Un altro 8 settembre. La liberazione di Pistoia

Alla fine dell’estate del 1944 Pistoia portava ben visibili i segni, materiali ed immateriali, della guerra. Colpita da stragi ed eccidi di civili – dalla strage di piazza San Lorenzo del 12 settembre 1943 fino agli impiccati a Montale il 4 settembre 1944 – bombardata più volte dall’ottobre ’43, svuotata dagli sfollamenti in campagna, la città ed il suo territorio furono investiti da un passaggio del fronte prolungato, dovuto alle attività di rallentamento messe in atto dei tedeschi, che stavano ancora ultimando la costruzione delle fortificazioni difensive sulla Linea Gotica, ed al maltempo.

Le truppe Alleate, un esercito multietnico composto da americani, inglesi, sudafricani, indiani, brasiliani ecc…, si erano attestate nella zona dell’empolese alla fine di agosto, riuscendo a passare l’Arno ai primi di settembre, ma sempre in maniera precaria, dovendo affrontare le asperità delle piogge che mandarono in piena il fiume distruggendo i ponti di barche del genio militare. Il Comando di Kesselring era ancora a Monsummano Terme, prima di essere trasferito alla Villa di Celle e di lì poi sugli appennini a Maresca. I tedeschi ostacolavano gli alleati contendendo loro ogni frazione con azioni di pattuglie che prendevano contatto per poi sganciarsi rapidamente. Al tempo stesso portavano avanti azioni di guerra ai civili, culminate nel padule di Fucecchio il 23 agosto, con 174 morti.

Sul territorio vennero a incrociarsi tre diverse strategie. La lenta ritirata tedesca sulle montagne, l’azione delle pattuglie alleate di avanguardia e l’attività delle formazioni partigiane. Già dal 12 giugno era stato infatti costituito un Comando di piazza unico per tutte le formazioni dipendenti dal Comitato Provinciale di Liberazione Nazionale (CPLN), per un totale, tra brigate e formazioni, di 23 unità garibaldine e 24 classificate come di Giustizia e Libertà, oltre a 14 gruppi socialisti e comunisti nella zona di Pescia. Esisteva inoltre la formazione di Ducceschi “Pippo”, che operava con una certa autonomia.
liberazione pistoia via abbi pazienzaLe formazioni furono in gran parte dislocate intorno al capoluogo per procedere poi all’ingresso in città. Secondo il Comando: «Il giorno 7 settembre, quando ancora le truppe tedesche si trovavano nei sobborghi di Pistoia, fu decisa dal comando di piazza l’occupazione della città. Parteciparono all’operazione tutte le formazioni non impegnate per la loro dislocazione in altri settori. L’operazione, che costò perdite notevoli, riuscì brillantemente e la città fu tenuta per quattro giorni con continue azioni di fuoco contro distaccamenti e pattuglie tedesche, sotto intenso bombardamento, fino all’arrivo delle truppe alleate. La maggior parte delle formazioni continuarono quindi le azioni contro il nemico fino allo scioglimento del comando (20 settembre 1944)».
Il CPLN ebbe come strategia politica quella di portare avanti autonomamente la liberazione del capoluogo e, dove possibile, dei paesi e delle frazioni, per dimostrare non solo la propria capacità militare ma anche quella politica e amministrativa. Come scrisse lo stesso Comitato: «il CLN dispose il concentramento delle formazioni operanti in città per l’occupazione di tutti i punti strategici ed edifici pubblici, assumendo la direzione della cosa pubblica per evitare ogni pericolosa vacanza di poteri. Il giorno 8 settembre l’occupazione del capoluogo era ultimata e il servizio di ordine pubblico disimpegnato in modo egregio dai patrioti, mentre nelle località periferiche continuava la lotta fra pattuglie partigiane in esplorazione avanzata e retroguardie tedesche».

brigata bozziIl passaggio del fronte interessò la provincia per tutto il mese, con sequenze di eventi quasi quotidiane. Il 2 settembre una prima pattuglia Alleata raggiungeva Monsummano, ritirandosi subito, mentre altre Ponte Buggianese e poi Chiesina Uzzanese, quest’ultima insieme ai partigiani. Il 3 settembre era la volta di Larciano. Il 3 e 4 settembre Borgo a Buggiano veniva prima liberata, poi rioccupata, infine liberata di nuovo dai partigiani e dalla truppe Alleate (secondo alcune fonti è il 7). Tra il 4 e il 7 settembre gli Alleati si attestavano sul Montalbano, mentre i partigiani presidiavano la zona di Quarrata. Il 5 settembre una pattuglia toccava Cantagrillo. Il 6 settembre fu constatato che il ponte sull’Ombrone a Bonelle era stato distrutto. Pieve a Nievole e Montecatini vennero raggiunte tra il 7 e l’8 settembre, ma Montecatini Terme era già stata liberata dai partigiani il 6 e Serravalle il 7. L’8 settembre veniva presa Ramini ed i partigiani sostenevano uno scontro a fuoco con i tedeschi a Marliana.
Il 12 i reparti sudafricani arrivarono a Pistoia, che era ancora sotto il fuoco delle artiglierie tedesche stanziate sugli appennini. Il fronte avanzato della Linea Gotica – Castello di Cireglio, il passo della Collina e Femminamorta – era in grado di tenere sotto tiro la piana. I tedeschi nell’approntarlo non si risparmiarono la distruzione di paesi e tratti di bosco, per avere visuale o per bloccare le strade. Questa sorte toccò a Cireglio (14 luglio) e a Croce a Uzzo. Il viadotto di Piteccio, paese già distrutto dai bombardamenti Alleati, fu fatto saltare dai tedeschi il 24 luglio. Nei pressi del ponte alla Svolte, sopra la valle della Brana, fu sistemato un cannone montato su materiale ferroviario che veniva riparato all’interno di una galleria della ferrovia e in grado di colpire la città.

alleati in piazza del duomo pistoiaIntorno al 10 di settembre la Liberazione delle zone di pianura era cosa fatta, si cominciava a risalire gli appennini. Cominciava l’esperienza di retrovia del fronte che si prolungò fino all’aprile ’45. Frattanto, l’11 settembre si toccava Marliana e si cominciava la scalata dell’appennino anche da Candeglia, scontrandosi con i tedeschi a Valdibure. Un primo tentativo di gettare un ponte sull’Ombrone a nord di Pistoia falliva. Scontri avvenivano all’inizio dell’appennino appena sopra Pistoia, intorno a Villa Philipson e alla torre di Catilina. Il 13 settembre i britannici riuscivano ad arrivare a Piazza e il 14 a Tobbiana. Ancora al 18 settembre i tedeschi erano in grado di colpire con i cannoni i ponti sull’Ombrone, come avvenne a Calcaiola. Serra fu presa il 22 e Femminamorta il 24. Il 26 era la volta del passo della Collina, Pracchia e San Marcello, mentre Maresca e Campotizzoro, sede della SMI, erano state liberate dai partigiani il 22. Il 1° ottobre gli americani arrivavano a Cutigliano e Piteglio. La zone più alte dell’Abetone e Pianosinatico rimasero invece in mano ai tedeschi. Il fronte si fermava.

