto il settore del commercio che pesava sulla realtà economica e produttiva locale attraverso un prodotto come il vino che aveva un effervescente mercato non solo nella realtà del luogo, ma anche nelle maggiori piazze della Valdelsa, della Valdipesa e, soprattutto, di Firenze. Il vino infatti dava adito ad un circuito economico che dal possedimento di terreni adibiti a vigneti passava poi per gli impianti di trasformazione e coinvolgeva anche figure essenziali per il suo commercio come i «mediatori», gli «agenti di campagna», i trasportatori, i commercianti (al dettaglio e grossisti), i gestori di bettole, locande e fiaschetterie e anche una schiera di personaggi che dal commercio del vino ricavavano in modo ‘occulto’ piccoli introiti (ad esempio i «vetturali»).

A fianco del vino si collocava la paglia, altro settore produttivo molto attivo a Montespertoli sin dal tardo Settecento, intorno al quale si era strutturata una ramificata economia che coinvolgeva in maniera trasversale sia la fascia dei grandi possidenti e dei “nuovi borghesi” visti sopra, ma anche tutto un sottobosco di figure (piccoli commercianti, trasportatori al dettaglio, braccianti, piccolissimi possidenti) dedite a più lavori contemporaneamente che si insinuavano nelle maglie della lavorazione di questo prodotto poi esportato nell’area fiorentina, signese e campigiana.

Assessore Razzolini Severino

Severino Razzolini, assessore nella giunta del Bini. I fascisti fiorentini cercarono di far irruzione nel caffè da lui gestino per provocare violenze

E’ di fondamentale importanza tenere in considerazione questi aspetti di economia locale, oltre agli stretti legami politici ed economici con Firenze, quando si prenda in considerazione il caso di Montespertoli nel biennio 1919-1921, sia durante la presenza del Commissario prefettizio Umberto Patella (novembre 1919-ottobre 1920), che durante il governo della Giunta socialista di Augusto Bini (ottobre 1920-aprile 1921).

Il governo del Commissario Patella si basò quattro tipologie di imposte (quella sui terreni, sui bestiami, sui pianoforti e biliardi e la compartecipazione a quella governativa sul vino) alle quali affiancò voci di spesa (rifacimento della fognatura e dei marciapiedi nel Capoluogo, servizio sanitario per i poveri, spedalità in genere, estensione delle rete elettrica alle frazioni) più consone ad un’Amministrazione socialista che ad un Commissario prefettizio. Costui durante il suo operato si impegnò anche nel settore dell’edilizia popolare strettamente connesso, nella realtà economica di Montespertoli, a quello della paglia per il fatto che i proprietari di piccoli ambienti e magazzini che potevano essere adibiti ad abitazioni, preferivano invece riservarli alla lavorazione della paglia piuttosto che all’affitto perché più remunerativi, data l’importanza che questo prodotto aveva a Montespertoli. Tanto che lo stesso Patella lo inserì come voce specifica nel dazio di consumo, provocando un’amplissima protesta (trasversale) fra gli abitanti del paese.

Fu proprio l’abolizione di questa voce dalla tabella del dazio uno dei primi provvedimenti presi dalla Giunta socialista di Augusto Bini (possidente terriero locale e industriale della paglia) salita al potere con le elezioni amministrative del 19 settembre 1920, con una vittoria nettissima. Il clamore che il risultato delle votazioni dovette suscitare negli avversari, ma anche in tutta la popolazione di Montespertoli e delle sue frazioni, con una differenza eclatante in termini di voti, dovette essere enorme. Un manipolo di 24 persone di cui, tranne una, tutte le altre di estrazione e/o di professione contadina, andavano ad occupare gli scranni dove fino a pochi giorni prima sedevano baroni, conti, marchesi, cavalieri, notai e avvocati. Si ribaltavano i concetti fondamentali di una società che durava da tempo immemore e che sembrava, fino a pochissimi anni prima, non dovesse mai cadere.

Assessore Verdiani Angiolo

Angiolo Verniani, assessore nella giunta socialista di Augusto Bini

Il 10 e 11 ottobre 1920 a Montespertoli si sperimentò il primo tentativo dei fascisti fiorentini di ribaltare il risultato delle libere elezioni in una Amministrazione comunale; tentativo non riuscito grazie al concorso della popolazione che si pose a difesa del Palazzo comunale, ma che gettò lunghe ombre sul futuro prossimo delle Amministrazioni socialiste toscane.

Lo sforzo messo in campo dalla Giunta Bini per cercare di attuare un piano fiscale che fosse il più possibile aderente alla realtà locale e che quindi praticasse quella giustizia fiscale e distributiva cavallo di battaglia del partito socialista, si scontrò con la difficoltà ad individuare i cespiti di entrata delle famiglie di Montespertoli e quindi della loro effettiva ricchezza nel momento in cui affrontò il delicatissimo problema della «revisione delle matricole delle tasse comunali». Quanto fosse infida e piena di conseguenze imprevedibili questa operazione fiscale, lo dimostra l’analisi delle lettere inviate nel 1921 all’Amministrazione comunale da chi si sentì ingiustamente penalizzato dalla nuova ripartizione fiscale. Le lettere mostrano con esemplare chiarezza il risentimento diffuso, ma in certi casi anche il livore e la rabbia a stento trattenuti, che la Giunta socialista provocò fra molti suoi amministrati con la nuova matricola fiscale. Si trattava di un fronte esteso ed eterogeneo che andava dai parroci ai dipendenti comunali, dai grandi possidenti dai cognomi altisonanti agli anonimi piccoli proprietari, ai commercianti e bottegai; dai fattori ai piccoli possidenti inseriti anche nel commercio della paglia e/o del vino. Un aspetto questo che ebbe il suo peso quando nella primavera seguente lo sforzo congiunto delle autorità centrali, della Prefettura e delle squadre di azione fasciste riuscirono a far cadere la Giunta socialista di Augusto Bini.

Assessore Del Terra Savino

Savino Del Terra, assessore nella giunta del Bini

Troppo esiguo fu il margine di tempo che questa Giunta ebbe a disposizione per poter dispiegare la sua politica socialista sul territorio di Montespertoli (quattro mesi e dieci giorni). Inoltre, oltre ad essere breve fu anche particolarmente difficile per il manipolo di nuovi Consiglieri che si trovarono a svolgere per la prima volta nella loro vita un’attività politico-amministrativa del tutto sconosciuta nelle sue articolazioni interne. Oltre a queste ve ne furono altre di difficoltà legate proprio alla contingenza (ricorsi della minoranza, dazio di consumo, situazione finanziaria e approvvigionamento acqua) e all’operato della Prefettura.

I fatti accaduti a Certaldo e ad Empoli fra il 28 febbraio ed il 3 marzo 1921 costituirono l’occasione per dare la spallata finale a molte Amministrazioni socialiste della Valdelsa, fra le quali anche Montespertoli. Anche a Montespertoli infatti fu indetto lo sciopero che secondo le autorità assunse la forma di un’insurrezione contro i poteri dello Stato e su questa ‘insurrezione’ fu montato un processo celebrato presso il Tribunale di Firenze, che portò sul banco degli imputati un centinaio di cittadini, compresa l’intera Giunta municipale (escluso un solo assessore). Le accuse andarono da «insurrezione contro i poteri dello Stato», «costituzione di bande armate», «sequestri di persona», «interruzione delle comunicazioni», «assedio alla caserma dei carabinieri» e «violenza privata».

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La coperta del fascicolo processuale relativo al procedimento intentato per volere delle autorità fasciste contro lo sciopero indetto a Montespertoli nel marzo 1921 per cui furono incriminati un centinaio di cittadini e l’intera giunta  Bini (Archivio di Stato di Firenze, Processi Penali 1923, b. 73)

Così, il 4 marzo vennero arrestati i primi tre Consiglieri di maggioranza, mentre due dei quattro assessori si erano resi latitanti e lo sarebbero rimasti a lungo. Ma l’obiettivo principale della controffensiva di marca reazionaria e fascista era rappresentato dal Sindaco Bini, contro cui si passò a forme di intimidazione ben più gravi e violente fra le quali un agguato. Il 4 aprile, verso le 11 del mattino si presentarono nel suo ufficio in Comune Sergio Codeluppi ed altri due compari minacciandolo con una pistola, ed insultandolo gli intimarono di firmare una dichiarazione di dimissioni da sindaco. Il giorno seguente Augusto Bini fu convocato in comune dal Segretario Bastianini per rispondere ad un telegramma del Prefetto inerente le sue dimissioni; firmato il telegramma Augusto Bini lasciò per sempre il Palazzo comunale.

Il 31 marzo 1923 la Corte d’Assise emise la sentenza che confermò il movente politico alla base degli episodi di violenza verificatisi durante i fatti di Montespertoli, condannando 47 dei 66 imputati a pene variabili fra i tre mesi ed i cinque anni di reclusione.

