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La “CASA DELLA CULTURA E DELLA MEMORIA”: la nuova sede della BIBLIOTECA F. SERANTINI

La Biblioteca Franco Serantini nel 2019 è entrata nel suo 40° anno di vita e attraverso una sottoscrizione nazionale molto partecipata è riuscita a festeggiare il compleanno con l’acquisizione di una nuova sede ubicata in una frazione, Ghezzano, del comune di S. Giuliano Terme al confine con la città di Pisa.

Un anniversario speciale da molti punti di vista, infatti non è comune che una struttura culturale nata dalla società civile, autofinanziata e autogestita riesca a raggiungere una tale età! La Biblioteca in questi anni, oltre a svolgere un’attiva e intensa promozione culturale e editoriale, è cresciuta nel suo patrimonio bibliografico e archivistico, raggiungendo una consistenza di tutto rispetto, in gran parte inerente la storia politica e sociale dell’Ottocento e del Novecento e ottenendo riconoscimenti sul piano non solo nazionale ma anche internazionale: oltre 50.000 monografie; quasi 6.000 testate di giornali, riviste e numeri unici; 87 fondi archivistici con migliaia di documenti, fotografie, dischi, opere artistiche, carteggi, registrazioni di testimonianze orali, bandiere, manifesti, volantini e cimeli).

Oggi la biblioteca fa parte, come ente collegato, della rete nazionale degli Istituti della Resistenza e dell’età contemporanea e dell’International Association of Labour History Institutions (IALHI). Nel 1997 la Biblioteca è stata censita dal Ministero dei Beni culturali, che le ha attribuito un codice identificativo ufficiale (PI 0368), fa parte della Rete regionale bibliotecaria e del portale ToscanaNovecento. Nel 1998 l’archivio della Biblioteca è stato dichiarato di «notevole interesse storico» nazionale dalla Soprintendenza archivistica della Toscana con notifica n. 717 del 12 marzo 1998.

Interno_3La nuova “casa della cultura e della memoria” che ospita la Biblioteca nasce con l’intento di raccontare, conservare e condividere la memoria e la storia del Novecento con particolare attenzione alle vicende del territorio della provincia di Pisa in relazione ai territori contigui. Si è consapevoli, infatti, che la storia della provincia di Pisa è parte integrante di un vasto territorio, con caratteristiche storiche peculiari, che è racchiuso nell’area della Toscana Nord-Occidentale, una zona da sempre caratterizzata da flussi migratori in entrata e in uscita che l’hanno proiettata nella più vasta area del bacino del Mediterraneo e dei paesi che vi si affacciano – in particolare quelli, ma non solamente, di lingue neolatine come la Francia e la Spagna.

All’attività e gestione della “casa della cultura e della memoria” parteciperanno associazioni che rappresentano la memoria storica dell’antifascismo, della Resistenza, della guerra di Liberazione, delle vicende sociali e politiche del Ventesimo secolo.

Ampio è il ventaglio delle iniziative in programma per il 2020, ne daremo puntualmente notizia ai lettori di ToscanaNovecento, nel frattempo con l’occasione si ringraziano tutti coloro che non hanno fatto mancare il proprio sostegno alla biblioteca contribuendo alla realizzazione di un sogno quella di dare una nuova casa alla Serantini.

 

 

Questi sono i nuovi recapiti della Biblioteca:
Biblioteca Franco Serantini
archivio e centro di documentazione di storia sociale e contemporanea
via G. Carducci n.13, loc. La Fontina
56017 GHEZZANO (PI) – Italia –
Tel. ++39 3311179799 ++39 0503199402
e.mail: segreteria@bfs.it




Letteratura e lavoro di cura

Mentre seguivo la ricerca promossa dall’Istoreco sulle badanti nella provincia di Livorno e finanziata dallo Spi-Cgil e terminata con un bel volume pubblicato con l’Ediesse[1], mi sono volontariamente imbattuta in tre romanzi, fortemente autobiografici che mi hanno suggerito riflessioni e suggestioni assai significative. Si tratta di opere apparentemente molto lontane l’una dall’altra, scritte da donne di età diversa e anche di nazionalità diversa, ma che in qualche modo cercano, attraverso la scrittura, di elaborare un pensiero che riesca a mettere ordine nel loro difficile rapporto, in due casi con le altre donne che entrano nelle loro case per prendersi cura di loro stesse, o dei loro genitori, e in un caso, quella della scrittrice più giovane, la statunitense Stephanie Land, a dare senso al lavoro durissimo, di pulizie, nelle case degli altri, per riuscire a sopravvivere con la piccola figlia alla situazione di indigenza nella quale era precipitata[2].

Ma proviamo a procedere libro per libro, ovviamente in maniera molto sintetica e anche approssimativa perché non si tratta qui di proporre nessuna analisi testuale, né tanto meno una lettura critica comparata. Il mio intervento parte dalla constatazione della grande capacità ermeneutica che traspare dalla scrittura letteraria che può divenire, uno strumento in più, una lente in più, da accostare alla lettura storica o sociologica che i nostri istituti sono in grado di mettere in atto. In qualche modo, il mio, è un invito ad uno sguardo multidisciplinare.

1Infatti mentre Sandra Burchi e Caterina Satta stavano costruendo i loro due saggi sul lavoro delle badanti, questi romanzi sul mio tavolo mi hanno consentito di apprezzare di più i risultati delle stesse sociologhe e mi hanno suggerito alcune riflessioni che qui provo a proporre. Sia nel primo romanzo, che noi lettori sappiamo fortemente autobiografico, della grande scrittrice ungherese, Magda Szabò[3], così come in quello della nostra autrice e giornalista Tutti Marrone, siamo di fronte ad un rapporto fortemente conflittuale, le cui radici stanno nella ammissione, ob torto collo, della loro assoluta necessità di un aiuto domestico per dedicare, nel primo caso, le energie alla ricerca e alla scrittura creativa, nel secondo caso per non vedere sconvolta completamente la propria esistenza dalla malattia della madre. Eppure in entrambi i casi questa scelta di ricorrere ad un’altra donna per portare avanti le incombenze quotidiane, risulta pesante e anche disadattante. É come se agisse nelle scrittrici e anche in noi donne che ci troviamo immerse nella lettura, una specie di abito mentale ancestrale che ci vorrebbe all’altezza di far fronte a tutto. Come se quella necessità segnasse anche il confine delle nostre capacità. O, meglio, mettesse a nudo i nostri limiti. Come se quell’aiuto ci ricordasse che non riusciamo ad “essere all’altezza” dei nostri compiti, perché accudire il padre e la madre è una forma di rispetto antichissimo che ci coinvolge anche se non credenti. Non riusciamo a osservare uno dei comandamenti: “onora il padre e la madre”.

Nel primo caso, quello di Szabò, il marito della protagonista, anche lui scrittore, si chiude nel suo spazio e non si lascia coinvolgere, o così perlomeno sembra, dalla presenza di questa estranea. La casa è più pulita, il cibo è migliorato, la moglie meno stanca fisicamente. Ma la donna in questione che si occupa dentro il quartiere dove la coppia abita anche di tenere pulite altre case, che lavora con una resistenza disumana, costringe tutti i suoi interlocutori ad un rapporto che non può essere quello di una routine anonima. Emerenc, così si chiama, entra nella loro vita, occupa un territorio e lo gestisce di testa sua e il datore di lavoro si trova così costretto a non essere solo il soggetto neutro che elargisce una paga a fine lavoro. Quel rapporto comporta una continua rinegoziazione, la costruzione di una trama che non è indolore, né insignificante. In questo caso il libro è qualcosa di più di un libro sul rapporto fra una signora borghese e istruita finalmente giunta alla notorietà e una donna delle pulizie. Nel testo entrano avvenimenti lontani e recenti di un paese, l’Ungheria, con un passato difficile e complesso, un percorso di storie che si dipanano nella loro unicità e che generano anche molte difficoltà per riconoscersi. Di sicuro il romanzo è un romanzo dalla scrittura finissima che impropriamente, in questa occasione, sto utilizzando al suo livello più basso.

E poi abbiamo il racconto molto autobiografico di Titti Marrone[4]. Il contesto qui è più familiare. Siamo in Italia, siamo a Napoli. La nostra protagonista è una donna impegnata, di sinistra, un intellettuale che quando si trova a gestire l’improvvisa malattia della madre ricorre quasi subito ad un aiuto esterno. La donna che assume, una giovane donna moldava è una signora che – si scoprirà avanti nel testo – è laureata e parla benissimo l’italiano ma finge di non saperlo per adattarsi alle aspettative della sua committente. Il libro procede con i capitoli contrapposti, dove il soggetto che parla è ora la badante, ora la signora italiana. Questa modalità di procedere che risulta anche un po’ spiazzante è estremamente utile per entrare nelle letture capovolte che le due protagoniste danno degli stessi episodi. La scrittrice-autrice entra quasi subito in conflitto con la signora dell’est che gestisce sua madre e in automatico anche suo padre, perché è lei che ci vive insieme. Occupa degli spazi anche affettivi con i due vecchi genitori, spazi che vengono avvertiti sia come liberazione che come usurpazione e innescano sensi di colpa. La nostra intellettuale è come se cominciasse a rimproverarsi della sua impotenza ad occuparsi della vecchia madre, ad aver trasferito questo compito su una estranea, e per di più straniera. Questo nucleo duro con il quale tutte le donne fanno i conti, quello che ti comanda di pensare ai tuoi cari, questo “dover essere” che giace dentro la nostra cultura della famiglia e dalla quale non è facile uscire, bussa alla porta. Non basta la consapevolezza che il quadro di riferimento è cambiato; che la vecchia famiglia patriarcale è scomparsa, che viviamo in piccoli appartamenti dove non ci possiamo inserire nessun estraneo, che le nostre abitudini lavorative, relazionali, affettive sono cambiate.