I CLN si occuparono di gestire la transizione. A Pistoia l’AMG si insediò solo il 24 settembre,. Nella relazione del Comitato troviamo: «in questo lasso di tempo il CLN, che aveva funzioni di Governo, provvide alla riorganizzazione delle amministrazioni locali, attuandola nel rispetto del fondamentale canone democratico: la separazione dei poteri. La magistratura entrò immediatamente in funzione con la più completa indipendenza. La Giunta Comunale agì nella sua sfera con la massima autonomia, per quanto fosse espressione del CLN, e così la Deputazione provinciale. Tutti gli Enti Pubblici, dalla Questura alle Guardie di Finanza e i Carabinieri, dall’Intendenza di Finanza e il Consorzio Agrario e alla SEPRAL, dalla Camera di Commercio all’Ospedale, alla Camera del Lavoro, al Provveditorato agli studi, ripresero la loro normale attività». Le attività dei CLN continuarono nei mesi successivi, non solo a Pistoia ma anche in molti comuni, avviando la fase di transizione alla democrazia.

Stefano Bartolini è ricercatore presso l’Istituto storico della Resistenza e dell’età contemporanea di Pistoia e coordina le attività di ricerca storica, archivistiche e bibliotecarie della Fondazione Valore Lavoro. Ha partecipato al recupero dell’archivio Andrea Devoto ed attualmente si occupa di storia sociale, del lavoro e del sindacato. Tra le sue pubblicazioni: Fascismo antislavo. Il tentativo di bonifica etnica al confine nord orientale; Una passione violenta. Storia dello squadrismo fascista a Pistoia 1919-1923; Vivere nel call center, in La lotta perfetta. 102 giorni all’Answers.

Articolo pubblicato nel settembre 2014.




La liberazione di Pisa, 2 settembre 1944

«S’accompagnarono l’ameriani noi fino a Ripafratta, poi a Ripafratta si girò e si andò diretti a Pisa, a Pisa si andò a Piazza del Duomo e ameriani non c’era nessuno, i primi […] s’arrivò prima noi e poi arrivarono l’ameriani. […] A Pisa non erano ancora entrati». Questa è la testimonianza di Duilio Cordoni, allora diciassettenne partigiano della formazione “Nevilio Casarosa”, su ciò che successe il giorno della liberazione di Pisa, il 2 settembre 1944. Il brano è tratto da un colloquio che ho avuto la scorsa estate presso la sua abitazione, per la preparazione di un libro sulla guerra a San Giuliano Terme.

A distanza di tanti anni da quel periodo, il racconto di Cordoni ripropone un preciso intento polemico, che nel corso dell’intervista è emerso in maniera esplicita: smentire una versione dei fatti che vuole che furono invece gli Alleati ad arrivare per primi sotto la torre, seguiti solo in un secondo momento dalle forze organizzate della Resistenza. Dietro alla contesa sul primato dell’arrivo in città, questione che in sé rivestirebbe un interesse marginale, c’è in gioco la discussione sul ruolo che i partigiani e il CLN locale ebbero in occasione della liberazione di Pisa. Al momento dell’arrivo degli Alleati quali erano a livello locale le forze organizzate che potevano credibilmente rivendicare il ruolo di interlocutori privilegiati per la costruzione di una Pisa non più fascista?

Il problema è certamente complesso e per affrontarlo correttamente sarebbe necessaria una riflessione ben più articolata. Proviamo però a fornire rapidamente una fotografia della condizione in cui si trovavano le strutture della Resistenza nella fase finale dello stallo del fronte sul fiume Arno, nella seconda metà dell’agosto 1944, settanta anni fa.

 La “Nevilio Casarosa” si era disarticolata dopo l’attacco a sorpresa dei tedeschi al campo base, all’alba del 10 agosto 1944: i suoi componenti si erano dispersi in vari gruppi, senza più un’organizzazione paragonabile a quella avuta in precedenza. L’obiettivo immediato dei partigiani divenne la mera sopravvivenza, in primo luogo evitare di cadere nuovamente nei rastrellamenti tedeschi, come quello condotto il 24 agosto 1944 dalla 16ª Divisione SS sul monte Faeta: a partire dal versante lucchese, con l’aiuto di alcuni italiani della Brigata Nera “Mussolini” forniti di mascherine per coprire il volto e giacche mimetiche tedesche, una cinquantina di militari perlustrarono le baracche degli sfollati, fucilarono una decina di sospetti e arrestarono una sessantina di uomini. Proprio in una di quelle baracche, in località San Pantaleone, la moglie del comandante della Casarosa Ilio Cecchini stava dando alla luce una figlia, mentre intorno «si avvertivano spari e raffiche sempre più frequenti e grida»: lo stesso Cecchini «aveva lasciato la formazione partigiana nella notte sperando di poter assistere alla nascita della nostra creatura ma le urla disperate della gente terrorizzata per la cattura dei loro uomini e l’avvicinarsi degli spari lo indussero a lasciarci improvvisamente» (le citazioni sono prese da un dattiloscritto redatto dalla stessa moglie di Cecchini, Anna Maria, conservato presso l’archivio familiare).

artigiani pisa

Addestramento della formazione “Nevilio Casarosa”. Luigi Salani detto “il Biondo” in primo piano con la pistola, a destra Uliano Martini. (Proprietà Adriana Salani)

Se sul Monte Pisano dunque la situazione era drammatica, in condizioni non migliori si trovava la cittá di Pisa, dove poche migliaia di abitanti si erano concentrate nelle case tra il Duomo e Porta a Lucca, intorno all’Ospedale Santa Chiara e all’Arcivescovado, le uniche strutture che riuscirono con enormi sforzi a offrire un minimo di assistenza a una popolazione stremata. Qui faceva quotidianamente la spola con il Comando Tedesco il responsabile dell’amministrazione comunale di Pisa, il cattolico antifascista Mario Gattai, nominato dopo la fuga del prefetto alla fine di giugno dal vice prefetto, di comune accordo con l’arcivescovo Gabriele Vettori. Mentre Gattai cercava disperatamente di organizzare un comitato di alimentazione efficiente e provava a trattare con i nazisti per permettere un minimo di agibilitá alla vita in cittá, i rapporti con l’organizzazione antifascista clandestina guidata dai comunisti non erano semplici. Nelle pagine del suo diario, Gattai scriveva il 16 agosto 1944: «non sono nemmeno in contatto con quelli del Comitato di Liberazione; non già perché io non voglia, ma perché questi illustri anonimi che vivono nelle cantine non hanno sentito la necessità di farsi avanti. […] Mi sento sempre più solo ad affrontare la situazione». Pochi giorni dopo, il 23 agosto, un giornale clandestino antifascita – probabilmente redatto dai comunisti – lo accusò di essere responsabile delle deportazioni degli uomini avvenute in quei giorni, proprio per i suoi contatti continui con il Comando tedesco. Lo sfogo di Gattai diventava qui virulento: «la redazione del foglio deve stare in una cantina, ove non batte il sole e ove i trogloditi che la abitano ignorano che i tedeschi hanno il potere di prendere uomini e donne e chi vogliono e cosa vogliono, e che se non ci fossi io – con l’aiuto di alcuni sacerdoti e dei pochi miei compagni di lavoro – ad attutire con molta politica e molta fatica le loro prepotenze e a pensare ai bisogni della popolazione, questa avrebbe dovuto soffrire ben più di quanto ha sofferto finora. Fuori dalle cantine, prendetevi il vostro lavoro e la vostra responsabilità e poi parlate!».

