Le agitazioni mezzadrili “bianche” del 1919 in Val di Pesa e il “Patto di S. Casciano”

Tornati dalla guerra, avevamo domandato per noi e per le nostre famiglie, alcune modificazioni al vigente contratto di Mezzadria, che senza alterarlo nelle sue linee fondamentali, erano richieste per togliere alcune ingiustizie e per riconoscere un po’ le nostre maggiori fatiche. Era sperabile che i proprietari accettassero. Invece, (…) hanno dimostrato, con indugi, con negative, con ostruzionismi, di non volere accontentarci (…). Di fronte a questo contegno, i contadini hanno dovuto prendere delle decisioni radicali per ottenere il loro intento. [«La Libertà», 14 settembre 1919]

Così, in un manifesto del 12 settembre 1919, il consiglio direttivo dell’Unione Mezzadri di San Casciano Val di Pesa proclamava l’agitazione fra i coloni dell’omonimo mandamento in segno di protesta per la mancata risposta dei proprietari alle richieste di modifica del patto colonico loro avanzate. Al pari di quanto stava accadendo a partire dall’estate del 1919 nel resto della provincia fiorentina, anche i mezzadri della Val di Pesa, scossi dalle profonde trasformazioni che sul piano sociale, economico e mentale l’esperienza bellica aveva loro suscitato, avevano iniziato una serrata mobilitazione sindacale allo scopo di migliorare le proprie condizioni contrattuali di lavoro e di vita che la guerra aveva sicuramente peggiorato.

All’uscita dal primo conflitto mondiale, infatti, il mondo mezzadrile toscano, oltre che colpito dalle rilevanti perdite umane conseguenti alla chiamata alle armi dei contadini, era stato seriamente affetto dalle ripercussioni negative dell’economia di guerra. Se l’aumento generale dei prezzi sul mercato agricolo era sembrato portare alcuni vantaggi nei redditi dei mezzadri, questo miglioramento in realtà era parso più nominale che reale: al termine della guerra l’aumento del prezzo delle derrate prodotte dai contadini si mantenne infatti inferiore a quello dei beni che essi erano costretti ad acquistare (carne, filati, carburanti ecc), mentre gli effetti dell’aumento del prezzo del bestiame e del vino andarono a vantaggio esclusivo della classe padronale e proprietaria, già beneficiata dal buon andamento generale del mercato e dall’aumento del valore fondiario. Dopo la guerra, a rendere ancor più negative le condizioni economiche dei contadini toscani e più profondo lo squilibrio esistente tra capitale e lavoro contribuì anche il carattere capestro degli stessi contratti mezzadrili, dovuto in particolare alla sopravvivenza di clausole angariche (i cosiddetti “patti accessori” che addossavano alla manodopera contadina il costo e l’esecuzione di alcuni lavori nei campi) nonché dai non rari abusi compiuti dalla proprietà nella ripartizione delle percentuali di prodotto spettanti al mezzadro; abusi e vincoli spesso inaspritisi negli anni del conflitto e che adesso divenivano oggetto critico delle rivendicazioni contadine. E in effetti, almeno in una prima fase, anziché verso una radicale revisione del contratto colonico tout court, il movimento contadino puntò più alla modifica di alcune clausole coloniche in direzione dell’attenuazione o dell’abolizione integrale dei patti accessori e a favore di una più equa ripartizione delle spese di gestione dei fondi tra capitale e lavoro.

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L’aratura (Archivio “La Porticciola – S. Casciano)

Protagoniste di questa prima fase di agitazione in tutta la provincia di Firenze furono le organizzazioni cattoliche che si mobilitarono persino con qualche margine di anticipo sulla loro controparte socialista delle leghe rosse. Nell’alveo di una tendenza a federarsi in organismi sovralocali, anche le unioni e le leghe contadine cattoliche del fiorentino diedero vita ad un organo unitario: il 1° giugno 1919 a termine di un’assemblea tenutasi a Sesto Fiorentino si costituì infatti la Federazione Mezzadri e Piccoli Affittuari di Firenze, di ispirazione cattolica. Presieduta dal colono Felice Bacci, la Federazione risultò strettamente legata al Partito Popolare Italiano e alle sue strutture fiorentine, come segnala in particolare l’attività che vi svolse in qualità di consulente legale l’avvocato, poi deputato, Mario Augusto Martini, già presidente della Federazione Universitaria Cattolica Italiana, tra i fondatori e primo presidente della sezione fiorentina del partito, nonché referente della questione mezzadrile per l’intero movimento. Nell’estate del 1919, dopo che agitazioni di contadini si erano sollevate in alcuni comuni della provincia, fu appunto la Federazione Mezzadri che per prima cercò di porsi alla guida del movimento. Falliti i primi tentativi di interessare alle richieste di riforma del patto mezzadrile i singoli proprietari, la Federazione si rivolse alla neocostituita Associazione Agraria Toscana, organo di categoria degli agrari, intavolando con questa a partire dal 22 luglio 1919 una serie di colloqui attorno alla discussione di un memoriale contenente le principali richieste di parte colonica. I colloqui tra le due rappresentanze si protrassero sino al 7 agosto 1919, giorno nel quale fu raggiunto un accordo anche sugli ultimi due articoli maggiormente discussi, riguardanti l’indennità sulla solforazione e la frangitura delle olive. Il concordato così siglato, detto “Concordato di Firenze” composto di 19 articoli stabiliva tra l’altro: l’abolizione dei tanto invisi patti accessori (“e in genere di ogni prestazione di opera gratuita a favore del proprietario”, art. 8), la divisione a metà tra padrone e contadino delle spese per gli anticrittogamici e le solforazioni eseguite, il carico totale spettante al proprietario delle spese di frangitura e di trebbiatura a macchina e la definizione di un prezzo per tutte le opere prestate dal colono al proprietario “sia fuori del podere, sia, per scopi non derivanti dall’obbligo del contratto, nel podere” (art.12). Infine, all’articolo 1, si sanciva da parte padronale il “riconoscimento della Federazione Provinciale Mezzadri e Piccoli Affittuari e Unioni aggregate come rappresentanti della classe colonica da esse organizzata e riconosciuta”. Salutato con soddisfazione da parte della Federazione Mezzadri, il concordato di Firenze fu però presto disatteso dalla stessa Agraria che, poco dopo la ratifica, cominciò ad avanzare alla controparte nuove richieste e obiezioni, in modo tale che l’accordo fu di fatto inapplicato.

Venuto meno questo tentativo di contrattazione collettiva, la vertenza contadina ridiscese sul piano locale, nel tentativo di raggiungere con gli agrari accordi validi a livello municipale o mandamentale. Fu in questa fase che l’agitazione mezzadrile in Val di Pesa si distinse per portata e organizzazione. Si trattava di un’area a tradizionale vocazione rurale caratterizzata dalla generale preponderanza della manodopera mezzadrile ma anche dalla diffusa presenza di una grande possidenza terriera: a titolo d’esempio, nell’immediato primo dopoguerra nel comune di S. Casciano si potevano contare 971 famiglie contadine, delle quali 839 erano famiglie di mezzadri, a fronte di 117 famiglie di camporaioli e di 15 coltivatori diretti. Per di più, la gran parte di queste famiglie mezzadrili dipendevano dai grandi sistemi di fattoria locali: basti pensare che i 20 principali proprietari terrieri del comune (tra i quali le grandi famiglie nobiliari dei Corsini, Antinori, Mazzei, Ganucci Cancellieri, Serristori ecc) avevano alle loro dipendenze 512 famiglie mezzadrili delle 839 esistenti nel comune negli stessi anni. Una sensibile presenza mezzadrile, dunque, ma anche un significativo peso della classe padronale caratterizzavano queste campagne.

