Dalle trincee ai corridoi del manicomio

I corridoi e le stanze del Frenocomio San Girolamo di Volterra si riempirono, tra il 1916 e il 1919, di individui silenziosi, allucinati, amnesici, eccitati, alcolisti, dementi precoci, isterici, malati con sintomi strani (che includevano possessioni demoniache, regressioni all’infanzia, deliri), traumatizzati. Era la tormentata umanità dei soldati che avevano manifestato al fronte dei disturbi mentali in seguito a episodi traumatici o a causa del surmenage emotivo della guerra.

Le presenze di ricoverati registrate al Frenocomio di Volterra negli anni della Grande Guerra aumentarono vertiginosamente: in particolare nel 1918 i malati arrivarono a raddoppiare rispetto a quelli del 1915. L’Istituto volterrano, al pari degli altri istituti italiani mobilitati per la guerra, si inserì nel contesto dell’emergenza bellica delle nevrosi, fungendo da luogo di transito e smistamento dei soldati che avevano ricevuto una diagnosi psichiatrica al fronte: una volta riconosciuti malati di mente i soldati avevano davanti a sé due vie, essere rimandati al fronte o essere internati nelle strutture manicomiali italiane. Nel primo caso i soldati venivano sottoposti a cure di scarso effetto o anche dolorose come l’elettroterapia, per smascherare i numerosi simulatori o cercare di eliminare i disturbi psichici. In seguito alla riorganizzazione della macchina bellica post-Caporetto, nel gennaio 1918, fu creato il Centro di Prima Raccolta a Reggio Emilia, un centro diagnostico dove i medici decidevano se rispedire il malato al fronte o rinchiuderlo in manicomio. I soldati iniziavano allora un viaggio a scendere la penisola, ricoverati per brevi periodi in varie strutture psichiatriche: la meta finale di questo viaggio era l’ospedale psichiatrico della loro provincia d’origine, vicino alle famiglie. A Volterra i soldati, provenienti da ospedaletti da campo sul fronte, da istituti del Nord Italia o dal Centro di Prima Raccolta di Reggio Emilia, venivano ricoverati per brevi periodi, spesso senza neanche venire sottoposti ad una vera e propria terapia o a visite mediche, per poi essere mandati nel manicomio della loro provincia d’origine.

Il tema del legame tra guerra e follia era emerso insieme alla guerra moderna. Nei conflitti Russo- Giapponese, durante la guerra civile americana, si era osservata una moltiplicazione dei disturbi mentali legati agli eventi bellici. Alcuni storici, come Antonio Gibelli, interpretano questo fatto come una conseguenza della realtà alienante della guerra moderna, con la sua organizzazione da officina, l’utilizzo massiccio di nuove e sempre più distruttive armi, la concezione spersonalizzante dei soldati visti come meri ingranaggi della macchina bellica. La Grande Guerra rappresentò una cesura per la scienza psichiatrica, pesantemente ancorata alle convinzioni ottocentesche di organicismo ed ereditarietà nei disturbi.

Soldato ricoverato al S. ServoloMa torniamo nelle stanze sovraffollate del frenocomio volterrano durante la Grande Guerra. Il caso di C.B., soldato del 105° battaglione M. T., può esserci d’aiuto per comprendere un aspetto del rapporto medico-paziente durante la Grande Guerra. Il soldato fu ricoverato al S. Girolamo per i sintomi di un sordo-mutismo di origine isterica: questo ispirò nei medici un sentimento di ripulsa e disprezzo, come si può leggere persino nella cartella clinica. L’isteria, da secoli ritenuta una malattia esclusivamente femminile, veniva adesso riscontrata nell’ideale virile del guerriero: per questo molte volte i sintomi isterici venivano associati ad altre malattie o ignorati, mentre nei casi diagnosi isterica gli psichiatri osservavano con sdegno o con frustrante perplessità al crollare delle loro convinzioni. Stesso disarmato atteggiamento dei medici nell’osservare pazienti come L.G., ricoverato al S. Girolamo nel ’17, convinto di vedere diavoli e di esserne posseduto lui stesso, tanto da tentare di aprirsi la pancia per far uscire gli spiriti maligni: sin dal Medioevo le possessioni demoniache riguardavano soprattutto le donne. Come interpretare allora queste visioni nei virili soldati, così comuni in tutto l’esercito?

La Grande Guerra rappresentò un laboratorio per la scienza psichiatrica, poiché venivano velocemente demolite molte convinzioni ottocentesche. Nelle cartelle cliniche, soprattutto nei primi anni di guerra, si può trovare una ricerca ossessiva delle tare ereditarie del paziente o di predisposizioni organiche a sviluppare malattie mentali, spesso ignorando o dando poco peso ai traumi ricevuti in trincea; nell’intensa discussione tra gli psichiatri, che avveniva in tutti i Paesi coinvolti nel conflitto, assunse sempre più peso – anche se la questione rimase dibattuta – il trauma bellico come causa di molti disturbi. A Volterra, tra il 1918 e il ’19, i soldati, qualsiasi sintomo presentassero, venivano ammessi con la diagnosi di Demenza Precoce: un fatto che può essere interpretato come un gesto di resa dei medici di fronte all’impossibilità di penetrare i segreti delle nuove psicosi. Del resto gli psichiatri, che sin dal XIX secolo avevano dato il via ad un processo di istituzionalizzazione, di avvicinamento ai centri del potere statale e che sin dalla guerra in Libia avevano una presenza capillare all’interno dell’esercito, nel clima della mobilitazione generale si comportavano spesso più da soldati che da uomini di scienza, cercando di curare i malati per rispedirli a combattere.

In sede storiografica i disturbi psichici legati alla guerra sono stati visti come una fuga dall’incubo delle  trincee: tuttavia essi possono anche essere intesi come un riemergere in forma morbosa del proprio io sepolto dal nuovo status di soldato. È il caso, ad esempio di B.G., muratore romano ricoverato a Volterra nel 1918 che presentava un delirio allucinatorio in cui pensava di vedere il fratellino correre nei corridoi del manicomio, facendo arrabbiare la madre. La regressione infantile era diffusa tra i soldati, i quali tornavano alla condizione primaria dell’essere umano, quella del fanciullo. Altro modo molto diffuso di imporre il proprio essere e di ribellarsi allo stato di soldato era quello di spogliarsi della divisa: T.C. e M.A. prima di essere ricoverati a Volterra vennero trovati a correre nudi per le vie dei paesi vicino al fronte; non si erano solo spogliati del simbolo di un’identità imposta, ma avevano portato alla luce la parte più pura di sé, il proprio corpo. Oppure il caso del geniere P.D., molto legato alla moglie, il quale era affetto da allucinazioni e deliri di grandezza e gelosia che si esprimevano in una logorrea ininterrotta in cui insultava la moglie che vedeva tradirlo con i suoi superiori – spesso indicati come i veri nemici dei soldati – e in cui si vantava di possedere terre e bestiame: P.D.  trasformava quindi il suo amore per la moglie in una gelosia morbosa, mentre il delirio di grandezza celava la sua condizione subalterna nel suo paesino aquilano.