 Credo che si possa affermare che la fine di agosto segnò da molti punti di vista il momento più difficile nella vita della città di Pisa, non ultimo per la confusione politica in un contesto in cui i margini di azione non andavano oltre il tentativo di sopravvivere. Chi ebbe le idee più chiare a proposito furono i responsabili regionali del partito comunista in clandestinità. Il gappista fiorentino Alvo Fontani riferì ai militanti pisani le direttive impartite dal centro regionale in vista dell’arrivo degli Alleati: «fare il possibile per affermare comunque una presenza della resistenza alla liberazione di Pisa, facendo di tutto per evitare uno scontro con le truppe di copertura della ritirata tedesca». In città però non erano presenti gruppi capaci di svolgere questo compito; era necessario quindi rivolgersi ai partigiani che stavano sul Monte Pisano e «chiedere che almeno cinquanta o sessanta […] si preparino e siano pronti al momento opportuno a marciare su Pisa». Fontani si trasferì sui monti insieme a Ruggero Parenti, responsabile della federazione comunista di Pisa, «sotto una tenda, in una posizione che ci permette, per quanto possibile, di controllare almeno parzialmente la situazione» (le citazioni sono tratte dalle memorie di Fontani). I giorni seguenti furono impiegati per organizzarsi in vista del momento della liberazione.

La mattina del 2 settembre, una volta iniziato l’attraversamento dell’Arno all’altezza di Cascina da parte delle truppe angloamericane, i partigiani inquadrati da Fontani e Parenti scesero dal Monte: alcuni, tra cui Duilio Cordoni, guidarono i soldati alleati in un territorio ormai abbandonato dai tedeschi verso Ripafratta, altri proseguirono su Pisa, dove attesero con pazienza l’allontanamento delle ultime squadre di occupanti. Quando poi arrivò il grosso delle truppe alleate, nel pomeriggio del 2, la Prefettura, la Questura e il Palazzo del Comune erano già nelle mani del Cln di Pisa e dei partigiani. Molti di loro in seguito si arruolarono nelle truppe di liberazione, all’interno del Corpo di Volontari della Libertà, e continuarono la guerra verso Nord. Solo allora si poterono ricomporre le forze di chi aveva scelto il compito della organizzazione clandestina armata e chi invece si era votato alla missione di assistere la popolazione, che poco avevano comunicato nei giorni precedenti. Questo dualismo fu riconosciuto e formalizzato nella prima Giunta comunale nominata dagli Alleati, che ebbe come sindaco Italo Bargagna, comunista partigiano, e come vicesindaco proprio Mario Gattai.

Articolo pubblicato nell’agosto 2014.




Arte sotto le macerie. La storia del Tabernacolo del Mercatale

Sepolto sotto le macerie, disintegrato da quelle maledette bombe che il 7 marzo 1944 piovvero su Prato. Era ridotto in mille brandelli, un’offesa alla memoria storica collettiva, pallida ombra di quell’affresco che il Vasari descriveva come «colorito con tanta freschezza e vivacità che merita per ciò essere lodato infinitamente». 

É una storia di ricostruzione, coraggio e speranza quella racchiusa nel Tabernacolo del Mercatale di Filippo Lippi, celebrato nei secoli come una delle meraviglie di Prato e bombardato dall’aviazione alleata.
Non potremmo oggi ammirarlo tra le sale del Museo di Palazzo Pretorio, recentemente riaperto dopo un lungo intervento di restauro, se non fosse stato per il coraggio del restauratore Leonetto Tintori che a quel tabernacolo ridotto a mille pezzi, raffigurazione della Madonna con il bambino insieme ai santi Antonio Abate e Margherita, Santo Stefano e santa Caterina d’Alessandria, restituì una vita. Sull’opera Leonetto aveva già messo le mani, riparandolo dai danni prodotti da un camion.
esterni palazzo pretorioStavolta però si trattava di riparare l’irreparabile: c’era da ricostruire quasi ex novo un capolavoro. Armandosi di coraggio e pazienza, il restauratore si recò dalle autorità tedesche ottenendo l’autorizzazione a procedere nel restauro mentre trovò la porta chiusa del commissario prefettizio il cui primo pensiero, di fronte a una città devastata dalle bombe, poteva essere tutto fuorché l’arte. «Ho tante cose a cui pensare, levati di torno!», furono le parole con cui Leonetto venne liquidato. Ma il Tintori decise comunque di tentare l’impresa: i frammenti più piccoli vennero riposti in vasi da marmellata con la sabbia per essere protetti dagli urti.
Lo aiuterà un altro maestro destinato a farsi strada nell’arte del restauro, Giuseppe Rosi: dall’opera a quattro mani iniziò a riemergere il “Filippino”, come veniva affettuosamente chiamato da Tintori il tabernacolo che sotto l’immagine centrale riporta lo stemma dei Tieri, committenti dell’opera.
Rimettere in piedi quel capolavoro non fu un’impresa facile: Tintori, che all’epoca era già un maestro di restauro affermato, prese più volte contatti con le università di New York e di Harvard che lo avrebbero più volte aiutato, anche economicamente, nelle sue ricerche scientifiche.
Il Tabernacolo ricostruito e ricomposto nella vivacità dei suoi colori oggi risplende al primo piano di Palazzo Pretorio e fa parte della collezione permanente del Museo, insieme ad altri capolavori di Filippo Lippi e dello stesso Filippino.

Articolo pubblicato nell’agosto 2014.




La strage della famiglia Einstein

Il 3 agosto 1944 la famiglia di Robert Einstein, cugino del più famoso Albert, fu oggetto di un atroce massacro ad opera di soldati della Wehrmacht presso Villa il Focardo a Rignano Valdarno. Robert e Albert Einstein erano cugini per parte paterna; i due ragazzi avevano trascorso l’infanzia insieme prima in Germania e poi in Italia. Le loro strade si separeranno poi. Albert  diventerà un fisico di fama mondiale, Robert inizierà gli studi di ingegneria.

Robert Einstein aveva sposato Cesarina (Nina) nel  1913. La coppia aveva due figli: Luce nata nel 1917 e Annamaria nel 1927. Dopo una parentesi a Roma la famiglia si era trasferita a Villa il  Focardo fra Rignano e San Donato. La loro è una famiglia relativamente benestante. Possiedono anche un’abitazione in Corso Tintori a Firenze, dove risiedono nel periodo invernale. Annamaria e le cugine frequentano il liceo Michelangiolo, mentre Luce è iscritta alla facoltà di medicina. La villa del Focardo è meta di frequenti visite. Gli Einstein sono molto conosciuti e al Focardo sono spesso ospiti personalità eminenti : il pastore valdese Vinay, e poi pittori, docenti universitari, ma anche personalità legate alla resistenza.

