Antifascista per sé: Cristina Lenzini (1903-1944)

In seguito ad un accanito rastrellamento operato da ingenti forze tedesche contro la formazione, l’Ardemanni che proteggeva con la mitragliatrice il ripiegamento dei suoi compagni, veniva colpita gravemente da un colpo di mortaio nemico per cui decedeva all’istante.”[1] Con queste parole la Commissione regionale per il riconoscimento partigiano attribuisce a Cristina Lenzini in Ardimanni la qualifica di partigiana combattente caduta[2].

L’8 agosto 1944 sul monte Gabberi le compagnie III e IV della X bis brigata Garibaldi “Gino Lombardi”, guidate da Bandelloni, Palma e dal Porto, sono impegnate contro nazisti e fascisti per la seconda volta nel giro di pochi giorni dopo gli scontri sul monte Ornato, con pochi mezzi e isolate rispetto al resto della Brigata che ha deciso di ripiegare sul Lucese[3].
Lo scontro s’inserisce pienamente nel contesto dell’estate 1944 in cui alla guerra civile (patriottica e di classe) s’intreccia la cosiddetta “guerra ai civili”: la linea Gotica – che rappresenta uno spazio di demarcazione tra due eserciti regolari stranieri, due modelli di occupazione, e due schieramenti opposti di italiani, e un territorio che le comunità vedono mutare profondamento grazie alla guerra -, diventa per i nazisti uno spazio da “bonificare” integralmente, in cui è necessaria una “omogeneizzazione” per il dominio e lo sfruttamento, le cui retrovie devono essere epurate dal pericolo dei banditen, e in cui anche le popolazioni locali vengono ritenute responsabili, assimilate ai partigiani, e quindi soggette alla punizione .
Ma, tornando alla Lenzini, quello in cui perde la vita combattendo è soltanto uno dei tanti momenti in cui la donna lotta contro il fascismo. Purtroppo alla fase attuale della ricerca la sua biografia è ripercorribile a singhiozzi, il periodo antifascista precedente al 1944 è possibile intuirlo tra le pieghe delle fonti di polizia relative agli uomini a cui era legata. Infatti Cristina Lenzini in Ardimanni nata a Pisa nel 1903 da Angelo (Angiolo), bracciante, e Bartolai Rosa, casalinga, è sostanzialmente la moglie di Alfredo Ardimanni nel fascicolo del Casellario Politico Centrale, schedato come comunista (ma vicino anche agli ambienti anarchici); è con lui che condivide le idee antifasciste e con cui nel 1924, insieme al figlio Alberto, sceglie come molti la strada del fuoriuscitismo in Francia, dopo che sarebbero stati proprio due suoi fratelli squadristi a consigliarle, secondo quanto ricostruito dall’Anpi Versilia, di espatriare per evitare le persecuzioni fasciste.
A quanto si apprende dall’interrogatorio di Alfredo, arrestato a Ventimiglia nel 1943, sappiamo qualcosa sulla loro vita in Francia: dalla possibile attività di Alfredo come intercettatore di volontari per la guerra civile in Spagna (negata nelle dichiarazioni ufficiali), al suo internamento allo scoppio della guerra nel campo di S. Cyprien al confine tra Francia e Spagna, dall’andamento altalenante della loro relazione, cui l’Ardimanni attribuisce responsabilità alla condotta morale della moglie Cristina, alla sua messa a disposizione volontaria insieme al figlio per lavorare al servizio dei tedeschi e poi delle truppe di occupazione italiane a Tolone. Non abbiamo fonti a sufficienza che possano smentire o confermare ciò che Alfredo afferma durante l’interrogatorio, non possiamo garantire che sia frutto di una dissimulazione per un estremo tentativo di salvataggio o se si tratti di opportunismo politico.
Nel frattempo ritroviamo Cristina, che per i funzionari di pubblica sicurezza “[è] immune da pregiudizi penali e politici, risulta di buona condotta in genere”, nel 1932 fra la documentazione relativa a Bucchioni Azelio, schedato come pericoloso comunista nel Cpc[4]; originario di Pisa, dove “abitava in prossimità delle abitazioni di Di Paco Ferdinando detto Umberto, del quale ha assunto le generalità, e del comunista Ardimanni Alfredo di Abele col quale era in intimi rapporti di amicizia. Il Bucchioni conviverebbe presentemente con certa Lenzini Cristina, moglie del comunista Ardimanni Alfredo col quale egli avrebbe perciò troncato ogni rapporto di amicizia”.
