Firenze in Guerra, 1940-1944

Il 23 ottobre, alle ore 17.00, si aprirà a Palazzo Medici Riccardi la mostra storica Firenze in guerra, 1940-1944; l’evento è promosso dall’Istituto storico della Resistenza in Toscana col sostegno della Regione Toscana, della Provincia e del Comune di Firenze. Documenti, immagini, voci, filmati, nonché fotografie provenienti dall’Archivio Foto Locchi animeranno un ampio percorso espositivo ideato dagli architetti Giacomo Pirazzoli e Francesco Collotti. Intrecciando storie individuali e esperienze collettive, la narrazione attraverserà i primi anni di guerra fino agli ultimi mesi dell’occupazione tedesca, quando la città e la provincia furono violentemente investite dal conflitto.

Uno spazio di condivisione interattiva sarà garantito dal progetto Memory Sharing, che ha l’obiettivo di raccogliere e valorizzare documenti, fotografie, storie di vita relative agli anni del conflitto. Tutti possono contribuire al progetto, rivolgendosi alla postazione allestita all’interno della mostra oppure partecipando online, attraverso il sito www.firenzeinguerra.com (in costruzione).

Al Rondò di Bacco, nel complesso monumentale di Palazzo Pitti, un film sonoro e la serie completa delle fotografie scattate dall’architetto Nello Baroni permetteranno di immergersi nell’esperienza dei “giorni dell’emergenza”, quando migliaia di fiorentini furono costretti a lasciare le case del centro storico per rifugiarsi nelle sale di Palazzo Pitti.

La mostra, curata da Valeria Galimi e Francesca Cavarocchi – con la supervisione scientifica di Enzo Collotti – si snoderà attraverso tre scenari: la città della guerra (1940-1943), la città dell’occupazione (1943-1944) e la città della Liberazione.

Fin dagli anni ’20 il regime assegna al capoluogo toscano un ruolo chiave nel progetto di fascistizzazione della cultura: importante polo accademico e editoriale, Firenze ospita una serie di riviste e istituzioni di rilievo nazionale, dal “Selvaggio” al “Bargello”, fino al Maggio musicale. Nella seconda metà degli anni ’30 la città diviene una delle sedi privilegiate nella produzione e diffusione della pubblicistica antisemita.

I primi tre anni di guerra hanno un impatto crescente sulla vita quotidiana dei fiorentini. Mentre migliaia di cittadini partono per i vari fronti, l’intera popolazione è chiamata a mobilitarsi per sostenere lo sforzo bellico, ad esempio attraverso le periodiche raccolte di ferro, metalli e vettovaglie destinate ai soldati. Il razionamento dei beni alimentari si fa sempre più severo, affiancato dalla rapida crescita del mercato nero. Gli stessi spazi pubblici si trasformano progressivamente, in seguito alle misure di protezione antiaerea sui monumenti o alla creazione degli ‘orti di guerra’ nei giardini e nelle piazze.

La seconda visita di Hitler alla città, il 28 ottobre 1940, si tiene in un’atmosfera cupa e spettrale, molto diversa dai festeggiamenti inscenati nel 1938, quando era stato celebrato il rafforzamento del patto fra i due regimi. Nei primi anni di guerra Firenze diventa una delle ambientazioni privilegiate degli incontri volti a rinsaldare l’alleanza con Berlino e gli altri paesi dell’Asse; frequenti sono gli eventi culturali e le manifestazioni giovanili interalleate, con l’obiettivo di sottolineare il contributo della civiltà italiana al Nuovo ordine europeo perseguito dal Reich tedesco.

Dall’8 settembre 1943 gli occupanti e la Repubblica Sociale Italiana (RSI) tentano di attuare uno stretto controllo del territorio, mentre iniziano i bombardamenti e le condizioni di vita della popolazione si fanno sempre più difficili. L’area metropolitana di Firenze spicca nel quadro regionale sia per la complessità del suo tessuto economico e sociale sia per la concentrazione di strutture tedesche e repubblichine; una circostanza che contribuisce a spiegare l’intensità della persecuzione antiebraica, nonché più in generale l’efficacia degli apparati repressivi (ad esempio in seguito agli scioperi del marzo 1944). In città e nei dintorni si va nel frattempo riorganizzando un esteso tessuto antifascista, che trova la sua specificità nell’ampia articolazione delle posizioni culturali e politiche e nel coinvolgimento di settori sociali differenziati; il capoluogo, sede del Comitato toscano di liberazione nazionale, si distingue per la pluralità e la ricchezza delle reti resistenziali, che affiancano all’iniziativa più propriamente militare (specie nell’arco collinare e appenninico) un ampio spettro di attività, dalla raccolta di informazioni fino al soccorso ad ebrei, renitenti, ex prigionieri alleati.

Gli angloamericani raggiungono la Toscana a metà giugno del 1944, dopo la liberazione di Roma. A partire dalla metà di luglio la provincia di Firenze è teatro di intensi e lunghi combattimenti, prima sulle colline a Sud del capoluogo e poi in città: attuando la chiamata all’insurrezione da parte del CTLN, i partigiani sono protagonisti della battaglia per la liberazione del capoluogo, anticipando di alcune ore l’entrata degli Alleati e sostenendo per circa un mese lo scontro coi tedeschi e i “franchi tiratori”. Fallite definitivamente le trattative per la “città aperta”, il 30 luglio le forze tedesche impongono l’evacuazione del settore circostante i Lungarni, a cui fa seguito fra il 3 e il 4 agosto la distruzione dei ponti e di un’ampia area attorno al Ponte Vecchio. Nel mese di agosto la linea del fronte si assesta per lunghi tratti attorno alla linea dell’Arno, mentre le propaggini settentrionali della provincia saranno liberate solo nella seconda metà di settembre, quando le forze alleate raggiungeranno la linea Gotica. In provincia la ritirata dell’esercito tedesco ha come effetto notevoli distruzioni di fabbricati e vie di comunicazione ed è accompagnata da diffuse violenze e spoliazioni.

Il periodo dell’emergenza e del passaggio del fronte è certo quello che maggiormente si staglia nella memoria dei fiorentini. Per comprendere a pieno l’impatto sulla vita quotidiana delle popolazioni e le trasformazioni sociali e culturali innescate dal conflitto è necessario tuttavia allargare lo sguardo agli anni precedenti, perché è nei primi anni di guerra che si accumulano processi e trasformazioni destinati ad esplodere nell’estate del ’44 e nei mesi successivi alla liberazione, quando si inizierà un lento ma decisivo processo di ricostruzione e democratizzazione della vita pubblica.

Informazioni sulla mostra:

Palazzo Medici-Riccardi 24 ottobre 2014 – 6 gennaio 2015

10:00 – 18:00 (chiuso il mercoledì)

Rondò di Bacco 24 ottobre 2014 – 4 gennaio 2015

 Venerdì 15:00 – 17:30 / sabato e domenica: 11:00 – 17:30

 Ingresso libero

 Per Informazioni, prenotazioni e visite guidate tel. 055.284296 dal lunedì al venerdì 10:00 – 15:00

Articolo pubblicato nell’ottobre 2014.