Il 23 settembre Augusto Bini venne arrestato a Firenze con l’accusa di aver commesso atti volti a far sorgere in armi gli abitanti di Montespertoli contro i poteri dello Stato e di aver organizzato bande armate di fucili e bastoni, esercitando su di esse un’azione di comando.

Bibliografia:

– M.C. Dentoni, Annona e consenso in Italia (1914-1919), Milano, Franco Angeli, 1995;

– F. Fabbri, Le origini della guerra civile. L’Italia dalla Grande Guerra al fascismo, 1918-1921, Torino, UTET, 2009;

– M. Franzinelli, Squadristi. Protagonisti e tecniche della violenza fascista (1919-1922), Milano, Mondadori, 2003;

– L. Guerrini, La provocazione fascista per giustificare la repressione del movimento operaio e la repressione titolo preminente e permanente del carrierismo, in La Toscana nel regime fascista (1922-1930), Firenze, Olschki Editore, 1971, vol. I, pp. 621-634

– P. Pezzino, Empoli antifascista. I fatti del 1° marzo 1921, la clandestinità e la resistenza, Firenze, Pacini Editore, 2007;

– R. Vivarelli, Storia delle origini del fascismo. L’Italia dalla grande guerra alla marcia su Roma, vol. II, Bologna, Il Mulino, 1991.




Bruno Baldini, deportato politico.

Testo dell’intervento tenuto dalla nipote Silvia Cardini in occasione della deposizione della pietra d’inciampo in memoria di Bruno Baldini a Firenze il 20 gennaio 2022.

Siamo qui intorno a Bruno Baldini, nel quartiere in cui ha vissuto con sua moglie Maria, i suoi due figli Milo e Sonia e la vecchia madre Argìa.
La sua è stata una breve presenza e per di più intervallata da lunghi periodi di carcerazione e deportazione, eppure quando ho carcato di dare forma al ricordo che mi era stato tramandato l’ho sempre immaginato in questa strada e fra queste mura. Da questa casa è stato strappato per due volte, il 15 marzo del 1941 e il 21 maggio 1944, sotto lo sguardo impotente dei suoi familiari. La prima volta per attività cospirative contro il fascismo, la seconda senza imputazione dagli scherani della Banda Carità.
La tragedia di Bruno ha avuto forse avvio nel bar Migliorini a pochi passi da questa casa dove andava qualche volta dopo cena a discorrere con gli amici antifascisti del quartiere. Qualcuno ha sentito le sue parole di libertà e le ha riportate alle autorità fasciste. Forse è successo altrove, forse in modo diverso ma poco importa: la macchina dell’annientamento ha preso il via grazie a una delazione. Bruno era per sua natura una vittima predestinata della meschinità umana perché incapace di avvertirla, di prevenirla, di schermarsi. Era un uomo naturalmente solidale, incline alla gioia, aperto agli altri.
Il suo antifascismo era innanzitutto uno stile di vita. L’avversione politica alla dittatura faceva tutt’uno in lui con l’avversione umana al sopruso, all’ingiustizia, al predominio dell’uomo sull’uomo. Era nato benestante, in un villino in Via Luciano Manara dove -raccontava mia nonna- “si mangiava in salotto e la tavola era sempre apparecchiata”, in una famiglia che per censo avrebbe potuto trarre vantaggio dalla politica fascista e che invece la avversava.
Il bisnonno Emilio ad un certo punto aveva addirittura deciso di proteggere i figli trasferendosi in campagna, in certi suoi possedimenti a Dicomano, in luoghi dove l’occhiuta strategia del controllo e della delazione sarebbe stata indebolita dalle consuetudini paesane e dalla rarefazione dei rapporti umani.
Ma Bruno è troppo giovane per rinunciare alla vita di scambio e ai contatti con la città. Avvia una sua impresa nel quartiere di Santa Croce, un concessionario di motociclette Guzzi. E prende dimora in Via Gian Paolo Orsini con la moglie, anche lei ben determinata ad abbandonare l’ambiente paesano. Fra Bruno e Maria c’è sempre stata una comunità profonda di intenti, di progetti, di desideri. Una capacità di risorgere e di resistere. Hanno vissuto da giovanissimi quello stato di grazia che Bruno, in una lettera inviata dalle Murate dopo il primo arresto, chiama “ felicità a fior di labbra”. Poi hanno affrontato il distacco per l’invio al fronte di Bruno durante la grande guerra, il suo ferimento, il ritorno. Quando arrivano in Via Gian Paolo Orsini hanno già perso il loro primogenito stroncato a Dicomano da una broncopolmonite, hanno in comune un dolore profondo, due figli ancora da crescere e la vita davanti a sé. La casa ogni tanto risuona delle canzoni di Bruno che è stonato ma sa essere ancora felice.
È in questa casa che si consumerà il loro dramma.
Il primo atto avviene il 15 marzo del ‘41. La famiglia è riunita a pranzo quando si presentano i poliziotti dell’OVRA. Maria sussurra alla figlia più piccola di prendere il foglietto che si trova nella tasca della giacca del babbo e di farlo sparire. La piccola Sonia, sgattaiola in camera, fruga, trova e ingoia. Mastica accuratamente la prova del delitto senza nemmeno avere il tempo di leggere cosa c’è scritto. Un volantino, una lettera, un indirizzo? Non lo sa ma è sicuramente orgogliosa della sua prova di coraggio. Purtroppo non basta. Bruno viene prelevato dalla polizia e interrogato sotto tortura perché faccia il nome della sua rete. Bruno è maciullato, perde sedici denti, rantola ma non parla.
Vi ho detto che era un uomo con una grande capacità gioire, ma altrettanto grande doveva essere la sua capacità di resistere al dolore e alla cattiveria.
Quando penso al suo interrogatorio, e il pensiero mi diventa subito insopportabile, mi consola sapere che in questo quartiere e forse anche altrove ci sono individui e intere famiglie che hanno potuto godere della vita grazie a un uomo che sputava i denti ma non i nomi e gli indirizzi. Forse non lo sanno nemmeno ma esistono e questo è già tanto.
In aprile viene trasferito a Roma, in maggio processato dal Tribunale speciale e condannato a tre anni e sei mesi per delitto contro la personalità dello Stato. Alla famiglia viene notificata la beffarda richiesta di pagamento delle “spese di giustizia” che, sommate a una pena pecuniaria, ammontano a 890 lire e 10 centesimi. Maria a quel tempo aveva già avviato un laboratorio di sartoria in casa per mantenere i figli e la suocera. Quanti punti d’ago ci saranno voluti a pagare le spese di questa suprema ingiustizia? Lei comunque la paga.
Bruno viene trasferito a Fossano (Cuneo) dove non può ricevere per undici mesi nessuna visita.
Il 14 febbraio del 1942 arriva la notizia della Grazia che non è un atto di clemenza ma il risultato di una compravendita. Mia nonna ha sempre raccontato che amici antifascisti abbienti riuscirono a “ungere le ruote” del Ministero di giustizia ottenendo il trasferimento di Bruno da Regina Coeli alla colonia penale di Pisticci in Basilicata. Il suo nome rimane però nella lista dei soggetti pericolosi per la sicurezza dello Stato, da dove all’occorrenza potrà essere ripescato. Da Pisticci viene poi trasferito a Introdacqua in Abruzzo. Il 15 giugno del ’42 ritorna per grazia definitiva a Firenze.
Passa in questo quartiere due anni di tregua, trova lavoro come commesso in una ditta di tessuti in Via Tavolini e ne diventa presto il factotum perché in ogni contesto spende, senza risparmio, le sue capacità e la sua naturale gentilezza.
Il 21 maggio del 1944 mentre è a tavola con la famiglia suonano alla porta. Sono venuti di nuovo ad arrestarlo. Sono in tre: un italiano appartenente alla Banda Carità e due SS. Questa volta si fa a meno anche del capo di imputazione. A mia madre che piange, l’italiano dice: “Non fare così. Te lo riporto presto il tuo babbo”.
Bruno passa un giorno a Villa Triste, poi viene trasferito alle Murate. Scrive lettere piene di richieste di generi di prima necessità, di rassicurazioni e di amore. D’altra parte anche quando verrà trasferito nel campo di concentramento di Fossoli riuscirà a trovare qualcosa di rassicurante da dire alla sua Maria: nel campo di concentramento si può camminare e si respira aria pura.
Ultimo contatto una lettera del 14 giugno del 1944. Poi il buio.
Ad avere la notizia che Bruno è morto sarà Sonia, mia madre. Maria cuce notte e giorno per mantenere la famiglia, Sonia fa il giro di quelli che ritornano dai campi di concentramento per sapere qualcosa di suo padre. Tocca al vetraio Gandi dirle che suo padre non ce l’ha fatta ed è morto a Mauthausen stremato dalla fame e dalla dissenteria. Poi arriverà una lettera di tale Silvia Turci di Carpi che testimonia di aver visto partire in treno Bruno per la Germania o forse per l’Austria e di aver ricevuto da lui un biglietto in cui ancora una volta assicurava di stare bene. La lettera spedita il 22 giugno del 1944 arriva alla moglie a guerra ormai finita e quando hanno già saputo che è morto.
Il 12 ottobre giunge la comunicazione ufficiale della morte dalla Croce Rossa.
Il 25 maggio del 1984 il Presidente Sandro Pertini conferisce a Bruno Baldini il Diploma d’onore al combattente per la libertà d’Italia.
Per tutta la vita mio nonno mi è stato vicino, come se l’avessi conosciuto e potuto amare in carne ed ossa. Ringrazio mia nonna e mia madre per la loro straordinaria capacità di rendere la sua memoria vita pulsante e volta al futuro. Ringrazio il Comune, l’ANED, l’ISRT, la direttrice del Museo della deportazione e della Resistenza di Prato Camilla Brunelli, la professoressa Marta Baiardi, l’artista Gunter Demnig per aver voluto con me questa pietra d’inciampo a testimonianza di una vita resistente.