Infine occorre accennare ai moltissimi soldati ricoverati al S. Girolamo che si presentavano ostinatamente muti e silenziosi: la quiete della malattia era un’arma per combattere il fragore della guerra e tentare di riappropriarsi – follemente – di una tranquillità che era ormai perduta.

Marco Gualersi nel 2008 si è laureato a Pisa in Storia e civiltà con una tesi dal titolo “La follia e la Grande Guerra. Il caso del frenocomio di S. Girolamo di Volterra”. Collaboratore della Fondazione Memorie Cooperative, per la quale ha curato i volumi “Custodire il futuro. L’Archivio Storico di Unicoop Tirreno” (insieme ad Antonella Ghisaura ed Enrico Mannari) edito nel 2011 da Mind, e “Un’isola cooperativa. Cent’anni di cooperazione a Castagneto Carducci” (Bruno Mondadori, 2014).

Articolo pubblicato nel febbraio del 2015.




Una tragedia (quasi) dimenticata

“Mamma ti voglio bene ritornerò. Vaiano. 1922. D.M.”

Queste poche criptiche parole incise su una gavetta rimasta impigliata nelle reti di pescatori greci negli anni ‘80 sono il primo, casuale, tassello di una grande storia dimenticata che la Fondazione CDSE e il Comune di Vaiano (Po) hanno contribuito a far riemergere e approfondire. Tutto iniziò (per il CDSE) con una telefonata dalla Puglia, era l’ottobre 2011: il Comune di Surbo (Le) contattava quello di Vaiano per chiedere notizie, cercare agganci in merito a poche frasi sconnesse incise su una gavetta ripescata in fondo al Mar Egeo. Il quadro che si prospetta appare drammatico, ma allo stesso tempo interessante: deportazioni tedesche, un naufragio, 4200 soldati italiani dispersi, una tragedia dimenticata… con grande impegno e passione si inizia la ricerca nei registri delle anagrafi e qualcosa viene trovato. Un nome, un ragazzo: all’atto n° 24 si scopre un aggancio, D.M. Dino Menicacci, nato a Vaiano il 27 febbraio 1922 e disperso in Mar Egeo l’11 febbraio 1944. Dopo quasi settant’anni la gavetta sommersa ritrova il suo soldato. La Fondazione CDSE inizia a fare le prime ricerche documentarie e d’archivio: si richiede il foglio matricolare e caratteristico al CEDOC, si contattano i discendenti del soldato ancora residenti sul territorio e si riesce a ricostruire una storia, sconosciuta anche ai familiari stessi: Dino Menicacci, 22 anni, è tra le circa 4200 vittime del naufragio del Piroscafo Oria, affondato a largo di Capo Sounion (Atene) in una notte di febbraio del 1944.

Ma cosa accadde precisamente tra l’11 e il 12 febbraio 1944? E perché questo, che è probabilmente il più grande disastro navale (bellico) mai avvenuto nel Mediterraneo, risulta essere un capitolo di storia poco conosciuto?

fam andreozzi12 febbraio 1944. È notte a largo delle coste di Rodi, il vecchio piroscafo Oria, stipato con oltre 4000 soldati italiani destinati alla deportazione in Germania, arranca nel mare in tempesta. Il mercantile norvegese, varato nel 1920 e requisito dai tedeschi all’inizio della guerra, era salpato dal porto di Rodi verso le 17,40 dell’11 febbraio 1944 con destinazione il Pireo, Atene. Sul piroscafo, oltre a un carico di bidoni di olio minerale e di gomme da camion, sono imbarcati oltre 4000 soldati italiani che dopo l’8 settembre 43 si erano rifiutati di aderire alla Repubblica di Salò e per questo erano stati rinchiusi in vari campi di lavoro e definiti IMI, internati militari italiani. Non “prigionieri”, ma IMI: la Germania hitleriana non poteva considerare prigionieri i militari in uniforme appartenenti ad una nazione che, formalmente, era ancora sua alleata (Mussolini era a capo della Repubblica Sociale Italiana nel Nord Italia). In più, la definizione di “Internati” permetteva di aggirare la Convenzione di Ginevra e rendeva difficile, se non addirittura impossibile che la Croce Rossa si potesse interessare di quei detenuti, che si trovarono così abbandonati alla mercé della Germania nazista. Questi soldati (secondo le stime dello Stato Maggiore Italiano i militari presenti a Rodi l’8 settembre 1943 ammontavano a circa 37.500 unità), una volta disarmati, furono invitati ad arruolarsi nelle divisioni dell’RSI: questa scelta poteva significare non solo avere salva la vita, ma anche tornare in patria e lì riscrivere il proprio destino; da un’iniziale adesione alla RSI, molti poi disertarono e salirono in montagna con la Resistenza antifascista. Fatto sta che la stragrande maggioranza degli IMI scelse consapevolmente di non aderire alla RSI, sminuendo ulteriormente agli occhi dei nazisti lo stato fantoccio di Mussolini e dando un fermo segnale dal forte valore antifascista.

piroscafo_oriaIl prolungarsi della guerra e l’acuirsi delle difficoltà per la Germania nazista, resero la situazione nel Dodecaneso sempre meno gestibile per i reparti tedeschi: anche solo sfamare (poco e male) tutti gli IMI era diventata una spesa insostenibile e il rischio di rivolte aumentava di giorno in giorno. A tutto questo si aggiungeva la quotidiana e pressante richiesta da parte della madrepatria di forza lavoro coatta. È questo il contesto in cui si inserisce il naufragio dell’Oria: dal settembre 1943 una direttiva del Führer aveva annullato “tutte le norme di sicurezza relative alla limitazione numerica degli imbarcati” e ordinato di sfruttare “lo spazio al massimo, senza curarsi delle eventuali perdite”. La Kriegsmarine iniziò il trasporto degli italiani seguendo tale direttiva. Il 23 Settembre avvenne il primo disastro. I piroscafi “Donizetti” e “Dithmarschen” e la Torpediniera “TA 10” vennero affondate. Si ebbero 1.584 morti fra gli internati in massima parte dovute alle inosservanze delle norme di sicurezza. A questi disastri fecero seguito quello del piroscafo Leda con 720 morti; del piroscafo Marguerita con 544 morti; della nave da carico Sinfra con 1.850 morti; della motonave Rosselli con 1.300 morti; del motoveliero Alma con 300 morti; del piroscafo Petrella con 2.646 morti.

OriawrecksiteCome si evince da questo drammatico elenco, la vicenda dell’Oria non è l’unica tragedia che coinvolse trasporti navali di truppe italiane dirette in Germania; quello che è certo è che un incidente o un “errore di navigazione” come è stato definito quello dell’Oria, sia passato alla storia come un evento di serie B, rispetto a quelle navi che furono invece affondate o silurate, e che quindi subirono quello che il senso comune tende a definire “un vero e proprio atto di guerra”.

Questa, a grandi linee e ancora con molte lacune a distanza di 70 anni, è ciò che sappiamo in merito al naufragio dell’Oria.