 




Le parallele convergenze livornesi. Pci e Dc nella lunga giunta Diaz (1944-1954)

Tra il 29 luglio 1944 e il 1° dicembre 1954 le giunte comunali di Livorno furono guidate ininterrottamente dal comunista Furio Diaz. Si tratta di una lunga esperienza amministrativa che presenta un elemento di forte peculiarità nella collaborazione e nell’intesa di governo tra comunisti e cattolici ben oltre la rottura dell’alleanza antifascista avvenuta a livello nazionale nel maggio 1947. L’alleanza di governo tra Pci e Dc si prolungò infatti per tutta la prima legislatura fino al 1951, avendo un suo corollario significativo fino al dicembre 1953, data in cui cessò l’atteggiamento di opposizione costruttiva fino ad allora assunto dai democristiani. Passaggi talmente significativi da aver assunto col tempo, nel sistema commemorativo cittadino, le sembianze di mito fondativo nella costruzione etico-identitaria della Livorno postbellica. La valenza simbolica di quegli eventi ha finito così per sminuire in parte, nella percezione pubblica, la complessità di un contesto contraddittorio come quello della Livorno di quegli anni.

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Soldati Inglesi tra le macerie di Livorno (Collezione Sandonnini, Istoreco Livorno)

Con gli Alleati: una città “sotto tutela”
L’analisi del rapporto tra cattolici e sinistre livornesi nel periodo delle giunte unitarie deve in primo luogo tener conto della morfologia dei centri di governo e di potere del territorio. Poiché a limitare e condizionare la capacità di governo della giunta intervennero molti fattori. A partire dall’arrivo degli Alleati (19 luglio 1944), infatti, su Livorno si concentrarono una serie di interessi – primariamente bellici e poi politici – che di fatto dilazionarono, attraverso una lunga e contraddittoria fase di transizione, il passaggio ad un effettivo stato di pace. La presenza militare alleata, che si protrasse fino al dicembre 1947, significò per la città anche una serie di enormi problemi di ordine pubblico che si andarono ad assommare ai disastri materiali e psicologici prodotti dalla guerra.

D’altra parte il governo militare degli Alleati (Allied Military Government, Amg) pretese subito di stabilire il «completo controllo» sull’amministrazione per i superiori interessi di guerra legati alla strategicità assunta dal porto di Livorno sul fronte mediterraneo. Diaz, che non senza difficoltà il maggiore E.N. Holmgreen aveva accettato come sindaco su proposta del Cln e dopo la rinuncia di Giorgio Stoppa, sapeva di essere un primo cittadino “sotto tutela” e che il primo obiettivo alleato era quello di «organizzare una complessa rete di attività non militari al solo scopo di difendere i vantaggi militari acquisiti».

Le istruzioni di Togliatti: alleanze obbligate
In più, nella città simbolo del Partito comunista, le prime impronte di guerra fredda complicarono il quadro dei rapporti tra forze alleate, Cln, apparati di governo, partiti politici e Chiesa cattolica in un succedersi di raffinate tattiche ideologiche. Dietro i compromessi e le convergenze tra comunisti e cattolici, si celavano spesso le doppiezze e le ambiguità di una battaglia politica di cui la giunta livornese era solo una pedina di uno scacchiere ben più complesso. In questo senso è davvero emblematico un documento del 27 ottobre 1944. A meno di tre mesi della formazione della giunta espressione del Cln, il segretario del Pci Palmiro Togliatti inviò delle lapidarie «istruzioni» al sindaco di Livorno: «Non intralciare il lavoro dell’AMG; Mantenere buoni rapporti con la Dc; Non fare mostra di sentimento anticlericale e rassicurare i cattolici sulla libertà di culto».

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Diaz, secondo da sinistra, ad un’iniziativa del Pci livornese (Collezione Sandonnini, Istoreco Livorno)

Il documento offre chiare informazioni non solo sulle strategie del Partito comunista, ma anche su quelle degli Alleati. Come riporta Roger Absalom, infatti, le direttive del segretario generale del Pci al sindaco di Livorno furono intercettate dall’Office of Strategic Services (Oss), il Servizio americano di informazioni politiche e militari, a conferma di una preoccupazione anticomunista che già in quella fase si era scatenata tra le forze alleate. Tanto che nei rapporti dei servizi segreti americani si paventava perfino l’esistenza di una linea diretta Mosca-Livorno: gli alleati erano dunque «particolarmente sensibili al “pericolo rosso” rappresentato dai livornesi tradizionalmente radical-rivoluzionari» in una città che era divenuta punto nevralgico del sistema logistico di una guerra ancora in corso.

In questo quadro la strategia togliattiana, condivisa da Diaz, ebbe non poche difficoltà ad essere perseguita. La necessità politica di mantenere «buoni rapporti con la Dc» si scontrava spesso con la linea non sempre conciliante espressa dalla Federazione comunista livornese. Mantenere una linea di equilibrio tra opposte tendenze e coinvolgere la base del partito nelle battaglie della giunta unitaria si rivelò spesso per Diaz un compito improbo. Complicazioni che emergono con chiarezza, ad esempio, nella lettera che il sindaco inviò alla segreteria della Federazione livornese del Pci il 9 maggio 1947: «Cari compagni, devo richiamare con maggiore energia la vostra attenzione sulle deficienze che si verificano nell’opera del Partito per fiancheggiare e sorreggere l’amministrazione comunale da noi diretta».

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Il vescovo Piccioni e don Roberto Angeli nel 1951 (Archivio Centro Studi Roberto Angeli)

La debole Dc: interviene De Gasperi…
Sul fronte opposto, la partecipazione alla giunta unitaria dei democristiani si inseriva in un quadro complesso caratterizzato da molte contraddizioni. Basti ricordare che la Dc locale era nata formalmente solo tre giorni dopo la liberazione di Livorno (22 luglio 1944) e che la partecipazione dei cattolici alla Resistenza era stata garantita esclusivamente dal movimento cristiano-sociale, fondato da don Roberto Angeli già nel 1942, i cui membri entrarono nel Cln livornese dal 9 settembre 1943. A questo proposito è significativa la ricostruzione fatta da Carlo Lulli, storico direttore del “Telegrafo”, sulla formazione della prima giunta unitaria del 29 luglio 1944: l’allora impiegato dalla segreteria del Cln ha sostenuto che negli intensi colloqui di quelle ore con il Commissario provinciale alleato John F. Laboon per la formazione della giunta «si scoprì che in città non c’erano rappresentanti della Democrazia cristiana» e allora si organizzarono «delle ricerche affannosissime per trovare delle persone cristiano-sociali» che fossero disposte a diventare «democristiane per aderire, anche su scala livornese, a quello che era il quadro nazionale».

Questa situazione generò enormi malumori tra i cristiano-sociali, il cui credo politico era una aperta risposta progressista alla Dc dei conservatori. La “battaglia” tra cristiano-sociali e democristiani livornesi raggiunse un livello tale che solo l’intervento perentorio di De Gasperi poté risolverla e non senza strascichi polemici tra le divergenti anime del cattolicesimo livornese. L’opposizione del Cln all’entrata nel comitato degli esponenti Dc, costrinse infatti il segretario nazionale democristiano a scrivere il 20 settembre 1944 una dura lettera al presidente Ruelle, chiedendo testualmente che si mettesse termine alla «deplorevole scissione» tra i cattolici e che si superasse «l’anomalia» del Cln livornese. La Dc, diceva De Gasperi, doveva essere accettata dal Cln livornese per «adeguarsi al quadro nazionale».