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Giovanni Chiostri rappresentante dei possidenti agrari della Val di Pesa (da “Il Giornale d’Italia” 12 novembre 1919)

Come nel resto della provincia, anche nella Val di Pesa e nel mandamento di San Casciano, la mobilitazione dei mezzadri a partire dall’estate del 1919 era stata portata avanti dal movimento delle leghe bianche legate al neonato Partito Popolare Italiano. Anche qui, in verità, in un primo tempo era stata percorsa la strada dell’accordo individuale tra contadini e padroni, senza successo. Il 16 luglio, ad esempio, intervenendo ad un’adunanza di un centinaio di mezzadri a Montagnana Val di Pesa, Enrico Frascatani, segretario della Federazione dei Mezzadri fiorentina, aveva spiegato che se sin lì l’agitazione nell’area era “abortita” lo si doveva appunto al fatto che le richieste ai padronati erano state presentate “dai singoli contadini disorganizzati e…disorientati”. Adesso, beneficiando delle nuove strutture del movimento cattolico, l’agitazione era in grado di darsi un’organizzazione più formale. A San Casciano, non a caso, la locale Unione Mezzadri nacque per iniziativa diretta della neonata sezione locale del Partito Popolare Italiano e in particolare grazie all’attività svolta in essa da Primo Calamandrei, un negoziante di “fantasie floreali” già consigliere comunale. Il 27 luglio la direzione del partito organizzò una prima riunione tra tutti i mezzadri del comune nella quale presero parola il colono Antonio Bazzani e il segretario della Federazione Mazzadri, Frascatani. All’occasione, fu letto, discusso e approvato il memoriale che in quei giorni la Federazione stava discutendo con l’Agraria; dopodiché allo scopo di costituire la locale Unione Mezzadri fu nominata una commissione composta da 15 coloni rappresentanti le principali frazioni del comune. L’Unione Comunale Mezzadri di San Casciano si costituì formalmente nell’adunanza successiva del 3 agosto, eleggendo i propri organismi nelle persone di Antonio Bazzani (Presidente), Corti Leopoldo (Vice Presidente), Secci Sestilio (Segretario), Alessandro Crociani (Cassiere). Dopo la mancata applicazione del Concordato di Firenze siglato il 7 agosto tra Federazione e Agraria, come detto la battaglia per l’accettazione del nuovo patto in tutta la provincia passò sul piano municipale. L’Unione Mezzadrile di San Casciano, preso contatto con alcuni proprietari del comune, convocò un’adunanza generale dei mezzadri per il 31 agosto alla quale intervennero Mario Augusto Martini e di nuovo Enrico Frascatani. Constatata però l’assenza dei proprietari del comune precedentemente invitati, fu approvato un ordine del giorno col quale si fissava al 5 settembre il termine ultimo perché questi facessero pervenire per iscritto la loro adesione alle richieste. Da parte padronale non vi furono però risposte, tanto che una successiva adunanza dei mezzadri sancascianesi fu convocata il 7 settembre, con la partecipazione dei soliti Martini e Frascatani e del deputato cattolico Tommaso Brunelli. Constatata ancora una volta l’assenza dei rappresentanti della controparte padronale, si decise a decorrere dall’11 settembre di iniziare l’agitazione fra i coloni come protesta per la mancata risposta dei proprietari.

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Primo Calamandrei, leader del PPI a San Casciano e promotore dell’agitazione mezzadrile nell’estate del 1919 (Archivio “La Porticciola” – S. Casciano)

Il 12 settembre, a sciopero iniziato, tutti i coloni del comune si riunirono presso il teatro Niccolini di San Casciano dove ancora Martini e Frascatani presero la parola. Considerata la tensione di quella seduta, dovuta in parte all’elevato numero degli intervenuti (circa 3.000) in parte ai reiterati silenzi degli agrari, non sorprende che venisse votato dall’assemblea un ordine del giorno piuttosto radicale col quale, rilevato che “il contegno del ceto proprietario offende e conduce a rendere impossibili nel frattempo i rapporti sociali del contratto di mezzadria”, si decideva di sospendere provvisoriamente la validità del contratto mezzadrile finché non fosse stato raggiunto un accordo. Quindi si stabiliva che a partire dal 14 settembre le famiglie coloniche avrebbero prestato la loro opera nei rispettivi poderi “a salario”, pagabile in contanti settimanalmente (15 lire al giorno per gli uomini, 10 per le donne) e secondo un orario di lavoro giornaliero di 8 ore (dalle 8 alle 12 e dalle 14 alle 18). A fronte di simili richieste e con il proseguire nei giorni seguenti di altre manifestazioni coloniche, i proprietari acconsentirono a una trattativa con l’Unione Mezzadri di S. Casciano.

Tra il 17 e il 18 settembre alla presenza del Prefetto di Firenze De Fabritiis e con la partecipazione dell’avvocato Giovanni Chiostri, consigliere provinciale per il mandamento di San Casciano e anch’esso grande possidente, si incontrarono così la Commissione dei proprietari sancascianesi (composta dal commerciante Guido Ciappi, dal conte Lorenzo Guicciardini, dal marchese Emanuele Corsini, dall’avvocato Ganucci Cancellieri, dal dottor Gino Ciofi, dai signori Zanobini e Squilloni e dal dottor Burroni) e quella dei contadini (composta da Felice Bacci, Enrico Frascani, Mario Augusto Martini per la Federazione Mezzadri, da Antonio Bazzani Presidente dell’Unione Mezzadri di San Casciano e dai coloni Vittorio Camiciotti, Liberato Giachi, Olinto Galanti, Raffaello Nardini, Luigi Callaioli, Fortunato Pecciolini, Matteuzzi). Dall’incontro uscì un concordato di 17 punti noto col nome di “Patto di San Casciano” (vedi in “documenti dalle fonti”). Si trattava di un testo che riprendeva espressamente il contenuto del concordato di Firenze al quale si richiamava negli articoli riguardanti l’abolizione dei patti accessori, la divisione a metà delle spese per gli anticrittogamici e il carico di quelle di frangitura e di trebbiatura sul proprietario. Unica differenza sostanziale risultava l’omissione del contenuto dell’articolo primo del concordato di Firenze che sanciva da parte padronale il formale riconoscimento della Federazione dei Mezzadri come rappresentante della classe colonica. Era questo il punto attorno al quale si erano concentrate le principali resistenze dei proprietari e a causa del quale forse lo stesso concordato di Firenze non era stato applicato da parte padronale. Al principio della contrattazione collettiva sostenuto dalla Federazione Mezzadri, i proprietari e l’Agraria contrapponevano infatti il diritto alla contrattazione individuale con ciascun colono. In effetti, anche durante l’agitazione dei mezzadri sancascianesi, i proprietari del comune avevano ripetutamente cercato di aggirare i propositi di risoluzione collettiva dello sciopero tentando di accordarsi con i propri coloni. Ciononostante, alla fine, il 20 settembre 1919 l’avvocato Giovanni Chiostri in rappresentanza dei proprietari del mandamento di San Casciano ed Enrico Frascatani per la Federazione Mezzadri firmarono il testo del Patto di San Casciano. L’avvenimento venne festeggiato nuovamente con una grande manifestazione pubblica al Teatro Niccolini di San Casciano nel corso della quale parlarono Felice Bacci, Mario Augusto Martini ed Enrico Frascatani.

Benché poi di fatto disatteso, anche a seguito dell’ulteriore evoluzione che l’agitazione mezzadrile assunse in tutta la provincia nel corso dell’anno successivo, il Patto di San Casciano avrebbe avuto ciononostante sensibili ripercussioni. Sul piano municipale anzitutto, esso rilanciò il peso del nascente movimento cattolico e del PPI, il quale a San Casciano, in occasione delle elezioni amministrative del 1920, ottenne la maggioranza ed espresse a sindaco del comune Primo Calamandrei, l’iniziatore dell’organizzazione cattolica contadina locale. In secondo luogo, sul piano delle rivendicazioni coloniche, il patto di San Casciano, benché in sostanza riproponesse il contenuto del concordato fiorentino del precedente agosto, in quanto scaturito da uno sciopero assunse una valenza di portata provinciale nella prima fase del movimento di riforma dei contratti colonici. Di fatto, come più tardi avrebbe ricordato lo stesso Mario Augusto Martini nel suo Le agitazioni dei mezzadri in provincia di Firenze (1921), il testo del patto di San Casciano formò la base di tutti gli altri concordati locali che in molti comuni della provincia fiorentina furono conclusi dall’organizzazione bianca nell’autunno del 1919, i quali, salvo poche eccezioni, ad esso si rifecero sostanzialmente.