«L’esperienza del Pci non è stata ripetibile, si è fermata lì…»

Avvertenza: Nel trascrivere l’intervista si è cercato, ove possibile, di conservare inalterati gli aspetti peculiari del parlato, limitando al minimo indispensabile  gli interventi correttivi sul testo. L’intervista è stata raccolta il 19 dicembre 2021

 

D- Daniela Lastri, lei nel 1989 era una attivista e dirigente del PCI fiorentino ed ha vissuto perciò le vicende politiche che portarono alla svolta della Bolognina e alla decisione di Occhetto di cambiare il nome al partito. Può dirci qualcosa della sua esperienza politica e istituzionale di allora?

Carta delle donne, proposta nel 1986, la quale, dopo lo sbandamento dovuto alla morte di Berlinguer due anni prima, era nata per rilanciare la presenza e il ruolo delle donne all’interno del partito, aprendo e dando spazio in particolare alle componenti provenienti dalla realtà del movimento femminista. La Carta delle donne nacque con questo intento: fare in modo che il PCI si rinnovasse parlando ai soggetti che erano «promotori di cambiamento», di novità, a partire appunto dalle donne. Fu una decisione importante per un partito che allora si stava ancora interrogando sulla strada da percorrere dopo la morte di Berlinguer. È stato, quello, un periodo di grande attenzione ai mutamenti e ai cambiamenti.

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Daniela Lastri (fonte: Consiglio Regionale della Toscana)

Contemporaneamente, mentre facevo quest’attività di responsabile del PCI in quella zona cittadina, portavo avanti anche l’attività di consigliera di quartiere. Con le elezioni amministrative del 1985 ero entrata infatti a far parte delle istituzioni cittadine, tanto che poco dopo, tra il 1988-89, diventai vicepresidente del quartiere 11, che allora accorpava la zona di Piazza della Libertà e le Cure. Si trattava peraltro di un quartiere completamente diverso sul piano politico-sociale da quello dell’Isolotto-Mantignano che curavo come responsabile di zona per il PCI. Ma entrambe queste realtà di partito, come pure i miei primi incarichi istituzionali cittadini, si sono poi rivelati particolarmente importanti per la mia formazione e per il proseguimento della mia attività politica successiva. Ricordo perciò questo periodo come un periodo di grande impegno ed esperienza, segnato da queste significative attività e da questa particolare sensibilità e attenzione vissuta all’interno del partito nei riguardi dei «soggetti del cambiamento».

Io mi trovai a far parte della segreteria cittadina del PCI alla vigilia di un cambiamento epocale nel quale una serie di eventi e vicende politiche internazionali misero a dura prova la forza e la presenza delle politiche del PCI. In quel frangente, la questione che caratterizzò la mia militanza, fu naturalmente quella del cambiamento del nome del partito che Occhetto predispose alla Bolognina e che poi si sarebbe concretizzata qualche tempo dopo. Io mi sono trovata a gestire questa fase molto delicata del PCI in una zona cittadina a caratterizzazione storica operaia dove, come ho detto, il partito aveva allora profonde radici nelle quali peraltro io stessa mi riconoscevo personalmente. Anche le mie radici familiari, infatti, erano legate a quel mondo operaio da cui provenivano i miei genitori, anch’essi militanti del PCI, attivi politicamente come segretari di cellula del partito e nel sindacato, in particolare mio padre. Venendo da quest’ambiente io non ho fatto mai fatica a riconoscermi in quella storia, quella del PCI, in cui affondavano le mie radici.

D- Dunque, lei ha vissuto gli effetti di quella svolta “in prima linea”, per così dire. Quali furono le sue reazioni di fronte a quell’annuncio? La colse di sorpresa o era qualcosa che si poteva immaginare?

D- Perciò si trattò di una decisione necessaria? In ogni caso come fu gestita secondo lei quella svolta?

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Nel 1986 fu promossa, diffusa e discussa su iniziativa di Livia Turco membro della segreteria del PCI la “Carta itinerante delle donne”, un documento che si proponeva di aprire la vita politica del partito alle istanze del femminismo e fare in generale della partecipazione attiva delle donne la chiave di volta di una nuova politica di partito. (in foto : “L’Unità”, 18 ottobre 1986)

Credo peraltro che il PCI, il quale già negli anni Settanta e a inizio anni Ottanta aveva più volte pensato all’opportunità della modifica del nome, infondo poteva essere maturo già allora per un passo simile, perché come ho detto noi comunisti italiani costituivamo un’esperienza ben diversa rispetto alle altre realtà della sinistra socialista, non solo rispetto all’esperienza sovietica, ma anche rispetto ai compagni spagnoli, francesi e portoghesi. D’altro canto, anche se già all’epoca era forse maturo per un passo simile, va detto però che il PCI era abituato a fare le scelte con grande gradualismo, proprio perché, essendo un grande partito di massa ed avendo al proprio interno tante esperienze politiche significative, aveva bisogno di gradualità. Per cui, considerato questo contesto precedente, il modo repentino con cui nel 1989 fu annunciata alla Bolognina la decisione del cambio di nome ebbe per altri versi un effetto dirompente, divenendo un elemento di grande disagio che in seguito ha costituito per molti attivisti un ostacolo nel tentativo di comprendere le ragioni per le quali al tempo fu deciso di procedere in quel modo, con quelle modalità. Io naturalmente accettai quest’idea di cambiamento, probabilmente anche perché per formazione provenivo dal movimento giovanile e dalla FGCI, una realtà in cui la necessità che il partito si adeguasse rapidamente ai cambiamenti sociali in corso costituiva una prerogativa. I grandi mutamenti politici e internazionali vissuti in quegli anni ci conferivano probabilmente una maggiore predisposizione al cambiamento. Era un orientamento, cioè, che in quanto nuove generazioni avevamo ben presente.

D- Insomma, a mancare nel 1989 è stata un’adeguata discussione interna al PCI? Ma, visti i tempi, ve ne sarebbero state le condizioni?

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Durante il Congresso nazionale della FGCI tenutosi al Palalido di Milano nel maggio 1982, il segretario del PCI Enrico Berlinguer invitò i giovani a organizzare un congresso di “futurologia” che affrontasse varie discipline: dalle scienze fisiche, chimiche e biologiche, alla demografia, all’antropologia, all’informatica. Ciò per stimolare una riflessione politica a partire dalla conoscenza degli studi più recenti su alcuni problemi di pressante attualità, quali il rapporto tra risorse e popolazioni, tra sviluppo e ambiente.

D- Dunque, da quel che dice, l’eredità del PCI sui partiti della sinistra italiana sembra oramai perduta. Pensa che rimanga di quell’esperienza un’eredità politica immateriale al di fuori dei partiti e nella società?




Le donne delle «razze inferiori» secondo «La Difesa della razza».

Il 1938 è un anno di svolta per il fascismo di Mussolini, questa data rimane ancora oggi un simbolo di immodificabile cambiamento che ha dato un identificabile e mostruoso volto legislativo all’antesemitismo fascista, al razzismo rivolto verso i popoli di colore e alla xenofobia subita dalle popolazioni considerate inferiori. Il fascismo italiano con una retorica ambigua e molto spesso contraddittoria dovette fare i conti con la propria intrinseca incapacità di creazione di una forte e chiara ideologia che non riuscì mai ad avere mai nitidi punti fermi e basi teoriche riconosciute e forti o create ad hoc su cui fondare una forte dottrina di regime. Il fascismo appare così un totalitarismo imperfetto, una dittatura in continuo mutamento caratterizzata da un tenace opportunismo che le permetteva di modificarsi e di conseguenza modificare idee e ideali continuamente vivendo e diffondendosi in una realtà di forte contraddizione e ambiguità.