2È come se anche in noi, donne europee emancipate, parlasse una voce sotterranea quella che, nel mio percorso mi giunse tramite una donna originaria del Marocco la quale, in un incontro al Centro Donna di Pisa, disse che dopo poco che era approdata in Spagna prima, e poi in Italia, era rimasta sconcertata dal fatto che noi, inteso come ”noi europei”, affidassimo i nostri vecchi alle badanti. Da loro, raccontava, sarebbe stato impensabile.[5]

E credo non sia assolutamente casuale che quelle parole mi ritornino alla mente mentre sto scrivendo queste pagine. Tutte le nostre acquisizioni non bastano a sedare un sottile ma onnipresente senso di colpa. Questo sembrano raccontare insieme a tante altre cose, questi romanzi, in gran parte autobiografici.

Il romanzo di Land, invece vede la prospettiva del lavoro di cura dalla parte opposta, dalla parte di colei che è costretta per necessità, in un’America divenuta un paese per soli ricchi, a pulire i cessi per dare qualcosa da mangiare ad uua figlia piccola nella quasi totale assenza di strutture di welfare. Per le famiglie per le quali lavora, spedita attraverso una agenzia oggi da una parte e domani da un’altra, lei e il suo lavoro sembrano non esistere. É come se il suo corpo, la sua fatica, diventassero trasparenti. La propria condizione non interessa a nessuno. Del resto l’incipit del libro lascia poche illusioni: “Mia figlia imparò a camminare in un rifugio per senzatetto.”.[6] Così come lascia poche speranze sulla condizione del vuoto contemporaneo che la maggior parte degli abitanti delle case dove lei si reca a pulire, cercano di riempire con oggetti e con corse allo shopping. Sempre nel suo testo troviamo:

Molte volte mi ci voleva un’ora solo per guadagnare i soldi che spendevo in carburante per arrivare al primo lavoro della giornata. Invece i miei clienti lavoravano fino a tardi per comprarsi auto di lusso, barche, divani, che tenevano coperti con un lenzuolo.[7]

In Italia affidiamo i nostri anziani e ci affidiamo per le cure domestiche, anche al di fuori dei ceti alto borghesi, ad aiuti esterni, da diversi decenni. Questo atteggiamento ci ha messo in contatto con un universo quasi per intero femminile, che proviene soprattutto, ma non solo, dai cosiddetti paesi dell’est. Come raccontano sia Tiziano Distefano[8] con la sua indagine statistica che Sandra Burchi nel suo intervento[9] e Caterina Satta[10], con un approccio sociologico, e come in parte era stato messo in luce anche in un’altra ricerca che si concentrava sul territorio di Lucca di Liliana Da Ponte e Daniela Simi,[11] il rapporto con queste figure è un rapporto complesso e per niente lineare.

Scrive S. Burchi:

Trovare un punto di equilibrio fa parte del lavoro stesso e si gioca nello spazio di tensione e negoziazione che le lavoratrici riescono ad aprire con i datori (più spesso le datrici) di lavoro. In queste vite domestiche globalizzate, le differenze culturali si annullano e la maggior parte dei casi sono prese in carico dalle lavoratrici, che si preoccupano di imparare una lingua, di adeguarsi alle abitudini dei loro assistiti, di assumere i codici, anche della cura, che il contesto si aspetta da loro.[12]

Ma trovare un punto di equilibrio costa fatica e dolore e quando alcune di loro vengono intervistate, come scrive C. Satta:

… sembrano accettare con rassegnazione il loro lavoro di badanti come se fosse un destino contro il quale si può fare poco. Non si arrabbiano, al massimo si commuovono e fanno dei sospiri molto lunghi che dicono più di tante parole. Poi ti guardano di traverso per coprire leggermente gli occhi lucidi e dicono “è andata così”.[13]

Vi si scontrano differenze di atteggiamenti, di culture dell’abitare e dell’alimentazione, di sensibilità verso gli anziani che non sono né peggiori, né migliori ma sono diverse. Mentre il lavoro degli storici e dei sociologhi cerca un approccio neutro e scientifico al tema, l’approccio letterario ovviamente cala dentro la problematica tutta la soggettività della scrivente. Notare che i testi dei quali mi sono occupata sono tutte scritture femminili, sia quelli di finzione che quelli scientifici. Ma nella tradizione dei testi di invenzione potremo, volendo risalire molto indietro, a veri e propri capolavori del passato, tutte opere maschili. Non a caso.  Anche se un capolavoro, non possiamo rinviare, per questa nostra disamina, al rapporto tra Robinson e Venerdì,[14] inventato da Daniel Defoe la cui prima uscita si colloca nel lontano 1719, così come possiamo rinviare al racconto di Denis Diderot, Jacques le fataliste, comparso in Francia nel 1796. Possiamo anche ricordare come molti secoli dopo un autore francese, scomparso da poco, Michel Tournier provò a rovesciare l’ottica di Defoe con il suo, azzeccatissimo, Venerdì o il limbo del Pacifico[15].  Posso citare anche il caso, assai positivo della scrittura di Valerie Martin[16] che racconta del dottor Jekyll e di mister Hyde dalla prospettiva della sua cameriera. Una scrittura femminile che prova a destrutturare il punto di vista del capolavoro di Stevenson comparso nel 1886 a Londra. Posso concludere che mentre le scritture maschili stanno dentro una visione del mondo che si rapporta alla antica tematica: servo-padrone, che rinvia alle concettualizzazioni di Diderot e di Hegel, quelle femminili sono meno duali, le autrici dei testi sui quali ho cercato di soffermarmi, sono pienamente coinvolte nella trama, sono loro stesse parte della trama. Questo anche nel caso delle ricerche scientifiche perché l’angolo di lettura è sempre quello di una donna. E questo ci rinvia a prendere atto di contraddizioni che non si possono risolvere, di oscillazioni di punti di vista che stanno dentro la trama del vissuto di ciascuna di noi, perché la specificità della scrittura femminile e dello sguardo femminile costituisce, per fortuna, una differenza irriducibile.

[1] Il mondo in casa. Indagine sulle badanti in provincia di Livorno, (a cura di Catia Sonetti), Ediesse, Roma, 2019

[2] Stephanie Land, Donna delle pulizie. Lavoro duro, paga bassa e la volontà di sopravvivere di una madre, astoriaedizioni, Milano, 2019.

[3] Magda Szabò, La porta, Einaudi, Torino, 2016

[4] Titti Marrone, La donna capovolta, iacobellieditore, Roma, 2019

[5] Raccolsi questa testimonianza durante un corso sulle fonti orali che svolsi alla Casa della Donna di Pisa, nel marzo 1998.

[6] S. Land, Donna delle pulizie.., cit., p.3

[7] Ibidem, p 167.

[8] Tiziano Distefano, Il mondo in casa. Indagine sulle badanti in provincia di Livorno, in Il mondo in casa, cit., pp. 19-52.

[9] Sandra Burchi, Vite domestiche globalizzate. Percorsi migratori, cura e lavoro nei racconti di alcune badanti a Livorno, in Il mondo in casa, cit., pp. 53-129.

[10] Caterina Satta, Le lavoratrici domestiche e di cura migranti tra percorsi migratori, senso di casa e “capacità di aspirare”. Il caso di Livorno, in Il mondo in casa, cit., pp.131-188.

[11] Liliana Da Ponte, Daniela Simi, “Il mio paese adesso sono due”. Storie di badanti, Ets, Pisa, 2017.

[12] S. Burchi, Vite domestiche.. cit., p. 57.

[13] C. Satta, Le lavoratrici domestiche.., cit. p. 157.

[14] Faccio riferimento all’edizione del 1992 di Daniel Defoe, Robinson Crusoe, Garzanti, Milano, 1992.

[15] Michel Tournier, Venerdì o il limbo del Pacifico, Einaudi, Torino, 2010.

[16] Valerie Martin, La governante del dottor Jekyll, Bompiani, Milano, 1990.




Una nuova rubrica di ToscanaNovecento

È la sera del 9 novembre 1989; Günter Schabowski, funzionario del partito di unità socialista della Germania, durante una conferenza stampa in diretta Tv, incalzato dal corrispondente dell’ANSA, Riccardo Ehrman, sui tempi della concessione dei permessi di viaggio ai tedeschi dell’Est, risponde con solo due parole: “Ab sofort”: da subito.Ci si è interrogati sulle ragioni di queste parole: sfuggite in un clima di incertezza e confusione o scelta consapevole?L’effetto è, prevedibilmente, immediato: i berlinesi si riversano in massa nei pressi del muro; le guardie, spiazzate e senza chiari ordini in merito, aprono i varchi per evitare episodi di disordine.

(Fonte: ansa it - copyright Ansa/Epa)

(Fonte: ansa it – copyright Ansa/Epa)

Dalla tv entrano nelle case di tutto il mondo le immagini festanti dei tedeschi di entrambe le parti, ora di nuovo insieme, degli abbracci e della commozione di un popolo separato per 28 anni, delle prime picconate al muro.