Articolo pubblicato nel novembre del 2015.




Sulle tracce della memoria

La guida pubblicata nel 2015 dall’Istituto Storico della Resistenza di Pistoia e curata dagli storici Matteo Grasso, Michela Innocenti, Chiara Martinelli e Francesca Perugi, è dedicata ai percorsi della memoria novecenteschi nella provincia di Pistoia.
Pubblicata in occasione del 70° anniversario della Liberazione, con il finanziamento della Regione Toscana, propone a turisti, scuole e appassionati alcuni itinerari da percorrere per conoscere i luoghi e le vicende della seconda guerra mondiale e della Resistenza. Un grande museo all’aperto per valorizzare il territorio pistoiese con particolare attenzione al valore didattico ed educativo, oltre che utile strumento di promozione turistica del territorio. Sono presentati una serie di luoghi simbolo che fanno parte della memoria storica locale tramite un pratico volume di consultazione per cittadini, storici e studenti, utilizzabile anche come supporto per varie realtà associative, enti pubblici e uffici scolastici regionali presenti nel territorio e segnalati all’interno di ogni percorso.
La Fortezza Santa Barbara a PistoiaL’opera è suddivisa in cinque itinerari ideali, percorribili in alcuni casi a piedi, in bicicletta o con altri mezzi di trasporto, e toccano monumenti, lapidi, targhe, cippi disseminati in provincia di Pistoia. A colori, corredata di mappe e fotografie, unisce notizie sul contesto storico e naturalistico della zona.
Punto di partenza la città capoluogo, oggetto del primo itinerario, spostandosi poi verso la Montagna pistoiese (secondo itinerario), la Valdinievole, la Svizzera pesciatina e il Padule di Fucecchio (terzo e quarto itinerario), fino alla Piana pistoiese, comune di Montale e dintorni (quinto itinerario).
Nel corso degli ultimi anni, gli Istituti storici della Resistenza in Toscana hanno realizzato studi, siti web, pubblicazioni e ricerche riguardo i luoghi della memoria dall’antifascismo alla Resistenza. La guida pistoiese s’inserisce in questo percorso memorialistico e si evidenzia come strumento utile per legare storia e territorio: l’obiettivo principale è quello di avere una visione d’insieme della regione e conservarne il ricordo del passato per le future generazioni.
A tal proposito possiamo ricordare il progetto avviato dall’Istituto Storico della Resistenza di Livorno attraverso il sito “Luoghi della Memoria”: in ogni luogo è stato collocato un cartello riconoscibile per la sua grafica; a ogni cartello è collegata una sezione del sito; in ogni sezione è possibile trovare materiali aggiuntivi per approfondire i temi affrontati. Si tratta di una pratica guida per chi voglia andare a visitare fisicamente i luoghi dove sono conservate le tracce lasciate dagli uomini e dalle donne dell’antifascismo e della Resistenza. Tutti i cittadini, gli studenti e i visitatori possono lasciare i loro commenti e inviare dei materiali aggiuntivi: “Luoghi della Memoria” è un sito aperto e vivo, come aperta e viva deve rimanere la memoria dei fatti narrati.
Oltre all’Istituto livornese, anche quello lucchese ha avviato un importante percorso che potremmo definire di “memoria condivisa” con la mappatura dei luoghi più significativi in cui rimangono tracce lasciate dagli uomini e dalle donne che hanno partecipato alla Resistenza antifascista. Si tratta di un percorso multimediale: una piccola targa lasciata su questi “luoghi della memoria”, grazie a uno smartphone o a un tablet puntato su un QR Code, introduce a una pagina web con le principali informazioni e approfondimenti su quanto avvenuto in quel luogo negli anni della seconda guerra mondiale. Oppure, al contrario, partendo da un luogo indicato sulla cartina geografica scoprire la storia e la memoria celati dietro quel luogo.
Riguardo all’eccidio del Padule di Fucecchio è inoltre presente online un’utile mappa interattiva con l’indicazione di ogni luogo connesso alla strage: targhe, lapidi, cippi, giardini, parchi e musei (www.eccidiopadulefucecchio.it/mappa).

Matteo Grasso, laureato in storia, svolge quotidianamente attività di ricerca archivistica, orale e bibliografica finalizzata all’approfondimento locale e nazionale di particolari momenti storici legati al periodo contemporaneo.
Attualmente collabora con l’Istituto Storico della Resistenza di Pistoia sia attraverso la partecipazione a progetti sia come membro del consiglio direttivo e come membro del comitato di redazione della casa editrice.
Lavora inoltre per l’Associazione Culturale Orizzonti di Lamporecchio che pubblica il mensile Orizzonti. Precedentemente ha svolto un tirocinio annuale per la valorizzazione storico-artistica di Villa La Quiete a Firenze.
Fra le pubblicazioni ricordiamo Guerra e Resistenza. Vicende partigiane per uno della «Bozzi», la storia personale di Doriano Monfardini e alcuni saggi riguardanti la resistenza europea sui Quaderni di Farestoria, periodico quadrimestrale dell’ISRPt. Ha altresì partecipato a presentazioni di libri, tra i quali La gioiosa macchina da guerra di Achille Occhetto, a conferenze e a incontri su temi riguardanti la storia locale.

Articolo pubblicato nel settembre del 2015.




Le aziende “ausiliarie” di Prato e il proficuo rapporto tra Unione Industriale e Croce Rossa

Risulta ormai storicamente provato che la I Guerra Mondiale rappresenti una grande opportunità di sviluppo per il comparto industriale pratese. La produttività, non solamente quella delle ditte tessili, non scende mai sotto i livelli di guardia, anzi, per alcuni comparti strettamente legati alle commesse belliche, si assiste a una vera e propria crescita esponenziale degli ordini e del fatturato. Questo accade nonostante i documenti riportino continue lamentele da parte dei dirigenti del Comitato per la Mobilitazione Industriale (creato ad hoc come emanazione del Ministero della Guerra, per monitorare lo stato di salute delle industrie e il livello della produzione per l’esercito) riguardo la qualità delle stoffe di Prato: si denuncia in generale il fatto che nelle coperte da campo e nel panno grigio-verde destinato alla confezione delle divise, venga inserita una troppo bassa percentuale di lana vergine a fibra lunga, solo il 35-40%, a fronte di ingenti quantità di blousses, lana rigenerata e del famoso “rinforzo” – quelle fibre artificiali a basso costo necessarie per tenere insieme la lana meccanica pratese a fibra corta. Anche in tempo di guerra gli industriali pratesi non mancano di applicare tutte le astuzie del caso per cercare di ottenere un maggior guadagno! Nonostante questa continua lotta tra gli imprenditori e il Comitato, a Prato non manca mai il sostegno economico dello Stato, concretizzato nel costante afflusso di commesse belliche alle aziende della città laniera.