Strage FocardoEppure questa vita serena e agiata viene ben presto sconvolta dall’8 settembre 1943 e dall’occupazione tedesca. Il piano superiore della villa viene sequestrato per gli ufficiali della Wehrmacht mentre le truppe si sistemano intorno alla fattoria. Ancora nessuno sembra in pericolo, ma il pastore Vinay inizia a preoccuparsi per Robert, di note origini ebree. Robert non solo è ebreo. Ma è anche il cugino di Albert che all’insorgere del nazismo ha lasciato la Germania e che con la sua fama e il suo prestigio mondiale è la smentita più evidente alle teorie razziste di Hitler. Alla fine Robert si convince anch’egli del pericolo e decide di rifugiarsi nei boschi. Riesce così a salvarsi da quel tragico 3 agosto 1944 in cui un comando nazista si reca al Focardo. Sembra chieda di Robert senza trovarlo. Viene inscenato un processo farsa e i in pochi attimi i mitra tedeschi si abbattono sulla moglie e le due figlie. Vengono risparmiate  due gemelle e una terza cugina loro ospiti in quei giorni. A salvarle sono i cognomi diversi: Mazzetti e Bellavite. Come scriverà poi una di queste, Lorenza Mazzetti, nella dedica al suo racconto autobiografico “Il cielo cade”: Questo libro vuole descrivere la gioia e l’allegria che quella famiglia mi ha dato nella mia infanzia, accogliendomi come “uguale”, mentre sono stata “uguale” a loro nella gioia e “diversa” al momento della morte. Nel giardino esterno viene lasciato un biglietto. Recita “Abbiamo giustiziato i componenti della famiglia Einstein, rei di tradimento e giudei”. La villa viene data alle fiamme. Robert dal suo rifugio fra i boschi vede alzarsi una colonna di fumo proveniente dal Focardo. Corre verso il luogo della strage, ma ormai non può fare più niente.

Nei giorni immediatamente successivi sul luogo del delitto arriva, incaricato delle indagini, il maggiore della V armata statunitense Milton Wexler. È stato un allievo del grande fisico Albert Einstein che è molto preoccupato per la famiglia del cugino. Vorrebbe poterlo rincuorare. A lui invece tocca informare il suo ex professore della tragedia. Dei risultati delle indagini americane si è persa ogni traccia. Così come sono rimasti ignoti gli esecutori del delitto. Solo nei primi anni 2000, dopo le ricerche dello storico Carlo Gentile sulle truppe di stanza nella zona in quei giorni, si è iniziato ad avere un’idea più precisa sui possibili responsabili della strage. Le ultime ricerche di Gentile hanno capovolto quanto si era creduto circa le responsabilità della strage:  ad uccidere non furono reparti delle SS, ma uomini appartenenti al comando di un’unità della Wehrmacht, l’esercito regolare tedesco, verosimilmente la quindicesima divisione del 104° Reggimento di granatieri corazzati.  Al momento non è emersa nessuna prova definitiva per capire se l’omicidio delle tre donne abbia a che vedere con una vendetta personale nei confronti di Albert Einstein o sia stato un delitto a sfondo razzista. Anche il biglietto lasciato sul luogo della tragedia “Abbiamo giustiziato i componenti della famiglia Einstein, rei di tradimento e giudei” lascia aperti più dubbi. È scritto in perfetto italiano. I tedeschi avevano con loro un interprete o qualcuno che conosceva bene l’italiano? Oppure quel biglietto non è stato scritto dai soldati tedeschi?

Tomba EinsteinAltrettanto tragico è purtroppo l’epilogo di Robert Einstein. L’anno successivo,distrutto dal dolore, ritorna sui resti del Focardo e si suicida inghiottendo del veleno. Decide di farlo un giorno particolare: il 13 luglio 1945, la data del suo anniversario di matrimonio. Riposa adesso nel cimitero della Badiuzza di Rignano insieme ai suoi cari. Ai piedi della stele funebre in  tubi  di acciaio disegnata dagli allievi della Scuola d’ Arte di Porta Romana a Firenze che il comune di Rignano ha loro dedicato.

 

Articolo pubblicato nell’agosto 2014.




Determinate e coraggiose: le donne versiliesi, vere protagoniste dello sfollamento

Quando le ordinanze di sfollamento colpirono la Versilia, nell’estate del 1944, le condizioni di vita della popolazione civile subirono un brusco peggioramento.

Fin dall’autunno del ’43, le autorità della RSI, desiderose di ricostituire un forte esercito nazionale, avevano avviato coscrizioni sempre più «totalitarie»: questa minaccia, sommata a quella imprevedibile dei rastrellamenti nazisti, consigliava ai maschi in età di leva di rimanere il più possibile nascosti, senza dare nell’occhio. Così, mentre per gli uomini le possibilità di movimento si restringevano ogni giorno di più, le donne, oltre a svolgere gli incarichi loro affidati dalla “tradizione”, dovettero accollarsi tutta una serie di incombenze nuove e gravose, solitamente “di competenza” maschile, come il rapporto con le autorità, il procacciamento del cibo e la difesa della famiglia in situazioni di pericolo.

Nonostante le ordinanze nazifasciste, che prevedevano l’evacuazione delle popolazioni civili verso l’Emilia, i versiliesi erano ben determinati a non abbandonare le proprie terre, per ragioni sia pratiche che affettive: correndo i rischi più gravi, cercarono rifugio nei recessi più remoti delle Apuane, presso amici, parenti, più spesso in alloggi di fortuna.

Nel corso dell’estate del ’44, con l’economia paralizzata e gli esercizi commerciali chiusi, abolite anche le già scarse razioni delle tessere annonarie di Mussolini, il problema alimentare si fece ogni giorno più pressante, fino a trasformarsi nel principale incubo degli sfollati. Ancora una volta, sfidando i gendarmi tedeschi e gli aerei alleati, spesso percorrendo a piedi distanze impensabili – giunsero perfino in Garfagnana e nel Parmense -, furono le donne ad effettuare frequenti ritorni alle proprietà abbandonate, tentando di reperire quel poco di frutta o verdura per i figli e i mariti lasciati in montagna, sempre che la fame dei soldati nazisti, dei partigiani, o, più di frequente, di altri sfollati nelle medesime condizioni, avesse risparmiato qualcosa.