È, quindi, una storia personale che possiamo percepire solo fra gli interstizi della documentazione, ma guardare in controluce ci permette di osservare possibili vuoti da colmare e di provare a formulare ipotesi di ricerca. Cristina Lenzini è pensata talmente all’ombra delle figure maschili che non ha un fascicolo di riferimento, sintomo che i funzionari di P.S. non pensavano potesse svolgere attività politica, o quantomeno non che potesse farlo in autonomia per propria identità e coscienza, a fianco, insieme e in condivisione delle idee con gli uomini sopra citati: è sorvegliata perché è la moglie di Ardimanni, la convivente o amante di Bucchioni. Esattamente come altre donne antifasciste la Lenzini viene osservata col filtro di uomini che di fatto non concepiscono che le donne possano uscire dalla sfera privata cui dovrebbero essere relegate per svolgere attività politica in autonomia[5]. Non abbiamo fonti al momento che possano colmare i buchi, non siamo a conoscenza, ad esempio, se la donna sia attiva durante la guerra civile in Spagna o quale sia il suo percorso dagli anni Trenta ai Quaranta, ma sappiamo che nel 1942 torna a sua volta in Italia e che entro il 1944 ha maturato con determinazione la scelta resistente.
L’attività partigiana è perciò soltanto l’ultimo atto di un’antifascista di lungo corso, in cui la scelta di resistere imbracciando le armi è probabilmente una decisione vissuta come una necessità di fronte alle violenze del nemico[6]. Una scelta presa per sé, in autonomia, con convinzione e doppiamente in libertà perché, come pure per tutte le donne protagoniste delle varie forme di resistenza, svincolata dagli obblighi imposti agli uomini dai bandi di arruolamento della Rsi: la guerra civile, seppur fase di crisi, permette che si aprano spazi pubblici, politici e militari, che le donne possono occupare, sconfinando dalla sfera privata e al di fuori dal tracciato tradizionale per assumersi la responsabilità delle proprie azioni e trovare una diversa collocazione sociale[7]. Cristina Lenzini, come altre nella sua condizione, decide di resistere rompendo l’ordine naturale delle cose per il quale tradizionalmente la militarizzazione femminile è vista come un fenomeno eccezionale e di disturbo, poiché infrange la statica divisione dei ruoli per cui le armi sono attributi prettamente maschili, mentre alle donne è demandato l’onere riproduttivo. Quest’ultime, concepite “per natura” come più pacifiche rispetto agli uomini, nel momento in cui imbracciano le armi vengono viste come anomalie, dal comportamento sessuale in qualche modo irregolare, “sessualmente libere e disponibili, oppure dalla sessualità «sospesa>» o proibita come le vedove o le vergini”[8]. Ed effettivamente dalle testimonianze raccolte dall’Anpi Versilia e dal linguaggio utilizzato nella documentazione partigiana emerge che la figura della Lenzini è vista o come una eroina spersonalizzata, una combattente pronta all’estremo sacrificio con la mitragliatrice in mano per permettere la ritirata dei compagni, o una donna sola, al pari di una vedova, ricordata dal partigiano Moreno Costa come “una donna decisa, pareva come una mamma con i suoi quarant’anni, a noi che eravamo quasi tutti molto giovani”. Eppure, nonostante questa correlazione con il tradizionale ruolo di madre, ciò non sovrasta o riduce il suo operato, e Cristina è riconosciuta sia formalmente sia informalmente come una combattente dal contributo fondamentale[9]. A lei, che per tutta la vita è stata osservata e giudicata dalla pubblica sicurezza fascista perché antifascisti erano gli uomini con cui aveva relazioni affettive, le viene finalmente riconosciuto, in una singolare forma di giustizia postuma, il merito della scelta e la determinazione nell’averla portata avanti.
Ricostruire biografie fuor di retorica, tentando comunque di restituire un percorso individuale di partecipazione attiva all’antifascismo e alla Resistenza, ci permette oggi di avviare ricerche e approfondimenti che possano riportare alla luce storie personali per provare sia a ridare dignità a chi come singolo ha lottato contro i fascismi, sia ad aggiungere un tassello nella complessiva storia dei fenomeni di antifascismo e Resistenza.