Parallelamente non bisogna sottovalutare le generali condizioni di vita e di lavoro in cui la popolazione italiana viene a trovarsi a partire dal 1915: il richiamo al fronte degli uomini, spesso unica fonte di reddito familiare, e il carovita, generato dall’improvviso aumento dei prezzi dei beni di prima necessità, mettono a dura prova l’intera popolazione. Se a questo si aggiunge il malcontento per la disomogeneità delle condizioni di lavoro che esisteva fra i vari lanifici pratesi, si può facilmente capire come la situazione nel pratese fosse una vera e propria polveriera pronta ad esplodere.
È da questo sostrato di tensioni che ha origine l’imponente sciopero del 1916 organizzato dai circa 400 operai dal lanificio Forti della Briglia, in Val di Bisenzio. L’agitazione nasce per richiedere la “tariffa unica”, cioè l’adeguamento della paga per il lavoro a cottimo in tessitura su tutto il territorio pratese. Quelli concessi dalla ditta Forti erano forse i salari più bassi di tutto il distretto, ed è per questo che la protesta parte proprio dalla Briglia, allargandosi poi a tutta la città di Prato. La serrata degli industriali è tremenda, i Forti non vogliono cedere, tanto che vengono sospesi i sussidi alle famiglie dei richiamati in guerra e si minaccia lo sfratto delle mestranze coinvolte nello sciopero. Solo dopo mesi di agitazioni, sotto la minaccia sindacale dello sciopero generale, anche l’Unione Industriale si adopera per la ricomposizione del conflitto e gli operai ottengono la tanto agognata tariffa unica, una prima, importantissima vittoria.

forti 1L’eco di questi concitati avvenimenti arriva anche al governo nazionale, che immediatamente, cercando di operare affinché agitazioni del genere non risuccedano, il 10 novembre 1916, con decreto ministeriale, dichiara “fabbriche ausiliarie” le quattro più grandi aziende pratesi: il Fabbricone, il lanificio Forti, la cimatoria Campolmi e il lanificio Cangioli. Essere fabbrica ausiliaria, non implicava solo un cambiamento dal punto di vista produttivo, perché di fatto si è obbligati a lavorare esclusivamente a fini bellici, ma anche e soprattutto una generale militarizzazione delle maestranze, esonerate sì dall’arruolamento, ma obbligate a sostenere determinati ritmi e condizioni lavorative.

 Nel corso della guerra, quasi tutte le ditte che raggiungono le dimensioni di “media impresa”, ottengono lo status di fabbrica ausiliaria: oltre le quattro grandi aziende sopra citate, vengono militarizzati il lanificio Romei, la Calamai Brunetto, il lanificio Cavaciocchi, la Magnolfi, il polverificio Nobel ecc…

 Alla fine del conflitto la città di Prato aveva prodotto coperte da campo e casermaggio e panno grigio-verde per un valore di 177.943,038 lire.

In questo quadro di complessiva prosperità delle aziende pratesi, risulta più facile comprendere l’importanza assunta dall’Unione Industriale nei confronti di tutti i fenomeni di assistenzialismo e beneficenza; anche grazie alle commesse statali, l’associazione degli industriali riesce ad accantonare ingenti somme per il “fondo di beneficenza”; in quest’ottica risulta per loro quasi naturale rivolgersi alla Croce Rossa perché questo fondo sia ben destinato e risulti utile sostegno alle vittime di guerra.

forti 3A Prato, al momento della costruzione degli ospedali militari da parte della Croce Rossa si assiste a una miriade di gesti di solidarietà da parte degli industriali, sia a livello privato, che come Unione: c’è chi offre la propria vettura con autista, come il Cangioli e il Canovai, chi si impegna a fornire quantitativi sempre crescenti di borra (lo scarto lanuginoso della filatura cardata) usata per riempire i materassi delle lettighe, come la fabbrica Forti, chi regala coperte (quasi tutti i lanifici) e chi contribuisce con pane e pasta per i ricoverati, come il pastificio Ciampolini, erede di Antonio Mattei, il famoso “Mattonella”. Da parte sua l’Unione Industriale non è da meno, in quanto finanzia la costruzione dei due ospedali territoriali di Croce Rossa con un investimento iniziale di 10.000 lire e continuerà a contribuire fino al 1918, con un contributo mensile di 3.500 lire al mantenimento dei vari reparti ospedalieri.
Questo proficuo e duraturo rapporto tra Unione Industriale e Croce Rossa in una situazione di emergenza come risulta essere quella bellica, non manca di essere sottolineato con continui e solenni ringraziamenti da parte dell’ente benefico: alla fine del conflitto il Comitato Centrale della CRI farà richiesta del diploma di benemerenza per l’U.I.P., che riceverà la Medaglia d’Argento.

Una vicenda particolare e degna di nota è quella che riguarda il rapporto tra Croce Rossa e il Fabbricone, il lanificio Kössler, Mayer & Klinger, l’unica azienda tessile pratese a capitale austro-tedesco. Come è facilmente intuibile, il Fabbricone, proprio per la natura dei suoi proprietari e per la presenza di quadri e tecnici di nazionalità austriaca e tedesca, è oggetto di una pesante campagna diffamatoria da parte dei nazionalisti pratesi, che ne avrebbero addirittura voluto lo smantellamento. Di fatto, però, i 1200 telai e i 1500 operai impiegati sono una risorsa non trascurabile per il Comitato per la Mobilitazione Industriale, che di fatto ignora queste remore iniziali e dichiara ausiliaria la più grande azienda tessile pratese. Anche la Croce Rossa, probabilmente influenzata dal clima di sospetto cittadino nei confronti di questo “gigante produttivo straniero” si trova in difficoltà a gestire i rapporti con il Fabbricone, che come molte altre ditte pratesi vuole rendersi utile e offrire sostegno all’ente benefico. I dirigenti della fabbrica, oltre a donazioni pecuniarie e di materiale tessile, addirittura offrono alla CRI parte dei loro locali per l’allestimento di ospedali e punti di pronto soccorso; il Comitato della CRI, dopo aver inizialmente accettato la generosa offerta, si vede costretto a rifiutare e compiere un passo indietro, anche in considerazione dell’atteggiamento negativo di una parte importante della società civile pratese, che arrivò a raccogliere centinaia di firme contro detta iniziativa in un documento intitolato “Viva l’Italia! Abbasso l’Austria!”.

Luisa Ciardi si è laureata in storia contemporanea all’Università di Firenze con una tesi sulla storia sociale d’impresa. Ha frequentato il master di archeologia industriale presso l’Università di Padova e attualmente lavora presso la Fondazione CDSE della Valdibisenzio e Montemurlo. Le sue ricerche spaziano dalla storia locale alla storia dell’industria, alla storia della seconda guerra mondiale, con un particolare interesse per la storia orale. è membro dal 2012 di AISO (Associazione Italiana di Storia Orale).

Tra le sue pubblicazioni si ricordano:

Il lanificio Silvaianese. Un’azienda a misura di famiglia e di territorio (1945-1989) , Prato, Pentalinea, 2011.

La Spiga e la Spola: contadini e operai nella Vaiano degli anni ’50, in Alle origini del Comune di Vaiano (1949-1951), Catalogo della mostra, a cura di A. Cecconi, Prato, CDSE della Valdibisenzio, 2011.

I pratesi, contadini, operai, imprenditori. L’etica del lavoro a Prato nel passaggio fra agricoltura e industria, in “Microstoria. Rivista toscana di storia locale”.

Il fiuto dei Bardazzi per la lana. La famiglia vaianese e la rete di finanziamento informale alle industrie della Valle, in “Microstoria. Rivista toscana di storia locale”.

Articolo pubblicato nel settembre del 2015.




Storie di confino: il poggibonsese Angiolo Corsi

La letteratura che riguarda il confino di polizia può annoverare contributi di personaggi di primissimo livello del panorama antifascista, sia politico sia culturale. Tra le testimonianze più importanti ci sono quelle di Carlo Levi, Cesare Pavese e Leone Ginzburg, ma i numeri riguardanti i confinati durante il fascismo furono importanti e influenti (circa 15 mila persone) e non interessarono solo gli antifascisti ma tutti coloro i quali erano ritenuti particolarmente pericolosi per l’ordine pubblico.

Anche in provincia di Siena furono effettuate numerose assegnazioni al confino, dal 1926 in poi, che cercarono di colpire l’ossatura delle strutture clandestine del partito comunista e, in misura minore, del partito socialista e del movimento anarchico. Tra le diverse forme di limitazione della libertà (carcere, confino, internamento, ammonizione, sorveglianza speciale, diffida), il confino riguardò 129 antifascisti per una condanna a 380 anni complessivi. Secondo quanto riportato da Rineo Cirri (L’antifascismo senese nei documenti della polizia e del Tribunale Speciale 1926-1943), nel complesso furono 699 le persone che tra il 1926 e il 1943 subirono un deferimento al Tribunale speciale; “ad ognuno di questi antifascisti sono collegate vicende umane, storie dolorose di famiglie e di gruppi di persone con le loro sofferenze, i loro dolori e i loro drammi ma anche le speranze di una parte della popolazione di vivere in una società più giusta”.