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Il settimanale diocesano di Livorno “Fides”

Un cacciucco alla livornese?
Questo complesso di concause portò ad una situazione di estrema debolezza organizzativa del partito e allo scarso appeal dei suoi esponenti sulla base cattolica. Nel primo riassunto statistico dei tesserati che la segreteria De Gasperi elaborò nel 1945, lo Scudo crociato livornese era di gran lunga all’ultimo posto in Toscana per numero di sezioni (appena 10) e tesserati (1000, di cui solo 63 donne). A questo si assommava la litigiosità dei suoi vertici locali e la scarsa considerazione che essi godevano tra le gerarchie ecclesiastiche livornesi: nella relazione che don Angeli, delegato vescovile di Azione cattolica, inviava ai vertici nazionali scriveva che «l’inferiorità numerica della Dc» rispetto al Pci era «aggravata da una notevole mancanza di dirigenti capaci», da cui seguiva «un indirizzo fiacco e inconcludente, più orientato al quieto vivere che all’affermazione di un’idea».

In questo quadro il giudizio della Chiesa livornese sulla collaborazione istituzionale nella giunta non differiva dalla linea espressa da Pio XII: è noto infatti che la via della collaborazione tra cattolici, comunisti e socialisti dell’immediato dopoguerra era stata una parentesi a cui la Santa Sede aveva guardato «con estremo sospetto e che subì di malavoglia». In un articolo durissimo scritto dal direttore del settimanale diocesano «Fides» dopo la formazione della nuova giunta unitaria e il quasi plebiscito ottenuto dai comunisti alle amministrative del novembre 1946, si diceva che i comunisti si erano assicurati una «nuova brillante vittoria tattica», poiché avevano in mano la giunta senza avere oppositori in consiglio comunale. I democristiani, definiti spregiativamente «collaborazionisti», «abbacinati dall’idea di “servire il popolo” non hanno capito che il miglior mezzo per servirlo era quello di controllare l’Amministrazione socialcomunista, e non di avallarla: di difendere la democrazia e non di partecipare ai suoi funerali: di rispettare la volontà popolare e non di affogarla in un indefinibile… cacciucco alla livornese».

La tenuta istituzionale della giunta di espressione ciellenistica fu dunque messa a seria prova dalla precarietà di una situazione di “lunga liberazione” e dalle contrapposizioni scatenate dalla “guerra ideologica” che contraddistinse gli anni del centrismo degasperiano: fattori di cui è necessario tener conto per valutare in tutta la sua complessità un’esperienza che rappresenta comunque un unicum tra le esperienze amministrative uscite dalla Resistenza.

*Gianluca della Maggiore è dottorando in Storia contemporanea presso l’Università di Roma Tor Vergata. E’ membro del coordinamento di redazione di ToscanaNovecento e collabora con l’Istoreco di Livorno. Autore di studi sul mondo cattolico, si occupa anche di cinema, Resistenza e movimenti politici. Ha pubblicato il volume Dio ci ha creati liberi. Don Roberto Angeli (2008).

Articolo pubblicato nel settembre 2014.



La protezione del patrimonio artistico tra propaganda e dedizione 1940-1943

Il 5 giugno 1940 il soprintendente alle Gallerie fiorentine Giovanni Poggi si trovò nelle mani una circolare “urgente e riservatissima” del ministero, con la quale si ordinava l’immediata attuazione di tutti i provvedimenti predisposti per la tutela del patrimonio artistico in caso di conflitto. Cinque giorni dopo l’Italia sarebbe entrata ufficialmente in guerra.

Con una serie di pubblicazioni, convegni, interventi legislativi iniziati negli anni della Iª Guerra Mondiale e culminati con la legge 1089/1939 (‘Tutela delle cose d’interesse artistico e storico’), l’Italia aveva già da tempo predisposto norme e piani da far attuare alle varie soprintendenze in caso di guerra. Cosicché, già dall’11 giugno 1940, la macchina propagandistica fascista poté mostrare la perfetta efficienza del governo nella protezione in loco di palazzi, chiese, portali e facciate scolpite, efficienza ampiamente documentata da una capillare campagna fotografica e dai cinegiornali dell’Istituto Luce.

Ospedale degli Innocenti. Armature per la protezione dei tondi di Luca della Robbia e la loggia a lavori di protezione ultimata, daNella fasi iniziali della guerra non si individuava il possibile pericolo nei bombardamenti dei centri storici, quanto piuttosto nelle eventuali schegge di proiettili della contraerea e nelle vibrazioni che potevano portare a distacchi degli affreschi. Per questo si iniziò a incastellare con legname e sacchetti di sabbia le statue e coprirle con tettoie di eternit (come avvenne per le statue davanti a Palazzo Vecchio), a rinforzare le fondamenta degli edifici (come nella Basilica di San Lorenzo a Firenze), a rivestire le superfici delle opere con carta e tessuto o costruire delle vere e proprie pareti in mattoni per le cappelle affrescate all’interno delle chiese (come per gli affreschi di Piero della Francesca ad Arezzo).

Quando, il 28 ottobre 1940, Adolf Hitler visitò Firenze per la seconda volta, la città apparve sotto un nuovo, inedito e lugubre scenario: torrette, gabbiotti, eternit ricoprivano i simboli artistici della culla del Rinascimento, garantendo in realtà una protezione estremamente superficiale contro i bombardamenti.

Tali misure protettive, enfatizzate dalla propaganda di regime come una “blindatura” totale, si rivelarono ben presto non idonee anche per la reale mancanza di mezzi a disposizione, nonostante la commovente e costante dedizione di tutto il personale delle soprintendenze toscane.

Protezioni in muratura alle cappella di Giotto in Santa Croce a Firenze, daL’inadeguatezza delle operazioni di protezione messe in atto fino a quel momento apparve chiara già dall’autunno del 1942, quando iniziarono i bombardamenti aerei sui centri storici italiani e si dovettero sostituire tutte le protezioni in legname e sacchetti di rena con coperture in muratura.

Rimaneva ancora il problema della tutela delle opere d’arte mobili, per le quali si mostrava necessario ormai un definitivo e totale allontanamento dai centri urbani.

Lo sfollamento più imponente e delicato riguardava ovviamente la soprintendenza fiorentina, e le migliaia e migliaia di opere dei musei, delle chiese e delle collezioni private cittadine. Secondo quanto registrato direttamente da Poggi nelle sue relazioni dell’ottobre 1944 e del luglio 1945 (conservate presso il Fondo Poggi in deposito presso l’archivio storico della Soprintendenza Speciale per il patrimonio Storico Artistico ed Etnoantropologico e per il Polo Museale della città di Firenze), già nel giugno del 1940 la Soprintendenza fiorentina riuscì a trasferire nella Villa di Poggio a Caiano il nucleo più prezioso degli Uffizi, mentre in tutto il 1940 arrivarono nel palazzo Pretorio di Scarperia e di Poppi e nel convento di Camaldoli altri importanti capolavori.
Piazza della Signoria. Particolari della rimozione della Giuditta di Donatello, daCon il sopraggiungere dell’autunno del 1942, l’aggravarsi della situazione impose una repentina ed energica azione di trasloco totale e smistamento in decine di rifugi fuori dalle città. In dieci mesi e con scarsissimi mezzi a disposizione (sei camion e carburante razionato) Firenze si svuotò completamente.