Un importante passo avanti nella ricostruzione delle vicende è stato compiuto dalla rete spontanea dei familiari nata su internet (www.piroscafooria.it) e dalla mailing list che raccoglie tutti i parenti finora rintracciati e li tiene aggiornati su tutte le iniziative e i passi avanti nella ricerca che vengono fatti a livello nazionale; parallelamente anche la Regione Toscana, nell’aprile 2013,  ha appoggiato il progetto di ricerca storica che il Comune di Vaiano (PO) e la Fondazione CDSE stanno portando avanti da circa due anni. Il progetto consiste nella ricostruzione degli eventi legati al naufragio del Piroscafo Oria e nell’individuazione delle famiglie delle vittime che ancora oggi non conoscono le circostanze in cui i propri congiunti trovarono la morte nel mar Egeo nel febbraio 1944. Grazie al sostegno della Regione siamo riusciti a contattare tutti i 287 comuni toscani e ad oggi 128 di questi hanno condotto una ricerca nelle loro anagrafi, aiutandoci a rintracciare ben 30 nominativi e altrettante famiglie toscane riconducibili al naufragio dell’Oria. In occasione del 70 anniversario (9/2/2014) la municipalità greca di Saronikos (sul cui territorio costiero avvenne il naufragio) ha eretto e dedicato un monumento in memoria dei caduti dell’Oria.

Attualmente, con la collaborazione della rete informale dei parenti delle vittime, a livello nazionale il CDSE è riuscito a rintracciare le famiglie di 206 soldati italiani morti nel naufragio dell’Oria; per arrivare a 4200 la strada è ancora lunga, ma speriamo che l’impegno e i buoni risultati ottenuti dalla Regione Toscana siano da esempio anche per le altre regioni italiane.

Luisa Ciardi si è laureata in storia contemporanea all’Università di Firenze con una tesi sulla storia sociale d’impresa. Ha frequentato il master di archeologia industriale presso l’Università di Padova e attualmente lavora presso la Fondazione CDSE della Valdibisenzio e Montemurlo. Le sue ricerche spaziano dalla storia locale alla storia dell’industria, alla storia della seconda guerra mondiale, con un particolare interesse per la storia orale. è membro dal 2012 di AISO (Associazione Italiana di Storia Orale).

Tra le sue pubblicazioni si ricordano: 

Il lanificio Silvaianese. Un’azienda a misura di famiglia e di territorio (1945-1989) , Prato, Pentalinea, 2011.

La Spiga e la Spola: contadini e operai nella Vaiano degli anni ’50, in Alle origini del Comune di Vaiano (1949-1951), Catalogo della mostra, a cura di A. Cecconi, Prato, CDSE della Valdibisenzio, 2011.

I pratesi, contadini, operai, imprenditori. L’etica del lavoro a Prato nel passaggio fra agricoltura e industria, in “Microstoria. Rivista toscana di storia locale”.

Il fiuto dei Bardazzi per la lana. La famiglia vaianese e la rete di finanziamento informale alle industrie della Valle, in “Microstoria. Rivista toscana di storia locale”.

Articolo pubblicato nel febbraio 2015.




Scioperare contro Hitler: una testimonianza

All’inizio del 1944 la direzione del PCI per l’Alta Italia riunì i rappresentanti dei comitati di agitazione che avevano diretto gli scioperi del novembre-dicembre 1943 e decise di organizzare uno sciopero generale nelle regioni del triangolo industriale. L’iniziativa venne poi discussa con gli altri partiti del Comitato di liberazione nazionale dell’Alta Italia ed estesa al Veneto, all’Emilia ed alla Toscana. Alla data stabilita (1° marzo 1944) circa un milione di lavoratori entrò in lotta, dando vita al più grande movimento di massa verificatosi in Europa sotto l’occupazione nazista. Pieno di rabbia, Hitler ordinò personalmente a Rudolph Rahn, suo ambasciatore a Salò, di far deportare il 20% degli scioperanti, ed anche se «il mostruoso provvedimento non fu eseguito nella misura indicata per ‘difficoltà tecniche’ inerenti ai trasporti e per il danno che ne sarebbe derivato alla produzione bellica» (Pietro Secchia-Filippo Frassati, Storia della Resistenza, vol. I, Roma, Editori riuniti, 1965, p. 476), tuttavia settecento operai vennero deportati da Torino e varie centinaia da Milano.

In Toscana, a causa di ritardi verificatisi nella preparazione, l’agitazione cominciò il 3 marzo. A Prato lo sciopero, appoggiato da tutti i partiti antifascisti, fu preparato dal PCI nel primo bimestre del 1944. I repubblichini risposero con i rastrellamenti alla buona riuscita dell’agitazione: centotrentasette persone vennero deportate nei campi di sterminio tedeschi (Ebensee, Gusen, Hartheim, Mauthausen … ): i superstiti furono soltanto ventuno.
Tra i principali organizzatori dello sciopero vi fu Renzo Martelli, un coraggioso combattente antifascista che nel 1941 era stato arrestato e deferito al Tribunale speciale, riportando una condanna a sette anni di reclusione con sentenza del 28 aprile dell’anno successivo (su Renzo Martelli, oggi scomparso, cfr. Enciclopedia dell’antifascismo e della Resistenza, vol. III, H-M, Milano, La pietra, 1976, ad vocem). Il 9 settembre 1991 Renzo mi rilasciò un’intervista sui giorni dello sciopero a Prato che venne pubblicata alcuni anni dopo da Azione sindacale. Periodico della CGIL di Prato nel numero del 31 luglio 1997. Ne riproponiamo il testo ai lettori di ToscanaNovecento con lievi modifiche.

Nel libro Un popolo alla macchia (Roma, Editori riuniti, 1975) Luigi Longo scrive che gli scioperi del marzo ’44 furono decisi dalla direzione del PCI per l’Alta Italia unitamente ai comitati di agitazione che avevano diretto gli scioperi del ’43. Questa iniziativa venne poi approvata dai CLN (pp. 134-135). Quale organismo decise lo sciopero a Prato?

A Prato fu il CLN che deliberò lo sciopero su proposta dei comunisti. Parallelamente alla discussione che si svolgeva all’interno del CLN, il PCI organizzò alcune riunioni in località La Catena [Quarrata, N.d.C.], per discutere gli aspetti organizzativi dello sciopero. A tali riunioni prese parte Giuseppe Rossi, segretario provinciale del partito. A Prato i principali organizzatori dello sciopero furono – oltre al sottoscritto – Dino Saccenti, Bruno Rosati, Cesare Rosati, Alimo Gori ed Alberto Innocenti.

Sempre Luigi Longo afferma che lo sciopero generale fu attuato nelle principali città dell’Alta Italia il 1° marzo 1944 (p. 136), e che in Toscana esso cominciò due giorno dopo “per il ritardo nella preparazione” (p. 139). Da che cosa dipese questo ritardo?