Così per esempio fu per la famiglia di Mariella Barsottini, che nel 1944 aveva sette anni. Assieme ai genitori e al fratello più grande, Mario, abitava nel paesino di Strettoia, nel comune di Pietrasanta (Lu), un borgo agricolo posto proprio a ridosso delle alture dominanti la piana versiliese, in un’area di grande rilevanza strategica per i piani di fortificazione militare dell’Orgnizzazione Todt. Quando furono raggiunti dall’ordine di evacuazione, i Barsottini scelsero di dirigersi verso sud, per «andare incontro agli americani». Dopo una breve sosta nel paese di Valdicastello (Pietrasanta, Lu), in quei giorni vero e proprio crocevia per tutti gli sfollati versiliesi, la famiglia decise di seguire il consiglio di diversi compaesani e di puntare su Marina di Pisa (Pi), considerata una cittadina sufficientemente lontana dai pericoli della Linea Gotica. Nelle settimane successive, nonostante la grande distanza dal paese d’origine, la madre di Mariella, Rina, donna coraggiosa e intraprendente, pur di riuscire a recuperare qualcosa da mangiare per figli e marito, non esitò a tornare periodicamente ai propri terreni, sfidando i posti di blocco e correndo i mille pericoli del passaggio del fronte.

Ecco come Mariella rievoca oggi il ruolo delle donne nei duri mesi dello sfollamento:

Una cosa bella che facevano le donne, perché per gli uomini era troppo pericoloso, era quella di cercar di ritornare a Strettoia per prendere qualcosa da mangiare, perché là avevano lasciato tante cose, tutto! E allora, c’era chi cercava di riprendere la patata, chi recuperava il vino, l’olio, però, sempre col rischio di essere ammazzati. Anche la mia mamma lo fece, da Marina di Pisa. Due volte.

in viaggio verso la garfagnanana in cerca di ciboNei lunghi mesi dello sfollamento, poi, particolarmente complesso si rivelò il procacciamento del sale, genere indispensabile alla dieta, divenuto introvabile sul mercato già dalla primavera del ’44: agli sfollati versiliesi, non rimase altra scelta che ricavarlo dall’acqua di mare. In vista dell’avanzata alleata, tuttavia, l’Organizzazione Todt aveva provveduto a minare l’intera fascia costiera versiliese, lasciando sgombero dagli ordigni soltanto un unico, stretto corridoio di spiaggia presso la foce del fiume Versilia, vicino alle fortificazioni del Cinquale. Data la rilevanza strategica dell’area, il posto pullulava di soldati tedeschi: nessun uomo si sarebbe mai sognato di andarci. Nei mesi dello sfollamento, infatti, proprio in questo punto si snodava ogni giorno una lunga coda di donne composte e silenziose, in attesa del proprio turno per poter raccogliere in una secchia qualche litro d’acqua di mare. Una volta portatala ai monti, se fossero riuscite a passare indenni gli sbarramenti germanici, l’avrebbero fatta bollire o evaporare in un lattone, ricavandone, forse, un preziosissimo pugno di sale grezzo.

Le donne dovettero infine affrontare il difficile compito della protezione dei familiari in caso di rastrellamenti nazisti. Sui villaggi della montagna versiliese, le SS piombavano all’improvviso, rivoltando ogni centimetro degli alloggi, in cerca di uomini e ragazzi da portar via. In un clima di puro terrore, spesso con figli e mariti nascosti in soffitta o appena sotto le assi del pavimento, ancora una volta stava alle donne riuscire a dissuadere i soldati dal compiere ricerche più approfondite, ricorrendo a tutti i diversivi e le doti mimiche del caso, pur di riuscire a salvare le vite dei propri cari. Naturalmente, gli sforzi potevano benissimo risultare vani, e costare anche la vita.

Maria Antonia Quadrelli, nel 1944, aveva tredici anni. Quando giunse l’ordine di sfollamento, dovette abbandonare la sua abitazione delle Prade (Seravezza, Lu), e sfollare, assieme alla madre, alla zia e ai suoi cinque fratelli, nel villaggio montano di San Carlo Po, all’epoca nel comune di Apuania. Ancora oggi, l’anziana signora ricorda bene le drammatiche incursioni notturne delle SS, che penetravano con la forza nelle case in cerca di uomini da rastrellare (la sua vivida testimonianza è consultabile fra i “Materiali collegati”).

A buon diritto, dunque, è lecito affermare che le vere protagoniste dello sfollamento in Versilia furono le donne, che si rivelarono infatti scaltre e coraggiose, ben determinate ad “agire nel mondo” per difendere la vita e la sopravvivenza delle proprie famiglie e delle proprie comunità.

Federico Bertozzi, laureato in storia contemporanea presso l’Università di Pisa, si occupa di storia della seconda guerra mondiale, con particolare attenzione alle esperienze dei civili in guerra e alla raccolta delle loro memorie. Recentemente ha  pubblicato per Pezzini editore, “Attaccarono i fogli: si doveva sfollà!” – Indagine storico-antropologica sull’esperienza dello sfollamento in Versilia nella Seconda Guerra Mondiale. 

Articolo pubblicato nell’agosto 2014.




Il caso “Facio”, il comandante partigiano ucciso dai suoi compagni

E’ l’alba del 22 luglio 1944: ad Adelano di Zeri una scarica di colpi di fucile rompe il silenzio di queste vallate dell’alta Lunigiana fra Toscana, Liguria ed Emilia. Dante Castellucci, il comandante partigiano «Facio», comunista e garibaldino, è morto: ha solo 24 anni ma è già un eroe della lotta contro tedeschi e fascisti. Eppure a fucilarlo non sono i soldati nemici, ma un gruppetto di partigiani della IV Brigata Garibaldi della Spezia. Il suo accusatore è Antonio Cabrelli «Salvatore», di oltre vent’anni più anziano, che ha imbastito contro «Facio» un processo-farsa dalla condanna già scritta, portandolo davanti a un improvvisato tribunale di guerra per i reati di tradimento e sabotaggio.

Quella di «Facio» è una storia di vita, per quanto breve, capace di attraversare e vivere da protagonista grandi temi ed eventi del Novecento italiano. Calabrese, nato nel 1920 a Sant’Agata di Esaro, con la famiglia emigra ancora bambino nel Nord-Pas de Calais, nella stessa città in cui vivono grandi antifascisti italiani come Ermindo Andreoli e i fratelli Gino ed Eusebio Ferrari. I Castellucci rientrano in patria all’alba della Seconda Guerra mondiale e Dante viene chiamato alle armi nell’esercito italiano: spedito sul fronte prima in Francia e poi in Unione Sovietica, il 25 luglio del 1943 si trovava in permesso per convalescenza. Da intellettuale autodidatta scrive, dipinge, suona il violino. Entra in contatto con le famiglie antifasciste emiliane dei Sarzi e dei Cervi, organizzando con esse le prime forme di Resistenza. Divenuto il braccio destro di Aldo Cervi, nel dicembre del 1943 viene arrestato assieme ai sette fratelli ma, fingendosi un soldato straniero, viene rinchiuso nel carcere parmense della Cittadella dal quale riesce ad evadere pochi giorni prima della fucilazione dei compagni a Reggio Emilia. I sospetti del Pci reggiano, che emette una circolare di arresto nei confronti di Castellucci, lo spingono a entrare in contatto col Cln di Parma, dove il dirigente comunista Luigi Porcari lo manda alle dipendenze del Battaglione garibaldino «Picelli» comandato da Fermo Ognibene «Alberto». In Lunigiana, «Facio» si rende protagonista di ripetuti attacchi alle postazioni nemiche, guadagnandosi in breve tempo la fiducia dei compagni e la stima delle popolazioni civili ancora oggi riscontrabile presso i testimoni dell’epoca, fino a divenire Comandante del battaglione dopo la morte di Ognibene. Il 17 marzo 1944 «Facio» fa il suo ingresso nel mito resistenziale con la battaglia del Lago Santo: chiuso in un rifugio con otto uomini male armati, resiste oltre ventiquattr’ore, senza perdite, all’accerchiamento di oltre cento soldati nazifascisti; alla fine i nemici contano decine di morti e feriti e sono costretti alla ritirata ordinata. La battaglia di Lago Santo ricopre il «Picelli» di un alone di leggenda e «Facio», con Fermo Ognibene caduto in battaglia due giorni prima, ne diventa il comandante.