(Fonte: ansa it - copyright Ansa/Epa)

(Fonte: ansa it – copyright Ansa/Epa)

La caduta del muro di Berlino ha una carica e un valore simbolico tali da essere indiscutibilmente collocata tra i grandi eventi del Novecento. Barbara icona della Guerra Fredda, emblema della contrapposizione politica, ideologica, economica e militare tra Usa e Urss, ma anche garanzia di stabilità e di equilibrio tra i due blocchi in Europa, in una notte il muro diventa, con la sua caduta, simbolo dell’implosione di regimi fondati sull’ideologia comunista. Con il muro viene giù un mondo. Il processo è iniziato da tempo e non si concluderà la sera del 9 novembre ma quell’evento resta nell’immaginario collettivo quale simbolo visibile e tangibile del fallimento della via sovietica al socialismo. Di lì a poco inizierà lo smottamento degli altri regimi comunisti e la crisi di quei partiti che, pur con distinguo, criticità e declinazioni diverse, erano parte della galassia del comunismo europeo. Tutto ciò, non senza contraccolpi su tutto l’universo della sinistra.

A trent’anni di distanza il rumore del crollo del muro, prima, e dell’Unione Sovietica, poi, arriva fino a noi, riecheggia nella ritrovata unità della Germania, nei nuovi assetti geopolitici che l’Europa si è data a partire dagli anni Novanta con l’accelerazione del processo dell’integrazione europea e l’allargamento dell’Unione ai paesi dell’Est; ma risuona anche nei conflitti che hanno squarciato l’ormai ex Jugoslavia, nell’attacco russo in Georgia del 2008, nell’ostilità, ora aperta, ora celata, fra Stati Uniti e Russia dal 2014 in Ucraina.

(Fonte: ansa.it – copyright Ansa/Epa)

(Fonte: ansa.it – copyright Ansa/Epa)

La redazione di ToscanaNovecento ritiene utile aprire uno spazio di riflessione e conoscenza sulle trasformazioni che l’evento simbolico “caduta del muro” ha prodotto, sulle conseguenze che esso ha avuto non solo da un punto di vista geopolitico ma anche sul modo di pensarsi e (auto)rappresentarsi della politica e del potere in Italia: lutto per alcuni, liberazione per altri, la fine della contrapposizione tra blocchi ha messo in discussione i riferimenti di chi, nato e vissuto in un mondo bipolare, forse fatica ancora oggi ad elaborarne la portata e il significato. Quello che proponiamo, e che andrà avanti con almeno un appuntamento al mese per l’ultimo scorcio del 2019 e per tutto il 2020, è un esperimento per questo portale: non articoli su singoli episodi storici di rilevanza locale o generale, ma una serie di interviste a personalità politiche, sindacali, culturali toscane sulle conseguenze della caduta del muro, sui significati di questo evento epocale, sia su un piano strettamente personale, sia sul piano pubblico dei rapporti e degli schieramenti politici.

Ci muoveremo in un “terreno accidentato tra memorie individuali e ricordi collettivi” (Passerini, 2003), ben consapevoli della differenza tra storia e memoria, quest’ultima “permanentemente in evoluzione, aperta alla dialettica del ricordo e dell’amnesia, inconsapevole delle sue deformazioni successive, soggetta a tutte le utilizzazioni e manipolazioni, suscettibile di lunghe latenze e improvvisi risvegli” (Nora, 1984). Ma ci sembra un percorso necessario per comprendere il recente passato e il presente.

Il primo appuntamento con la nuova rubrica del portale è per il mese di dicembre.




Per una storia del movimento politico cattolico livornese

Pierangelo Zari (1917-2006) ha avuto un ruolo importante nella storia del movimento politico cattolico livornese, ma non ha avuto certamente una posizione di primissimo piano. Lo troviamo tra il ristretto gruppo di livornesi che il 22 luglio 1944, tre giorni dopo la liberazione della città dal nazifascismo, diede vita alla prima sezione della Democrazia Cristiana livornese. Fu poi segretario amministrativo della DC livornese negli anni ’50, consigliere provinciale dal 1956 al 1960, assumendo un ruolo pubblico defilato, ma mosso da interessi variegati, che lo mise in contatto con tanti ambienti della cultura e del potere cattolico: lavorò per lunghi anni alla Cassa di Risparmi di Livorno, fu governatore dell’Arciconfraternita Misericordia, consigliere dell’Istituto Case Popolari, console del Touring Club italiano. Eppure, oggi possiamo dire che quella di Zari è una figura fondamentale per la storia della Democrazia Cristiana livornese, e in generale, per la storia della cultura cattolica a Livorno. Perché Zari nel corso della sua vita è stato una sorta di archivista autodidatta conservando tra le mura domestiche un patrimonio documentario molto interessante relativo non solo alla storia del partito democristiano e della cultura cattolica livornese, ma più in generale alla storia politica e sociale, locale e nazionale a partire dagli anni del fascismo.

Pierangelo Zari (Fondo Zari, Archivio Istoreco, Livorno)

Pierangelo Zari (Fondo Zari, Archivio Istoreco, Livorno)

Le carte appartenute a Zari fanno luce in particolare sull’attività del partito democratico cristiano tra la fine degli anni ’40 e tutti gli anni ’50: oltre alla corrispondenza con la sede centrale e con le varie sezioni zonali, tra i suoi documenti si trovano anche dettagliate relazioni sulla gestione economia del partito e dati e commenti relativi alle varie tornate elettorali. La famiglia Zari ha poi conservate carte riguardanti l’attività dell’associazionismo cattolico livornese degli anni ’30 e ’40 e degli anni del dopoguerra. Ma la passione di Zari per libri, giornali, riviste lo ha portato ad accumulare un patrimonio che va ben oltre il movimento cattolico: si va dalle pubblicazioni e riviste della propaganda fascista, relative all’attività politica, alla politica scolastica, ai costumi sociali, all’attività dell’Ovra, alla propaganda di guerra. Fino alla pubblicistica varia prodotta dalla Democrazia Cristiana (riviste, opuscoli, materiali di propaganda) e ad alcune collezioni di riviste locali molto rare come il settimanale diocesano livornese “La Domenica” di fine anni ’30.

Il patrimonio di Pierangelo Zari, grazie alla disponibilità della sua famiglia, è stato oggi raccolto e depositato presso l’Istoreco Livorno, come parte fondamentale di un fondo archivistico dedicato al movimento politico cattolico livornese costruito con la collaborazione dell’Istituto Luigi Sturzo di Roma. Il progetto ideato dall’Istoreco e dall’Istituto Sturzo ha inteso rispondere ad una problematica di natura archivistica molto comune per quanto riguarda la storia della Democrazia Cristiana: come è accaduto in molte parti d’Italia, la fine non indolore della DC alla metà degli anni Novanta ha significato a Livorno e provincia una dispersione del suo patrimonio documentario: nessuno cioè si è preoccupato di salvaguardare l’archivio del comitato provinciale e comunale della DC di Livorno che dunque si è disperso in mille rivoli. Si è dunque provato a dar vita ad una operazione di “salvataggio” di carte e materiali che documentano la storia politica e culturale dei cattolici di Livorno attraverso una attività di indagine volta a scoprire se e dove questa documentazione potesse ancora trovarsi.

L'insegna luminosa della DC della sezione di Campiglia Marittima, Livorno, recuperata nell'ambito del progetto Istoreco-Sturzo (Archivio Istoreco, Livorno)

L’insegna luminosa della DC della sezione di Campiglia Marittima, Livorno, recuperata nell’ambito del progetto Istoreco-Sturzo (Archivio Istoreco, Livorno)

Ciò che ne è risultato è la costituzione di una sorta di archivio provinciale del movimento politico cattolico livornese, depositato all’Istoreco, strutturato come raccolta di tanti piccoli o grandi fondi privati. Si tratta di un progetto che, oltre ad esser parte integrante dell’articolata operazione varata dell’Istoreco sulla conservazione degli archivi politici, si inserisce all’interno di un progetto nazionale di lungo periodo che l’Istituto Sturzo ha dedicato agli archivi locali. Il progetto “Archivi locali in rete”, cominciato nel 2001, consiste nel recupero degli archivi delle organizzazioni periferiche della Dc (al momento sono stati recuperati 18 archivi di Comitati Provinciali e 5 archivi di Comitati regionali) e nella creazione di un sistema nazionale di informazione sulle fonti archivistiche relative alla storia della Democrazia Cristiana. La novità del progetto livornese sta nel fatto che si tratta del primo caso di costituzione di un archivio come raccolta di fondi privati. Un metodo che ha ricevuto anche l’appoggio della Soprintentenza Archivistica della Toscana che lo ha definito «meritevole del più ampio sostegno», sostenendo che «il tipo di intervento è […] scientificamente valido e ben disegnato, ed è probabilmente l’unico modo per arrivare ad un recupero il più possibile ampio di questa memoria storica».

Grazie a questa operazione oggi il fondo archivistico del movimento politico cattolico livornese conservato all’Istoreco ammonta a circa 200 buste, provenienti da 12 fondi distinti. Oltre alle carte Zari, sono in particolare da segnalare i documenti depositati da Enrico Dello Sbarba – che fu segretario della DC livornese alla metà degli anni ’70 e che ha avuto un ruolo essenziale nelle fasi iniziali di ideazione del progetto Istoreco-Sturzo – e il fondo della Sezione DC di Campiglia Marittima (Livorno). Quest’ultimo fondo, in particolare, si distingue, insieme alle carte Zari, per la consistenza e il valore della documentazione conservata: grazie ad una operazione di “salvataggio” particolarmente fortunata è stato infatti possibile recuperare buona parte dei materiali (tutti destinati al macero) che documentano l’attività della sezione campigliese della DC dal 1945 al 1994 e quella relativa all’attività del Partito Popolare e della Margherita (regolamenti, statuti comunali, verbali di sezione, protocolli di sezione, carteggi e manifesti).