Note:

1. AISRECLU, Ricompart, b. 237, L. Bandelloni, fasc. Ardemanni Cristina.
2. F. Bergamini, G. Bimbi, «Per chi non crede». Antifascismo e Resistenza in Versilia, a cura dell’ANPI Versilia, 1983.
3. Sono i luoghi lungo il versante occidentale della linea Gotica in cui la ritirata aggressiva di nazisti e fascisti è caratterizzata dalle stragi e da episodi di violenza che risulterebbero essere 49 soltanto in Versilia e nelle aree collinari e montane, tra cui citiamo la strage di tipo eliminazionista di Sant’Anna di Stazzema. Cfr. G. Fulvetti, P. Pezzino (a cura di), Zone di guerra, geografie di sangue. L’Atlante delle stragi naziste e fasciste in Italia (1943-1945), Bologna, Il Mulino, 2016; Cfr. M. Battini, P. Pezzino, Guerra ai civili. Occupazione e politica del massacro. Toscana 1944, Venezia, Marsilio, 1997; Cfr. P. Pezzino, Sant’anna di Stazzema. Storia di una strage, Bologna, Il Mulino, 2013; Cfr. Claudio Pavone, Una guerra civile. Saggio storico sulla moralità nella Resistenza, Torino, Bollati Boringhieri, 2006; Cfr. L. Klinkhammer, L’occupazione tedesca in Italia 1943 – 1945, Torino, Bollati Boringhieri, 1993.
4. ACS, Cpc, b. 877, fasc. Bucchioni Azelio; http://www.antifascistispagna.it/?page_id=758&ricerca=852 [ultima consultazione: 31/03/2023]. Bucchioni Azelio emigra in Francia, in Belgio e poi in Corsica, immerso in una discreta rete di antifascisti comunisti, fa attività di propaganda e nel 1936 durante la guerra civile in Spagna partecipa come combattente nella Sezione italiana. Nel 1941 è in Francia nuovamente dove pare svolgere “attività politica di orientamento anarchico” e poi arrestato in Belgio nel 1943, da cui viene deportato dalle autorità tedesche prima nel campo di concentramento di detenzione temporanea e di transito di Herzogenbusch in Olanda e successivamente a Neuengamme (Amburgo), dove muore il 18 febbraio 1945. Su Bucchioni Azelio si v. anche la voce nel Dizionario biografico degli anarchici italiani online: https://www.bfscollezionidigitali.org/entita/13256-bucchioni-azelio?i=0 [ultima consultazione: 31/03/2023]
5. M. Guerrini, Donne contro. Ribelli, sovversive, antifasciste nel Casellario Politico Centrale, Milano, Zero in condotta, 2013; G. De Luna, Donne in oggetto. L’antifascismo nella società italiana 1922-1939, Torino, Bollati Boringhieri, 1995.
6. Cfr. L. Martin, «Come ti ho fatto ti disfo». Intorno a donne e violenza agita nella Resistenza, «Zapruder», n. 32, 2013,
7. Cfr. D. Gagliani, E. Guerra, L. Mariani, F. Tarozzi (a cura di), Donne, guerra, politica. Esperienze e memorie della Resistenza, Clueb, Bologna 2000; R. Fossati, Donne guerra e Resistenza tra scelta politica e vita quotidiana, «Italia contemporanea», n. 199, 1995.
8. P. Di Cori, Partigiane, repubblichine, terroriste. Le donne armate come problema storiografico in (a cura di) G. Ranzato, Guerre fratricide. Le guerre civili in età contemporanea, Torino, Bollati Boringhieri, 1994; Ead., Donne armate e donne inermi. Questioni di identità sessuale e di rapporto tra le generazioni in Laura Derossi (a cura di), 1945. Il voto alle donne, Milano, F. Angeli, 1998.
9. A. Bravo, Resistenza armata, resistenza civile in ivi.