Tale ritardo fu dovuto alla difficoltà di raggiungere, a proposito della proclamazione dello sciopero, l’unanimità in seno al CLN (che non deliberava a maggioranza, ma, per l’appunto, all’unanimità). Lo sciopero avrebbe comunque avuto luogo perché il PCI era deciso ad organizzarlo anche senza l’appoggio degli altri partiti ciellenistici. La proposta comunista di indire lo sciopero fu sostenuta soprattutto dai socialisti e dagli azionisti. Gli altri erano più tiepidi. I democristiani si pronunciarono a favore dello sciopero, ma il loro apporto sul piano organizzativo fu poi molto limitato.

Aspetti organizzativi. Come venne preparato lo sciopero a Prato? Come furono avvisati gli operai e che cosa fu fatto perché l’astensione dal lavoro fosse la più ampia possibile?

Nei 3-4 giorni che precedettero lo sciopero il PCI costituì delle squadre che agivano durante il coprifuoco lasciando dei manifestini sui davanzali delle finestre, sotto le porte, in campagna, ecc. La notizia dello sciopero fu inoltre diffusa oralmente. Infine il PCI organizzò, la mattina del giorno in cui lo sciopero doveva cominciare, dei posti di blocco, formati da 3 o 4 uomini armati, sulle principali vie di accesso alla città (io facevo parte del nucleo che si trovava alla Madonna del Berti). Lo scopo era quello di rimandare indietro gli operai che si recavano al lavoro, ma solo facendo opera di persuasione, evitando naturalmente minacce o violenze. Le armi servivano nel caso in cui fossimo stati sorpresi dai nazifascisti. Da rilevare che alcuni operai decisero di andare regolarmente in fabbrica senza darci ascolto.

Quali erano gli obiettivi dello sciopero?

Pace e libertà per il popolo italiano. Non furono allora avanzate rivendicazioni di carattere salariale, ecc. L’obiettivo prioritario era la liberazione del Paese.

Quale fu l’estensione dello sciopero? Grosso modo, quante fabbriche ne furono interessate e quanti furono gli scioperanti?

Lo sciopero riuscì bene. Ci furono delle defezioni, ma nella maggioranza delle fabbriche non si lavorò. Sarebbe tuttavia scorretto parlare di astensione generale dal lavoro.

Quale fu la durata dello sciopero? A questo riguardo le cose non sono del tutto chiare.

Lo sciopero cominciò il 4 marzo e si concluse il 7 col rientro graduale degli operai nelle fabbriche. Il 10 io fui incaricato dal centro fiorentino del partito di riorganizzare una formazione partigiana nei dintorni di Vicchio [la Compagnia Ceccutti, N.d.C.] e partii alla volta del Mugello. Ora, se lo sciopero fosse stato ancora in corso a quella data o nei giorni immediatamente precedenti (8 e 9 marzo) io, che ne ero stato uno degli organizzatori, non avrei evidentemente lasciato Prato. Ciò sarebbe stato alquanto strano.

Quale fu il comportamento degli industriali? Anche a questo riguardo le cose non sono del tutto chiare (cfr. Alessandro Affortunati, Vaiano e la sua Casa del popolo. Il movimento operaio nella Valle del Bisenzio, Prato, Pentalinea, 2000, pp. 75-76).

Gli industriali lavoravano per i tedeschi. Essi guardarono quindi con sfavore allo sciopero, ma non mi risulta che le loro responsabilità siano state particolarmente pesanti. Ci furono comunque degli episodi (per esempio al Lanificio Campolmi) che diedero adito a sospetti.

Carlo Ferri ne La valle rossa (Vaiano, Viridiana, 1975, p. 95) scrive che lo sciopero provocò l’interruzione di ogni collegamento fra la città ed i partigiani. A questo riguardo ci fu dunque una carenza organizzativa che si risolse nella mancanza di coordinazione fra la città e la formazione che si trovava ai Faggi?

Lo sciopero creò indubbiamente degli scompensi, ma una formazione partigiana deve essere autonoma. I partigiani che si trovavano ai Faggi dovevano dunque risolvere da soli il problema dei rifornimenti. Non potevano aspettarsi di ricevere allora particolari aiuti dalla città.

Secondo quali modalità ebbero luogo i rastrellamenti attuati dopo lo sciopero?

Non furono seguite modalità particolari: i tedeschi catturavano tutti quelli che capitavano loro a tiro. Va sottolineato il fatto che i repubblichini ebbero gravissime responsabilità nei rastrellamenti perché erano loro che conoscevano bene i luoghi, le fabbriche e le persone.

A tanti anni di distanza quale bilancio ritieni di poter fare dello sciopero del marzo ’44?

Lo sciopero sollevò il morale della gente nonostante le deportazioni. Dimostrò che agire era possibile, se se ne aveva la volontà, ed è significativo il fatto che, dopo la fine dello sciopero, il numero delle persone che salivano in montagna aumentasse. A Prato, come nel resto del Paese, lo sciopero del ’44 fu una tappa importante della lotta di liberazione.

Articolo pubblicato nel febbraio 2015.




Dalla parte del lavoro: Giulio Braga

Giulio Braga nacque a Ferrara il 25 agosto 1868 da Annetta Braga e da padre ignoto, falegname. Abbandonato dalla madre in tenera età, fu ospitato a Torino da una famiglia di conoscenti e poi condotto a Firenze da un operaio che gli fece da padre. Nella città toscana Braga iniziò l’attività politica, costituendo un gruppo anarchico nel rione di San Niccolò.

Nel marzo del 1892 si trasferì a Prato, dove, forte delle letture fatte e dell’esperienza acquisita, svolse un’intensa propaganda e collaborò alla Tribuna dell’operaio, un settimanale di indirizzo socialista-anarchico di cui era direttore Giovanni Domanico. Ricoprì anche la carica di cassiere provvisorio del Fascio operaio, costituitosi poco dopo la conclusione del congresso di Genova. Nel 1893 si sposò con Pia Casini, da cui ebbe sei figli (due maschi e quattro femmine). Alla fine del 1893, in una lettera indirizzata al direttore di un settimanale pratese, Braga, parlando della condizione di sfruttamento in cui versavano gli operai in generale e quelli di Prato in particolare, espresse così i suoi convincimenti di rivoluzionario: «la causa prima, noi socialisti senza distinzione di scuola la ravvisiamo nel capitale accentrato in mano di pochi […] Quali i rimedi! Facili ad indovinarsi! Se il capitale accentrato è la causa prima, il suo rovescio ne sarà il rimedio […] Quali i mezzi?…Ammaestrato dalla storia delle generazioni passate […] mi formai la convinzione che per sciogliere l’arduo problema non avvi che un mezzo: quello cioè che adottò la borghesia francese per emanciparsi dalla nobiltà e simultaneamente dal clero» (La luce, 6 gennaio 1894, la lettera è datata 24 dicembre 1893).