Copertina 20 marzo 1940La Rivista divulgativa «La Difesa della Razza» diretta dal giornalista siciliano Telesio Interlandi e pubblicata per la prima volta nell’agosto 1938 aiutò in questo senso il fascismo di Mussolini, essa accentuò cristallizzandoli gli stereotipi viventi tra la popolazione italiana cercando di creare in questo modo una forte ideologia che non ammettesse sfumature e potesse giustificare così le scelte antisemite e razziste che in quel momento la dittatura aveva il bisogno e l’opportunità, per rafforzarsi, di promulgare[1].
La Rivista pertanto nasce in quel fatidico 1938 diventando il filo rosso che accomuna diverse azioni politiche operate dal regime nel corso degli anni: la dichiarazione della nascita dell’Impero dell’Africa Orientale Italiana nel ’36, la divulgazione del Manifesto degli scienziati razzisti il 14 luglio 1938 e infine la promulgazione delle Leggi Razziali nell’ottobre del medesimo anno. Il periodico, dal 5 agosto ’38 data di pubblicazione del primo numero al giugno del ’43 quando uscirà l’ultimo numero, sotto gli auspici del Ministero della Cultura Popolare diretto da Dino Alfieri ebbe il preciso scopo di elaborare una dottrina scientifica che trovasse una logica giustificazione alla politica coloniale fascista e all’antisemitismo diventato di Stato e di conseguenza la biologia e le Leggi di Natura diventarono una sorta di lasciapassare per la dimostrazione dell’esistenza di razze inferiori e superiori; logica questa supportata da leggi pseudoscientifiche intrise da secolari pregiudizi razzisti.
La categorizzazione e quindi la discriminazione non si fermarono però al livello della suddivisione biologica delle razze, interesse che aveva caratterizzato “l’antropologia scientifica” in tutta l’Europa settecentesca[2]; questi due elementi riescono ancora a scavare, fino a raggiungere gli strati più deboli che vivono in una determinata società e creare, se è ancora possibile, differenze e alterità. Mi riferisco alla misoginia e al sessismo intrinseci anche nelle pagine della Rivista: il genere femminile viene sempre discriminato e sentito come una minoranza debole da tutelare e da modificare a seconda dell’esigenza. Il disagio provocato dai rapidi cambiamenti che caratterizzarono l’Italia del primo dopoguerra vennero sfogati sulla dimostrazione di come le donne con la “D” maiuscola dovessero essere e dovessero comportarsi; esse divennero l’ago della bilancia su cui misurare la sostanza e l’essere di un determinato paese.

«La Difesa della Razza» si fa così portatrice e in un certo qual modo protagonista della svolta senza ritorno del regime nella diffusione del razzismo di Stato; diventando la divulgatrice ufficiale della dottrina scientifica della divisione dell’umanità in razze e della stereotipizzazione del ruolo dei diversi universi femminili all’interno della società. Elemento caratterizzante della Rivista è la crudezza, la crudeltà, la ripetitività di alcuni temi sviscerati fino all’esasperazione; essa fu il risultato di un radicale cambiamento nell’Italia del 1938, quando si passò infatti da un razzismo frammentario e disorganico a un razzismo di Stato, diventando così uno degli organi principali di propaganda del regime. Il linguaggio utilizzato ai fini della sensibilizzazione è infatti semplicistico e divulgativo per poter arrivare così a un più ampio e stratificato pubblico, ecco perchè sono soprattutto le immagini scelte ad avere un ruolo fondamentale: una iconografia razzista, violenta, con un intenso impatto emotivo; immagini che parlano da sole senza dover per forza leggere gli articoli fin troppo scontati e grotteschi.

CiprianiIl periodico trae linfa vitale dal Manifesto degli scienziati razzisti pubblicato alcuni mesi prima, il 14 luglio del ‘38, sul «Giornale d’Italia»: il Manifesto è redatto, sotto ordine di Mussolini in persona, dal giovane antropologo romano Guido Landra il quale è influenzato e in linea con le tesi di razzismo biologico di derivazione tedesca[3]. Il Manifesto diventerà così il punto di partenza della Rivista, la base ideologica a cui riferirsi e in cui credere ciecamente. I firmatari del famoso decalogo furono quasi tutte personalità affermate e conosciute nella società italiana degli anni Trenta; questi ricoprivano infatti ruoli fondamentali e prestigiosi nelle varie università e istituti di ricerca, come, ad esempio, l’antropologo fiorentino Lidio Cipriani (1892-1962). Quest’ultimo schierato nelle file dei razzisti biologici entrò fin da subito a far parte del comitato di redazione della rivista pubblicando per sei anni consecutivi articoli e resoconti dei suoi viaggi di studio nel continente africano e riportando così dettagliate descrizioni “antropologiche” razziste e sessiste riguardanti le varie popolazioni da lui studiate e incontrate[4]. Cipriani, infatti, in quanto professore universitario di antropologia e direttore del Museo Nazionale di Antropologia e di Etnologia dell’Università di Firenze[5], già nel 1938 è conosciuto, non solo negli ambienti accademici, ma anche al di fuori di essi per i successi dei testi da lui pubblicati come resoconti dei propri viaggi all’estero e precisamente in Africa[6]. L’antropologo rappresenta un punto di rottura con la precedente tradizione di studi antirazzisti mantegazziana caratterizzante l’essenza dell’Università di Firenze[7]; Cipriani infatti è a tutti gli effetti allineato con la logica razzista di regime e già nei suoi testi e articoli “scientifici” dimostra questa peculiarità; lo studioso fu fortemente convinto che la mescolanza e quindi il meticciato, portassero ad una inevitabile degenerazione razziale e che le popolazioni africane non rappresentassero uno stadio evolutivo primitivo ma che fossero i risultati di processi di regresso fisico e culturale dovuti all’unione di razze civilizzate con quelle inferiori. In realtà la crudezza di questo pensiero si palesa non tanto nella lettura dei testi e degli articoli prodotti dall’antropologo quanto dal corpus di fotografie da lui scattate durante i suoi viaggi, che lo ritraggono accanto a uomini, donne e bambini africani presentati come cavie. Il fondo fotografico è composto da oltre ventottomila negativi[8], tutti organizzati e selezionati dal Cipriani stesso, il quale utilizza con rigorosa precisione, delle didascalie esplicative che inducono ad una lettura sempre razzista della fotografia. I soggetti fotografati hanno infatti pose prestabilite che danno chiaramente indicazioni sul perchè essi debbano essere considerati come appartenenti ad una razza inferiore, ed espressioni costantemente timorose e rassegnate che testimoniano la violazione della loro libertà da parte dell’occhio indiscreto dell’antropologo (Fig. 1).

Donna di colore con bambinoMolte di queste foto che determinano il modus operandi dello studio sul campo di Cipriani sono infatti riprodotte, con nota alla fine di ogni articolo, su tutti gli scritti dell’antropologo pubblicati su «La Difesa della Razza». Le donne in particolar modo, vengono usate per diffondere la tesi di una degenerazione razziale insita nei popoli africani; concetto questo veicolato mettendo in rilievo negativamente la differente concezione della maternità africana rispetto a quella europea, o meglio italiana. Le madri africane, a parte rarissimi casi, sono ad esempio fotografate con i propri figli avvolti da un tessuto legato dietro la schiena, il pagne, e perciò criticate aspramente all’interno degli articoli come madri degeneri. Cipriani sa bene dove battere il colpo e sovverte così i valori tradizionali di maternità e famiglia per ribadire e ripetere ancora una volta l’idea di una troppo netta distanza tra “noi e loro”.

Le fotografie utilizzate dal periodico fanno quindi parte, per lo più, della collezione prodotta dallo stesso Lidio Cipriani che guarda le donne nere con gli occhi dello “studioso” indiscreto e le fotografa di conseguenza come delle povere cavie, nude e irrigidite. L’universo femminile nero, costituisce adesso una diversità, una alterità, rispetto alla popolazione italiana; esso è diverso per razza e per cultura, i loro usi e costumi non hanno  nessun punto di contatto con quelli dei colonizzatori. Le immagini utilizzate sono quindi efficaci e suggestive, vengono riprodotte spesso a tutta pagina e mostrano i volti eretti in posizioni innaturali, che con l’aiuto della luce e di posizioni artefatte riescono a risultare brutti e sgradevoli.

Le donne ricoprono un ruolo fondamentale all’interno delle pagine della Rivista poiché esse, come già accennato, diventano l’ago della bilancia con cui i collaboratori del periodico, legittimati da una cultura secolare di patriarcato e sessismo, possono giudicare attraverso i diversi universi femminili analizzati la moralità e quindi l’essenza, positiva o negativa, delle varie nazioni prese in esame. La maternità delle donne nere, in questo caso descritte dal lavoro del Cipriani, diventa il terreno più fertile su cui poter creare ad hoc il contrasto e l’alterità con l’universo femminile italiano. Un altro chiaro esempio della costruzione di un controtipo negativo di donna rispetto a quella italiana era stato quello di mostrare le indigene, nel rapporto con la propria prole, in azioni lontane, animalesche, rispetto al canone normativo vigente nella cultura europea. I figli vengono trasportati sulla schiena, quasi mai presi in braccio, e allattati allungando, almeno secondo i razzisti biologici, il seno della madre fino al bambino. Questi gesti andavano a creare, come abbiamo già avuto modo di vedere, una cesura netta con quell’universo normativo tradizionale e ormai integrato da secoli nella mentalità e nella storia della nazione italiana.