Alcune considerazioni sul 100° anniversario della marcia su Roma (1922-2022).

D. – Il centenario della marcia su Roma ha rappresentato un’opportunità per avviare una discussione collettiva a tutto tondo sull’avvento del fascismo e sul ventennio di dittatura, per approfondire questioni e scardinare luoghi comuni troppo a lungo dati per assodati. Tuttavia ci pare che il contesto politico odierno e la concomitanza con le elezioni politiche non abbia contribuito in senso positivo e abbia, per così dire, inquinato la discussione, appiattendo sostanzialmente il dibattito su un allarmistico ritorno del fascismo da un lato e una pervicace apologia dall’altro. Qual è la sua sensazione?

R. – Sono abbastanza d’accordo sulla lettura della discussione in atto sul centenario, su queste due tendenze parallele. Nella storia, come sappiamo, nessun fenomeno politico si ripropone alla perfezione: in questo caso infatti non c’è, a mio parere, nessuna ripetizione del fascismo, seppur sia presente un’apologia molto superficiale, che si affida a luoghi comuni viventi nell’immaginario collettivo.
La mia impressione è che la vera valutazione non può che essere prematura. Abbiamo assistito ad un anno di numerose iniziative e convegni, c’è stato un enorme sforzo collettivo di discussione ed elaborazione sul tema da parte non solo dell’ambiente accademico, ma anche di tutte quelle istituzioni fuori dal circuito universitario, come la rete nazionale dell’Istituto Parri, circoli e associazioni, che da decenni ormai operano con attività di ricerca e divulgazione. Infatti credo che, per quanto siano presenti dei limiti, non sia da sottovalutare questo impulso dato dall’anniversario, che ha portato – com’è naturale – ad allargare il focus dalla marcia su Roma a tutto il ventennio, come pure al periodo del primo dopoguerra, e che per osservare gli effetti sollecitati dai dibattiti si debba attendere qualche anno, o quantomeno aspettare la pubblicazione degli atti.
Oggigiorno abbiamo a disposizione innumerevoli strumenti e possibilità di accesso libero e diretto ad archivi, biblioteche, luoghi di cultura in cui poter confrontarsi con la storia e le sue fonti. È costante l’impegno per scuole, istituti, università libere e della terza età affinché avvenga un processo di professionalizzazione della storia e della sua complessità. Si tratta ovviamente di un continuo tentativo in atto in questo senso per comunicare la storia in modo friendly, per renderla alla portata di tutte e tutti. Quello che mi chiedo quindi, e purtroppo non ho una risposta, è come mai di fronte a questo contesto in cui tutto sommato abbiamo a disposizione materiale, strumenti e possibilità di approfondimento, continui questo fenomeno di edulcorazione di un passato che si preferisce o rimuovere o evocare con tono qualunquistico. E qui c’è un problema che riguarda la politica italiana: il decadimento della preparazione politica, della serietà dell’approccio della classe politica da almeno trent’anni è un processo evidente che, legittimato dai media, ha inciso negativamente nel contrastare quella che abbiamo chiamato la professionalizzazione della storia e della sua fruizione.