Allo scoppio della guerra anche la soprintendenza di Siena e Grosseto iniziò le grandi manovre di protezione. Il personaggio chiave nella difesa del patrimonio fu il giovane Enzo Carli, che affiancò come ispettore e direttore della Regia Pinacoteca i soprintendenti Pèleo Bacci prima e Raffaello Niccoli dopo. Carli (che sarebbe poi diventato soprintendente e tra i massimi esperti di arte senese), poco più che trentenne e con un congedo provvisorio rinnovatogli di sei mesi in sei mesi dallo Spedale militare di Firenze, dal giugno 1940 coordinò con limitate maestranze tutti i lavori. Fece ricoprire con una cupola di sacchetti di sabbia sostenuti da una impalcatura di legname il pergamo di Nicola Pisano in Duomo, e si occupò della delicata rimozione della grande vetrata di Duccio e della serie di sculture di Giovanni Pisano che decoravano la facciata della cattedrale.

Tra l’autunno del 1942 e la primavera del 1943 anche Siena iniziò un nuovo piano di misure protettive, non più dai risvolti propagandistici ma di disperata necessità. Se da un lato furono consolidati e incapsulati con armature di mattoni gli oggetti inamovibili come il pergamo di Nicola Pisano, dall’altro fu attuato lo sfollamento pressoché totale delle opere d’arte mobili presenti in città. La tavola più importante di Siena, la Maestà di Duccio di Buoninsegna, fu allora trasferita nella fattoria di Mensanello di proprietà del Seminario, costantemente sorvegliata; le grandi tavole della Regia Pinacoteca furono collocate a Villa Arceno, di proprietà dei conti Gamba Castelli, mentre gli altri dipinti partirono per l’abbazia di Monteoliveto Maggiore, dove furono nascosti al termine di un corridoio al pian terreno, a chiusura del quale fu eretta una paretina provvisoria con davanti un piccolo altare. Nel 1943 Carli prese la moglie, il figlio di 4 anni e la figlia di pochi mesi e andò ad abitare a Villa Arceno, per sorvegliare con i propri occhi tutti i capolavori: nei mesi successivi più di una volta avrebbe rischiato la vita per difendere dalle requisizioni gran parte del patrimonio artistico senese.

E così la rischiarono anche molti dei funzionari della soprintendenza fiorentina e lo stesso Poggi, che con sangue freddo, indipendenza e autorità sul finire del 1943 intrecciò audaci e trasversali trame diplomatiche, non più solo per proteggere, ma soprattutto per difendere il patrimonio cittadino.

Lo sbarco degli Americani, le mutate alleanze, l’invasione tedesca e la coesistenza di governi e poteri paralleli avrebbero infatti alterato completamente la politica ‘centralizzata’ e celebrativa di protezione al patrimonio: nella tragicità ed emergenza del momento, soprintendenti, ispettori, restauratori o semplici custodi di rifugi dimostrarono non solo efficienza e sincera dedizione, ma anche e soprattutto un grande coraggio, spirito critico e generosa umanità.

Articolo pubblicato nel settembre del 2014.




Un altro 8 settembre. La liberazione di Pistoia

Alla fine dell’estate del 1944 Pistoia portava ben visibili i segni, materiali ed immateriali, della guerra. Colpita da stragi ed eccidi di civili – dalla strage di piazza San Lorenzo del 12 settembre 1943 fino agli impiccati a Montale il 4 settembre 1944 – bombardata più volte dall’ottobre ’43, svuotata dagli sfollamenti in campagna, la città ed il suo territorio furono investiti da un passaggio del fronte prolungato, dovuto alle attività di rallentamento messe in atto dei tedeschi, che stavano ancora ultimando la costruzione delle fortificazioni difensive sulla Linea Gotica, ed al maltempo.

Le truppe Alleate, un esercito multietnico composto da americani, inglesi, sudafricani, indiani, brasiliani ecc…, si erano attestate nella zona dell’empolese alla fine di agosto, riuscendo a passare l’Arno ai primi di settembre, ma sempre in maniera precaria, dovendo affrontare le asperità delle piogge che mandarono in piena il fiume distruggendo i ponti di barche del genio militare. Il Comando di Kesselring era ancora a Monsummano Terme, prima di essere trasferito alla Villa di Celle e di lì poi sugli appennini a Maresca. I tedeschi ostacolavano gli alleati contendendo loro ogni frazione con azioni di pattuglie che prendevano contatto per poi sganciarsi rapidamente. Al tempo stesso portavano avanti azioni di guerra ai civili, culminate nel padule di Fucecchio il 23 agosto, con 174 morti.

Sul territorio vennero a incrociarsi tre diverse strategie. La lenta ritirata tedesca sulle montagne, l’azione delle pattuglie alleate di avanguardia e l’attività delle formazioni partigiane. Già dal 12 giugno era stato infatti costituito un Comando di piazza unico per tutte le formazioni dipendenti dal Comitato Provinciale di Liberazione Nazionale (CPLN), per un totale, tra brigate e formazioni, di 23 unità garibaldine e 24 classificate come di Giustizia e Libertà, oltre a 14 gruppi socialisti e comunisti nella zona di Pescia. Esisteva inoltre la formazione di Ducceschi “Pippo”, che operava con una certa autonomia.
liberazione pistoia via abbi pazienzaLe formazioni furono in gran parte dislocate intorno al capoluogo per procedere poi all’ingresso in città. Secondo il Comando: «Il giorno 7 settembre, quando ancora le truppe tedesche si trovavano nei sobborghi di Pistoia, fu decisa dal comando di piazza l’occupazione della città. Parteciparono all’operazione tutte le formazioni non impegnate per la loro dislocazione in altri settori. L’operazione, che costò perdite notevoli, riuscì brillantemente e la città fu tenuta per quattro giorni con continue azioni di fuoco contro distaccamenti e pattuglie tedesche, sotto intenso bombardamento, fino all’arrivo delle truppe alleate. La maggior parte delle formazioni continuarono quindi le azioni contro il nemico fino allo scioglimento del comando (20 settembre 1944)».
Il CPLN ebbe come strategia politica quella di portare avanti autonomamente la liberazione del capoluogo e, dove possibile, dei paesi e delle frazioni, per dimostrare non solo la propria capacità militare ma anche quella politica e amministrativa. Come scrisse lo stesso Comitato: «il CLN dispose il concentramento delle formazioni operanti in città per l’occupazione di tutti i punti strategici ed edifici pubblici, assumendo la direzione della cosa pubblica per evitare ogni pericolosa vacanza di poteri. Il giorno 8 settembre l’occupazione del capoluogo era ultimata e il servizio di ordine pubblico disimpegnato in modo egregio dai patrioti, mentre nelle località periferiche continuava la lotta fra pattuglie partigiane in esplorazione avanzata e retroguardie tedesche».