Dante Castellucci Facio in un'immagine di scena nel periodo in cui recita col teatro dei Sarzi

Dante Castellucci in un’immagine di scena nel periodo in cui recita col teatro dei Sarzi

Il battaglione interpreta benissimo le tattiche della guerriglia, compiendo attacchi fulminei e spostando continuamente la propria posizione. Disorienta i comandi nazifascisti, convinti di trovarsi di fronte a una formazione composta da centinaia di uomini. Tutela l’incolumità della popolazione civile, perché senza fornire un punto di riferimento territoriale, non concede la possibilità della rappresaglia nazista. Il «Picelli» è anche un esperimento politico e sociale, come nei dettami della lotta partigiana che ha il fine di rovesciare ruoli e costumi della società fascista. Il comandante vive e agisce alla pari dei suoi uomini, li guida in azione, siede a mensa con loro e si serve sempre per ultimo, rinunciando spesso alla propria razione, ed è l’ultimo a usufruire del vestiario ricevuto da un lancio o sottratto al nemico. Quando Laura Seghettini, pontremolese appena uscita dal carcere fascista, entra a far parte del battaglione, non viene destinata al ruolo di staffetta o di aiutante, ma diventa partigiana combattente fino ad assumere il ruolo di vice-comandante. Per poche settimane, Laura sarà anche la compagna di «Facio»: i due già progettano una sorta di «matrimonio in brigata», ma la vita in quei mesi corre troppo veloce.

foto segnaletica di antonio cabrelli_da Archivio centrle dello Stato_Casellario politico centraleAntonio Cabrelli «Salvatore», nominato da «Facio» commissario politico di un distaccamento del «Picelli», intende proseguire la sua scalata ai vertici del movimento partigiano spezzino: ha progettato la costituzione di una brigata garibaldina che faccia capo alla federazione comunista della Spezia e ai comandi liguri, ma il «Picelli» dipende ancora da Parma, cui «Facio» deve tutto. «Salvatore», così, sottrae il distaccamento «Gramsci» dalle dipendenze del «Picelli», lo trasforma in brigata e se ne autoproclama commissario politico. Per portare a termine il suo piano, deve sbarazzarsi dell’ostacolo più grande, rappresentato dal «brigante calabrese», come lo chiama lui: tra i due corrono lettere infuocate con accuse e minacce reciproche; Dante Castellucci sfugge a un agguato tesogli a tradimento; «Salvatore», allora, agisce con l’inganno.

La mattina del 21 luglio 1944 «Facio» viene chiamato al comando della brigata appena fondata da «Salvatore», con la scusa di chiarire la questione di alcuni materiali sottratti a un aviolancio. Convinto di dover affrontare solo un’accesa discussione, si fa accompagnare da due uomini fidati. Appena giunto nella sede del comando, il comandante del «Picelli» viene disarmato, aggradito e picchiato da Cabrelli, che ha imbastito un tribunale di guerra nel quale è, al contempo, accusatore e giudice. Poche ore dopo «Facio» viene condannato a morte per i reati di furto, sabotaggio e tradimento.

L’ultima notte la passa con «Laura», che nel frattempo lo ha raggiunto, sorvegliato da uomini della IV Brigata che a un certo momento gli offrono la via di fuga: «non sono scappato dai fascisti, non scapperò dai compagni» sono le parole di Dante Castellucci. Verga alcune lettere alla famiglia e agli amici emiliani. Scherza, com’è nel suo carattere, racconta qualche barzelletta e riesce pure a dormire un poco, come racconta «Laura».

Alle prime luci del 22 luglio viene prelevato e portato davanti al plotone d’esecuzione: è lui stesso a esortare i partigiani che non trovano il coraggio di sparargli addosso. Con «Facio» muore una delle più interessanti ed efficienti espressioni che il movimento partigiano aveva espresso fino ad allora.

Luca Madrignani (Carrara, 1977), dottore di ricerca presso l’Università di Siena, assegnista presso l’Insmli, collabora con l’Istituto Storico per la Resistenza e l’Età Contemporanea Apuana; si occupa di Didattica della Storia nella scuola. Ha pubblicato saggi e articoli sul primo dopoguerra italiano e le origini del fascismo; l’ordine pubblico e la violenza politica; la Storia della Resistenza e il movimento partigiano. E’ in corso di stampa per Il Mulino il volume Il Caso-Facio. Eroi e traditori della Resistenza.

Articolo pubblicato nel luglio 2014.




I fratelli Melauri e la famiglia Soffici

YADVASHEMQuella dei Soffici è una famiglia contadina che vive lavorando la terra nel Valdarno fiorentino. La loro storia si incrocia con due giovani ebrei Tullio e Aldo Melauri  a cui fra il dicembre del 1943 ed il luglio del 1944 Dante e Giulia, Oreste e Marianna Soffici scelsero, nonostante i pericoli, di dare rifugio e accoglienza.

La loro storia inizia a Trieste il 15 febbraio del 1925. Paolo e Lea Melauri danno alla luce il loro primo figlio: Tullio. Sedici mesi dopo sarà seguito dal fratello Aldo.
La loro è una famiglia relativamente benestante. Pur vivendo a Trieste, in realtà la loro non è una famiglia triestina. Il padre infatti proviene da Leopoli nell’odierna ucraina. Hanno origini ebraiche. Ma sono e si sentono completamente integrati. Anche per questo hanno prima rinunciato al cognome originario di Goldfrucht per cambiarlo nell’italiano Melauri e poi ottenuto la cittadinanza italiana nel 1920.
Tullio e Aldo hanno un’infanzia serena ed osservante delle proprie tradizioni religiose, ma tutt’altro che isolata dai compagni. Frequentano delle scuole elementari ebraiche, ma poi proseguono i loro studi nelle scuole pubbliche e sono in amicizia con molti altri adolescenti italiani di famiglia cattolica.

Le leggi razziali dell’autunno 1938 sconvolgono però le loro vite. Per fortuna il padre non subisce conseguenze immediate nel proprio lavoro, anche se perderà ben presto la cittadinanza italiana divenendo apolide. Sono proprio loro due Tullio e Aldo a subire all’inizio le ripercussioni più pesanti della discriminazione. Devono abbandonare la scuola pubblica per re-iscriversi in una scuola ebraica.