D. – Abbiamo attraversato un momento in cui un revival del tema del fascismo ha portato una discreta produzione, spesso accompagnata da una troppo comoda semplificazione degli avvenimenti, da una visione banalizzante – se non proprio edulcorata e mitizzante – e colma di ingombranti rimozioni. Forse attualmente manca una sorta di educazione alla complessità, non nel senso che tutto debba essere raccontato in modo complicato, tutt’altro: una delle missioni degli storici e delle storiche deve essere quella di rendere la disciplina fruibile ad un pubblico ampio, parlando della storia senza omettere le sue sfaccettature, promuovendo sì una semplificazione attraverso una selezione ragionata degli avvenimenti, pur senza creare un racconto rigido di causa – effetto o di date svuotate di significato. Che ne pensa, è possibile invertire questa tendenza ed educare in questo senso alla complessità della storia?

R. – Sarebbe sicuramente un grande obiettivo, di cui a mio avviso potrebbe essere un passaggio fondamentale quello di investire maggiormente sullo studio della storia del XX secolo. La priorità dovrebbe essere quella di promuovere, a partire dalle scuole di ogni ordine e grado, la conoscenza del Novecento, cui purtroppo ad oggi sono dedicate poche ore di didattica e spazio ridotto nei manuali, affinché si permetta a studentesse e studenti di comprendere come elementi del passato condizionino anche il nostro presente.
Credo però che un passo in avanti sia necessario: ci troviamo di fronte ad una situazione in cui la storia è poco conosciuta non solo fra i giovani, per cui forse si potrebbe pensare ad una sorta di educazione permanente alla complessità della disciplina e allo studio, che vada oltre il confine scolastico. Bisognerebbe infatti in qualche modo, educare a contestualizzare il quotidiano in relazione al passato, senza che della storia venga attuato un appiattimento, cui spesso assistiamo da decenni soprattutto attraverso alcune operazioni attuate dai mass media e da parte della politica. Secondo me la storia professionalizzata, e non come rigido accademismo, è da considerare un bene comune; sarebbe d’avanguardia l’insegnamento al valore dei beni comuni e culturali, di quella che possiamo definire come una cultura diffusa, che sappiamo essere oggetto di percorsi innovativi in alcuni istituti.
Dunque l’obiettivo di un progetto politico-culturale per un domani caratterizzato dalla centralità dell’educazione alla complessità, dovrebbe essere quello di superare questo appiattimento che allo stato attuale non può che produrre un senso di smarrimento nella cittadinanza tutta.