Al tempo di Pistoia capitale della cultura: quale ruolo per la Public History?

25000 turisti nel 2017, il 20% in più rispetto al 2016, 7 milioni circa di ricavi dalle attività turistiche e culturali. E il risultato non si è disperso nel tempo, non è diventato, come direbbero i grecisti, un hapax legomena: anche nel 2018, questo trend si è rafforzato, lasciando la ragionevole speranza che Pistoia possa affermarsi nel panorama turistico-culturale italiano come una delle città d’arte di provincia dove cultura, arte, natura e buon cibo si uniscono e si fondano. Non male per una piccola città di provincia, da sempre poco visibile perché vicinissima a grandi città d’arte come Firenze, Pisa e Lucca. Questi infatti sono stati alcuni dei risultati ottenuti da Pistoia nell’anno della nomina di “Capitale Italiana della cultura” nel 2017.

Che ruolo hanno avuto, in questo successo, la Public History e le numerose mostre storiche organizzate in quest’anno? È un’esperienza di cui, proprio per le sue ricadute, diventa necessario parlare per capire come il connubio tra iniziative culturali, risorse economiche e coinvolgimento istituzionale possa suscitare non solo nuove sinergie tra tessuto sociale, urbano e culturale, ma possa essere la base da cui instaurare un fruttuoso circolo virtuoso tra impegno culturale, esigenze economiche e ricadute sociali. Un impegno che non si esaurisca nell’anno di capitale per la cultura, ma che sia radicato nelle iniziative passate e protenda verso quelle future, dimostrandosi capace di utilizzare tutte le potenzialità di cui dispone una disciplina – quella della Public History – relativamente giovane in Italia e in Europa, ma dotata di un più ampio e riconosciuto pedigree in America e in Gran Bretagna, dove già dalla metà degli anni Settanta si sentiva l’urgenza di rispondere a una domanda di passato con strumenti rigorosi e metodi scientifici.

Una genuina Public History, infatti, è quella che promuove pratiche di cittadinanza attiva e di consapevolezza civica: stimolare una conoscenza del passato non mnemonica ed episodica, ma organica e problematica, che consideri i suoi processi e le sue ricadute sui problemi del tempo presente, permette al visitatore e al cittadino di riappropriarsi in maniera attiva di tutti quegli strumenti critici ed epistemologici che gli consentiranno, quando sarà messo di fronte all’attualità, di analizzare criticamente le posizioni in gioco e di scegliere razionalmente il proprio punto di vista. E questo fine non è in contraddizione con il coinvolgimento emotivo che la scoperta e il racconto di esperienze personali e familiari può indurre; che anzi, proprio il conflitto socio-cognitivo che può scaturire dalla curiosità per le proprie radici può stimolare una maggiore attenzione per quegli accadimenti storici che alle vicende personali hanno fatto da cornice.

Senza andare troppo lontano nel tempo e nello spazio, possiamo ricordare come esempio di Public History la mostra che il nostro Istituto, nell’autunno 2013, allestì per ricostruire i bombardamenti alleati che nella notte del 24 ottobre 1943 devastarono il centro storico della città di Pistoia. Quell’iniziativa, che si avvalse degli strumenti e delle pratiche della mostra diffusa, fu riproposta con successo quando, il 31 luglio 2016, il disinnesco di una bomba inesplosa condusse all’evacuazione per otto ore di più di metà dei residenti nel centro cittadino: l’operazione fu seguita da una diretta TV locale che per l’occasione si avvalse della consulenza di uno storico del nostro Istituto (Stefano Bartolini), mentre la Mostra, allestita nuovamente nei locali della San Giorgio, contribuì ad accrescere la consapevolezza della cittadinanza verso eventi bellici che improvvisamente non apparivano più tanto lontani. E del resto gli Istituti Storici della Resistenza, come ha giustamente sottolineato Claudio Silingardi nel 2017 a Ravenna, non sono nuovi a pratiche di Public History; attività di divulgazione, mostre e iniziative progettate per un pubblico non iniziato agli studi storici esistevano già decenni prima che gli accademici “scoprissero” la storia pubblica come disciplina e pongono i nostri Istituti come gli antesignani della Public History “prima” della Public History.

Quello che però è nuovo e inedito è la consapevolezza epistemologica sottesa all’impegno di ricerca, sistematizzazione e condivisione delle proprie scoperte, nella stringente consapevolezza che la conoscenza di queste ultime non può più limitarsi agli angusti limiti del ristretto esoterico dibattito tra studiosi, ma che deve pervenire anche a chi accademico non è. E inoltre, ma, sarebbe forse meglio dire, e soprattutto: la condivisione non deve, non può riguardare soltanto i risultati della ricerca, ma deve investire anche il processo stesso che ha portato a quei risultati e a quelle conclusioni. Comprendere quali fonti il ricercatore ha vagliato, quali ha deciso di usare e come ha prospettato di analizzarle rende visitatori e cittadini partecipi del processo storico, essi stessi capaci, quando posti di fronte alle sfide dell’attualità, di cercare i documenti più appropriati e di esaminarli per formarsi con cura e coscienza una propria ponderata opinione. Ma l’arricchimento è tutto fuorché unilaterale; è stato messo talvolta in luce come la collaborazione con le comunità conduca a un processo di mutuo arricchimento e crescita, sia personale sia professionale. Apprendistato di cittadinanza attiva, pratica di indipendenza mentale e critica; «uscita dallo stato di minorità»; questo è dunque il fine a cui deve puntare, in misura costante e sistematica, l’insieme delle pratiche di Public History.

Questo è stato lo scopo del nostro panel Fare storia a Pistoia capitale della cultura: esperienze e progetti: raccontare esperienze, mostrare che tutto sono state tranne che chiuse e impermeabili alla cittadinanza. Mostrarne le ricadute, culturali mentali e sociali prima che economiche. Coesione sociale, partecipazione, consapevole appropriazione della propria identità procedono, per una volta, in parallelo con la valorizzazione di un patrimonio artistico e culturale poco considerato e con un aumento dei ricavi economici, a dimostrazione che con la cultura non solo ci si mangia, ma ci si mangia proprio bene. Questo fu il caso di Mantova, capitale italiana della cultura nel 2016, e tale è stato anche il caso di Pistoia, che dalla città lombarda ha ereditato il titolo nel 2017.

Chiara Martinelli ha ottenuto all’Università di Firenze nel 2015 il dottorato in storia contemporanea. Nel 2015 ha lavorato al Council for the European Union come redattrice e bibliotecaria. Dal 2017 è membro del Consiglio direttivo dell’Istituto storico della Resistenza di Pistoia, istituto ai cui corsi di formazione docenti collabora.  E’ membro della redazione della rivista “Farestoria”. Nel 2019 ha pubblicato il volume “Fare i lavoratori? Le scuole industriali e artistico-industriali italiane in età liberale” nella collana scientifica del Cirse (Centro Italiano per la ricerca storico-educativa). 




Facibeni, Bartoletti, Nesi: la Madonnina del Grappa nella luce del Concilio

«Niente di meno indicato richiederebbe il ricordo del Padre, che un ripetersi cordiale dei suoi fatti e del suo esempio, senza approfondire e senza tener d’occhio gli aspetti positivi della realtà, che cambia e si evolve di suo. Ora mi pare che uno dei valori più schietti e più esigenti dello spirito del Padre sia proprio quello di adattare le linee del suo pensiero e della sua esperienza ad una situazione in atto, evitando la pura celebrazione di ciò che fu, di ciò che fece. Per questo io credo che gli ex allievi abbiano una grande responsabilità: essi traggono dalla esperienza di lavoro e di casa riflessioni vive. Pertanto essi dovrebbero esser quasi la consulta permanente, il vivaio fecondo di riflessioni sulla possibilità di inserire sempre più l’eredità del Padre nei problemi e nelle attese del nostro tempo. Ciò obbligherebbe oltretutto gli stessi ex allievi ad avere un impegno ed un atteggiamento di presenza nel mondo di oggi ed eviterebbe loro il rischio tremendo di esser stati tratti per distaccarsene dal popolo, piuttosto che esser stati tratti dal popolo per restarvene inseriti, con una capacità maggiore di arricchimento spirituale, in una elevazione del bene comune» (Nesi, 1964). In questa riflessione che don Alfredo Nesi consegnò nel 1964 alla rivista dell’Opera della Divina Provvidenza Madonnina del Grappa in occasione del sesto anniversario della morte di don Giulio Facibeni, si avvertono insieme l’eco del rinnovamento conciliare, allora di quotidiana attualità, e la particolare prospettiva con la quale il sacerdote guardava all’eredità lasciata dal Padre, come don Facibeni veniva chiamato a Firenze. Alfredo Nesi, intimo amico di don Lorenzo Milani, era nato a Lastra a Signa (Firenze) il 18 luglio 1923, e dopo aver condotto la sua formazione sacerdotale al seminario Cestello ed essere stato ordinato presbitero nel 1946, era entrato nell’Opera Madonnina del Grappa nel 1947. Da quell’anno e fino al 1954 era stato a Rovezzano dove, da subito, aveva coniugato l’esperienza sacerdotale e pastorale con quella educativa e socio-culturale dando avvio a scuole professionali e di avviamento al lavoro. Dal 1954 al 1958 svolse attività a Rifredi accanto a don Facibeni, perfezionando poi i suoi studi in teologia alla pontificia università Angelicum di Roma fino al 1962. Quando scrisse queste riflessioni su Facibeni sulle pagine de «Il Focolare», don Nesi si trovava già da due anni a Livorno, dove era stato chiamato dal vescovo Andrea Pangrazio come parroco nel quartiere Corea: da lì sarebbe poi fiorita la sua innovativa esperienza dell’Istituzione Sperimentale del Villaggio Scolastico.