Ritenuto la personalità di maggior spicco del movimento anarchico pratese ed «un individuo assai pericoloso all’ordine ed alla tranquillità pubblica» (Archivio centrale dello stato, Ministero dell’interno, Direzione generale di pubblica sicurezza, Divisione affari generali e riservati, Casellario politico centrale, Fascicoli personali, b. 812, fasc. Braga Giulio di ignoti, scheda biografica compilata dalla prefettura di Firenze, 8 agosto 1895), venne inviato nel 1894 al domicilio coatto, prima alle Tremiti, dove fu coinvolto nella sollevazione contro quel regime carcerario, poi a Favignana, infine a Ustica. Tornato a Prato il 21 novembre 1896, riprese subito l’impegno politico, tenendo numerose conferenze, scrivendo un lungo racconto sulla sua esperienza alle Tremiti per un numero unico pubblicato dal Comitato pratese per l’abolizione del domicilio coatto e dando un importante contributo alla costituzione della Camera del lavoro (4 luglio 1897), di cui fu il primo segretario. Ricercato dalla polizia e costretto a riparare in Francia dopo i tumulti del maggio 1898, rientrò in città l’anno successivo. Dopo l’uccisione di Umberto I (29 luglio 1900), fu tratto in arresto, insieme con altri compagni, perché sospettato di essere in relazione con Gaetano Bresci: in agosto, tuttavia, era di nuovo in libertà, nulla essendo emerso a suo carico.

Nei primi anni del secolo Braga continuò la sua opera di propaganda e di proselitismo sia attraverso l’attività giornalistica (fu corrispondente del giornale anarchico fiorentino Il risveglio, che ebbe l’incarico di diffondere a Prato) sia attraverso quella di conferenziere, particolarmente brillante ed efficace: nel 1903 la polizia lo considerava “il capo della setta anarchica di Prato” (ibidem, cenno di variazione del 12 giugno 1903). Rappresentante della sezione falegnami della Camera del lavoro al II congresso dei lavoranti in legno (Milano, settembre 1903), egli assunse l’anno successivo la direzione de Il fascio operaio, un nuovo settimanale socialista-anarchico che si pubblicava a Prato. Il 7 giugno 1906, in quanto direttore di tale giornale, venne condannato dalla corte d’assise di Firenze a tre mesi e dieci giorni di detenzione «per i reati di vilipendio all’esercito, eccitamento alla disobbedienza delle leggi e dei doveri del giuramento e della disciplina» (ibidem, cenno di variazione dell’8 giugno 1906), in seguito alla pubblicazione, nel numero del 29 novembre 1905, di un articolo intitolato “Se fossi mamma”. Il fascio operaio chiuse nel 1907. L’anno dopo Braga aderì al Partito socialista. Alle elezioni amministrative parziali del 28 giugno 1908 fu candidato al consiglio comunale in una lista formata da repubblicani e da socialisti.

Negli anni successivi il suo impegno politico e sindacale lo portò, fra l’altro, ad essere segretario della Camera del lavoro di Empoli, assessore nella prima giunta rossa di Prato, guidata da Ferdinando Targetti (1912-1914), direttore de La sveglia, organo della Confederazione italiana fra i lavoratori dell’Arte bianca, segretario propagandista e poi segretario generale dell’Arte bianca stessa, membro del consiglio direttivo della Confederazione generale del lavoro, di nuovo assessore a Prato dopo le amministrative del 31 ottobre 1920, quando i socialisti riconquistarono il comune e Giocondo Papi divenne sindaco.

Protagonista di tante battaglie per l’emancipazione del proletariato, fu uno dei primi bersagli dei fascisti locali, che, nella notte fra il 24 ed il 25 giugno 1921, lo aggredirono nella sua abitazione, e, sotto gli occhi della moglie e delle figlie terrorizzate, lo trascinarono in strada percuotendolo selvaggiamente. Bandito dalla città nel 1922, Braga vi fece ritorno due anni dopo, ma le sue condizioni di salute, compromesse dall’aggressione subìta, si aggravarono progressivamente. Morì a Prato il 9 febbraio 1925. Sulla facciata della casa di via Santo Stefano dove Braga risiedeva si trova oggi una lapide con questa iscrizione: «Qui abitò dal 1893 / Giulio Braga / e lottò per il socialismo per / la democrazia per un sindacalismo / libero e qui morì il giorno / 9 febbraio 1925 in seguito / a vile aggressione fascista».

BIBLIOGRAFIA:

Alessandro Affortunati, Sotto la rossa bandiera. Profili di dirigenti del movimento operaio pratese, Prato, Camera del lavoro di Prato, 1996, pp. 1-18
Id., Fedeli alle libere idee. Il movimento anarchico pratese dalle origini alla Resistenza, Milano, Zero in condotta, 2012, pp. 119-122
Valerio Bartoloni, I fatti delle Tremiti. Una rivolta di coatti anarchici nell’Italia umbertina, Foggia, Bastogi, 1996, ad indicem
Claudio Caponi, Gli albori del movimento operaio a Prato: la figura di Giulio Braga, Prato storia e arte, a. 17, n. 47, dicembre 1976, pp. 39-71.

Articolo pubblicato nel gennaio del 2015.




Giuseppe Becheroni

Contrariamente all’opinione corrente, dalla fine dell’Ottocento al periodo della Resistenza, il movimento anarchico fu attivamente presente a Prato. In questo contesto, Giuseppe Becheroni fu una delle figure più interessanti dell’anarchismo locale, che si distinse per i suoi sforzi di dare al movimento un minimo di coesione. Ne ricostruiamo qui, brevemente, la vita e l’esperienza politica.

Giuseppe Becheroni nacque a Vernio il 27 agosto 1887 da Giovan Battista e da Maria Meucci, intagliatore. Sposato con Annita Sanesi, aderì all’anarchismo dopo aver militato nel Partito socialista, e, insieme con Tullio Gambacciani, fondò a Prato un microscopico gruppo anarchico denominato “L’inferno”, del quale i due amici erano gli unici componenti.
Propagandista infaticabile, l’8 dicembre 1911 venne arrestato e condannato per aver disturbato una manifestazione indetta per festeggiare una vittoria dell’esercito italiano impegnato in Libia. Fu questa la prima condanna riportata da Becheroni, che nel 1912 era ritenuto pericoloso dalla polizia e risultava essere uno degli uomini di punta del movimento anarchico pratese. Il 3 settembre di quell’anno lanciò una sottoscrizione per la costituzione di un Circolo libertario di studi sociali: il Circolo, che disponeva anche di una biblioteca, era già attivo alla data del 18 ottobre e Becheroni ne era il cassiere. Diffusore del quindicinale antimilitarista milanese Rompete le file!, nel 1913 creò un Gruppo libertario rivoluzionario (ai primi di aprile), partecipò al congresso regionale anarchico che si svolse a Pescia (11 maggio) e ad un convegno libertario che si tenne a La Spezia (1-2 giugno). Fatto ritorno a Prato, la sera del 3 giugno contestò vivacemente, insieme con altri compagni, una dimostrazione studentesca inneggiante all’esercito. In tale circostanza Pietro Barni, un anarchico intimo di Becheroni, strappò il tricolore dalle mani del portabandiera e fu tratto in arresto. Becheroni riuscì invece ad eclissarsi e poco dopo promosse una sottoscrizione a favore di Barni: venne per questo condannato ad un’ammenda. Il 25 ottobre, alla vigilia delle prime elezioni politiche a suffragio universale maschile, fece affiggere “un manifesto intitolato ‘Non votate’, diretto ai lavoratori e contenente eccitamento alla rivolta”: nuovamente denunciato, fu assolto dal tribunale di Firenze il 19 marzo 1914. Il 3 maggio dello stesso anno cercò di tenere una pubblica conferenza a Prato, ma il prefetto di Firenze la proibì per ragioni di ordine pubblico.
Il 10 giugno, nel corso delle agitazioni della Settimana rossa, incitò i dimostranti della città laniera alla ribellione aperta. Immediatamente denunciato, si allontanò da Prato il 29. Colpito da mandato di cattura ed attivamente ricercato in tutto il regno, venne arrestato a Prato il 7 settembre e tradotto nelle carceri fiorentine: il 12 novembre fu condannato a sette mesi di reclusione per oltraggio agli agenti della forza pubblica.
Il 10 maggio 1915, nell’imminenza dell’entrata in guerra dell’Italia, venne deferito all’autorità giudiziaria per istigazione a delinquere, avendo, insieme con altri anarchici, indotto gli operai della ditta Forti di Casarsa, uno degli stabilimenti più importanti di Prato, ad astenersi dal lavoro “onde suscitare disordini e commettere violenze sotto il pretesto del richiamo alle armi”. Il 18 maggio il giudice istruttore dichiarò tuttavia il non luogo a procedere nei suoi confronti.
Becheroni morì di tubercolosi il 27 dicembre 1917 nell’ospedale di Prato: per volontà della famiglia i funerali si svolsero in forma religiosa, e pertanto i compagni non vi presero parte.