brigata bozziIl passaggio del fronte interessò la provincia per tutto il mese, con sequenze di eventi quasi quotidiane. Il 2 settembre una prima pattuglia Alleata raggiungeva Monsummano, ritirandosi subito, mentre altre Ponte Buggianese e poi Chiesina Uzzanese, quest’ultima insieme ai partigiani. Il 3 settembre era la volta di Larciano. Il 3 e 4 settembre Borgo a Buggiano veniva prima liberata, poi rioccupata, infine liberata di nuovo dai partigiani e dalla truppe Alleate (secondo alcune fonti è il 7). Tra il 4 e il 7 settembre gli Alleati si attestavano sul Montalbano, mentre i partigiani presidiavano la zona di Quarrata. Il 5 settembre una pattuglia toccava Cantagrillo. Il 6 settembre fu constatato che il ponte sull’Ombrone a Bonelle era stato distrutto. Pieve a Nievole e Montecatini vennero raggiunte tra il 7 e l’8 settembre, ma Montecatini Terme era già stata liberata dai partigiani il 6 e Serravalle il 7. L’8 settembre veniva presa Ramini ed i partigiani sostenevano uno scontro a fuoco con i tedeschi a Marliana.
Il 12 i reparti sudafricani arrivarono a Pistoia, che era ancora sotto il fuoco delle artiglierie tedesche stanziate sugli appennini. Il fronte avanzato della Linea Gotica – Castello di Cireglio, il passo della Collina e Femminamorta – era in grado di tenere sotto tiro la piana. I tedeschi nell’approntarlo non si risparmiarono la distruzione di paesi e tratti di bosco, per avere visuale o per bloccare le strade. Questa sorte toccò a Cireglio (14 luglio) e a Croce a Uzzo. Il viadotto di Piteccio, paese già distrutto dai bombardamenti Alleati, fu fatto saltare dai tedeschi il 24 luglio. Nei pressi del ponte alla Svolte, sopra la valle della Brana, fu sistemato un cannone montato su materiale ferroviario che veniva riparato all’interno di una galleria della ferrovia e in grado di colpire la città.

alleati in piazza del duomo pistoiaIntorno al 10 di settembre la Liberazione delle zone di pianura era cosa fatta, si cominciava a risalire gli appennini. Cominciava l’esperienza di retrovia del fronte che si prolungò fino all’aprile ’45. Frattanto, l’11 settembre si toccava Marliana e si cominciava la scalata dell’appennino anche da Candeglia, scontrandosi con i tedeschi a Valdibure. Un primo tentativo di gettare un ponte sull’Ombrone a nord di Pistoia falliva. Scontri avvenivano all’inizio dell’appennino appena sopra Pistoia, intorno a Villa Philipson e alla torre di Catilina. Il 13 settembre i britannici riuscivano ad arrivare a Piazza e il 14 a Tobbiana. Ancora al 18 settembre i tedeschi erano in grado di colpire con i cannoni i ponti sull’Ombrone, come avvenne a Calcaiola. Serra fu presa il 22 e Femminamorta il 24. Il 26 era la volta del passo della Collina, Pracchia e San Marcello, mentre Maresca e Campotizzoro, sede della SMI, erano state liberate dai partigiani il 22. Il 1° ottobre gli americani arrivavano a Cutigliano e Piteglio. La zone più alte dell’Abetone e Pianosinatico rimasero invece in mano ai tedeschi. Il fronte si fermava.

I CLN si occuparono di gestire la transizione. A Pistoia l’AMG si insediò solo il 24 settembre,. Nella relazione del Comitato troviamo: «in questo lasso di tempo il CLN, che aveva funzioni di Governo, provvide alla riorganizzazione delle amministrazioni locali, attuandola nel rispetto del fondamentale canone democratico: la separazione dei poteri. La magistratura entrò immediatamente in funzione con la più completa indipendenza. La Giunta Comunale agì nella sua sfera con la massima autonomia, per quanto fosse espressione del CLN, e così la Deputazione provinciale. Tutti gli Enti Pubblici, dalla Questura alle Guardie di Finanza e i Carabinieri, dall’Intendenza di Finanza e il Consorzio Agrario e alla SEPRAL, dalla Camera di Commercio all’Ospedale, alla Camera del Lavoro, al Provveditorato agli studi, ripresero la loro normale attività». Le attività dei CLN continuarono nei mesi successivi, non solo a Pistoia ma anche in molti comuni, avviando la fase di transizione alla democrazia.

Stefano Bartolini è ricercatore presso l’Istituto storico della Resistenza e dell’età contemporanea di Pistoia e coordina le attività di ricerca storica, archivistiche e bibliotecarie della Fondazione Valore Lavoro. Ha partecipato al recupero dell’archivio Andrea Devoto ed attualmente si occupa di storia sociale, del lavoro e del sindacato. Tra le sue pubblicazioni: Fascismo antislavo. Il tentativo di bonifica etnica al confine nord orientale; Una passione violenta. Storia dello squadrismo fascista a Pistoia 1919-1923; Vivere nel call center, in La lotta perfetta. 102 giorni all’Answers.

Articolo pubblicato nel settembre 2014.




La liberazione di Pisa, 2 settembre 1944

«S’accompagnarono l’ameriani noi fino a Ripafratta, poi a Ripafratta si girò e si andò diretti a Pisa, a Pisa si andò a Piazza del Duomo e ameriani non c’era nessuno, i primi […] s’arrivò prima noi e poi arrivarono l’ameriani. […] A Pisa non erano ancora entrati». Questa è la testimonianza di Duilio Cordoni, allora diciassettenne partigiano della formazione “Nevilio Casarosa”, su ciò che successe il giorno della liberazione di Pisa, il 2 settembre 1944. Il brano è tratto da un colloquio che ho avuto la scorsa estate presso la sua abitazione, per la preparazione di un libro sulla guerra a San Giuliano Terme.

A distanza di tanti anni da quel periodo, il racconto di Cordoni ripropone un preciso intento polemico, che nel corso dell’intervista è emerso in maniera esplicita: smentire una versione dei fatti che vuole che furono invece gli Alleati ad arrivare per primi sotto la torre, seguiti solo in un secondo momento dalle forze organizzate della Resistenza. Dietro alla contesa sul primato dell’arrivo in città, questione che in sé rivestirebbe un interesse marginale, c’è in gioco la discussione sul ruolo che i partigiani e il CLN locale ebbero in occasione della liberazione di Pisa. Al momento dell’arrivo degli Alleati quali erano a livello locale le forze organizzate che potevano credibilmente rivendicare il ruolo di interlocutori privilegiati per la costruzione di una Pisa non più fascista?

Il problema è certamente complesso e per affrontarlo correttamente sarebbe necessaria una riflessione ben più articolata. Proviamo però a fornire rapidamente una fotografia della condizione in cui si trovavano le strutture della Resistenza nella fase finale dello stallo del fronte sul fiume Arno, nella seconda metà dell’agosto 1944, settanta anni fa.