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Don Alfredo Nesi

Quella di don Nesi – che fu certamente tra i più originali interpreti dell’eredità di Facibeni – era una prospettiva che mirava a non cristallizzare in un esercizio di pura memoria il pensiero e l’esperienza del fondatore dell’Opera, ma ad aggiornarle in maniera costantemente aderente ai “segni dei tempi”. Questa continua tensione alla revisione dei fondamenti su cui basare l’azione pastorale e spirituale dei sacerdoti dell’Opera diviene di particolare rilievo soprattutto se letta attraverso il filtro dell’azione di monsignor Enrico Bartoletti, figura di assoluta centralità per l’Opera negli anni successivi alla morte di Facibeni.

Don Nesi non a caso vedeva in monsignor Bartoletti, come chiaramente ebbe modo di esplicitare, «il vero costruttore dell’eredità di don Facibeni» (Nesi, 1996, p. 34). Una costruzione che tendeva a riadattare e ridisegnare la missione dell’Opera secondo le nuove architetture del rapporto Chiesa-modernità che il Concilio aveva tracciato. Un processo che in don Nesi era molto chiaro, quando sosteneva che «le normative tanto precise, le indicazioni sistematiche date e lasciate da don Bartoletti-vescovo ai Preti dell’Opera costituirono, in chiave tipicamente facibeniana, anche la lettura del Concilio Vaticano II» (Ibidem). D’altra parte, l’importanza che Bartoletti ricoprì per mantenere unita la comunità dei sacerdoti è stata più volte confermata da tutti i sacerdoti dell’Opera che ancora oggi, il 5 marzo, in occasione dell’anniversario della scomparsa di Bartoletti, organizzano un incontro di preghiera e ricordo. Tutto questo fa anche emergere alcuni tratti del percorso biografico di Bartoletti ancora poco messi in luce dalla storiografia e che rivelano il profondo, e poco conosciuto, legame tra due figure chiave del cattolicesimo novecentesco toscano e, più precisamente, italiano.

In primo luogo, è da evidenziare che dopo la morte di don Facibeni, il gruppo dei sacerdoti guardò a Bartoletti come al punto di riferimento insostituibile per mantenere l’Opera sulla linea e nel carisma indicati dal Padre. Più ancora, si può affermare che Bartoletti esercitò sui sacerdoti quel «carisma della paternità» (Nesi, 1996, pp. 153-164) prima così profondamente praticato da Facibeni verso i suoi sacerdoti: una paternità fatta di una intensa capacità di ascolto, della sensibilità di saper sentire con gli altri, di una dedizione senza stanchezze e senza riserve anche quando i superiori incarichi avrebbero forse consigliato di desistere.

Per altro verso emerge quanto l’ininterrotto esercizio praticato da Bartoletti nel meditare, aggiornare e reinterpretare la spiritualità di Facibeni abbia agito in profondità nel suo percorso di sacerdote, di vescovo e di vescovo tra i vescovi. Don Nesi, che dal 1954 al 1958 partecipò direttamente all’attività dell’Opera a Rifredi, sostiene che Bartoletti «visse con don Facibeni un’autentica comunione di spirito, di idee» (Nesi, 1996, p. 12). E d’altra parte lo stesso Bartoletti confidava, durante un incontro con i sacerdoti dell’Opera, di aver vissuto «i momenti più decisivi e importanti» della sua vita, «accanto al Padre» (Ai sacerdoti dell’Opera, 1980, p. 21). Nel discorso di commemorazione tenuto alla Madonnina del Grappa nel febbraio 1974 – fondamentale per comprendere l’ottica con la quale l’allora segretario della Cei guardava all’eredità di Facibeni – Bartoletti parlava del fondatore dell’Opera in termini di «profezia»: lo descriveva come «un dono, un carisma profetico, un profeta della continuità». «Vero profeta» perché il suo messaggio si poneva «in continuità di tradizione e di vita» e si inseriva, perciò, «in tal modo nel solco storico della vita della Chiesa, nel suo cammino, nel suo pellegrinaggio, nel suo itinerario nel mondo». Profeta soprattutto perché nel suo messaggio si potevano «cogliere fondamentali linee di vita sacerdotale, di vita pastorale e di vita cristiana per il nostro mondo di oggi». Traghettare l’Opera fiorentina nel post-Concilio significava per Bartoletti «capire questa profezia», per essere «sospinti a realizzarla, non in forme che ricopino soltanto quello che il Padre ha fatto, ma che, cogliendone invece lo spirito, lo sappiano inserire nelle nuove mutate situazioni, quelle situazioni, del resto, che egli già prevedeva e sentiva cogliendone i problemi e cercandone concretamente le soluzioni» (Bartoletti, 1982, pp. 298-299).

Monsignor Enrico Bartoletti con Paolo VI

Monsignor Enrico Bartoletti con Paolo VI

Sembra opportuno qui richiamare quanto sostenuto da Luigi Sartori a proposito di Bartoletti: secondo il teologo egli fu chiamato a vivere, nel corso di tutta la sua esperienza sacerdotale, una teologia di tipo «sapienziale». Una teologia cioè che diveniva un quotidiano esercizio di verifica e scoperta della verità, in quanto ogni situazione ed ogni evento costituivano per lui dei “segni dei tempi” e quindi erano «luogo della Parola, luogo teologico, da interpretare ulteriormente con operazione veramente teologale» (Sartori, 1988, p. 28). In questo senso si può affermare che Bartoletti trovò nell’Opera della Madonnina del Grappa un particolare «luogo teologico» in cui esercitare le sua capacità ermeneutiche: egli riteneva che Facibeni incarnando un carisma autenticamente «ecclesiale, presbiterale e missionario» avesse offerto alla Chiesa alcune intuizioni che sarebbero giunte a maturazione solo con il Concilio Vaticano II. E lo diceva, con estrema chiarezza, ai sacerdoti dell’Opera: «Se si ripensa a questi tre aspetti […] dello spirito del Padre, allora si capisce come appare chiaro l’averlo definito – sia pure con tutti i limiti necessari – un profeta dei tempi nuovi». Perché, argomentava in un incontro del 1971, «è su queste linee, in fondo, che il rinnovamento della Chiesa, della sua vita, di quella dei sacerdoti e della loro pastorale, viene prospettato e dal Concilio e dalla necessità dei tempi nuovi». Sulle linee cioè «della ricostruzione di una vera unità ecclesiale completa, che non sia né puramente presbiterale, né puramente sezionale (per esempio di giovani o di altri)» (Bartoletti, 1980, pp. 88-91).

Ma è nella proposta di un’autentica spiritualità sacerdotale sostanziata nella necessità che i sacerdoti dell’Opera si impegnassero a vivere una vera vita comunitaria che Bartoletti vedeva una delle intuizioni più innovative e anticipatrici di Facibeni: la «vita comune» e la «comunità di vita» tra i sacerdoti furono auspicate esplicitamente dalla costituzione conciliare Lumen Gentium (28) e nei decreti Presbyterorum Ordinis (8 e 9) e Christus Dominus (30,1). Pierluigi d’Antraccoli ha notato quanto Bartoletti sentisse la necessità di favorire la comunione del presbiterio come l’aspetto dominante della sua missione di vescovo: nei suoi discorsi e nelle sue omelie si ritrovano innumerevoli riferimenti a questo punto; e ne parlava sempre con trepidazione, con profonda umiltà, ma anche con fermezza (D’Antraccoli, 1978, pp. 50-51). Per questo l’intuizione facibeniana era per lui tanto significativa: il Padre aveva raccolto intorno a sé un gruppo di sacerdoti, lo aveva curato con amore, e, specialmente negli ultimi anni della sua vita, aveva dedicato molto tempo a fornirgli delle Regole di vita, evitando formule che fossero «eccessivamente strutturate». Erano stati anni di incertezze, di passi indietro, ma anche di forte confronto con altre esperienze come con la Missione de France, con la Comunità del Prado di padre Chevrier e monsignor Ancel. Tutto ciò era segno per Bartoletti che «ante tempus», don Facibeni aveva «concepito la vita presbiterale come vita comune». Non soltanto come vita di comunione o di partecipazione, ma proprio «come vita comune presbiterale, in modo da ottenere una struttura non tipicamente “religiosa”, ma di comunione presbiterale, quale si addice ai preti» (Bartoletti, 1980, pp. 88-91). Concetti tanto chiari anche in don Nesi quanto affermava che i preti di don Facibeni non erano chiamati ad essere una congregazione religiosa, ma «restando preti secolari, a vivere una vita apostolica» in cui la gente poteva «riconoscere subito la vicenda stessa del vangelo»; e solo una «vita comune dei preti» poteva favorire, finalmente, «la crescita di un laicato di collaborazione, di animazione, di comunicativa» (Nesi, 1996, p. 49). Una tale concezione, secondo Bartoletti, era assolutamente innovativa: se si eccettua una certa consonanza con le idee di San Filippo Neri, non aveva riscontri «non soltanto nelle attuali forme canoniche, ma neppure nella storia del diritto canonico» (Bartoletti, 1980, pp. 88-91).