Marco Palla, Mussolini e il fascismo. L'avvento al potere, il regime, l'eredità politica, Giunti Editore, 2019D. – Abbiamo già citato i rischi dell’uso pubblico della storia da una parte, e dall’altra della necessità della costruzione di una memoria collettiva basata su ricerche scientifiche portate avanti da storiche e storici. Eppure ci pare che la ricerca storica sia sempre meno finanziata e che l’insegnamento della disciplina sia preso sempre meno in considerazione nel sistema scuola. Secondo lei qual è lo stato di salute della ricerca storica in Italia?
R. – È innegabile che negli anni c’è stata una diminuzione dei finanziamenti per scuola, università e ricerca che ha inevitabilmente portato ad un depotenziamento della conoscenza e della scuola. Purtroppo possiamo affermare che nei decenni passati i governi di orientamenti politici differenti hanno preferito la strada di una cosiddetta razionalizzazione, che si è concretizzata sostanzialmente in tagli, che hanno portato ad un progressivo peggioramento rispetto alla prassi esistente un tempo di una classe dirigente in generale quantomeno sensibile ad ammodernare e ad investire. Ciò ha prodotto, appunto, una decrescita di cui oggi sono facilmente visibili le conseguenze. Probabilmente, e anche questa è una scelta che al momento non mi pare sia presente nell’agenda politica, una soluzione ai definanziamenti potrebbe arrivare dal ridurre anziché aumentare le già ingenti spese militari. Gli archivi, le biblioteche, gli istituti, che promuovono e permettono di fatto la ricerca, hanno altresì bisogno di risorse, sono servizi che devono essere realmente liberi e accessibili e che in quanto tali lo Stato deve garantire alla comunità tutta. Inoltre, fatemi dire una cosa su cui già molti colleghi si sono espressi e su cui sono d’accordo: sono contrario all’istituzione dell’alternanza scuola-lavoro, per me la scuola deve rimanere un luogo di saperi liberi. Credo fortemente in una scuola gratuita, pubblica, laica, pluralistica e libera da un insegnamento etico ereditato dalla scuola gentiliana fascista.
Per quanto riguarda la realtà universitaria penso sia necessario un ampio cambiamento, ad esempio con una stabilizzazione dei finanziamenti soprattutto per i percorsi post-laurea, lasciando libero spazio a rigorose ricerche innovative nel campo della storia di genere o della storia culturale e provando a scardinare l’attuale concezione della ricerca storica, che sembra irrigidita verso narrazioni militari e di storia della politica. Per far sì che questo avvenga, e che ci sia una vera e propria valorizzazione della ricerca, sono necessarie, appunto, maggiori risorse, che permettano davvero un sostentamento decoroso per giovani ricercatori e ricercatrici. Pensiamo, giusto per fare un esempio, ai dottorati senza borsa che sono stati istituiti recentemente: rappresentano una farsa per cui poi rischia di risultare accettabile soltanto per chi è già in condizione di sostenersi (o essere sostenuto) economicamente.

D. – Ultimamente vari studi, come il volume curato da Ceci e Albanese I luoghi dell’Italia fascista, che fa da corredo al portale da poco consultabile online, hanno evidenziato come ancora oggi siano molteplici le tracce evidenti e concrete di un passato fascista. Non sempre oggetto di commemorazioni, vie, piazze, edifici e monumenti fanno comunque parte della vita quotidiana della cittadinanza e, senza che questa se ne accorga, possono diventare di fatto simboli dei nostri valori (o meglio, disvalori).

R. – Penso che sulla questione della toponomastica l’approccio debba essere complesso e differenziato senza che l’idea sia semplicemente quella di abbattere tutto: alcune cose si possono cambiare con un tratto di penna, altre abbisognano di didascalie o altri strumenti che documentino i segni del passato che la repubblica italiana riconosce; perché il fascismo fa parte della storia d’Italia e non può essere messo fra parentesi né tantomeno dimenticato, va studiato e contestualizzato. Poi questo è un discorso complesso perché oltre ad alcuni monumenti o vie che richiamano direttamente alla simbologia e al fascismo stesso, esistono anche una serie di opere che si rifanno più a movimenti artistici esistenti durante il fascismo che alla sua ideologia, si pensi al razionalismo architettonico. Alla fine credo che sia una riflessione di buon senso quella di Giorgio Candeloro: non tutto quello che è stato costruito, studiato, fatto durante il fascismo va attribuito al fascismo, e al tempo stesso neanche separato da quello che il fascismo è stato. Dall’altra parte ci sono le battaglie, veramente di retroguardia, che fanno le amministrazioni di destra a livello sia nazionale che locale, come quella per non cancellare la cittadinanza onoraria a Mussolini. Questo dovrebbe essere quasi un automatismo, una scelta immediata. Eppure quanti sono oggi i comuni che hanno cancellato questa onorificenza? C’è inoltre da parte di alcune amministrazioni locali addirittura la promozione di nuove celebrazioni con statue e intitolazioni a presunti patrioti italiani, che in realtà non sono altro che parte della classe dirigente fascista, si pensi ad esempio al busto di Graziani nella sua città natale.
Quindi direi che è importante contestualizzare, differenziare, per decidere quali dei lasciti del fascismo mantenere e quali no, coinvolgendo la cittadinanza e cercando di rendere visibile e comprensibile ciò che conserviamo, magari interpellando anche storici ed esperti. Azzardo in aggiunta un’ultima considerazione riguardo le leggi razziali: oggi nel 2023 non c’è stato alcun risarcimento reale per le comunità ebraiche, i cui membri furono espulsi dall’ambito civile. Questo sarebbe un atto di civiltà minimo.