Fonti: Archivio centrale dello Stato, Ministero dell’interno, Direzione generale di pubblica sicurezza, Divisione affari generali e riservati, Casellario politico centrale, Fascicoli personali, b 430, fasc. Becheroni Giuseppe fu Giov. Battista; “Commemorazione di due compagni”, Il lavoro (Prato), 5 gennaio 1918.

Bibliografia: Alessandro Affortunati, “Giuseppe Becheroni: un  anarchico pratese dei primi del Novecento”, Rassegna storica toscana, a. 59, n. 2 (luglio-dicembre 2013), pp. 311-334.

Articolo pubblicato nel gennaio del 2015.




Il rovescio della trincea

Io non mi so dar ragione che l’omo debba essere uno strumento del suo governo e deve cessare tutto nell’uomo poesia, amori, doveri di padre, doveri di figlio doveri di lavoro per quale ragione?

(Giuseppe Manetti, contadino fiorentino al fronte, maggio 1917)

Gli elementi che hanno reso tragicamente nota, anche nella memoria comune, la Prima guerra mondiale sono sicuramente molti: i milioni di morti, mutilati e dispersi; la durissima vita nelle trincee; gli scellerati quanto inutili assalti alla baionetta; le carneficine causate dai gas asfissianti; i primi carri armati e i più o meno romantici duelli aerei.

Assieme a questi aspetti più conosciuti ed anche maggiormente studiati, soltanto in tempi relativamente recenti in Italia si è cominciato a considerare anche la faccia meno gloriosa della medaglia, quella riguardante le rese e le diserzioni di massa, le rivolte collettive di interi reparti, la disfatta di Caporetto, il fenomeno dell’autolesionismo, le condanne alla fucilazione comminate dai tribunali militari, le esecuzioni sommarie compiute contro soldati  insubordinati o accusati di viltà di fronte al nemico. Logica conseguenza del prolungarsi del conflitto, della disperante visione della continua strage e dei bisogni essenziali negati nelle trincee e nei cunicoli scavati sottoterra, il sordo malcontento s’andò trasformando nelle diverse forme assunte dal rifiuto attivo della guerra.

Al termine del conflitto risultarono emesse 870.000 denunce per indisciplina, rivolta, diserzione, resa al nemico, mutilazione volontaria, renitenza, simulazione, etc., con circa 15.000 condanne all’ergastolo e 729 condanne a morte eseguite su sentenza dei Tribunali militari. Imprecisato invece il numero delle vittime delle esecuzioni sommarie e delle decimazioni, quasi sempre compiute da plotoni di carabinieri, ma comunque nell’ordine delle migliaia. Difficilmente stimabili le perdite subite dai reparti italiani sottoposti al tiro delle artiglierie e delle mitragliatrici su ordine dei propri comandi in caso di «codardia di fronte al nemico», così come resta ignoto il numero dei fanti morti per essere stati puniti dai loro ufficiali mediante l’infame «supplizio del reticolato».

In questa guerra dentro la guerra, i contadini e gli operai, costretti ad indossare un’uniforme e ad uccidere i loro fratelli di classe prigionieri di una divisa di diverso colore – anche se resa uguale dal medesimo fango – si resero peraltro protagonisti di numerosi tentativi di ribellione, anche armata, contro gli ufficiali e gli ordini superiori che portavano, invariabilmente, alla carneficina. Secondo la tattica d’attacco pianificata dai comandi francesi, fatta propria dallo Stato maggiore italiano, era stata infatti preventivata la perdita dell’80% degli effettivi alla prima ondata, del 40% alla seconda e del 20% alla terza.

I primi significativi episodi di insubordinazione furono registrati negli ultimi mesi del 1915, con un crescendo che raggiunse il suo culmine nel 1917, così come sugli altri fronti europei, quando anche nelle campagne e nelle città l’opposizione alla guerra si tramutò in aperta rivolta sociale.

Sin dall’11 gennaio i carabinieri denunciarono un episodio emblematico avvenuto nell’astigiano, a  Castagnole Lanze, dove almeno quattro soldati in licenza avevano preso parte ad «una dimostrazione contro la guerra organizzata da alcune donne e da alcuni bambini», lanciando sassi e rape contro i militi intervenuti, istigando la popolazione, minacciando un capo-reparto di una fabbrica e compiendo atti vandalici alla stazione ferroviaria[Monticone 1972].

Dal 1° dicembre 1916 al 15 aprile 1917, in quasi tutte le province, a partire dai piccoli comuni rurali, si erano furono registrate circa 450 agitazioni con la partecipazione in tutta la penisola di oltre 100 mila lavoratori contro la guerra e la miseria, nonché contro il padronato per i profitti che stava realizzando; mentre dalle prefetture del regno veniva segnalato un crescendo di segnali di insofferenza.

Tra i mesi di marzo e settembre nello stesso anno, vennero altresì segnalati casi di sabotaggio industriale: azioni o tentativi di sciopero si ebbero a Milano, Genova, Firenze, Bologna, Modena, Parma, Reggio Emilia, Arezzo, Livorno, per cui i moti insurrezionali protrattisi per quasi una settimana a Torino a fine agosto 1917 appaiono tutt’altro che un caso circoscritto.

Parallelamente al saldarsi delle insorgenze antimilitariste tra le truppe, gli operai militarizzati e le popolazioni civili, si riscontra lo sviluppo di un rapporto di reciproca solidarietà che vede protagonisti anche soggetti e contesti toscani.