Da qui lo sforzo costantemente profuso perché questa comunità di vita tra i sacerdoti si realizzasse davvero: un impegno che si tradusse in indicazioni dettagliate su come vivere concretamente la spiritualità sacerdotale, ma anche in chiari ammonimenti a non deviare dal carisma facibeniano.

lessi_enrico-bartoletti_testimone_paoline_92h98_origNon si sbaglia nel dire che la distanza tra la realtà dei fatti e l’ideale perseguito rimase sempre piuttosto notevole: lo si percepisce nello scorrere gli appunti degli incontri e nel ripercorrere le fasi di attrito e di crisi che in alcuni momenti hanno contraddistinto la vita dell’Opera e le relazioni tra i sacerdoti dopo la morte di Facibeni. Bartoletti ne era assolutamente consapevole: ma questo non gli impediva di considerare comunque di grande significato “teologico sapienziale” l’esperienza vissuta con l’Opera dopo la morte del Padre: si trattava di un esempio concreto di fraternità e comunità tra sacerdoti che era probabilmente quanto di più vicino alla sua idea di comunione del presbiterio egli avesse potuto sperimentare nella sua attività di prete e vescovo. Lo si avverte anche dal modo affettuosamente ironico con cui l’allora vescovo di Lucca raccontava quell’esperienza al suo clero diocesano: durante un’assemblea presbiterale – ricorda don Pietro Gianneschi che di Bartoletti fu segretario particolare per quasi sedici anni – il presule fece accenno, senza in realtà nominarli, ai preti dell’Opera con una frase molto significativa: «Il Concilio ha auspicato che i preti vivano una vita di comunità: certamente non è una esperienza facile. Lo verifico costantemente seguendo un gruppo di preti intelligenti, ma che rimangono… tanti “galli nel pollaio”».

Non sarebbe corretto asserire che don Nesi fu tra i sacerdoti dell’Opera quello che con le sue realizzazioni più si mantenne fedele al carisma del Padre: certamente però don Nesi è stato tra quelli che più si è impegnato, anche dopo la morte di Bartoletti, a ripresentare con costanza all’Opera la lettura bartolettiana dell’eredità di don Facibeni. Si tratta, in fondo, di una sorta di doppia paternità e di doppia eredità per l’Opera che, pur in una concretizzazione non priva di difetti, ha permesso al gruppo di sacerdoti di don Facibeni di vivere un’esperienza di vita comunitaria tra preti secolari che ha indubbie caratteristiche di originalità nel panorama del cattolicesimo italiano. Se ne rendeva conto don Nesi nel 1996 quando guardandosi indietro così sintetizzava tutte le fatiche e le soddisfazioni nel dare consistenza all’intuizione facibeniana: «Questo gruppo di Preti, che ora può cominciare a prendere il titolo di comunità, proprio perché può distinguersi dalle troppe ed uggiose comunità di ogni tipo e di ogni pizzicore, è stato profondamente toccato da don Facibeni. Ma oggi, dopo anni di passione, di tensione, comunque di fedeltà alla Madonnina del Grappa, quei Compreti, sono in Diocesi di Firenze, senza dubbio alcuno, un esempio di intesa e di reciproca collaborazione, che può davvero costituire, ora che finalmente si parla di vita comune tra i preti secolari, un riferimento concreto di una realtà in atto» (Nesi, 1996, p. 29).




Un archivio di vite sospese.

La nascita del centro di accoglienza della Rugginosa si deve alla volontà di creare a Grosseto una struttura civile dove i migranti sbarcati nel sud Italia potessero trovare immediato alloggio, ricevere le cure di base ed essere informati sulle operazioni necessarie per la definizione della loro posizione giuridica. Fu a questo scopo che nel giugno 2014 l’ex asilo della Rugginosa, posto ai margini della statale Aurelia Antica, fu riorganizzato per garantire, oltre a posti letto sufficienti per ampi gruppi, anche il vitto e le cosiddette cure tutelari.

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Mama Africa, maggio 2015

La storia del giacimento documentario della Rugginosa inizia con i primi arrivi dei migranti avvenuti nel 2014 e copre un arco cronologico di circa 4 anni, in cui si è registrato il passaggio di più di 2000 persone. Arrivati in autobus per lo più dopo aver attraversato il Mediterraneo su barconi –della drammaticità del viaggio rimane traccia in tanti scritti e disegni–, i migranti rimanevano qualche giorno alla ex scuola materna della Rugginosa in attesa dei necessari rilievi sanitari, in un ambiente essenziale, ma accogliente agli occhi stanchi di chi arriva dall’inferno, trovavano ristoro, un letto, degli abiti puliti. Portavano addosso ancora il dolore, le ferite di un dramma iniziato molto tempo prima. Ecco che le famiglie, uomini, donne, ragazzi e bambini si trovavano subito accolti, si distendevano, si riposavano dopo un’esperienza dolorosa e terribile durata a lungo e terminata solo in quell’istante.

Un ruolo chiave ebbe la trasformazione stessa dell’edificio, progressivamente adattato alle esigenze della vita quotidiana e alla condivisione di spazi e tempi fra gli operatori e gli “ospiti” della struttura, che venivano coinvolti nella sua gestione. Le attività pratiche, le prime lezioni di italiano, il dialogo con i mediatori, che approdava di solito nel racconto della propria storia, fecero parte quindi di un’insieme di azioni messe in campo per riempire le lunghe giornate e, allo stesso tempo, migliorare l’instaurarsi di quelle prime relazioni umane che sono alla base dell’accoglienza e dell’integrazione. I migranti trovavano umanità e sostegno e, rassicuratisi, nelle poche giornate di riposo e attesa di una nuova collocazione, iniziavano a disegnare, a scrivere, a raccontare. Il disegno, la narrazione per immagini o il semplice gesto del “creare insieme”, diventavano allora un canale di comunicazione immediato, libero dai vincoli linguistici e comunicativi.

I disegni venivano appesi al muro, le stesse pareti si riempivano di scritte, pensieri, immagini. Chi lasciava il centro dopo la sua breve permanenza, lasciava una traccia, un messaggio che presto veniva emulato e ripetuto da chi arrivava dopo, in una sorta di passaggio del testimone. Nel corso degli anni i migranti della Rugginosa hanno realizzato, ciascuno secondo le proprie capacità, disegni o opere più complesse, dai murales alle incisioni con la tecnica dell’aerografo, dalle semplici impronte delle mani che i più piccoli, con la guida degli operatori, lasciano sul foglio, più un gioco che non una intenzione narrativa, ai collage che gli adolescenti realizzano ritagliando dalle riviste fotografie di famiglie sorridenti, macchine sportive, tavole imbandite con frasi semplici e incisive a ribadire il messaggio “In future”.

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Impronte di bambini eritrei, luglio 2015

Così è nato il deposito dei documenti della Rugginosa, composto da disegni che non sono dei semplici segni sulla carta, scarabocchi tracciati per ammazzare il tempo, o ritagli di giornale; sono segni di memorie e di speranze, fissano uniche e irripetibili emozioni di chi ha appena lasciato un mondo e ne trova un altro, e vi proietta speranze e preghiere. Sono documenti che testimoniano una storia viva, fatta di qualche oggetto, parole e immagini, ma anche di carne e sangue e raccontano di un centro di prima accoglienza che ha progressivamente assunto il valore di un piccolo esperimento di integrazione. Emerge con forza dunque la peculiarità di questo giacimento documentario: l’archivio è un segno, dato di un fenomeno che è transitato nel cuore del territorio grossetano, traccia di una realtà lontana e defilata rispetto alla città e alle sue mille facce. Grosseto non se ne è accorta, era altrove, mentre alla Rugginosa si impegnavano risorse, energie, competenze e c’era bisogno di dedizione coraggio e umanità. Le carte, che potrebbero essere buttate o finire tranquillamente in qualche ripostiglio in attesa di essere dimenticate o distrutte dal tempo, vengono prese a cuore dagli operatori, sono conservate, divengono oggetto di interesse da parte del direttore del Coeso Fabrizio Boldrini, storico di formazione, che ne avverte il profondo valore storico, umano e civile.

Dal punto di vista archivistico, le memorie e i disegni prodotti dai migranti della Rugginosa costituiscono un archivio inconsueto. La sua peculiarità è il fatto stesso di essere nato qui, sotto i nostri occhi, divenuto un archivio di memorie ancora in formazione, mentre il presente trascolora divenendo storia da interpretare e da scrivere. Non figura nei manuali di archivistica niente di simile. Non esistono casi analoghi da cui trarre modelli o ispirazione. La conservazione e dunque il riordino, affidato all’Isgrec, si è rivelato da subito un’importante e difficile sfida, sin dalla sua fase progettuale. Infatti, non si tratta nemmeno di un materiale classico, che per consuetudine di studi, possiede già un metodo di analisi e un sistema consolidato di archiviazione. Il materiale per la sua natura complessa ed eterogenea richiede l’incrocio di competenze diverse: vi sono disegni che vanno descritti, ma anche testi che si intrecciano alle immagini e sono scritti in varie lingue a comporre un mosaico estremamente multiforme e vivido di esperienze tutte umane.