 La “Nevilio Casarosa” si era disarticolata dopo l’attacco a sorpresa dei tedeschi al campo base, all’alba del 10 agosto 1944: i suoi componenti si erano dispersi in vari gruppi, senza più un’organizzazione paragonabile a quella avuta in precedenza. L’obiettivo immediato dei partigiani divenne la mera sopravvivenza, in primo luogo evitare di cadere nuovamente nei rastrellamenti tedeschi, come quello condotto il 24 agosto 1944 dalla 16ª Divisione SS sul monte Faeta: a partire dal versante lucchese, con l’aiuto di alcuni italiani della Brigata Nera “Mussolini” forniti di mascherine per coprire il volto e giacche mimetiche tedesche, una cinquantina di militari perlustrarono le baracche degli sfollati, fucilarono una decina di sospetti e arrestarono una sessantina di uomini. Proprio in una di quelle baracche, in località San Pantaleone, la moglie del comandante della Casarosa Ilio Cecchini stava dando alla luce una figlia, mentre intorno «si avvertivano spari e raffiche sempre più frequenti e grida»: lo stesso Cecchini «aveva lasciato la formazione partigiana nella notte sperando di poter assistere alla nascita della nostra creatura ma le urla disperate della gente terrorizzata per la cattura dei loro uomini e l’avvicinarsi degli spari lo indussero a lasciarci improvvisamente» (le citazioni sono prese da un dattiloscritto redatto dalla stessa moglie di Cecchini, Anna Maria, conservato presso l’archivio familiare).

artigiani pisa

Addestramento della formazione “Nevilio Casarosa”. Luigi Salani detto “il Biondo” in primo piano con la pistola, a destra Uliano Martini. (Proprietà Adriana Salani)

Se sul Monte Pisano dunque la situazione era drammatica, in condizioni non migliori si trovava la cittá di Pisa, dove poche migliaia di abitanti si erano concentrate nelle case tra il Duomo e Porta a Lucca, intorno all’Ospedale Santa Chiara e all’Arcivescovado, le uniche strutture che riuscirono con enormi sforzi a offrire un minimo di assistenza a una popolazione stremata. Qui faceva quotidianamente la spola con il Comando Tedesco il responsabile dell’amministrazione comunale di Pisa, il cattolico antifascista Mario Gattai, nominato dopo la fuga del prefetto alla fine di giugno dal vice prefetto, di comune accordo con l’arcivescovo Gabriele Vettori. Mentre Gattai cercava disperatamente di organizzare un comitato di alimentazione efficiente e provava a trattare con i nazisti per permettere un minimo di agibilitá alla vita in cittá, i rapporti con l’organizzazione antifascista clandestina guidata dai comunisti non erano semplici. Nelle pagine del suo diario, Gattai scriveva il 16 agosto 1944: «non sono nemmeno in contatto con quelli del Comitato di Liberazione; non già perché io non voglia, ma perché questi illustri anonimi che vivono nelle cantine non hanno sentito la necessità di farsi avanti. […] Mi sento sempre più solo ad affrontare la situazione». Pochi giorni dopo, il 23 agosto, un giornale clandestino antifascita – probabilmente redatto dai comunisti – lo accusò di essere responsabile delle deportazioni degli uomini avvenute in quei giorni, proprio per i suoi contatti continui con il Comando tedesco. Lo sfogo di Gattai diventava qui virulento: «la redazione del foglio deve stare in una cantina, ove non batte il sole e ove i trogloditi che la abitano ignorano che i tedeschi hanno il potere di prendere uomini e donne e chi vogliono e cosa vogliono, e che se non ci fossi io – con l’aiuto di alcuni sacerdoti e dei pochi miei compagni di lavoro – ad attutire con molta politica e molta fatica le loro prepotenze e a pensare ai bisogni della popolazione, questa avrebbe dovuto soffrire ben più di quanto ha sofferto finora. Fuori dalle cantine, prendetevi il vostro lavoro e la vostra responsabilità e poi parlate!».

 Credo che si possa affermare che la fine di agosto segnò da molti punti di vista il momento più difficile nella vita della città di Pisa, non ultimo per la confusione politica in un contesto in cui i margini di azione non andavano oltre il tentativo di sopravvivere. Chi ebbe le idee più chiare a proposito furono i responsabili regionali del partito comunista in clandestinità. Il gappista fiorentino Alvo Fontani riferì ai militanti pisani le direttive impartite dal centro regionale in vista dell’arrivo degli Alleati: «fare il possibile per affermare comunque una presenza della resistenza alla liberazione di Pisa, facendo di tutto per evitare uno scontro con le truppe di copertura della ritirata tedesca». In città però non erano presenti gruppi capaci di svolgere questo compito; era necessario quindi rivolgersi ai partigiani che stavano sul Monte Pisano e «chiedere che almeno cinquanta o sessanta […] si preparino e siano pronti al momento opportuno a marciare su Pisa». Fontani si trasferì sui monti insieme a Ruggero Parenti, responsabile della federazione comunista di Pisa, «sotto una tenda, in una posizione che ci permette, per quanto possibile, di controllare almeno parzialmente la situazione» (le citazioni sono tratte dalle memorie di Fontani). I giorni seguenti furono impiegati per organizzarsi in vista del momento della liberazione.

La mattina del 2 settembre, una volta iniziato l’attraversamento dell’Arno all’altezza di Cascina da parte delle truppe angloamericane, i partigiani inquadrati da Fontani e Parenti scesero dal Monte: alcuni, tra cui Duilio Cordoni, guidarono i soldati alleati in un territorio ormai abbandonato dai tedeschi verso Ripafratta, altri proseguirono su Pisa, dove attesero con pazienza l’allontanamento delle ultime squadre di occupanti. Quando poi arrivò il grosso delle truppe alleate, nel pomeriggio del 2, la Prefettura, la Questura e il Palazzo del Comune erano già nelle mani del Cln di Pisa e dei partigiani. Molti di loro in seguito si arruolarono nelle truppe di liberazione, all’interno del Corpo di Volontari della Libertà, e continuarono la guerra verso Nord. Solo allora si poterono ricomporre le forze di chi aveva scelto il compito della organizzazione clandestina armata e chi invece si era votato alla missione di assistere la popolazione, che poco avevano comunicato nei giorni precedenti. Questo dualismo fu riconosciuto e formalizzato nella prima Giunta comunale nominata dagli Alleati, che ebbe come sindaco Italo Bargagna, comunista partigiano, e come vicesindaco proprio Mario Gattai.

Articolo pubblicato nell’agosto 2014.




Arte sotto le macerie. La storia del Tabernacolo del Mercatale

Sepolto sotto le macerie, disintegrato da quelle maledette bombe che il 7 marzo 1944 piovvero su Prato. Era ridotto in mille brandelli, un’offesa alla memoria storica collettiva, pallida ombra di quell’affresco che il Vasari descriveva come «colorito con tanta freschezza e vivacità che merita per ciò essere lodato infinitamente». 