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Angiolo Corsi

Alcuni personaggi di primo piano della lotta antifascista e anche del periodo di ricostruzione democratica in provincia di Siena hanno raccontato in libri, memorie e diari le proprie esperienze al confino, e tra gli altri Fortunato Avanzati “Viro” e Mauro Capecchi “Faro”. Per ricostruire le biografie e i percorsi personali e politici di altri militanti è invece necessario ricorrere ad altri tipi di fonte, come le note giudiziarie, gli atti dei Tribunali speciali, le carte di prefetture e i verbali di carabinieri e poliziotti. In questo contributo il personaggio di cui si racconteranno le vicissitudini è Angiolo Corsi, nato nel 1905 a Poggibonsi, di professione falegname.

Corsi fu arrestato per la prima volta il 26 luglio 1932 a Poggibonsi, all’età di 27 anni; la scheda  personale nel Casellario Politico Centrale del 28 agosto 1932 riporta queste informazioni: “Cicatrice sopracciglio sinistro, mancante falange mano, abbigliamento solito: da operaio. E’ di regolare condotta morale e immune da pendenze e precedenze penali. In precedenza non aveva mai dato luogo a rilievi in line apolitica né di nutrire sentimenti contrari al regime. Essendo venuto a risultare che faceva parte del comitato federale comunista costituitosi clandestinamente in Poggibonsi ed era in relazione con funzionari e fiduciari del partito stesso, distribuiva la stampa sovversiva e distribuiva materiale di propaganda. Raccoglieva gli oboli per il soccorso alle vittime politiche e loro famiglie e prendeva parte alle riunioni clandestine del partito. Funzionava anche da corriere per il collegamento e trasporto di stampa sovversiva tra Empoli- Poggibonsi e Siena. Per tale reato pende tuttora provvedimento penale a di lui carico. Esercita il mestiere di falegname, da cui trae i mezzi di sussistenza.

Nonostante questi dettagliati indizi a suo carico, Corsi fu prosciolto per insufficienza di prove. L’arresto successivo avverrà nell’aprile del 1934 per “compartecipazione a organizzazione comunista” e l’8 giugno sarà condannato a cinque anni di reclusione di cui due di libertà vigilata. Fu condotto al carcere di Roma il 10 febbraio 1935 e, dopo la sentenza del 5 aprile 1935, la condanna fu confermata ma gli saranno condonati due anni.

Il 20 febbraio 1937 gli venne concesso l’indulto, revocato però solo due mesi dopo dal Tribunale di Siena. Le notizie successive risalgono poi al 25 luglio 1940, quando una nota riservata della prefettura di Siena, firmata dal prefetto, dispose la scarcerazione e il foglio di via alla volta di Avellino; questa volta Corsi fu accusato per avere pronunciato frasi disfattiste sulla posizione dell’Italia in guerra.

Il Foglio di via obbligatorio di Corsi

Il Foglio di via obbligatorio di Corsi

Il comune scelto fu quindi Teora (Avellino), dove Corsi giungerà il 27 luglio 1940. Lì ebbe diversi problemi nel rapportarsi alle autorità locali del regime; appena giunto a Teora scrisse, infatti, al questore di Avellino per richiedere il rimborso di 25 lire per il viaggio effettuato da Avellino alla volta di Teora dai suoi familiari più stretti (moglie e figlio). La lettera riporta evidenti errori grammaticali, ma contiene una puntuale lamentela sui torti subìti, sui quali Corsi aveva informato anche Questura di Siena e comune di Poggibonsi.

Il questore di Avellino, Vignali, risponde in modo molto seccato con una nota al podestà di Teora in cui dice: “Il soprascritto Angelo Corsi ha fatto pervenire alla R. Questura di Siena un esposto con il quale, usando una forma alquanto altezzosa, chiede di essere rimborsato delle spese che la moglie ha sostenuto per il tratto di viaggio da Avellino a Teora e cerca di polemizzare e di fare ricadere la colpa al Municipio di Poggibonsi e alla R. Questura di Siena. […] Si prega di richiamare il C. a tenere un comportamento più corretto e a scrivere, sempre che gli capiterà di scrivere ad autorità costituite, con la forma dovuta e senza alterigia.

Il 9 ottobre 1941 Corsi chiese di essere trasferito ad altra località (la richiesta fu però respinta) e il 9 gennaio 1942 lo stesso Corsi chiese 35 lire per la risolatura delle scarpe, ormai consumate e non adatte al rigido inverno dell’Appennino. Il questore Vignali respinse anche questa richiesta. L’assegnazione al confino terminò il 22 febbraio 1942 e così Corsi potè far ritorno a Poggibonsi, dove non terminerà la sua attività politica.

Corsi, infatti, ricoprì un ruolo nevralgico nell’organizzazione dei primi gruppi di combattimento in Valdelsa, occupandosi anche del reclutamento e della formazione dei giovani più vicini alle strutture clandestine del P.C.I., come testimonia un giovane collega del Corsi, Fortunato Fusi, ricordandone le vicende.

Dalle notizie fornite dai colleghi falegnami della ditta Lucita di Poggibonsi e dalle memorie di Treves Frilli, figura di riferimento del C.L.N. e del P.C.I. a Poggibonsi, emerge un carattere molto aspro e diretto, che procurerà a Corsi diversi grattacapi anche nella quotidianità della vita politica del dopoguerra, come è rintracciabile nella corrispondenza tra Corsi e i dirigenti locali del P.C.I. a Poggibonsi negli anni Cinquanta e Sessanta.

Quella di Angiolo Corsi, pur rappresentando solo una tessera del mosaico che può ricomporre la storia dell’antifascismo popolare, è una vicenda indicativa e sintomatica di come la scelta della militanza antifascista non badava a spese, a costo di dover subire il carcere o il confino.

Articolo pubblicato nell’agosto del 2015.




Agguato a Montechiaro

Il 29 luglio 1944, verso le 14.00, tre giovani partigiani erano seduti ai bordi di un campo, accanto alla Croce di Montechiaro, una località posta ai piedi della collina di Vinacciano, vicino Pistoia. Aspettavano qualcuno di loro conoscenza, ma, improvvisamente, dal boschetto posto sopra la strada, sbucò un nutrito gruppo di tedeschi. I tre furono falciati dal fuoco nazista: Marcello Capecchi, seppur ferito, riuscì a mettersi in salvo; Giuseppe Giulietti fu ferito gravemente e si trascinò fino alle case più vicine, dove venne finito a freddo dai nazisti; Silvano Fedi fu immediatamente fulminato da una raffica di mitra al petto. I primi due erano capisquadra e il terzo il comandante delle Squadre Franche Libertarie.

Nel giugno del 1944 la formazione si era dovuta occupare di una faccenda piuttosto spinosa: alcuni ladri, detti la “banda del Ponte” (riferendosi al Ponte alla Pergola, da dove veniva la maggior parte di loro), avevano compiuto dei furti nella zona di Silvano. Il 29 giugno quattro di loro furono catturati dai tedeschi e, tre, furono fucilati. Il 17 luglio Silvano li «processò». Li perdonò a patto di restituire la refurtiva e di impegnarsi nella lotta antinazifascista.