Ben presto le leggi razziali sono foriere di altre conseguenze molto più pesanti. Quella che fino ad allora era stata una discriminazione diventa chiaramente una persecuzione. I Melauri non si sentono più al sicuro a Trieste. Nel 1940 avevano acquistato un appezzamento di terreno al Brollo nel comune di Figline Valdarno (FI). A coltivarlo è una famiglia di contadini composta da Oreste e Marianna Soffici e i loro 5 figli. Ma quello fra i Melauri e i Soffici non è solo un rapporto di lavoro. È un’amicizia. I Melauri, insieme alla nonna paterna, si trasferiscono così in casa loro nell’estate del 1943. Partecipano alla vita, al lavoro e alle feste della piccola comunità di contadini del Brollo.

Oreste ha un fratello, Dante, che vive con la moglie Giulia in una casa isolata in località Scandelaia, sopra al Ponte agli Stolli. Così nascosta quell’abitazione può tornare utile in caso di pericolo e Oreste la mostra ai Melauri. Purtroppo tutti i segnali lasciano intendere che il pericolo potrebbe giungere presto. Nell’ottobre del 1943 infatti era arrivato in Italia uno dei più fedeli collaboratori dell’organizzatore della soluzione finale al problema ebraico: il capitano delle SS Theodor Dannecker, esperto nella caccia agli ebrei. Agisce con  poche decine di uomini, ma sa perfettamente come muoversi.

Vengono organizzate  retate in tutte le città d’Italia. il 6 novembre 1943 verrà rastrellata la comunità ebraica di Firenze. Gli ebrei vengono trasferiti in prigioni o nei campi di raccolta come Fossoli, Bolzano o la Risiera di San Sabba e da qui smistati verso Auschwitz o altri campi di concentramento. Presto si  uniscono alla caccia  anche  le autorità della Repubblica sociale italiana. Il 30 novembre il ministro degli interni della RSI emana precise direttive ai prefetti per l’arresto di tutti gli ebrei. Dall’Ottobre del ‘43 fino al Marzo del ‘45 verranno deportati quasi 8000 dei circa 32000 ebrei italiani. Di questi se ne salveranno poco più di 600 soltanto.

In questo clima di terrore è difficile mantenere la speranza e la fiducia. E i Melauri non si fanno illusioni: sanno benissimo cosa li attende quando l’antivigilia di Natale, il 23 dicembre 1943, vedono arrivare sotto casa loro una camionetta dei carabinieri.
Paolo Melauri, dopo aver perso la cittadinanza italiana è un apolide. È costretto a comunicare i propri spostamenti alle autorità. Crede di avere instaurato un rapporto di amicizia con il maresciallo dei carabinieri di Figline e crede che questa amicizia possa fornirgli protezione. Ma quando fa il  nome del maresciallo ai carabinieri scesi dalla camionetta nessuno di loro torna sui suoi passi. Lui e la sua famiglia devono seguirli. Gli viene concesso solo il tempo di tornare in casa a preparare le valigie.

Ma la sorveglianza non è ferrea. Così prende piede un’idea. I figli Tullio e Aldo di 18 e 17 anni possono scappare sul retro della casa attraverso i campi verso quella casa isolata di Dante Soffici che gli era stata mostrata. Il piano ha successo. Tullio e Aldo riescono a fuggire fino a Scandelaia e lì vengono accolti da Dante e Giulia Soffici. Ma non possono essere sempre tenuti in casa. È  troppo rischioso. Così per loro dopo il periodo invernale viene costruita una baracca nascosta nei campi. Tutti i giorni Dante o Giulia vanno a portargli da mangiare. In quelle giornate di isolamento il tempo è lunghissimo per i due ragazzi. A fargli visita e portargli dei libri viene anche la famiglia dei Banchetti che avevano conosciuto durante il periodo al Brollo. A Tullio e Aldo arrivano anche delle lettere dei genitori e della nonna. La madre e la nonna sono rinchiuse nel carcere fiorentino di Santa Verdiana, il padre in quello delle Murate. Ma Tullio e Aldo non si fanno illusioni. Mesi prima hanno ascoltato Radio Londra. Sanno qual’è la sorte scelta dai nazisti per gli ebrei. Purtroppo sia la madre che la nonna verranno deportate ad Auschwitz e lì verranno uccise il 6 febbraio del 1944; il padre sopravviverà poco oltre e morirà nel dicembre del 1944.

Con l’arrivo del fronte bellico in prossimità del Valdarno nel luglio del ‘44 un giorno Dante gli suggerisce di scappare. Sta diventando troppo rischioso per loro rimanere lì. Devono fuggire verso gli alleati. Così Tullio e Aldo scappano nella direzione che gli ha indicato Dante. Nella loro fuga incrociano anche una truppa tedesca, ma riescono a non farsi vedere. Infine dopo quarantotto ore senza bere e senza mangiare si imbattono in dei soldati inglesi.

Tullio e Aldo nel dopoguerra sono stati privati della famiglia, ma per fortuna non sono allo sbando. Con l’aiuto economico di alcuni amici di famiglia riescono a riprendere gli studi e a diplomarsi a Roma. Verranno a Firenze da una zia, poi rientrano a Trieste nel 1947. Ma la loro prospettiva come per  molti altri ragazzi ebrei europei scampati allo sterminio è una sola: Israele. Si iscrivono ad una scuola preparatoria poi dopo un anno si trasferiscono definitivamente in Israele lavorando nei kibbutz.

Nei primi anni ’50 le vite di Tullio e Aldo dopo tutto il tempo passato insieme si separano. Tullio durante una vacanza dalla zia di Firenze conosce quella che diventerà sua moglie. Nel 1957 Tullio si sposa e rientra definitivamente in Italia. Succede anche altro. Sta trascorrendo le proprie vacanze all’Impruneta quando re-incontra Oreste Soffici che proprio lì si è trasferito e allacciano rapporti di fraterna amicizia.

Con gli anni in Tullio matura un’idea. Ha sentito parlare dell’onorificenza di “Giusto fra le nazioni” che lo stato di Israele, attraverso l’ente apposito, lo Yad Vashem, concede ai non ebrei che durante la seconda guerra mondiale hanno contribuito a salvare la vita degli ebrei. Si sente in dovere di far assegnare il titolo alle persone cui deve la propria vita. Chiede aiuto al fratello che vive ancora in Israele e insieme inviano la richiesta.

Il 14 novembre 1988 lo Yad Vashem, con il dossier 2604, riconosce Dante, Giulia, Oreste e Marianna Soffici come “Giusti fra le nazioni”. Il loro nome viene aggiunto al Giardino dei giusti presso il museo dello Yad Vashem a Gerusalemme dove per primo nel 1961 era stato invitato a piantare un albero Oscar Schindler.

Articolo pubblicato nel luglio 2014.




Vittorio Locchi

Vittorio_Locchi_Toscana_NovecentoQuella di Vittorio Locchi è stata una figura di rilievo nel panorama della poesia italiana di inizio Novecento. Poeta ben più che promettente scomparse però, a soli 28 anni, a causa di un sommergibile tedesco durante la prima guerra mondiale.