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Disegno di un giovane nigeriano, settembre 2014. E’ riconoscibile in basso il palazzo delle poste di Grosseto

I disegni, poi, sono stati fatti usando ogni tipo di carta disponibile, dalla normale carta da fotocopiatrice a fogli di album, in qualche caso, a carta grezza da pacchi o a semplici tovagliette usa e getta per i pasti consumati in comune. Ad esempio, fa parte del giacimento documentario un corpus di 26 fogli ricavati da tela cerata con logo UNHCR, fittamente coperti di testi in lingua eritrea, sia sul recto che sul verso, che recentemente tradotti, hanno restituito un epistolario di un gruppo di eritrei passati dai campi della Libia, singolare testimonianza di vite sospese. Sono stati per lo più usati pennarelli, ma anche tempere penne e matite. In qualche caso alcuni ragazzi hanno utilizzato le superfici delle pareti del centro di accoglienza per esprimersi e creare evocative immagini di speranza, scrivere frasi di ringraziamento per gli operatori, o pensieri sulla terra appena lasciata.

Pertanto, per la estrema varietà e per la deperibilità dei materiali, talvolta per qualche tempo esposti alla luce diretta, i materiali sono stati digitalizzati nell’ottica di costruire un sito da cui in futuro poter attingere on line favorendo e promuovendone l’utenza. Si è elaborata una scheda descrittiva che tenesse conto delle caratteristiche fisiche del documento e del suo supporto, unitamente alle tecniche utilizzate per produrlo, ma che consentisse anche la trascrizione il più possibile fedele dei testi e la loro traduzione, per permettere di individuare parole chiave che potessero consentire ricerche per argomento, per nazione di provenienza dell’autore, per lingua, ma anche per le immagini utilizzate, i simboli, gli elementi figurativi.

Lunga e seria è stata la riflessione sui temi legati alla classificazione e alla creazione di possibili serie archivistiche e la revisione incessante del lavoro di analisi e catalogazione anche alla luce degli elementi che progressivamente sono emersi durante il lavoro di schedatura. Su tutti, tuttavia, il criterio per l’ordinamento e la collocazione delle schede descrittive che appare preminente è quello cronologico, che va a ricostruire le ondate degli arrivi delle persone migranti che, iniziati nel 2014, hanno visto una notevole crescita ed intensificazione negli anni 2015 e 2016, per poi diminuire quasi scomparire nel 2018 a seguito delle politiche ministeriali. Dunque, prevale il criterio storico-cronologico legato all’evolversi delle vicende geopolitiche che fanno sfondo alle esperienze umane dei migranti ma ne costituiscono pure il sostrato profondo e il motore principale.

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Foto di un murales nelle stanze del centro di prima accoglienza. Un pick-up pieno di persone attraversa il deserto

Tutto questo lavoro non sarebbe stato possibile senza il continuo confronto con gli operatori che hanno fornito ogni tipo di informazione e supporto utile per la contestualizzazione e la corretta lettura dei materiali, elemento imprescindibile per la loro descrizione e catalogazione.

Del passaggio dei migranti e delle loro vite sospese tra due mondi rimangono circa 520 disegni e 31 lettere, alcuni raccoglitori di cartelle cliniche, qualche oggetto. Dall’analisi complessiva affiorano nitidamente alcuni filoni tematici principali: espressioni di riconoscenza, la percezione dell’Italia e degli italiani, il racconto del viaggio affrontato per arrivare sulle coste italiane, il pensiero per la famiglia lontana e per il paese di provenienza, i desideri e gli auspici.

I ringraziamenti sono rivolti all’Italia, alla popolazione e alle istituzioni italiane, alle ONG che operavano nel Mediterraneo, alla Croce Rossa, alle forze dell’ordine e all’esercito. I nomi degli operatori della struttura vengono spesso citati nei documenti, accompagnati da espressioni di riconoscenza e affetto. L’Italia viene percepita come la “patria della protezione”, una “casa della pace”, dove regnano “l’uguaglianza, la fraternità e il rispetto dei valori umanitari”. In alcuni documenti è descritta come la “land of milk and sugar” o il “milk and honey”, attribuendole quindi una valenza simbolica di “terra promessa” o “paradiso terrestre”. In contrapposizione, la Libia viene spesso descritta come un “inferno”, un “penitenziario a cielo aperto”, un posto in cui “è meglio non rimanere” e dove “gli arabi uccidono le persone di colore”. Essi vengono descritti come figure vessatorie, che trattano i migranti come “schiavi”, “animali” e “strumenti di lavoro” e che estorcono loro denaro e averi.

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Trad.: Sotto il rifugio di un sole caldo noi facciamo i nostri sinceri ringraziamenti all’Italia e alla Croce Rossa. Noi saremo riconoscenti verso la nazione italiana fino alla fine della nostra vita. Senza dimenticare Lobna, Sarah, Cinzia e le loro colleghe. Lettera di ringraziamento di giovani della Guinea, settembre 2014

Il viaggio affrontato è un argomento ricorrente ed è sempre descritto come un’esperienza estremamente drammatica. In alcuni documenti si fa riferimento alla traversata nel deserto ma le più numerose sono le descrizioni del viaggio via mare per raggiungere l’Italia: nei disegni sono rappresentate spesso le imbarcazioni sovraffollate, dalle parole trapela la paura e lo sgomento. Alcuni ricordano di aver pensano ai propri cari, altri di aver pregato Dio di salvarli, altri ancora raccontano delle urla e dei pianti. Sovente i migranti raccontano delle operazioni di salvataggio, con riferimenti all’umanità e alla competenza dei soccorritori.

Anche il tema degli affetti è molto presente. C’è chi esprime affetto per la propria madre, chi sente la mancanza dei genitori e degli amici e si augura di rivederli. C’è poi chi parla con amore e nostalgia della moglie e dei figli rimasti in patria e spera che un giorno possano raggiungerlo. I migranti molto spesso menzionano il proprio paese di provenienza, non sempre in chiave positiva. I più hanno lasciato la propria terra a causa di guerre, di problemi economici e familiari, della violenza etnica, della mancanza di libertà di parola, dell’etnocentrismo, della corruzione e delle dittature.

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Foto del murales in uno dei locali del centro di prima accoglienza

Frutto di una precisa contingenza storica, l’archivio di migranti della Rugginosa colpisce anche per la potenza espressiva di tali disegni, per l’immediatezza comunicativa delle testimonianze, capaci di astrarre le sofferenze di quegli uomini e donne per renderle esempi universali del dramma delle migrazioni del nostro tempo. Oggi il centro della Rugginosa è chiuso, la situazione è cambiata, è sfumata per trasformarsi in altro, esito di leggi frutto di politiche che mutano. Tuttavia, ciò che è accaduto in luoghi come la Rugginosa chiede uno spazio di analisi e di riflessione, solleva domande e sollecita le coscienze su qualcosa che è già storia e non deve essere dimenticato. Per questo presto sarà on line una mostra virtuale con un’ampia selezione del materiale. Sono previsti progetti didattici con le scuole e un documentario, che ripercorrerà la storia del centro di prima accoglienza, degli operatori, dei suoi ospiti.




Primo Levi e l’arte

La più importante opera di Primo Levi non è quella legata alla letteratura bensì quella legata all’arte” sostiene il professor Paolo Coen della Università di Teramo.

Comunque, si dice che non sono molte le citazioni di opere d’arte nelle opere di Levi, né che lo scrittore sembri troppo attratto dal mondo artistico; tuttavia due cose smentiscono tale affermazione: 1) a un certo punto, per passatempo – Levi ha sempre lavorato con le mani, aggiustando ad esempio i giocattoli dei figli – ha cominciato a costruire con i fili di rame ricoperti di vernice, provenienti dalla Siva, l’azienda chimica per cui lavorava, degli animali – una farfalla, un gufo, un coccodrillo – che poi regalava agli amici o teneva in casa. Questo passatempo, nella raffigurazione della farfalla, può presentare analogia con la raccolta L’angelica farlalla (1966) di straordinaria elevatezza e, al tempo stesso, profondità.

Il tema che sta alla base di questa raccolta è quello della «permutazione delle specie e delle forme» L’«angelica farfalla» è una citazione da Dante: «O superbi cristiani, miseri lassi, / che, della vista de la mente infermi, / fidanza avete ne’ ritrosi passi, / non v’accorgete che noi siam vermi, / usati a formar l’angelica farfalla, / che vola a la giustizia sanza schermi?». Siamo in Purgatorio X, 121-26, nella cornice in cui i superbi purgano il loro peccato per ascendere al premio eterno. Ora su questa possibile duplicità si costruisce la raccolta di racconti di cui stiamo parlando: si può andare verso il basso o verso l’alto, a seconda della scelta che si è fatta. E l’umano e il bestiale, in questo accidentato percorso, si corrispondono e talvolta si fondono, creando ircocervi difficilmente distinguibili.

paolo-coen-arte-e-musei-della-shoah-per-imt-alti-studi-lucca-1-638“il gufo è il mio autoritratto’ diceva scherzosamente Levi. E in effetti con quegli occhiali enormi, i capelli un po’ a punta e la barbetta, nell’ultimo periodo della sua vita, Levi un po’ assomigliava a un gufo. Doveva trovarlo divertente, visto che i gufi ricorrono spesso nella sua opera. Andando a cercare immagini per il lavoro su Una stella tranquilla se ne trovano diversi, a partire da quelli che Levi disegnava al computer. Levi si paragona a un gufo anche quando racconta del periodo in cui scrisse Se questo è un uomo. Era il 1946 e Levi lavorava ad Avigliana, un po’ fuori Torino, in una fabbrica di vernici. Scrisse il libro in treno, nelle pause dal lavoro e soprattutto di notte, nella foresteria della fabbrica, dove il suo ticchettare alla macchina da scrivere veniva considerato parecchio strano dai colleghi. «Ero il gufo notturno che batteva alla macchina da scrivere», disse Levi. E per un bel po’ di tempo la sua scrittura sarebbe rimasta così, un’attività notturna (o almeno serale), a cui si dedicava dopo il lavoro, dopo che aveva “cambiato pelle”, passando da chimico a scrittore. Ma il gufo più importante e è un altro, è una specie di maschera.