Perché parlare di questo episodio? Perché sembra strettamente correlato alla morte di Silvano. Nel dopoguerra, prima velatamente e poi sempre più esplicitamente, quelli della banda del Ponte sono stati accusati di essere i delatori che causarono la morte di Silvano: il 29 luglio Fedi li stava aspettando alla Croce perché dovevano restituire la refurtiva. Questa è sicuramente un’ipotesi plausibile, ma non è la sola e, noi crediamo, nemmeno la più probabile.

disegno silvanoIl 24 luglio Silvano aveva avuto un incontro con rappresentanti del PCI e del PdA per concordare le azioni delle bande in vista del passaggio del fronte. Già il 25 aveva iniziato a riposizionare le sue squadre e, il 29 luglio, quasi tutte erano dislocate nei dintorni di Vinacciano. Quindi, fissando «un appuntamento nei pressi di Montechiaro con diverse persone», doveva sentirsi al sicuro.

In un documento depositato presso l’ISRT si legge che tale appuntamento era «a carattere informativo», ma ci risulta difficile credere che si possa definire in tal modo l’incontro per la restituzione della refurtiva. Inoltre, da vari documenti risulta che Silvano avesse addosso le carte della formazione. Perché avrebbe dovuto portare con sé documenti così importanti e compromettenti ad un appuntamento con dei rapinatori?

È pensabile che uno dei più importanti comandanti partigiani del pistoiese, il 29 luglio, coi tedeschi in ritirata e il fronte dietro la collina, passi il pomeriggio ad aspettare che dei ladruncoli riportino su un barroccio radio, fisarmoniche e prosciutti (i soldi, quelli non spesi, li avevano in parte già restituiti)? E perché farli andare fino a Montechiaro quando la refurtiva doveva tornare nella zona dalla quale i ladruncoli provenivano?

Ma non è tutto. Se fosse stato così lampante che i responsabili della morte di Silvano e Giuseppe erano quelli della banda del Ponte, i partigiani avrebbero potuto trovarli (li conoscevano tutti molto bene) e giustiziarli, e nessuno avrebbe avuto niente da eccepire.

Invece non venne torto nemmeno un capello ai ladri. Non solo, ma almeno due di loro, che avevano militato nella formazione di Fedi prima dei furti, furono ripresi in formazione fino alla Liberazione.

A questo punto, o si immagina un gigantesco complotto per eliminare Silvano, in cui erano coinvolti i suoi stessi uomini, o l’ipotesi della delazione da parte dei ladri non regge.

Se l’incontro era veramente «a carattere informativo», dobbiamo pensare ad un confronto di natura politica o militare che presuppone la presenza di antifascisti di altro orientamento politico (che effettivamente erano presenti quel giorno nella zona) e allunga di molto la lista dei sospetti.

Allora chi furono i responsabili della delazione? Dai documenti che abbiamo trovato finora, non siamo stati in grado di stabilirlo, ma, se non altro, possiamo mettere in dubbio in maniera documentata alcune ipotesi improbabili.

 

Roberto Aiardi, nato a Pistoia nel 1945, ha lavorato prima come maestro elementare, poi al museo civico e, infine, ai servizi sociali del comune di Pistoia. Attualmente in pensione, dal 2007 si è dedicato alla ricerca storica sul periodo della Resistenza a Pistoia.

Ilic Aiardi, nato a Pistoia nel 1971, laureato in biologia, lavora come docente di scienze naturali presso il Liceo Statale «Forteguerri» di Pistoia.

Articolo pubblicato nel luglio del 2015.




Firenze, luglio ’45: il ritorno della bellezza

«Il San Giorgio di Donatello! Quale perdita più dolorosa poteva subire Firenze?», esclamò il “monument man” Frederick Hartt quando, nell’agosto del 1944, si scoprì che l’esercito tedesco, nella sua ritirata verso Nord, aveva requisito centinaia di opere d’arte custodite nelle ville toscane e provenienti dagli Uffizi, dal Bargello, da Palazzo Pitti.

Da quel momento iniziò un lavoro congiunto, almeno nelle fasi iniziali, tra Soprintendenza fiorentina e ufficiali della MFAA (Monuments Fine Art and Archives subcommission, la commissione dell’esercito alleato per la salvaguardia delle opere d’arte), per capire intanto la possibile ubicazione delle opere, in un’Italia divisa in due e con il Nord ancora molto lontano da una definitiva liberazione dalle truppe tedesche.

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Luglio 1944: soldati tedeschi trasportano a Nord il dipinto di Botticelli “Pallade e il Centauro” degli Uffizi, prelevato da villa Bossi Pucci a Montagnana (Montespertoli) [Archivio Museo Casa Siviero]

Con i tedeschi in ritarata, infatti, il più grande pericolo per le opere d’arte mobili non fu costituito solo dai bombardamenti alleati e dalle mine tedesche, ma anche dalle requisizioni che i nazifascisti iniziarono a compiere sistematicamente avanzando verso Nord: centinaia di opere furono prelevate dai vari rifugi e, lungo una rincorsa per tutta Italia, scortate in depositi in Alto Adige e in alcuni casi in Austria e Germania.

A tali ritiri, effettuati per motivi diversi (sincera protezione delle opere, tesaurizzazione di beni in vista della imminente fine della guerra, illecite sottrazioni destinate a singoli collezionisti), si aggiunsero furti di intere collezioni di famiglie ebree o “nemiche”.

Se nel senese e nel pisano si registrarono solo casi isolati di requisizioni o furti, nell’area fiorentina l’estate del 1944 fu un momento cruciale per i ritiri e le razzie di opere d’arte. Tra la fine di giugno e l’inizio del luglio 1944 dalla villa di Montagnana nel comune di Montespertoli furono sottratti centinaia di quadri della Galleria Palatina e degli Uffizi (come il Bacco di Caravaggio e Pallade e il centauro di Botticelli). A fine agosto fu la volta della villa medicea di Poggio a Caiano, dove furono prelevate in più giorni 58 casse contenenti sculture come la Venere dei Medici degli Uffizi e le più note sculture rinascimentali del Bargello, come il San Giorgio di Donatello e il Bacco di Michelangelo.

Già dall’agosto 1944, il soprintendente alle Gallerie fiorentine Giovanni Poggi e gli uomini della MFAA lavorarono senza sosta per capire dove potevano trovarsi le opere requisite: la ricerca comportò l’indispensabile azione diplomatica dell’arcivescovo di Firenze Elia Dalla Costa, e le sue indagini attraverso i canali del Vaticano. Nell’autunno del 1944 iniziarono a trapelare le prime informazioni sulla possibile presenza in Alto Adige dei depositi e finalmente nel maggio 1945 furono individuati i due rifugi: si

Alto Adige, Campo Tures, Castello di Neumelans. Filippo Rossi e Deane Keller davanti alle opere del Bargello, maggio-giugno 1945

Alto Adige, Campo Tures, Castello di Neumelans. Filippo Rossi e Deane Keller davanti alle opere del Bargello, maggio-giugno 1945

trovavano oltre Bolzano, uno a San Leonardo in Passiria e l’altro a Campo Tures a Neumelans. Al castello di Neumelans a Campo Tures furono ritrovate le opere asportate da Poggio a Caiano, Poppi, Dicomano e Soci, mentre nel deposito di San Leonardo in Passiria si trovavano i dipinti prelevati a Montagnana. La resa nazista era oramai già avvenuta quando gli ufficiali tedeschi consegnarono le chiavi e gli accurati inventari dei due depositi.

La settimana dopo arrivarono a Campo Tures da Firenze anche Frederick Hartt e Filippo Rossi, direttore della Galleria degli Uffizi, non solo per accertarsi dell’effettivo ritrovamento delle opere dei musei fiorentini, ma anche per organizzare le non semplici operazioni per il “ritorno a casa” delle opere. Dopo aver scartato la possibilità di un trasporto con autocarri, fu scelta la via del treno, nella speranza di un’imminente riattivazione dei collegamenti ferroviari tra Centro e Nord Italia.

Il 10 luglio 1945 il primo ministro sudafricano Jan Smuts scoprì finalmente all’imbocco nord della Grande Galleria dell’Appennino la targa commemorativa dell’opera di ricostruzione della Direttissima fatta dagli uomini del Railway Construction Engineers. Dieci giorni dopo, un convoglio ferroviario che trasportava, come stimò Filippo Rossi, «mezzo miliardo di opere d’arte», attraversò la Direttissima. Il 20 luglio 1945 da Bolzano erano partiti tredici vagoni con all’interno, tra gli altri capolavori, anche il San Giorgio; alle due di pomeriggio del 21 luglio il convoglio giunse a Firenze, alla stazione di Campo di Marte, accolto da Giovanni Poggi.