Se a Verona nel 1917, l’anarchico di Certaldo Ferruccio Scarselli, assieme ai concittadini Giulio Calvetti e tale Garosi, arruolati in cavalleria ma impiegati in funzione di ordine pubblico, si rifiutarono di caricare le donne che stavano manifestando in piazza per la fine della guerra e il ritorno dei soldati dal fronte, schierandosi invece con le dimostranti, in Toscana ovunque vennero segnalate connivenze tra popolazioni locali e disertori o renitenti che si erano dati alla macchia.

In provincia di Firenze questi trovarono rifugio e complicità sul monte Morello e nei boschi della Val d’Elsa, mentre nel livornese si nascondevano in alcune grotte in località Castellaccio. In Lunigiana fu l’anarchico individualista Renzo Novatore (ossia Abele Ricieri Ferrari) a fornire assistenza ai ricercati. Nel grossetano, nei boschi di Tatti, tra Massa Marittima e Roccastrada, si ritrovarono una sessantina di disertori che formarono la Banda del Prete (dal soprannome dell’anarchico Curzio Iacometti), tra i quali numerosi sovversivi locali di entrambi i sessi, che effettuarono espropri ai danni di proprietari terrieri e commercianti, finché nella primavera del 1918 furono debellati da venti compagnie di carabinieri.

Il fenomeno della diserzione assunse in Toscana una dimensione tale da entrare anche nell’immaginario popolare, com’è possibile riscontrare sia nelle narrazioni orali che nei canti sociali, così come confermano questi versi:

Montesanto e Montecucco / son due monti traditori, / viva viva i disertori / che per la patria non voglion morir./ Dagli ufficiali siamo maltrattati,/ dal governo siamo malnutriti,/ quattordici stati si sono riuniti / per distruggere la povertà./ Quante madri e quanti mogli / tutte quante desolate / che sole a casa sono restate / mentre gli uomini li mandano a morir.

 Appare inoltre interessante la circostanza che vede sovente gli stessi luoghi usati successivamente nella lotta antifascista e partigiana, a conferma della continuità di un antagonismo popolare strettamente connesso ai rispettivi territori.

D’altronde, è notorio che i comandi militari riponevano scarsa fiducia nell’affidabilità dei reparti composti da toscani e, consultando le spietate sentenze pronunciate contro i non-sottomessii, non è infrequente imbattersi in soldati originari delle nostre province. E’ il caso, ad esempio, del caporal maggiore Alessandro Signorini, del distretto militare di Livorno, fucilato nel giugno 1917 assieme ad altri dieci fanti ammutinati del 117° reggimento della Brigata Padova. Incriminato per aver incitato alla sedizione i suoi compagni gridando «vigliacchi, perché non vi armate e non sparate?», al momento di essere fucilato, dopo aver rifiutato l’assistenza del cappellano militare, gridò ancora: «Maledetta patria, schifosa bandiera, girate la schiena a chi vi fucila» [Pluviano, Guerrini 2004].

Articolo pubblicato nel gennaio del 2015.




“Voci, suoni e storie della Resistenza”

L’Istituto Ernesto de Martino, grazie a un finanziamento della Regione Toscana, in occasione del 70° anniversario della Liberazione, realizzerà il progetto “Voci, suoni e storie della Resistenza. Una progetto di ricerca e di valorizzazione delle fonti orali negli archivi toscani” con il compito di censire, restaurare e valorizzare la memoria storica della lotta di Liberazione in Toscana conservata negli “archivi orali” pubblici e privati della regione.

Nel corso degli anni sotto la spinta di diverse e convergenti aspettative (scientifiche, politiche, artistico-espressive, identitarie-locali, generazionali-formative) si è sviluppata una pratica diffusa di ricerca istituzionale e “dal basso” per ricostruire la memoria del periodo della Resistenza; tali materiali sonori sono disseminati in numerosi archivi pubblici e privati, presso enti, associazioni, istituti, biblioteche o singoli ricercatori e appassionati. Molto spesso, purtroppo, sono conservati senza una necessaria cura archivistica e senza l’assistenza tecnica necessaria per la loro fruizione, spesso al limite della stessa possibilità di conservazione, vista la fragilità dei supporti magnetici e l’ingente costo della tecnologia, delle risorse e delle competenze necessarie per il lavoro di digitalizzazione dei nastri a bobina. In tal modo questa ingente mole di documenti e di fonti storiche, che rappresenta un patrimonio culturale di inestimabile valore, resta perlopiù inaccessibile e sconosciuta, anche agli stessi addetti ai lavori, nonostante le potenzialità d’uso e di divulgazione pubblica che le fonti sonori consentono in ambito formativo e artistico e grazie agli strumenti del web.

Per la realizzazione del progetto “Voci, suoni e storie della Resistenza” l’Istituto Ernesto de Martino ha previsto un lavoro articolati in diverse fasi:

  1. Monitoraggio e censimento delle fonti. Una ricerca capillare sulla consistenza e la dislocazione dei documenti attraverso un monitoraggio che possa connettersi al censimento regionale toscano degli “archivi orali” realizzato nel 2007 grazie al volume “I custodi delle voci“ entrando nel merito dei materiali già censiti, per aggiornare e ampliare tale strumento archivistico con una ulteriore messa a punto sul campo, in modo da realizzare un inventario complessivo delle fonti orali sulla Resistenza presenti nella Regione Toscana.
  2. Descrizione, salvataggio, digitalizzazione dei materiali. L’Istituto Ernesto de Martino sulla base dei risultati ottenuti selezionerà il materiale da restaurare e digitalizzare, realizzando presso il laboratorio tecnico dell’Istituto il riversamento in copia digitale dei materiali analogici prescelti. In tal modo sarà possibile convogliare nell’Archivio sonoro dell’Istituto de Martino copia dei materiali digitalizzati, mentre gli originali e una copia digitalizzata torneranno ai soggetti proprietari. In tal modo verrà creato un punto di raccolta regionale delle fonti sonore della ricerca sulla Resistenza da rendere fruibile con un pubblico accesso e una libera consultazione.
  3. Analisi e studio dei materiali. Sulla base dei risultati del lavoro svolto sarà possibile realizzare uno studio dei materiali in grado di fornire un quadro storico della ricerca e dei suoi sviluppi e un inventario archivistico complessivo delle fonti raccolte. L’Istituto de Martino realizzerà un dossier finale che assieme al quadro conoscitivo e documentario appronterà delle ulteriori linee di sviluppo e di valorizzazione del materiale raccolto.
  4. Fruibilità e valorizzazione. L’Istituto de Martino renderà fruibili tali materiali e li renderà consultabili presso la propria sede, previo accordo con i proprietari e i donatori; sarà inoltre possibile la valorizzazione di tale documentazione storica grazie alle attività culturali (formative e scientifiche) e agli eventi pubblici (convegni, feste, concerti, dibattiti) organizzati dal nostro Istituto in collaborazione con le istituzioni pubbliche, le università, gli enti locali e le associazioni culturali della società civile.

 In direzione delle finalità espresse dal progetto vi chiediamo di fornire la vostra preziosa collaborazione mettendovi in contatto con l’Istituto Ernesto de Martino per segnalare i materiali da censire e per effettuare un sopralluogo e una verifica dello stato dei materiali. In allegato trovate una scheda di censimento che vi preghiamo di compilare e di aiutarci a far circolare.