Anche i riti e le superstizioni propri della cultura indigena, diventano il simbolo di separazione netta tra noi e loro. Nell’articolo Riti eDonna bianca con bambino superstizioni dei popoli africani [9], vengono elencati tutti i casi in cui un bambino appena nato rischia la vita con «un nonnulla per effetto di superstizioni»[10]; ad esempio il neonato, nella cultura del Rhodesia, sarà ucciso, attraverso soffocamento o annegamento, se vagirà prima di essere completamente partorito; tutto questo per il bene della comunità, poiché la malasorte portatrice di malattie e sciagure si è già, in quel modo, manifestata alla nascita del piccolo. Le madri, sempre secondo Cipriani, non sono devastate da questo tipo di approccio, anzi esse «condannano i propri figli senza pensarci»[11] e continuano a perpetuare malsane usanze, sulla loro prole, come quella, vigente tra le tribù del Congo, di deformare «artificialmente la testa ai bambini dei due sessi onde assicurare loro una ricercata bellezza da adulti»[12]. Le immagini utilizzate, sono ancora più eloquenti quando vengono messe a confronto nel numero XI dell’anno 1940[13], due madri di “razza” diversa con dei piccoli in braccio: la donna africana è disturbata dal figlio che piangendo le avvicina la mano alla bocca, creando così in lei una smorfia che la rende poco gradevole alla vista, in più è a seno scoperto e decorata da gioielli tradizionali; al contrario la bella e bionda madre occidentale guarda invece verso il lettore sorridendo, con la testa appoggiata in modo premuroso su quella del figlio che stringe tra le braccia (Fig. 2).

Questa breve analisi chiarisce che anche uno studioso come Cipriani poteva inserirsi a pieno titolo, nonostante le sue smentite e autodifese durante i processi post 1945, nel gruppo degli intransigenti razzisti biologici; l’affermato antropologo infatti negò fin da subito l’accusa di essere, sebbene fosse presente il proprio nome, co-firmatario del decalogo e di conseguenza egli fu colpito solo superficialmente dalle leggi di epurazioni del secondo dopoguerra proseguendo indisturbato la sua carriera scientifica. Cipriani riuscì quindi anche a costruire un controtipo negativo di donna, in questo caso riguardante le donne africane, rispetto al contesto femminile italiano.

Gli esempi riportati nell’articolo cercano di indagare e di conseguenza illustrare al lettore come gli stereotipi sessisti e maschilisti riguardanti l’universo femminile italiano e non solo propagandati dalla rivista «La Difesa della razza» possano essere ancora oggi scovati e identificati nella nostra società di appartenenza, la quale vive nel mantenimento di quelle strutture culturali e normative ereditate e mai realmente modificate o eliminate dalla dittatura fascista e che hanno permesso ad un «fascismo eterno»[14] di influenzare e controllare ancora oggi la nostra società. Tutte le donne analizzate dal quotidiano anche se appartenenti a realtà o culture diverse da quella italiana si trasformano nei diversi numeri dei fascicoli in un universo rigido e monolitico poiché tutte, nessuna esclusa, vengono intese, concepite e qualificate esclusivamente dal loro ruolo/missione primaria che è quella di diventare prima delle buone ed esemplari mogli e poi delle brave madri capaci per natura di mantenere la stabilità familiare con il loro stoicismo e con il loro amore. Il luogo comune riguardante la prova del sacrificio e del dolore, due elementi biologicamente caratterizzanti tutte le donne, ancora oggi vive e prospera nel nostro immaginario collettivo; «La Difesa della razza» marcia su questo stereotipo utilizzandolo come giustificazione, come espediente alla reclusione forzata a cui costringe le proprie donne nella sfera domestica. La casa è l’ambiente naturale dell’universo femminile dove esso si realizza e dove più si sente a suo agio. Tutte quelle donne appartenenti invece a nazioni nemiche o estranee alla cultura della penisola italiana andranno a rispecchiare e diventare un controtipo negativo di femminilità saranno descritte e così concepite da «La Difesa della razza» come delle cattive mogli e delle madri degenerate.

Questo articolo è tratto dalla tesi di laurea magistrale in storia contemporanea intitolata Le donne delle «razze inferiori» secondo «La Difesa della razza»: un’analisi intersezionale di genere, discussa dall’A. nell’a.a. 2020/2021 presso l’Università di Pisa.

Note:
[1] Segretario di redazione della «Difesa della razza» fu Giorgio Almirante, nel secondo dopoguerra leader del MSI.
[2] G. Israel, Il fascismo e la razza. La scienza italiana e le politiche razziali del regime, Bologna, Il Mulino, 2010, p. 37.
[3] Cfr. F. Cassata, La Difesa della Razza. Politica, ideologia e immagine del razzismo fascista, Torino, Einaudi, 2008.
[4] G. Israel, Il fascismo e la razza. La scienza italiana e le politiche razziali del regime, p. 178.
[5] P. Chiozzi, Autoritratto del razzismo: le fotografie antropologiche di Lidio Cipriani, in Centro Furio Jesi (a cura di), La menzogna della razza. Documenti e immagini del razzismo e dell’antisemitismo fascista, Bologna, Grafis, 1994, p. 91.
[6] Aveva pubblicato nel 1936 il libro dal titolo Un assurdo etnico: l’impero Etiopico, Firenze, R. Bemporad & F.o., 1936.
[7] P. Chiozzi, Autoritratto del razzismo: le fotografie antropologiche di Lidio Cipriani, p. 92.
[8] Ivi, p. 93.
[9] L. Cipriani, Riti e superstizioni dei popoli africani, in «La Difesa della razza», 20 marzo 1941, pp. 18-21. Testo nella sezione FONTI.
[10] Ivi, p. 18.
[11] Ivi, p. 20.
[12] Ibid.
[13] «La Difesa della razza», 5 aprile 1940, pp. 24-25.
[14] Cfr. U. Eco, Il fascismo eterno, Milano, La nave di Teseo, 2017.




L’eccidio del Padule di Fucecchio

Il 23 agosto 1944 alcuni reparti dell’esercito nazista massacrarono indiscriminatamente, con metodi da guerra e di artiglieria pesante, 174 civili, fra cui neonati e anziani, all’interno del Padule di Fucecchio, fra le province di Pistoia e di Firenze, colpendo nei comuni di Monsummano Terme (frazione di Cintolese, la più colpita con 84 residenti uccisi), Larciano (frazione di Castelmartini), Ponte Buggianese (zona di Capannone e Pratogrande), Cerreto Guidi (frazione di Stabbia) e Fucecchio (frazioni di Querce e di Masserella).

Iniziamo con alcune premesse. Durante quella terribile estate l’estremità meridionale del Padule distava appena cinque chilometri dalla linea del fronte sull’Arno, stabilitosi là dal 18 luglio e conservatosi fino alla fine di agosto; a sud del fiume si trovavano gli alleati, a nord i nazifascisti.

Casotto dei Criachi - LarcianoIn quel periodo all’interno del Padule si erano stabiliti numerosi gruppi di sfollati e contadini che tentavano di sfuggire ai quotidiani rastrellamenti tedeschi e alle cannonate alleate, sparate per colpire obiettivi militari ma che finirono per uccidere diversi civili. La fitta vegetazione, non tagliata quell’estate, offriva riparo a uomini e donne; inoltre per la sua posizione, lontano dalle vie principali e dai centri abitati, era esente da possibili bombardamenti e combattimenti.

In Padule era stimata da parte nazista una presenza di partigiani nell’ordine delle 200-300 unità – almeno così hanno testimoniato gli ufficiali nei successivi processi -, ma in realtà l’unica formazione partigiana nelle vicinanze era la “Silvano Fedi” di Ponte Buggianese, comandata da Aristide Benedetti, che poteva contare su circa 30 elementi, attiva in zone limitrofe al Padule. Importanti squadre resistenti si trovavano principalmente sul Montalbano, nelle zone collinari e sull’appennino pistoiese. Alcuni attacchi c’erano stati fra i partigiani di Benedetti e i nazisti, tuttavia senza causare uccisioni di soldati nazisti nella settimana precedente. I tedeschi cercavano di proteggere le vie di fuga, sopravvalutarono la presenza partigiana ed emanarono un comando preciso di far terra bruciata e di liberare tutta la zona, massacrando ogni presenza umana per favorire la ritirata a nord delle truppe che si sarebbero stabilite sulla Linea Gotica.

L’operazione iniziò all’alba e si attenuò prima dell’ora di pranzo; l’area fu delimitata a est dalla strada statale 436 che portava a Monsummano, a sud dalla confluenza fra il canale del Capannone e il canale del Terzo, a ovest dalle Cerbaie e a nord dalla linea che andava dall’Anchione alla capanna Borghese.