La cerimonia di restituzione delle opere d'arte a Firenze, 22 luglio 1945

La cerimonia di restituzione delle opere d’arte a Firenze, 22 luglio 1945

Il giorno seguente, il 22 luglio 1945, fu organizzata in piazza della Signoria la solenne cerimonia di restituzione delle opere, con la Loggia dei Lanzi stipata di dignitari alleati e italiani, il generale Edgar Hume e il sindaco di Firenze Gaetano Pieraccini. Insieme a loro, oltre alla folla esultante al passaggio del convoglio, che con le grida e gli applausi copriva il suono dei trombettisti in costume, si trovavano tutti coloro che, come Ugo Procacci, avevano trascorso gli anni della guerra a tutelare il patrimonio artistico e, gli ultimi mesi, con grande fatica, a ricollocare, ricostruire, restaurare. In vista di un’imminente riapertura di tutti i musei.

Sicuramente la cerimonia del luglio 1945 rimase un evento storico, e nella nota biografica che Procacci stilò, su richiesta di Pieraccini, per motivare la cittadinanza onoraria ad Hartt, ricordò con emozione quel giorno in cui «furono fatti i festeggiamenti per la riconsegna dei grandi tesori delle nostre gallerie», il giorno in cui Hartt «diceva, commosso fino alle lacrime, che quello era uno dei momenti più belli della sua vita».

Articolo pubblicato nel luglio del 2015.




Spaesamenti. Antifascismo, deportazioni e clero in provincia di Livorno

Sono ormai passati 70 anni dal 25 aprile 1945: gli studi storici non hanno mai smesso di indagare le vicende della Resistenza e della società italiana in tempo di guerra, questioni fondamentali per la comprensione del nostro paese oggi. Ogni tempo pone domande differenti al passato, segno del cambiamento degli strumenti concettuali e delle sensibilità interpretative.

Spaesamenti. Antifascismo, deportazioni e clero in provincia di Livorno, Ets, Pisa, 2015, pubblicato a cura dell’Istituto Storico della Resistenza e della Società Contemporanea nella provincia di Livorno (Istoreco), cerca di portare un contributo articolato e innovativo su temi poco frequentati dalla storiografia, partendo da alcune ricerche relative al territorio di Livorno. Il volume verrà presentato in occasione dell’inaugurazione della nuova sede dell’Istoreco il prossimo 21 luglio.

Lo spaesamento è la parola chiave che riunisce tutti i saggi, in primo luogo come disorientamento soggettivo, provato dalle persone a causa delle distruzioni e dei drastici cambiamenti imposti dalla guerra. Ma uno spaesamento vi fu anche in senso figurato: sia come alterazione oggettiva del paesaggio tradizionale che come negazione del concetto stesso di Paese, ormai in balia di forze militari straniere. In questa accezione Livorno rappresenta certamente un caso limite: nella seconda metà del 1943 la città venne completamente evacuata dai bombardamenti alleati e dall’esercito di occupazione nazista.

Spaesamenti_CopertinaTra il maggio e il novembre 1943 la guerra cambiò infatti radicalmente il volto della città. Col suo porto e le sue grandi industrie, il capoluogo pagò a caro prezzo la centralità logistico-strategica che aveva assunto nello scacchiere bellico del Mediterraneo divenendo un obiettivo militare d’eccellenza. Prima le tre grandi incursioni aeree angloamericane (28 maggio, 28 giugno, 25 luglio) che, bombardando a tappeto la città, distrussero buona parte del patrimonio urbanistico, poi il forzato sgombero del centro cittadino imposto dal Comando tedesco tra l’ottobre e il novembre generarono un esodo di massa che per intensità e modalità di attuazione non ebbe eguali in Toscana. Secondo alcune fonti alleate solo 20.000 dei circa 130.000 abitanti dell’anteguerra, si trovavano in città al momento dell’arrivo delle truppe liberatrici il 19 luglio 1944; mentre, stando alle cifre dell’Ufficio tecnico del Comune, degli edifici del centro, poco più dell’8% rimase illeso. La provincia fu così privata del capoluogo, la sua popolazione completamente rimescolata.

I saggi contenuti nel volume curati da quattro giovani storici (Stefano Gallo, Matteo Caponi, Enrico Acciai e Gianluca della Maggiore) e dal direttore Istoreco, Catia Sonetti, partono da questa riflessione per declinare domande differenti che toccano molteplici aspetti della società livornese nel corso della guerra. Il faticoso tentativo di organizzare una rete clandestina antifascista nel territorio provinciale (Gallo), la storia della deportazione di un nucleo di famiglie ebraiche rifugiate al Gabbro, nelle colline livornesi (Acciai), la ricostruzione delle giornate a ridosso del 25 luglio ’43 a Rosignano, piccola città-fabbrica della costa (Caponi), lo straordinario resoconto del vissuto quotidiano di Ivo Michelini, un internato militare in Germania (Sonetti), lo sfollamento del clero della diocesi di Livorno impegnato nella ricerca di salvezza fisica ma anche nel dare sostegno spirituale alle comunità (della Maggiore). Si tratta di lavori che pongono nuove domande alla nostra storia, proponendo altrettante piste di ricerca per la storia locale e non solo.

“A lungo – scrive Daniele Menozzi, ordinario di storia contemporanea presso la Scuola Normale di Pisa, nell’introduzione al volume – gli studi storici sulla Resistenza nel nostro paese, a differenza di quanto al contempo accadeva in diverse storiografie europee, si sono concentrati sulla lotta armata condotta dalle bande partigiane. Negli ultimi due decenni si è però assistito ad un mutamento di indirizzo. Una crescente attenzione è stata rivolta ad indagare fenomeni che di volta in volta, a seconda degli autori, sono stati definiti con diverse categorie: “Resistenza civile”, “Resistenza passiva”, “Resistenza non armata”, “Resistenza non violenta” o più semplicemente e genericamente “lotta non armata nella Resistenza”. Un sintagma, quest’ultimo, utilizzato per sottolineare l’unità del processo resistenziale in tutte le sue dimensioni, con l’intento di evitare il ricorso a scelte linguistiche che potrebbero, anche involontariamente, introdurre elementi di divisione e di gerarchizzazione nelle varie forme dell’impegno contro la barbarie nazifascista”.

Michelini

Ivo Michelini da militare. Fonte: archivio privato famiglia Michelini.

“Senza dubbio – continua Menozzi – un contributo a questi nuovi orientamenti è venuto dal diffondersi della consapevolezza, maturata sulla base della considerazione delle tragedie che hanno percorso il Novecento, che la pratica della violenza bellica ha comportato, per il livello degli strumenti di distruzione messi in campo, drammi, orrori, distruzioni terribili. In questa chiave si è profilata la tendenza a valorizzare sul piano storico i comportamenti di coloro i quali, individualmente e collettivamente, hanno deciso di manifestare la loro intenzione di opporsi all’aggressione e all’oppressione senza ricorrere all’uso delle armi. Ovviamente la pratica di questa linea storiografica non voleva dire sminuire il significato della scelta compiuta da quanti, offrendo una testimonianza alta della loro disponibilità al sacrificio, avevano in coscienza ritenuto che non vi era altra strada per sottrarsi agli ordini delle dittature che intraprendere la lotta armata. Si trattava soltanto di indagare in maniera più estesa e diffusa la varietà di forme che aveva assunto la Resistenza per restituire, con un evidente intento pedagogico nei confronti di un presente in cui minacce di guerra si facevano di nuovo incombenti, le modalità con cui si era ritenuto di poter reagire alla violenza senza cedere ai suoi stessi metodi”.