Articolo pubblicato nel gennaio del 2015.




Quando i piatti erano vuoti

La minestra di castagne secche che unisce alle ben note virtù nutritive anche un effetto emolliente delle vie respiratorie; una pasta asciutta condita con ricotta fresca a cui amalgamare l’acciuga e qualche cucchiaino d’acqua calda; le patate in crema rossa senza condimento o il «super brodo di guerra» – tale per l’abbondanza di ortaggi a lungo bolliti e generosamente insaporiti – consigliato per convalescenze e speciali stati di indebolimento grazie al suo straordinario potere nutritivo, tanto da renderlo degno sostituto del suo omologo a base di carne. Sono solo alcune delle ricette che un corposo volumetto, edito a Firenze dalla Salani nel 1942, La cucina del tempo di guerra, invitava a sperimentare. L’autrice, Lunella De Seta, spiegava alle massaie come ingegnarsi per rendere meno mesta e spoglia la tavola; il tutto tenendo fede alla morale patriottica del «nulla vada perduto!».

Del decennio 1940-‘50 nel nostro Paese si ricordano le bombe, la fine del fascismo, la difficile ricostruzione e, soprattutto, la fame. La lunga autarchia imposta dal regime aveva da subito messo alla prova gli Italiani, ma le avvisaglie di una penuria, presto tramutatasi in miseria, erano state evidenti fin dalla vigilia della guerra. L’Italia non era ancora entrata nel conflitto e già, nel 1939, veniva diffuso il primo provvedimento che limitava la somministrazione del caffè, assenza a cui si era cercato di supplire con l’uso di orzo, insaporito da ceci tostati o dalla soia; anche il , di importazione inglese, era stato bandito e i negozi lo avevano sostituito con karkadè, un infuso amarognolo che aveva il merito di giungere direttamente dalle nostre colonie; e ancora, nel settembre dello stesso anno era stato emanato il divieto di vendere carni per due giorni a settimana.

A guerra in corso, poi, le restrizioni e privazioni erano aumentate progressivamente. Alla fine del 1940, il pane iniziava a essere miscelato con farina di granoturco e la pasta erogata per un massimo di due chili al mese a persona (quantità che in Toscana era stata ridotta presto a un solo chilo). A Pasqua era stato fatto divieto di distribuzione di dolci e con l’autunno il pane era finito tra i prodotti “tesserati” e fornito in una quantità di 200 grammi a testa al giorno (divenuti poco dopo 150). Sempre più introvabili carne, burro, olio e zucchero, mentre per il latte era necessario iscriversi al “registro del lattaio”. L’unica alternativa, per supplire alla penuria alimentare, era ben presto diventata quella di acquistare al “mercato nero”, a prezzi spesso insostenibili.

 In fatto di alimentazione la Toscana parve, inizialmente, cavarsela meglio di altre regioni. In particolare, la Provincia di Firenze, autosufficiente in tempi di libertà economica solo rispetto a pochi prodotti come l’olio e il vino, la frutta e la verdura ma, al contrario, importatrice di farina, pasta, carne, latte, formaggi, legumi e zucchero, aveva comunque continuato a ricevere rifornimenti anche dopo l’instaurazione del sistema controllato degli scambi commerciali, fino a quando l’intensificarsi delle incursioni aeree (la costa toscana fu colpita dai bombardamenti fin dalla primavera 1943, mentre su Firenze le bombe caddero per la prima volta contro la stazione di Campo di Marte il 25 settembre dello stesso anno) e l’interruzione di alcuni tratti delle linee ferroviarie avevano rallentato il flusso dei prodotti provenienti dall’Emilia e dalla Lombardia, impedendo la formazione di depositi alimentari.

La situazione aveva iniziato a peggiorare progressivamente con l’avanzata degli Alleati e le pagine dei quotidiani erano presto diventate il mezzo più comune per diffondere avvertimenti e consigli ai cittadini al fine di aiutarli a sopportare le penurie del momento. Così, il 7 luglio 1944, su «La Nazione», comparivano suggerimenti su come conservare il pane affinché durasse più a lungo; qualche giorno più tardi vi si leggevano indicazioni per «trasformare un comune fornello in cucina economica»; e ancora, si invitava la popolazione a tenere provviste di acqua in casa. In quei mesi, poi, l’annona distribuiva in abbondanza piselli secchi, farina vegetale, riso, concentrato di pomodoro, fagioli, tutti prodotti a lunga conservazione. Segno che l’attesa sarebbe stata lunga.

Migliore la condizione alimentare nelle campagne che, soprattutto dopo l’armistizio, avevano accolto sfollati, ebrei, renitenti, disertori e prigionieri alleati, offrendo loro cibo e riparo, talvolta in modo solidale e gratuito, altre scambiando l’ospitalità con beni “urbani” quali denaro e informazioni.

Nonostante la produzione agricola si fosse ridotta notevolmente a causa della scarsa disponibilità di fertilizzanti, macchinari e manodopera maschile (in assenza degli uomini erano le donne e i ragazzi non in età adulta a occuparsi dei campi) e fossero costanti razzie e distruzioni, le periferie rurali avevano di certo beneficiato di quell’antica capacità di saper fare e produrre tutto “in casa”. Tra le pareti domestiche, infatti, si abbrustoliva l’orzo per il caffè, si pigiava l’uva per ricavarne il vino, si spaccavano i semi di ricino per realizzare il sapone, si producevano pane e pasta, si raccoglievano e cucinavano i prodotti dell’orto e del maiale «non si buttava via nulla». Un’autosufficienza che in quegli anni aveva posto il mondo rurale, ambiente tradizionalmente povero ed umile, in una posizione di superiorità rispetto a quello cittadino, ancor più fiaccato e immiserito dagli eventi bellici.

A fine luglio ‘44, come testimoniava una relazione presentata dal Comitato Alimentare al Ctln [Comitato Toscano di Liberazione Nazionale], la situazione alimentare sembrava essere, nella provincia di Firenze, sempre peggiore. Il problema più grave era rappresentato dalla scarsezza delle scorte: totalmente assenti quelle di grano, pane e pasta. Conigli, polli e animali da cortile erano praticamente scomparsi. Se buono si profilava il raccolto del granturco e discreto quello dei fagioli, perduto era quello di patate e piselli. Non vi erano scorte di olio, dal momento che 2.000 quintali erano stati consegnati ai tedeschi. «Un quadro realistico della situazione che si riassumeva in una parola: fame». E non stupisce che, qualche mese più tardi, alla vigilia dell’ennesimo Natale in guerra, l’intervista su «La Nazione del Popolo» a “un macellaio onesto” – tale perché disposto ad ammettere con franchezza di praticare il mercato nero e pronto a spiegarne i meccanismi – aveva ben presto acquisito i toni di una nostalgica chiacchierata a due sui bei tempi andati, quelli in cui era facile e possibile l’acquisto di bestiame, bistecche e altra roba ancora «che, qui, in un Natale magro come questo non è il caso di rievocare».

Articolo pubblicato nel dicembre del 2014.