Monumento Giardino della Meditazione Stabbia - Cerreto GuidiL’ordine impartito dal colonnello Crasemann fu chiaro: “Vernichten”, ovvero annientare. Fu poi il capitano Joseph Strauch a condurre l’azione sul campo e a istruire i tenenti delle varie unità operative. L’eccidio si consumò “in gronda”, cioè ai bordi del Padule dove era sfollata la maggior parte della popolazione, poiché i reparti nazisti non giunsero mai nel centro di esso, temendo eventuali ma inesistenti attacchi partigiani. Non furono risparmiati bambini, vecchi, donne ma, nonostante le atrocità commesse, furono numerose le persone che riuscirono a salvarsi. Ci fu chi si nascose al centro del Padule, soprattutto gli uomini adulti che avevano paura di un rastrellamento, chi non fu colpito dai proiettili, chi non fu visto in mezzo ai campi, chi fu ferito e curato dai medici o dall’ospedale, chi fu scelto per portare le munizioni e poi lasciato libero.

Fra gli episodi più drammatici e tristi ricordiamo quello di Maria Faustina Arinci, detta Carmela, di 92 anni sorda e cieca, fatta esplodere con una bomba a mano infilata in una tasca del grembiule e quello di Maria Malucchi, la più piccola, trucidata all’età di 4 mesi.

Un aspetto non secondario fu rilevante in quelle ore, ovvero l’aiuto di collaborazionisti italiani: fascisti locali e toscani furono riconosciuti nelle varie località dagli inermi superstiti.

Le vittime vennero trasportate con ogni mezzo, fra cui barroccini e carretti, sepolti in maniera inadeguata in casse costruite in fretta con semplici assi di legno, oppure seppelliti avvolti nelle coperte. In alcuni casi furono gli stessi tedeschi a portare via i caduti con dei camion, scaricandoli e ammassandoli in fosse comuni.

Monumento in ricordo delle vittime a LarcianoLa sera del 23, mentre le famiglie piangevano i propri defunti, i nazisti festeggiavano sia a Ponte Buggianese sia a Larciano e, fra canti e risate, gridavano: “Vittoria, partigiani tutti kaput”, nonostante avessero ucciso quasi esclusivamente civili.

L’eccidio del Padule di Fucecchio fu uno dei casi a livello nazionale in cui si cercò di rendere giustizia ai caduti, attraverso processi che coinvolsero i presunti colpevoli. A Venezia Kesselring, comandante della Wehrmacht in Italia, fu inizialmente condannato alla pena di morte, poi all’ergastolo e infine graziato; Crasemann a Padova prese 12 anni di reclusione mentre Strauch a Firenze 6 anni di carcere: tutti i condannati furono liberati dopo pochi anni e nessuno scontò pienamente la propria pena. Durante il recente processo di Roma sono stati condannati all’ergastolo il capitano Ernst Arthur Pistor, il maresciallo Fritz Jauss e il sergente Johann Robert Riss, mentre il tenente Gherard Deissmann, anch’esso imputato, è morto a cent’anni nel corso del processo.

Matteo Grasso, laureato in storia, svolge attività di ricerca archivistica, orale e bibliografica finalizzata all’approfondimento locale e nazionale di particolari momenti della storia contemporanea. Collabora sia con l’Istituto Storico della Resistenza di Pistoia (ISRPt), gestendone il sito web e facendo parte del consiglio direttivo, sia con l’Associazione Culturale Orizzonti di Lamporecchio che diffonde il mensile Orizzonti. Ha pubblicato alcuni saggi riguardanti il periodo della seconda guerra mondiale sui Quaderni di Farestoria, periodico quadrimestrale dell’ISRPt. Attualmente svolge un tirocinio per la valorizzazione storico-artistica di una villa medicea a Firenze.




Arduino Lazzaretti e Aurelio Regini

Seconda parte di questa breve rassegna di profili di esponenti del Partito comunista d’Italia dell’area fiorentino-pratese.

LAZZERETTI Arduino

(Lastra a Signa, 17 aprile 1893 – lager di Severo-Vostočnyj, baia di Nagaev 15 gennaio 1938)

 Figlio di Santi e di Maria Guarnieri, di famiglia contadina, bracciante e macellaio, impegnato alla Camera del Lavoro, pur senza cariche e iscritto al PCd’I fin dalla fondazione, dopo una militanza nel partito socialista. Domiciliato a Porto di Mezzo, frazione del Comune di Lastra a Signa, è  considerato comunista pericoloso. Per sottrarsi alle rappresaglie degli squadristi fiorentini e all’arresto con l’accusa di complicità corrispettiva di omicidio e mancato omicidio commessi contro i fascisti il 30 ottobre 1921, emigra clandestinamente prima in Francia e nel 1923 in Unione Sovietica: è perciò iscritto nella Rubrica dei sovversivi pericolosi e attentatori residenti all’estero, al n°2552 e nel Bollettino delle ricerche: il 22 febbraio 1925 infatti la Corte d’Assise di Firenze lo aveva condannato in contumacia a 30 anni di reclusione e a 9 di vigilanza speciale. Il cenno biografico stilato il 13 maggio dello stesso anno lo presenta di carattere «impulsivo, di mediocre intelligenza … assiduo al lavoro … verso la famiglia si comporta bene … spavaldo e prepotente verso le Autorità». In merito alla sua attività di oppositore del regime fascista «Non è capace di tenere conferenze; però ha preso parte a tutte le riunioni e manifestazioni sovversive in qualsiasi circostanza, dimostrandosi sempre violento e pericoloso per commettere reati politici». Il 20 maggio 1925 la Prefettura di Firenze comunica al Ministero dell’Interno che egli risiede a Parigi, in rue S. Martin Notre Dame de Nazareth, secondo un’informazione estorta ad un suo compaesano: la conseguente domanda di estradizione a suo carico è però respinta dalle autorità francesi. La ricerca ossessiva del «pericoloso comunista» giunge allo stretto controllo della corrispondenza dei suoi familiari: in una lettera della madre una postilla della sorella Vittoria raccomanda ad Arduino di indirizzare la sua posta alla famiglia di Giuseppe Montani, alle cui dipendenze lavora il padre Santi, perché la loro casa è sottoposta a frequenti perquisizioni da parte dei carabinieri. Sappiamo che nel corso del 1931 emigra nell’Unione Sovietica, dove il suo recapito a Mosca e l’attività lavorativa rimangono a lungo sconosciuti alle autorità fasciste, mentre una prefettizia risalente al 6 ottobre 1933 ci fa sapere che Arduino «è stato inserito nell’elenco dei sovversivi classificati attentatori o comunque capaci di atti terroristici, residenti all’estero», finché in data 1° luglio 1937 un telespresso  dell’ambasciata italiana riferisce che la sua residenza a Mosca è in via Bolsaia Grusinskaia, n° 19, app. II, ma che da diversi mesi  si trova in carcere sotto l’accusa di trockismo. L’arresto è sicuramente avvenuto dopo il 30 settembre dell’anno precedente, quando una lettera di Arduino al padre lo informa di stare bene, così come la moglie e i figli, Lisa e Alfredo e di essere stato nominato Tenente anziano della guardia rossa; inoltre ancora in una nota della Prefettura di Firenze del 30 gennaio 1937 egli è segnalato come impegnato a svolgere propaganda comunista in Russia unitamente ad altri comunisti italiani ivi immigrati: ancora a quell’epoca dunque egli risulta libero cittadino sovietico. L’ultima prefettizia che lo riguarda risale all’8 luglio 1942, quando ormai le relazioni diplomatiche fra l’Italia fascista e l’URSS sono interrotte dallo stato di guerra, per registrare che da tempo di lui non si hanno più notizie. Eppure la sua situazione già dall’estate del 1936 si stava deteriorando, in quanto risulta che fin dal 9 agosto 1936 era stato espulso dal PCU(b) per finire arrestato dall’NKVD il 29 aprile 1937 con l’accusa di «aver partecipato, nel 1927, a una riunione illegale alla quale era intervenuto Trockij». E’ interrogato e detenuto nel carcere di Butyrki insieme al compagno Giuseppe Sensi. L’8 agosto 1937 è condannato a cinque anni di lager da scontarsi a Severo-Vostočnyj (baia di Nagaev), dove muore il 15 gennaio 1938. Il percorso politico e professionale di Arduino in Unione Sovietica è costituito dall’iniziale approdo alla casa dell’immigrato politico di Mosca fino a prendere la cittadinanza sovietica nel 1932 e alla successiva militanza nel partito comunista bolscevico e dal successivo impiego come direttore di mensa in un salumificio per poi divenire ispettore della milizia. Caduto in disgrazia, perde il lavoro ed è costretto ad impiegarsi provvisoriamente come operaio al cantiere della metropolitana di Mosca. Tra il 1936 e il 1937 i dirigenti del PCd’I che lavorano alla Sezione quadri del Comintern prendono più volte in esame il suo caso e nel ricostruire la sua biografia e le sue posizioni politiche lo segnalano come bordighista. Il 4 luglio 1956 le autorità sovietiche lo riabilitano. Nel 50° anniversario della Liberazione di Lastra a Signa viene eretto un monumento a ricordo di tutti coloro che hanno combattuto per la libertà: Arduino è fra costoro.