Appartiene a una serie di “sculture” che Levi fabbricava con il filo di rame. Questo era la materia prima del suo lavoro di chimico: il filo di rame, infatti, è un conduttore elettrico, ma per essere usato deve prima essere trattato con una vernice isolante, quella che appunto si produceva alla Siva, la fabbrica in cui lavorava Levi. Più o meno come succede in molti suoi racconti, anche qui la materia prima è fornita dal lavoro di chimico e dalle esperienze vissute in quella veste per poi trasformarsi in arte, in libri o, in questo caso, in strani manufatti.

C’e’ una foto in cui Levi “indossa” la maschera da gufo che è diventata piuttosto simbolica. Così pare acquisire valore allegorico, un buon modo per rappresentare la complessità della figura di Primo Levi, e in particolare la differenza tra il Levi pubblico e il Levi privato, tra il Levi a cui abbiamo accesso noi tramite i suoi libri e quello che invece rimane intimo e nascosto. Nel 1986, Mario Monge, suo concittadino, l’ha fotografato mentre «indossa» una di questi animali di fronte all’obiettivo, proprio un anno prima della morte.

Una di queste foto è diventata la copertina del saggio, di ben 700 pagine, Primo Levi. Di fronte e di profilo (Guanda) di Marco Belpoliti. Il libro presenta un titolo suggestivo che richiama le foto segnaletiche e in copertina ha una foto di Levi che mostra una maschera in filo di rame a forma di gufo. Belpoliti non nasconde la struttura che sostiene la sua opera ma anzi la ostenta, come l’architettura del Centre Pompidou a Parigi.

 Ma l’opera d’ arte più famosa di Levi è il Memoriale italiano  del Blocco 21 di Auschwitz1,

Progettato dallo Studio architetti: BBPR (Lodovico Barbiano di Belgiojoso, Gian Luigi Banfi, Enrico Peressutti, Ernesto Nathan Rogers) voluto dall’’A.N.E.D. del quale è tuttora proprietà. Inaugurato anni ’80 e arricchito di significato dagli affreschi di Mario Samonà, dai testi di Primo Levi, dalle musiche di Luigi Nono, con la regia di Nelo Risi

Il gruppo degli architetti progettisti è lo stesso del Museo al Deportato  di Carpi, inaugurato nel 1973, una struttura frutto dell’impegno civile di artisti che furono anche testimoni degli avvenimenti che rappresentavano. Essi si sono avvalsi della collaborazione di  Renato Guttuso. Nel museo sono conservati suggestivi graffiti di alcuni grandi pittori come Picasso Longoni Léger, e ovviamente Guttuso che hanno commentato a loro modo la deportazione sulle pareti del museo.

 Il Memoriale 21, voluto realizzato all’interno della camerata in una baracca del campo, è dedicato ai deportati italiani nei Lager nazisti.

Originariamente il blocco 21 fu il reparto chirurgico, dove i deportati furono sottoposti a operazioni sommarie e raccapriccianti esperimenti. Poi quelle mura furono affidate all’Italia, perché vi allestisse il suo padiglione della memoria: Auschwitz, Blocco 21. Esso ha la forma di un tunnel di tela e armatura di metallo, sollevata da un impalcato e tesa attraverso i vuoti spazi della baracca.  Assume la forma di una ossessiva spirale a elica che avvolge il cammino del visitatore in un percorso unitario e ossessivo lungo ottanta metri che rappresenta e rievoca la spirale di violenza nella quale i deportati furono travolti. Attraversandola, come in un brutto sogno, si rivivono i momenti della disperazione, della presa di coscienza, della volontà di sopravvivenza e della vittoria sul male.

Mediante un’armatura lignea la spirale tende una banda continua di tela, sulla quale sono rappresentate le immagini del fascismo, dell’antifascismo, della Resistenza, della deportazione e dello sterminio, dipinte da Samonà e commentate dalle parole di Primo Levi.

Dilatata nelle tre dimensioni, scandita dalle viste alterne della baracca e dei dipinti, la spirale ricompone l’incubo doloroso, coniugando spazio architettonico e pittura per trovare una comunicazione immediata e universale.

Si tratta inoltre della prima opera d’arte vivente in cui i testimoni potevano mettersi a sedere.

E sono alcune di queste immagini, come ad esempio la falce e martello o il volto di Antonio Gramsci, elementi comunisti insopportabili nella Polonia post patto di Varsavia post Solidarnosc, tornata fortemente cattolica e nazionalista, che sono stata la prima fonte dello smantellamento del Blocco 21. A tanti anni di distanza, la vicenda ricorda Tilted Arc, il capolavoro di Richard Serra distrutto per ragioni politiche. Tilted Arc  era una controversa opera d’arte minimalista, creata sotto forma di istallazione pubblica da Richard Serra e collocata in Foley Federal Plaza in Manhattan dall’1981 al  1989. Essa era lunga 120 piedi e alta 12, con una superficie non finita ricoperta di acciaio COR-TEN. I critici ne contestarono la bruttezza, ritenendo che esssa deturpasse quel sito della città. Dopo un acceso dibattito pubblico, la scultura fu rimossas per volere della corte federale e non è stata mai più esposta.

Distrutto, in qualche senso lo è anche il blocco 21, perché spostare un’opera d’arte dal suo contesto originale, dal contesto di Primo Levi, significa appunto sottrarne ogni alito di vita e, insieme, ogni possibilità di lettura.

Gli elementi rappresentati facevano parte di un tutt’uno storico dall’ omicidio Matteotti alla Shoah.

image003Il blocco 21 è un’opera city specificy, che non potrebbe né dovrebbe avere una collocazione in un altro luogo. Invece è stata sbarrata. Dal 2011, una porta chiusa, anche nel giorno del settantesimo anniversario della Shoah, sbarrata anche per gli storici e gli studiosi, impedisce di vedere “il «Memoriale ai deportati caduti nei campi di sterminio nazisti”. La parte italiana è stata chiusa d’ imperio con una decisione unilaterale dalla direzione del museo, per divergenze, per così dire, di filosofia: ritengono che un’opera di quel tipo – artistica e figlia del tempo – gli anni Settanta – in cui è stata concepita, non sia compatibile con l’approccio didascalico che hanno inteso dare al museo. Dopo il crollo del Muro, infatti, alcuni dei padiglioni di Auschwitz, affidati alle varie nazioni, iniziano ad essere ripensati, anche in base a nuove prospettive storiografiche. In Italia, qualcosa si muove a fine 2007, quando il governo Prodi stanzia 900 mila euro per il restauro del Blocco 21 mentre gli intellettuali si interrogano se il Memoriale sia o non sia troppo figlio degli anni Settanta, se puntando di più sull’antifascismo non finisca per trascurare la Shoah. L’A.N.E.D. lo difende. Ma chiude il discorso il Museo di Auschwitz: l’arte non basta, serve un allestimento didattico. Un esempio, il padiglione francese, rinnovato nel 2005. Tra rinvii e ricorsi si arriva al 2011, quando il Museo chiude il Blocco dell’Italia, che rischia di essere sostituita da un altro Paese.

 «Davanti al pericolo di smantellamento, anche se non siamo d’accordo, abbiamo accettato di riportare il Memoriale in Italia», racconta Dario Venegoni, presidente dell’A.N.E.D. .

Fino all’annuncio che l’opera andrà a Firenze, in base alla Risposta all’interrogazione scritta presso il Senato n. 4-05184 Fascicolo n. 123.

Resta da capire cosa ne sarà del Blocco ancora chiuso. Firenze ha individuato la sede della sua nuova esposizione negli spazi di EX3, centro d’arte attualmente vuoto.

 Qui il Memoriale del blocco 31 troverà collocazione all’interno dell’EX3 proprio accanto a piazza Bartali, quasi a ricongiungere in questo progetto di memoria collettiva anche l’impegno del grande ciclista, riconosciuto “giusto tra le nazioni” da Yad Vashem. I

Il luogo non è di certo il massimo, perché a ricordare l’olocausto c’e’ solo il nome della Piazza. L’edificio, uno strano parallelepipedo grigio antracite, più adatto ad un hangar di aviazione che a un museo della memoria, è lo spazio Ex3 del quartiere Gavinana, area semiperiferica e non troppo valorizzata, piena di centri commerciali.

Non è dato sapersi come, nell’interno ancora vuoto, la spirale del fu Blocco 21 troverà collocazione, ma di certo la location è del tutto decontestualizzata e la migliore opera d’arte di Primo Levi non si meritava una fine così.

Contenti saranno forse gli studenti, costretti dai docenti a visitare questo luogo della memoria, che poi potranno pranzare al Mc Donald’s e fare un po’ di shopping, dimentichi di cultura, arte, passato e perciò anche del loro futuro. A meno che istituzioni ed enti culturali interessati riescano a costituire un ampio (lo spazio c’è) e strutturato centro di documentazione, didattica e ricerca, capace di dare contestualizzazione al nuovo museo del Blocco 21, restituendo, per quanto possibile fuori dal suo contesto, la forza del messaggio artistico e culturale di Levi, pur lontano dall’ambiente era stato pensato.