Locchi era nato a Figline Valdarno l’8 marzo 1889. Aveva ricevuto il medesimo nome del padre ucciso solo tre mesi prima mentre cercava di separare due contendenti in una rissa. La sua adolescenza è quella di un ragazzino esuberante, uno scapestrato. I giochi all’aria aperta e i cavalli lo attirano più dei libri. Uno dei suoi due biografi, Vittorio Franchini, racconta un episodio di una lite con un compagno. In un impeto d’ira il giovane Vittorio afferra un calamaio e glielo scaglia addosso. Il maestro si infuria e gli pone un ultimatum «O mettete giudizio, o coi cavalli di ‘Zio Pasqualone’». Vittorio resta appartato tutta la mattina, poi con fare sicuro va verso il maestro e lo informa della decisione «voglio studiare», gli dice.
Si fa chiudere in un collegio a Firenze. Studia ardentemente e in un anno recupera il tempo perduto prendendo la licenza tecnica. Prosegue gli studi all’Istituto tecnico, ramo Ragioneria. E qui ha il primo incontro fondamentale della sua carriera: quello con il suo professore, il poeta di scuola carducciana Diego Garoglio. È questi il primo ad accorgersi del talento del giovane. Allora Vittorio è ideatore e direttore del giornalino “L’Idea studentesca” un foglio portatore di idee patriottiche e nazionalistiche.

Tornando a Figline Valdarno Vittorio dà vita con alcuni amici ad una brigata in cui si compongono e si leggono poesie. I luoghi di raduno sono le sponde del fiume Resco e un bar nella piazza del paese. La loro diventa la “Brigata del Giacchio”. È lo stesso Vittorio Locchi a raccontare l’origine del singolare nome:
«Una sera che il vento soffiava più forte, nacque d’improvviso il nome della brigata. Uno di noi, il più sciammanato e allegro […] portava sempre […] una giacca ampia e prolissa che non finiva mai. A vederlo, così lungo e magro com’è, camminare […] sventolando le braccia con le falde di quella sua giacchettina sempre al vento come ali, pareva proprio un uccellaccio. Quella sera il vento era più forte e a veder venire l’amico verso di noi come portato dalla giacchetta, mi venne fatto di dire: ‘Ecco il giacchio’. In lingua ‘giacchio’ è una rete, ma io gli avevo dato un significato tutto mio di giacchettine, tutti lo capirono subito e sul momento fu stabilito di chiamare la nostra compagnia ‘La Brigata del giacchio.’».

Nella brigata viene composto il nucleo di quelle poesie che, pochi anni dopo, verranno pubblicate come “Le canzoni del Giacchio.” Intanto Vittorio diplomatosi ragioniere ha necessità di un impiego. È il 1909, ha vent’anni, e trova lavoro come contabile in un’azienda fiorentina. È un lavoratore scrupoloso, per quanto di fronte alle  non riesca a non distrarsi e così alcuni clienti alle lettere contabili trovano allegati fogli di poesie. Vince poi un concorso per impiegato postale. Deve lasciare familiari e amici e partire per Venezia.

È il 1910. Il periodo veneziano, che per Vittorio durerà fino alla sua chiamata al fronte, si dimostrerà il più importante e fecondo. Fonda una nuova compagnia poetica che chiama “Tempestissima”. Si fa strada nel giornalismo e collabora con il giornale “L’Adriatico”. Grazie all’interessamento del suo vecchio professore Diego Garoglio riesce a pubblicare nella collana “Scrittori nostri” una scelta di liriche del poeta veneziano del XV secolo Giustinian da lui commentate. Si consolida poi in lui una fiorente vena drammaturgica e compone “La Notte di Natale”, “La Tempesta” e soprattutto “L’Uragano”.

Negli anni veneziani avverrà anche l’incontro che lo consacrerà come uno dei più promettenti giovani poeti italiani: quello con l’editore spezzino Ettore Cozzani. Questi pubblica una collana di poesia denominata “l’Eroica”, a celebrare la poesia che eroicamente resiste nonostante i tempi ostili. Il critico Sam Benelli gli fa avere alcune poesie del giovane Vittorio e Cozzani ne rimane entusiasta e decide di pubblicarle nel 1914 ne “L’Eroica” con il titolo “Le canzoni del Giacchio”.

Intanto, sempre nel 1914, quando Gabriele D’Annunzio pronuncia a Quarto la famosa orazione per l’intervento italiano nella prima guerra mondiale Vittorio ascolta entusiasta. Rientrato a Venezia, una sera balza sui tavoli di un caffè in Piazza San Marco e arringa la folla.
Frontespizio Santa GoriziaCon l’ingresso dell’Italia in guerra il 24 maggio 1915, Vittorio parte immediatamente per il fronte come tenente della XII divisione di fanteria. Al fronte scrive articoli per il Giornale d’Italia e compone “Il Testamento”. Si ammala, ma riesce a rientrare in tempo per partecipare il 9 agosto 1916 alla presa di Gorizia. Il generale Laderchi ha per Vittorio un incarico diverso dal suo ruolo abituale: comporre un poema per celebrare il successo. Obietta timidamente che forse non è la persona più adatta. Ma non può discutere l’ordine e completa l’opera prima del Natale di quell’anno. Ne nascerà la sua opera più famosa, “La Sagra di Santa Gorizia”, che pubblicata postuma per iniziativa del Cozzani verrà ristampata continuamente  fino al 1968.

Poco prima, nonostante le condizioni di salute non ottimali, Locchi aveva scritto ai superiori chiedendo di “tenerlo presente nell’eventualità di una spedizione all’estero: essendo scapolo, giovane ed entusiasta della nostra guerra, sarà tanto più lieto quanto più si tratterà di andare lontano e d’incontrare rischi e disagi”.
All’inizio del 1917 il comando italiano decide di inviare un corpo di spedizione in Palestina. Vittorio Locchi viene prescelto per partecipare. Deve imbarcarsi per Napoli il 13 febbraio. Sono cinque le navi che salpano da quel porto. A Vittorio, che è ufficiale, sarebbe destinata una nave più agiata. Sceglie invece di imbarcarsi su una nave stracolma di soldati semplici: il Minas. La scelta gli sarà fatale. Il Minas viene affondato da un sommergibile tedesco a largo delle coste greche il 15 febbraio 1917.
Per alcuni giorni la famiglia di Vittorio spera. Poi la testimonianza del tenente Luigi Trevale scampato al naufragio fa piazza pulita di ogni dubbio. Vittorio ha scelto di andare incontro al suo destino, senza accapigliarsi con il resto della folla per un posto sulle scialuppe insufficienti. La testimonianza del Trevali è riportata da Cozzani nella sua appassionatissima biografia Come visse e come morì Vittorio Locchi. «È morto eroicamente cercando di calmare l’equipaggio in preda al panico. Il primo siluro, urla con tutta la sua forza il giovane Vittorio, non ha colpito gravemente, la nave non sta affondando. Poi un secondo sicuro e la nave si inclina verticalmente scomparendo in pochi minuti.».

Articolo pubblicato nel luglio 2014.