“Il volume collettaneo che l’Istoreco ha deciso di pubblicare in occasione del settantesimo anniversario della Liberazione – conclude lo storico della Normale – si inserisce perfettamente in questo nuovo filone di studi sulla Resistenza, fornendo una serie di originali apporti conoscitivi su diverse manifestazioni dell’opposizione al nazifascismo che si sono verificate nella provincia di Livorno. […] Proprio saggi come quelli qui raccolti evidenziano che le fonti disponibili possono aprire una nuova stagione di ricerche che, private delle connotazioni politico-ideologiche a lungo coltivate dalla storiografia resistenziale, assumono un particolare rilievo per il nostro presente. Mostrano infatti che la democrazia italiana non è stata costruita soltanto sulle armi degli alleati e dei partigiani, ma anche sulla base di un passaggio di larghi strati popolari dal consenso al rifiuto del totalitarismo. Un atteggiamento che si è poi declinato nella storia repubblicana, a partire dal processo costituzionale, in forme politiche diverse e molteplici, ma di cui – anche per evitare pericolosi sbandamenti che le odierne propagande politiche non ci risparmiano – gli studi storici sono chiamati a tener ben viva la memoria”.

Articolo pubblicato nel luglio del 2015.




7 luglio 1944: le donne salvano Carrara

Il 7 luglio del 1944, nelle strade di Carrara, compare un bando di sfollamento: il comando tedesco ordina che di lì a due giorni venga evacuata la città, a esclusione delle famiglie degli operai impiegati nell’Organizzazione Todt che stanno fortificando le difese della futura Linea Gotica occidentale. Le forze di occupazione vogliono una città deserta, che non dia problemi amministrativi né di ordine. Soprattutto, vogliono fare il deserto attorno alle prime forme nascenti del movimento partigiano. Le cose, però, non andranno secondo i piani delle autorità nazifasciste: a fermarle saranno le donne di Carrara.

La città apuana, in quel momento, ospita migliaia di sfollati provenienti dai territori limitrofi: la zona costiera tra La Spezia e Marina di Massa, infatti, deve restare sotto il controllo tedesco per respingere eventuali sbarchi delle forze alleate. Alle spalle di Carrara, inoltre, il naturale catenaccio delle Alpi Apuane viene individuato come elemento strategico: una difesa naturale per stabilire l’ultimo baluardo contro l’avanzata dell’esercito di liberazione. Così, da settembre del ‘44 ad aprile del ‘45, il fronte si stabilirà lungo la Linea Gotica.

Nei mesi precedenti i comandi nazisti ordinano di «pulire» il territorio dalla presenza di civili, per trasformarlo in una gigantesca no man’s land che consenta alle loro truppe di muoversi liberamente, ricevere rifornimenti e approntare le difese. E’ la strategia della «terra bruciata», che oltre alle stragi porta anche una lunga serie di ordini di evacuazione: per la Provincia di Apuania si tratta di prelevare e trasferire oltre duecentomila persone verso la bassa padana; per la popolazione significa lasciare tutto ciò che non si riesce a racchiudere in un’unica valigia.

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Francesca Rola con i partigiani della “Ulivi”

La Resistenza apuana, in quel momento, è ancora in stato embrionale: il movimento partigiano ha messo radici dapprima nelle colline dell’alta Lunigiana, ideale rifugio per le tattiche della guerriglia; sui monti di marmo, invece, si vanno formando i primi gruppi ancora disorganizzati ma che, già il 14 luglio, riusciranno ad assaltare con successo la caserma di polizia del «Colombarotto», nel pieno centro di Carrara. Non hanno ancora, però, la forza di scendere in città, assumerne il controllo e costringere il nemico a scendere a patti, cosa che avverrà qualche mese dopo, l’11 novembre del 1944. In altri termini, in quel momento non possono essere i partigiani della formazione garibaldina «G. Ulivi» a salvare Carrara fermando il piano di evacuazione.

L’occasione, però, può essere propizia per due motivi: saggiare la forza e la capacità organizzativa del nemico, per vedere se è davvero in grado di deportare decine di migliaia di persone in un solo giorno; verificare la presa popolare del movimento resistenziale sui cittadini carraresi. Il Cln e i Gruppi di difesa della donna (Gdd) cominciano a mobilitarsi: appaiono per le strade di Carrara dei volantini che invitano gli apuani alla disobbedienza. Si attiva anche un passaparola che sfugge alle maglie della polizia fascista: «non abbandonare la città» è la parola d’ordine che corre di casa in casa. Il giorno previsto per lo sfollamento, il 9 luglio, passa senza che accada nulla e il movimento prende corpo e coraggio: all’avanguardia c’è un ristretto nucleo composto da militanti come Ilva Babboni, Francesca Rola, Sandra Gatti, Nella Bedini, Renata Bacciola, Lina Boldi, Lina Del Papa, Dorina Mazzanti, Mercede Menconi, Odilia Brucellaria, Renata Brizzi. Preparano cartelli con scritte «Noi non vogliamo sfollare» o «Non ci muoviamo dalla città»: l’obiettivo è una grande dimostrazione davanti al comando tedesco.

La mattina dell’11 luglio, un martedì, qualcosa si muove. Le militanti vanno per le vie e le case a chiamare a raccolta le donne di Carrara. Attorno alle 9.30 si ritrovano nella Piazza delle Erbe dove si tiene il mercato ortofrutticolo. Serve un gesto, qualcosa che coinvolga le altre donne che tengono le ceste del mercato, provenienti perlopiù da Massa e Montignoso, e che trasformi un piano ristretto in una manifestazione di popolo: rovesciano le ceste. Un atto spregiudicato e, al contempo, simbolico: la donna che rovescia e rovina del cibo è un attacco diretto al suo ruolo nella società di quegli anni, e il tutto avviene non nell’intimità del nucleo familiare, né tra un ristretto nucleo di avanguardiste. Il rovesciamento, non solo delle ceste ma del ruolo della donna, avviene alla luce del sole, ben visibile a tutti e ottiene lo scopo prefissato. Il corteo, ora composto da centinaia di donne e ragazzi, compie un altro passaggio cruciale: lascia lo spazio pubblico femminile per definizione, il mercato, e si dirige verso la via Garibaldi (odierna via 7 luglio) per invadere un luogo pubblico-militare esclusivamente maschile, il comando tedesco. Questo è presidiato da soldati nazisti e militi fascisti repubblicani che, immediatamente, sbarrano i due ingressi alla strada con mezzi pesanti precludendo tutte le vie di fuga. Le manifestanti, cui si mescolano partigiani in borghese con le armi nascoste sotto dei camici lunghi, urlano, cantano, si sdraiano a terra e si scagliano contro i soldati nemici che gli puntano contro le armi – tra cui due mitragliatrici – pronti a far fuoco. Alcune vengono arrestate e tradotte in caserma, ma la loro furia non si ferma e, infine, l’ordine di evacuazione viene sospeso.

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Il murale che Carrara ha dedicato a Francesca Rola

Nei mesi successivi saranno emanati altri bandi di sfollamento in rapida successione, coi Gdd pronti a riprendere la contestazione. In ottobre saranno effettivamente evacuate Massa e Montignoso, con circa ventimila profughi che si riverseranno su Carrara, accolti in ogni spazio che la città può offrire tra cui abitazioni private, magazzini, fondi commerciali, cinema e teatri. La città apuana, però, non verrà più sfollata, consentendo al movimento partigiano di mettere salde radici e trovare sostegno nella popolazione, fino a divenire una delle forme resistenziali meglio organizzate del territorio.

La rivolta di Piazza delle Erbe rimane nella memoria come momento di emancipazione collettiva. Le donne carraresi, da quel momento, si sentono protagoniste dei destini non solo di un nucleo familiare, ma di un intero popolo. Non si tratta di «Resistenza civile» come qualcosa di diverso e complementare a quella partigiana e armata, né di allargare il concetto alla forma plurale delle «Resistenze» per comprenderne la variante di genere; si tratta, invece, dell’atto fondante della Resistenza apuana.

Articolo pubblicato nel luglio del 2015.