É una storia di ricostruzione, coraggio e speranza quella racchiusa nel Tabernacolo del Mercatale di Filippo Lippi, celebrato nei secoli come una delle meraviglie di Prato e bombardato dall’aviazione alleata.
Non potremmo oggi ammirarlo tra le sale del Museo di Palazzo Pretorio, recentemente riaperto dopo un lungo intervento di restauro, se non fosse stato per il coraggio del restauratore Leonetto Tintori che a quel tabernacolo ridotto a mille pezzi, raffigurazione della Madonna con il bambino insieme ai santi Antonio Abate e Margherita, Santo Stefano e santa Caterina d’Alessandria, restituì una vita. Sull’opera Leonetto aveva già messo le mani, riparandolo dai danni prodotti da un camion.
esterni palazzo pretorioStavolta però si trattava di riparare l’irreparabile: c’era da ricostruire quasi ex novo un capolavoro. Armandosi di coraggio e pazienza, il restauratore si recò dalle autorità tedesche ottenendo l’autorizzazione a procedere nel restauro mentre trovò la porta chiusa del commissario prefettizio il cui primo pensiero, di fronte a una città devastata dalle bombe, poteva essere tutto fuorché l’arte. «Ho tante cose a cui pensare, levati di torno!», furono le parole con cui Leonetto venne liquidato. Ma il Tintori decise comunque di tentare l’impresa: i frammenti più piccoli vennero riposti in vasi da marmellata con la sabbia per essere protetti dagli urti.
Lo aiuterà un altro maestro destinato a farsi strada nell’arte del restauro, Giuseppe Rosi: dall’opera a quattro mani iniziò a riemergere il “Filippino”, come veniva affettuosamente chiamato da Tintori il tabernacolo che sotto l’immagine centrale riporta lo stemma dei Tieri, committenti dell’opera.
Rimettere in piedi quel capolavoro non fu un’impresa facile: Tintori, che all’epoca era già un maestro di restauro affermato, prese più volte contatti con le università di New York e di Harvard che lo avrebbero più volte aiutato, anche economicamente, nelle sue ricerche scientifiche.
Il Tabernacolo ricostruito e ricomposto nella vivacità dei suoi colori oggi risplende al primo piano di Palazzo Pretorio e fa parte della collezione permanente del Museo, insieme ad altri capolavori di Filippo Lippi e dello stesso Filippino.

Articolo pubblicato nell’agosto 2014.




La strage della famiglia Einstein

Il 3 agosto 1944 la famiglia di Robert Einstein, cugino del più famoso Albert, fu oggetto di un atroce massacro ad opera di soldati della Wehrmacht presso Villa il Focardo a Rignano Valdarno. Robert e Albert Einstein erano cugini per parte paterna; i due ragazzi avevano trascorso l’infanzia insieme prima in Germania e poi in Italia. Le loro strade si separeranno poi. Albert  diventerà un fisico di fama mondiale, Robert inizierà gli studi di ingegneria.

Robert Einstein aveva sposato Cesarina (Nina) nel  1913. La coppia aveva due figli: Luce nata nel 1917 e Annamaria nel 1927. Dopo una parentesi a Roma la famiglia si era trasferita a Villa il  Focardo fra Rignano e San Donato. La loro è una famiglia relativamente benestante. Possiedono anche un’abitazione in Corso Tintori a Firenze, dove risiedono nel periodo invernale. Annamaria e le cugine frequentano il liceo Michelangiolo, mentre Luce è iscritta alla facoltà di medicina. La villa del Focardo è meta di frequenti visite. Gli Einstein sono molto conosciuti e al Focardo sono spesso ospiti personalità eminenti : il pastore valdese Vinay, e poi pittori, docenti universitari, ma anche personalità legate alla resistenza.

Strage FocardoEppure questa vita serena e agiata viene ben presto sconvolta dall’8 settembre 1943 e dall’occupazione tedesca. Il piano superiore della villa viene sequestrato per gli ufficiali della Wehrmacht mentre le truppe si sistemano intorno alla fattoria. Ancora nessuno sembra in pericolo, ma il pastore Vinay inizia a preoccuparsi per Robert, di note origini ebree. Robert non solo è ebreo. Ma è anche il cugino di Albert che all’insorgere del nazismo ha lasciato la Germania e che con la sua fama e il suo prestigio mondiale è la smentita più evidente alle teorie razziste di Hitler. Alla fine Robert si convince anch’egli del pericolo e decide di rifugiarsi nei boschi. Riesce così a salvarsi da quel tragico 3 agosto 1944 in cui un comando nazista si reca al Focardo. Sembra chieda di Robert senza trovarlo. Viene inscenato un processo farsa e i in pochi attimi i mitra tedeschi si abbattono sulla moglie e le due figlie. Vengono risparmiate  due gemelle e una terza cugina loro ospiti in quei giorni. A salvarle sono i cognomi diversi: Mazzetti e Bellavite. Come scriverà poi una di queste, Lorenza Mazzetti, nella dedica al suo racconto autobiografico “Il cielo cade”: Questo libro vuole descrivere la gioia e l’allegria che quella famiglia mi ha dato nella mia infanzia, accogliendomi come “uguale”, mentre sono stata “uguale” a loro nella gioia e “diversa” al momento della morte. Nel giardino esterno viene lasciato un biglietto. Recita “Abbiamo giustiziato i componenti della famiglia Einstein, rei di tradimento e giudei”. La villa viene data alle fiamme. Robert dal suo rifugio fra i boschi vede alzarsi una colonna di fumo proveniente dal Focardo. Corre verso il luogo della strage, ma ormai non può fare più niente.

Nei giorni immediatamente successivi sul luogo del delitto arriva, incaricato delle indagini, il maggiore della V armata statunitense Milton Wexler. È stato un allievo del grande fisico Albert Einstein che è molto preoccupato per la famiglia del cugino. Vorrebbe poterlo rincuorare. A lui invece tocca informare il suo ex professore della tragedia. Dei risultati delle indagini americane si è persa ogni traccia. Così come sono rimasti ignoti gli esecutori del delitto. Solo nei primi anni 2000, dopo le ricerche dello storico Carlo Gentile sulle truppe di stanza nella zona in quei giorni, si è iniziato ad avere un’idea più precisa sui possibili responsabili della strage. Le ultime ricerche di Gentile hanno capovolto quanto si era creduto circa le responsabilità della strage:  ad uccidere non furono reparti delle SS, ma uomini appartenenti al comando di un’unità della Wehrmacht, l’esercito regolare tedesco, verosimilmente la quindicesima divisione del 104° Reggimento di granatieri corazzati.  Al momento non è emersa nessuna prova definitiva per capire se l’omicidio delle tre donne abbia a che vedere con una vendetta personale nei confronti di Albert Einstein o sia stato un delitto a sfondo razzista. Anche il biglietto lasciato sul luogo della tragedia “Abbiamo giustiziato i componenti della famiglia Einstein, rei di tradimento e giudei” lascia aperti più dubbi. È scritto in perfetto italiano. I tedeschi avevano con loro un interprete o qualcuno che conosceva bene l’italiano? Oppure quel biglietto non è stato scritto dai soldati tedeschi?

Tomba EinsteinAltrettanto tragico è purtroppo l’epilogo di Robert Einstein. L’anno successivo,distrutto dal dolore, ritorna sui resti del Focardo e si suicida inghiottendo del veleno. Decide di farlo un giorno particolare: il 13 luglio 1945, la data del suo anniversario di matrimonio. Riposa adesso nel cimitero della Badiuzza di Rignano insieme ai suoi cari. Ai piedi della stele funebre in  tubi  di acciaio disegnata dagli allievi della Scuola d’ Arte di Porta Romana a Firenze che il comune di Rignano ha loro dedicato.

 

Articolo pubblicato nell’agosto 2014.