 FONTI: Archivio Centrale dello Stato (Roma), Ministero dell’Interno, Direzione Generale di Pubblica Sicurezza, Direzione affari generali e riservati, Casellario Politico Centrale, ad nomen; Memorial, Archivio di Stato della Federazione Russa, Fondo degli atti istruttori 10035, op.1, P. 26343, cc. 27, 1937-1957; E. Dundovich, F. Gori, E. Guercetti, Reflections on the gulag: with a documentary index on the italians victims of repression in USSR, Milano Fndazione G. Feltrinelli, 2003; G. Lehner con F. Bigazzi, La tragedia dei comunisti italiani, Milano Mondadori, 2001; www. gulag-italia.com, scheda personale di Arduino Lazzeretti.

Regini006REGINI Aurelio (Domenico Carpi)

(Empoli, Firenze 24.12.1903 – U.R.S.S., ?)

Figlio di Serafino e Meucci Maria Assunta, cenciaiolo, comunista. Quando la Prefettura di Firenze stila il cenno biografico che lo riguarda, il 30 novembre 1937, la sua parabola di vita e il suo impegno politico nelle file del partito comunista volgono alla fine. E’ considerato di carattere taciturno ma abbastanza intelligente oltre che discreto lavoratore. Sebbene in famiglia si comporti bene, è giudicato pericoloso per le sue frequentazioni di elementi sovversivi ed il suo contegno sovente sprezzante verso le autorità. Nel 1922 emigra in Francia con regolare passaporto e dopo cinque anni si trasferisce in Belgio. In Francia, fino al 1925 risiede a Longwy (Meurthe et Moselle), dove svolge attività politica come persona di fiducia del Pci in qualità di responsabile dei collegamenti con i comunisti residenti in Lussemburgo. Dopo un breve rientro in Italia per visitare la famiglia che risiede a S. Martino a Pontorme, nell’immediata periferia di Empoli, il 13 settembre 1926 gli viene rilasciato un nuovo passaporto per trasferirsi ancora in Francia. A partire dal 1927 abita e lavora in Belgio, a Ougrée, Liegi, rue Ferdinand Nicolary, n°117, dove svolge la funzione di segretario della sezione cittadina del Soccorso rosso internazionale. Il 24 gennaio 1930 è’ imputato dell’omicidio del fascista Fernando Poloni, sulla base dell’unica testimonianza del fratello della vittima, avvenuto il 25 dicembre dell’anno precedente, proprio nel quartiere dove abita. Nonostante l’immediato arresto di Giovanni Cantini, gerente di un piccolo caffè, anch’egli originario di Empoli, di Salvatore Budroni, minatore di Oschiri (Sassari), anch’egli collettore del Soccorso rosso e di Egidio Rampioni, muratore comunista di Fano (Pesaro), sospettati di complicità, Aurelio riesce a sfuggire alla cattura dirigendosi verso Arlon, con l’intento di varcare la frontiera del Lussemburgo. L’accusa di omicidio contrasta con le notizie del Consolato d’Italia a Liegi, secondo le quali Aurelio «aveva assunto un atteggiamento riservato e tranquillo». La perquisizione effettuata a carico del fratello Emilio su iniziativa della Prefettura di Firenze conduce la polizia a individuare la sua residenza in Belgio, ma una lettera del fratello Luigi, anch’egli emigrato, del 21 marzo 1930, indirizzata proprio ad Emilio, riferisce che Aurelio è riparato in Russia in seguito ai fatti di Liegi, con l’aiuto di un compagno, Fantin Flora, che gli consegna denaro e vestiti. Ma intanto le autorità belghe avevano provveduto ad espellerlo il 24 febbraio e la Corte d’Assise di Liegi a condannarlo in contumacia alla pena capitale nel gennaio del 1931: da quel momento la polizia fascista si sforza di seguire la vita e gli spostamenti di Aurelio in territorio sovietico. Nell’aprile 1932 egli comunica alla sorella Maria di essersi sposato con una ragazza di padre russo e di madre italiana, Tamara, dalla quale ha avuto un figlio, Romolo. In Urss Regini, oltre a lavorare come tornitore presso un’industria moscovita, continua a svolgere attività antifascista organizzando spedizioni in Italia di diversi pacchi di manifestini di ispirazione comunista destinati all’opposizione clandestina, mentre nella dimensione privata continua a intrattenere rapporti epistolari con i fratelli e la sorella Maria, alla quale chiede di informare la famiglia del compagno Cafiero Lucchesi di Prato che il loro congiunto sta bene. La Regia Ambasciata d’Italia a Mosca alla fine del 1936, nel confermare che da almeno un anno Regini lavora a Sebastopoli e in vari porti del mar Nero, avanza l’ipotesi che la sua attività politica sia costituita da propaganda sovversiva rivolta ai marittimi italiani che frequentano quei porti, senza tuttavia escludere che una possibile ragione del trasferimento in questa località sia dovuta alla sua tubercolosi e alla necessità di un clima più mite rispetto a quello moscovita. In occasione dell’inizio della guerra civile spagnola e del successivo intervento di un corpo di spedizione fascista in Spagna, in una lettera alla sorella Regini mostra di essere informato sulle operazioni militari italiane e sulla sconfitta subita dai fascisti ad opera delle forze repubblicane e dei volontari della Brigata “Garibaldi” a Guadalajara, esprimendo compassione per i militari italiani inviati in Spagna per volontà del duce: «Poveri soldati ingannati!». Il 17 giugno 1938il Consolato italiano di Nancy, che sorveglia la vita del fratello Luigi, dà la notizia che Aurelio forse è deceduto: l’informazione contrasta con l’invio della posta di Aurelio alla sorella ancora in date successive alla sua presunta morte, quando, in particolare il 25 ottobre successivo, egli fa riferimento ai preparativi per l’imminente festa per l’anniversario della Rivoluzione, mentre in Italia c’è stato l’anniversario «della miseria e fame mortale e basta». Ma la situazione cambia rapidamente in modo drammatico: un telespresso della R. Ambasciata di Mosca del 10 gennaio 1939 dà notizia che Regini «sarebbe da alcun tempo caduto in disgrazia di fronte al partito per le sue relazioni con dei fuorusciti italiani … attualmente arrestati perché ostili o poco ortodossi nei riguardi del regime staliniano». In data imprecisata Aurelio seguirà la sorte di molti comunisti che saranno incarcerati ed eliminati dal regime di Stalin, fra i quali il suo amico pratese.

FONTI: Archivio Centrale dello Stato, Ministero dell’Interno, Direzione Generale di Pubblica Sicurezza, affari generali e riservati, Casellario Politico Centrale, busta 4269; http://www.memorialitalia.it/archivio/mem/gulagframeset_ita.html.




Una testimonianza sul ruolo degli Arditi del popolo nei «fatti di Sarzana» del luglio 1921

Premessa

La Stampa 22 luglio 1921 i fatti di Sarzana

All’alba del 21 luglio 1921, nella città di Sarzana, all’epoca in provincia di Genova, giunse una colonna di circa 500 squadristi comandati da Amerigo Dumini e Umberto Banchelli, con l’obbiettivo di assaltare la città e recarsi alla Fortezza Firmafede per liberare alcuni fascisti che vi erano incarcerati, fra cui Renato Ricci, il leader del fascio di combattimento carrarese, ritenuti responsabili di efferati atti di violenza e degli omicidi avvenuti nei giorni precedenti. Il prefetto di Genova, per proteggere la città da ulteriori assalti fascisti, aveva ordinato l’invio di un reparto di carabinieri e di militari in città, al comando di Guido Jurgens, i quali fronteggiarono i fascisti, che durante la giornata di scontri persero quattordici uomini, ottenendo infine la liberazione di Ricci grazie solo all’intervento politico del procuratore filofascista di Massa. Ai «fatti di Sarzana» ‒ uno degli eventi principali che segnarono la prima Resistenza armata al fascismo ‒ parteciparono anche un consistente gruppo di arditi del popolo e numerosi contadini del luogo riuniti in un Comitato di difesa.

Nella_città_perduta_Sarzana

Nel 1980 l’uscita del film Nella città perduta di Sarzana girato dal regista Luigi Faccini, che raccontava appunto le vicende relative ai «fatti di Sarzana», avviò un intenso e partecipato dibattito sulle radici del fascismo e dell’antifascismo che coinvolse storici di fama come Renzo De Felice e Paolo Spriano. Il film venne proiettato nella sezione Controcampo alla Biennale di Venezia nel 1980, poi a Milano, in seguito in diverse città italiane e anche fuori d’Italia come a Nizza e Villerupt. Al Festival del cinema neorealistico di Avellino (1981), il film ottenne la targa d’argento “Pietro Bianchi” e nell’estate, sempre del 1981, la RAI lo trasmise sul secondo canale nazionale. Anche a Carrara, dove il film venne proiettato, si aprì un serio dibattito testimoniato da vari articoli pubblicati dai quotidiani locali e non poteva essere altrimenti dal momento in cui proprio le squadre fasciste carraresi guidate da Renato Ricci furono tra le protagoniste principali di quell’episodio.

Umberto Marzocchi, classe 1900, originario di Firenze ma all’epoca dei fatti operaio a La Spezia, anarchico e sindacalista, poi fuoruscito in Francia e volontario in Spagna durante la Guerra civile (1936-39) e infine maquis durante la Seconda guerra mondiale, intervenne nel dibattito con una lettera sul ruolo degli arditi del popolo nei «fatti di Sarzana». La lettera, poco conosciuta e citata, crediamo sia una testimonianza preziosa nella ricostruzione di quel episodio e la pubblichiamo, oltre per ricordare la figura di Marzocchi, in occasione proprio del centenario dei «fatti di Sarzana» come contributo per il dibattito e la ricerca storiografica[1].

La testimonianza di uno che c’era[2].

Umberto Marzocchi negli anni Trenta

Umberto Marzocchi negli anni Trenta

Ho letto con ritardo i commenti critici al film «Nella città perduta di Sarzana» ed i successivi interventi, direi storici, su «I fatti di Sarzana», tendenti a ristabilire alcune verità in modo chiaro ed inequivocabile, pubblicati nel giornale e, poiché fui uno dei protagonisti di quei fatti, con una cinquantina di Arditi del popolo venuti da La Spezia e rimasti al fianco del sindaco socialista, avvocato Pietro Arnaldi Terzi, a Luigi Luciani, Ugo Boccardi (Ramella), Lucherini ed altri compagni anarchici, socialisti e repubblicani sarzanesi, vorrei contribuire con la mia testimonianza ed i miei ricordi alla necessaria, storica chiarificazione, già in parte compiuta da chi mi ha preceduto.

Se nella realtà si ebbe ragione di criticare il Partito Socialista Italiano per il famoso Patto di Pacificazione, dobbiamo riconoscere che i socialisti di Sarzana ne erano come noi amareggiati e decisi a seguire il sindaco nel suo atteggiamento politicamente onesto che nel film si manifesta con la frase: «Io resto con la mia città». Non si deve però dimenticare che i socialisti (come Giuliani nel film) divenuti dopo il congresso del gennaio 1921 a Livorno, militanti del  Partito comunista italiano, commisero anch’essi un grosso errore nell’accettare la decisione presa dalla direzione del partito ai danni degli «Arditi del Popolo» e quindi della rivolta antifascista del popolo italiano, iniziata con i fatti di Sarzana.

Con l’arrivo a Sarzana, nel tardo pomeriggio del 21 luglio 1921, degli Arditi del Popolo di La Spezia, Carrara ed i paesi intorno a Sarzana, venne organizzata la difesa, dislocando i circa 200 arditi ed un numero maggiore di sarzanesi in blocchi di difesa avanzati verso l’Emilia, verso la Liguria e verso la Toscana. All’interno della città, gruppi di operai e contadini armati vigilavano: sui tetti delle case, sul campanile della chiesa vennero ammucchiati sassi e bombe a mano.

Gli arditi si erano severamente autodisciplinati e furono in parecchie circostanze ragionevoli, rispettosi delle istruzioni che ricevevano da ex ufficiali dell’esercito, un socialista di La Spezia, Vallelonga, e due repubblicani di Sarzana dei quali non ricordo il nome. Lo stesso Trani, ispettore generale di P.S., su cui è incentrato il film di Faccini, nella sua «relazione al ministero dell’Interno», scrive: «… bastò che io sinceramente rassicurassi gli organizzatori e gli esponenti dei partiti estremi di La Spezia e di Sarzana, che bastavano le mie forze a difendere tutti dalla violenza fascista, perché di organizzazioni di Arditi del popolo in armi non si ebbero altre apparizioni». Infatti, onde evitare un conflitto con le forze di polizia che perlustravano le vie cittadine, ci eravamo uniti ai sarzanesi più in vista, raggruppati nei posti di blocco, e ciò risulta anche dagli incartamenti processuali nel processo per l’uccisione di Maiani e Bisagno.

La critica alle presunte atrocità commesse dagli Arditi del popolo richiede una più dettagliata spiegazione, in quanto essi furono estranei a tali eccessi. Solo l’uccisione dei due fascisti spezzini, Maiani e Bisagno, sulla quale venne imbastito un processo, fu attribuita agli Arditi, ma la loro cattura evitò conseguenze peggiori e forse una seconda strage, dopo quella della stazione di Sarzana. La testimonianza dell’ardito del popolo sarzanese Gino Lucherini, raccolta da Franco Ferro in «I fatti di Sarzana» è a questo proposito irreprensibile e ne confermo l’esattezza: «A Sarzana, il mercoledì 21 luglio, al posto di blocco del Ponte sul Magra, venivano fermati i due giovani, e siccome essi non conoscevano la parola d’ordine, furono costretti a tornare indietro. Camminarono da prima disinvolti poi, percorso un centinaio di metri si misero a correre, gettando via qualcosa. Una donna li vide, raccolse ciò che era stato gettato e accortasi che si trattava di due tessere del fascio, diede l’allarme e i due furono ben presto nelle mani degli Arditi del popolo che li interrogarono e li perquisirono accuratamente, trovando nell’interno della giacca di uno dei due giovani, cucito sotto la fodera, un messaggio inviato dai fascisti spezzini a quelli di Carrara, contenente indicazioni precise che avrebbero permesso alle squadre di prendere Sarzana come in una morsa. Il messaggio diceva anche che fra Cerri e Monte Marcelli, e precisamente ad Ameglia, squadre armate erano pronte ad attaccare la città. Il Comitato di difesa decise allora di mandare da quelle parti gruppi di armati: avvenne così il primo scontro nel quale ebbero la peggio i fascisti che furono ricacciati verso La Spezia». Chi ha fatto la Resistenza comprende che cosa si prova in quelle situazioni e la lotta partigiana annovera decine di episodi come questo.

I giornali fascisti e quelli ben pensanti – continua Ferro – subito dopo il 21 luglio, com’era già avvenuto altre volte in simili circostanze, misero in atto la loro tecnica deformatrice della realtà e, poiché la spedizione punitiva c’era stata e di essa i fascisti erano chiaramente i soli responsabili, si diedero a narrare innumerevoli atrocità commesse dai «comunisti» contro le persone degli squadristi che fuggivano attraverso le campagne del sarzanese, e a parlare con insistenza di bande armate che, a cominciare dal 21 luglio avrebbero sparso il terrore nella Lunigiana, mentre i giornali socialisti e quelli anarchici, al contrario si affrettarono a negare tutto ciò. A dire il vero, le atrocità ci furono, ma si trattò di delitti commessi da una popolazione esasperata, perché vissuta per molti mesi sotto una pesante minaccia; delitti che sembrano non potersi attribuire all’organizzazione degli Arditi del popolo, ma piuttosto a gruppi di contadini che, non potendo essere efficacemente protetti dal Comitato di Difesa cittadino, i cui sforzi erano principalmente concentrati in città avevano provveduto ad armarsi autonomamente ed avevano ricevuto armi e munizioni dallo stesso Comitato di Difesa.

Per quanto concerne l’uso dell’aggettivo repubblicano attribuito al Ricci ricordo che il Ricci non fu solo il provocatore fascista ma fu l’ex legionario fiumano accorso con ex interventisti, sindacalisti deambrosiani, futuristi e militanti fascisti al seguito di Gabriele D’Annunzio, per partecipare alla spedizione di Fiume, nel settembre 1920, alla quale nessun militante aderente al Partito Repubblicano tradizionale partecipò. Una parte di quei legionari seguaci di de Ambris auspicò che la Reggenza del Carnaro, retta da D’Annuzio a Fiume, si trasformasse, in odio allo stato liberale e in opposizione agli accordi italo-jugoslavi di Rapallo, in Repubblica del Carnaro. Da qui nacque l’equivoco di legionari repubblicani… improvvisati. E mentre Ricci continuava la sua opera fascista il regime combatteva il Partito Repubblicano Italiano, creato da Giuseppe Mazzini nel 1831-32, fino a sopprimerlo come formazione legale. Bisogna quindi sfatare la leggenda resa per un certo periodo di tempo credibile della Repubblica del Carnaro e dei legionari fiumani repubblicani.

Umberto Marzocchi

[1] La lettera è stata recentemente inserita, insieme ad altri articoli, sul tema nel volume di R. Bertolucci, La città perduta. Storie e ritratti di Carrara e del territorio apuano-versiliese tra ‘800 e ‘900, Pisa, BFS, 2020, pp. 401-403.
[2] U. Marzocchi, La testimonianza di uno che c’era, «La Nazione» (cronaca di Carrara), 5 ottobre 1981, p. 21.