Determinate e coraggiose: le donne versiliesi, vere protagoniste dello sfollamento

Quando le ordinanze di sfollamento colpirono la Versilia, nell’estate del 1944, le condizioni di vita della popolazione civile subirono un brusco peggioramento.

Fin dall’autunno del ’43, le autorità della RSI, desiderose di ricostituire un forte esercito nazionale, avevano avviato coscrizioni sempre più «totalitarie»: questa minaccia, sommata a quella imprevedibile dei rastrellamenti nazisti, consigliava ai maschi in età di leva di rimanere il più possibile nascosti, senza dare nell’occhio. Così, mentre per gli uomini le possibilità di movimento si restringevano ogni giorno di più, le donne, oltre a svolgere gli incarichi loro affidati dalla “tradizione”, dovettero accollarsi tutta una serie di incombenze nuove e gravose, solitamente “di competenza” maschile, come il rapporto con le autorità, il procacciamento del cibo e la difesa della famiglia in situazioni di pericolo.

Nonostante le ordinanze nazifasciste, che prevedevano l’evacuazione delle popolazioni civili verso l’Emilia, i versiliesi erano ben determinati a non abbandonare le proprie terre, per ragioni sia pratiche che affettive: correndo i rischi più gravi, cercarono rifugio nei recessi più remoti delle Apuane, presso amici, parenti, più spesso in alloggi di fortuna.

Nel corso dell’estate del ’44, con l’economia paralizzata e gli esercizi commerciali chiusi, abolite anche le già scarse razioni delle tessere annonarie di Mussolini, il problema alimentare si fece ogni giorno più pressante, fino a trasformarsi nel principale incubo degli sfollati. Ancora una volta, sfidando i gendarmi tedeschi e gli aerei alleati, spesso percorrendo a piedi distanze impensabili – giunsero perfino in Garfagnana e nel Parmense -, furono le donne ad effettuare frequenti ritorni alle proprietà abbandonate, tentando di reperire quel poco di frutta o verdura per i figli e i mariti lasciati in montagna, sempre che la fame dei soldati nazisti, dei partigiani, o, più di frequente, di altri sfollati nelle medesime condizioni, avesse risparmiato qualcosa.

Così per esempio fu per la famiglia di Mariella Barsottini, che nel 1944 aveva sette anni. Assieme ai genitori e al fratello più grande, Mario, abitava nel paesino di Strettoia, nel comune di Pietrasanta (Lu), un borgo agricolo posto proprio a ridosso delle alture dominanti la piana versiliese, in un’area di grande rilevanza strategica per i piani di fortificazione militare dell’Orgnizzazione Todt. Quando furono raggiunti dall’ordine di evacuazione, i Barsottini scelsero di dirigersi verso sud, per «andare incontro agli americani». Dopo una breve sosta nel paese di Valdicastello (Pietrasanta, Lu), in quei giorni vero e proprio crocevia per tutti gli sfollati versiliesi, la famiglia decise di seguire il consiglio di diversi compaesani e di puntare su Marina di Pisa (Pi), considerata una cittadina sufficientemente lontana dai pericoli della Linea Gotica. Nelle settimane successive, nonostante la grande distanza dal paese d’origine, la madre di Mariella, Rina, donna coraggiosa e intraprendente, pur di riuscire a recuperare qualcosa da mangiare per figli e marito, non esitò a tornare periodicamente ai propri terreni, sfidando i posti di blocco e correndo i mille pericoli del passaggio del fronte.

Ecco come Mariella rievoca oggi il ruolo delle donne nei duri mesi dello sfollamento:

Una cosa bella che facevano le donne, perché per gli uomini era troppo pericoloso, era quella di cercar di ritornare a Strettoia per prendere qualcosa da mangiare, perché là avevano lasciato tante cose, tutto! E allora, c’era chi cercava di riprendere la patata, chi recuperava il vino, l’olio, però, sempre col rischio di essere ammazzati. Anche la mia mamma lo fece, da Marina di Pisa. Due volte.

in viaggio verso la garfagnanana in cerca di ciboNei lunghi mesi dello sfollamento, poi, particolarmente complesso si rivelò il procacciamento del sale, genere indispensabile alla dieta, divenuto introvabile sul mercato già dalla primavera del ’44: agli sfollati versiliesi, non rimase altra scelta che ricavarlo dall’acqua di mare. In vista dell’avanzata alleata, tuttavia, l’Organizzazione Todt aveva provveduto a minare l’intera fascia costiera versiliese, lasciando sgombero dagli ordigni soltanto un unico, stretto corridoio di spiaggia presso la foce del fiume Versilia, vicino alle fortificazioni del Cinquale. Data la rilevanza strategica dell’area, il posto pullulava di soldati tedeschi: nessun uomo si sarebbe mai sognato di andarci. Nei mesi dello sfollamento, infatti, proprio in questo punto si snodava ogni giorno una lunga coda di donne composte e silenziose, in attesa del proprio turno per poter raccogliere in una secchia qualche litro d’acqua di mare. Una volta portatala ai monti, se fossero riuscite a passare indenni gli sbarramenti germanici, l’avrebbero fatta bollire o evaporare in un lattone, ricavandone, forse, un preziosissimo pugno di sale grezzo.

Le donne dovettero infine affrontare il difficile compito della protezione dei familiari in caso di rastrellamenti nazisti. Sui villaggi della montagna versiliese, le SS piombavano all’improvviso, rivoltando ogni centimetro degli alloggi, in cerca di uomini e ragazzi da portar via. In un clima di puro terrore, spesso con figli e mariti nascosti in soffitta o appena sotto le assi del pavimento, ancora una volta stava alle donne riuscire a dissuadere i soldati dal compiere ricerche più approfondite, ricorrendo a tutti i diversivi e le doti mimiche del caso, pur di riuscire a salvare le vite dei propri cari. Naturalmente, gli sforzi potevano benissimo risultare vani, e costare anche la vita.

Maria Antonia Quadrelli, nel 1944, aveva tredici anni. Quando giunse l’ordine di sfollamento, dovette abbandonare la sua abitazione delle Prade (Seravezza, Lu), e sfollare, assieme alla madre, alla zia e ai suoi cinque fratelli, nel villaggio montano di San Carlo Po, all’epoca nel comune di Apuania. Ancora oggi, l’anziana signora ricorda bene le drammatiche incursioni notturne delle SS, che penetravano con la forza nelle case in cerca di uomini da rastrellare (la sua vivida testimonianza è consultabile fra i “Materiali collegati”).

A buon diritto, dunque, è lecito affermare che le vere protagoniste dello sfollamento in Versilia furono le donne, che si rivelarono infatti scaltre e coraggiose, ben determinate ad “agire nel mondo” per difendere la vita e la sopravvivenza delle proprie famiglie e delle proprie comunità.

Federico Bertozzi, laureato in storia contemporanea presso l’Università di Pisa, si occupa di storia della seconda guerra mondiale, con particolare attenzione alle esperienze dei civili in guerra e alla raccolta delle loro memorie. Recentemente ha  pubblicato per Pezzini editore, “Attaccarono i fogli: si doveva sfollà!” – Indagine storico-antropologica sull’esperienza dello sfollamento in Versilia nella Seconda Guerra Mondiale. 

Articolo pubblicato nell’agosto 2014.