Ghezzano (PI), 30 gennaio 2022

**Caterina Carpita dottoranda dell’Università degli studi di Napoli L’Orientale e Teresa Catinella dottoranda dell’Università di Pisa.




Cattolici e fascismo nella Toscana nord-occidentale (1920-1922)

Ritratto mons. Maffi

Grazie all’apertura graduale degli archivi vaticani, la storiografia ha chiarito ormai nelle sue linee essenziali il rapporto tra cattolicesimo e fascismo. Se per quanto riguarda i vertici la relazione è stata restituita alla storia, lo stesso non può dirsi per il piano locale, su cui disponiamo di informazioni lacunose. Il problema emerge chiaramente nel caso toscano, alla cui conoscenza questo scritto vuole contribuire concentrandosi sull’area nord-occidentale della regione prima della marcia su Roma. L’obiettivo è evidenziare, senza pretese di esaustività, i caratteri fondamentali della vicenda, a cominciare dalla preminenza di Pisa – dovuta soprattutto alla presenza del cardinale-arcivescovo Pietro Maffi, il più noto e influente esponente del cattolicesimo in quell’area e uno dei principali sul piano nazionale, al punto da risultare tra i papabili al conclave del 1922.

Gli studi più accurati hanno individuato nel 1921 l’inizio del confronto tra cattolici e fascisti. Se, infatti, in precedenza le due parti si erano sostanzialmente ignorate, dalla primavera del 1921 s’intensificò l’azione squadrista contro le sinistre e, in misura molto più ridotta, i popolari, suscitando proteste e commenti nel mondo cattolico. Reazioni che, è bene sottolinearlo, non giunsero mai a una piena equiparazione tra socialismo (oggetto di una condanna inappellabile) e fascismo (di cui si deplorarono gli eccessi, cioè le violenze contro i cattolici).
Uno sguardo gettato sulla Toscana nord-occidentale conferma la validità sostanziale di questa cronologia, nonostante differenze significative tra le varie diocesi. Il caso Ritratto Gronchipisano spicca per la presenza di due personalità di rilievo nazionale: il deputato e futuro presidente della Repubblica Giovanni Gronchi che, membro dell’ala sinistra del PPI, sarebbe stato sottosegretario di Stato al ministero dell’Industria e del commercio nel governo Mussolini (1922-1923); e il già citato Maffi che, alfiere dell’ala conciliatorista dell’episcopato italiano e in ottimi rapporti con i Savoia, nel 1915-1918 si era distinto per l’appoggio entusiastico allo sforzo bellico, fino a divenire il simbolo dell’unione tra fede e patria. Sotto l’impulso del cardinale, il movimento cattolico raggiunse uno sviluppo considerevole, attestato tra le altre cose dal successo del giornale «Il Messaggero toscano» (l’unico quotidiano della città). A Pisa, inoltre, la solida presenza dei movimenti e partiti “sovversivi” fu contrastata da uno squadrismo assai violento, animato da autentici assassini come Alessandro Carosi e dilaniato da faide interne. Nell’insieme, questi elementi fanno di Pisa un osservatorio di prim’ordine per studiare i rapporti tra cattolici e fascismo nel primo dopoguerra – rapporti tesi, perché agli occhi della cittadinanza Maffi incarnava quel patriottismo di cui le camicie nere rivendicavano l’esclusiva. A dire il vero, da parte cattolica non mancò la volontà di trovare un terreno d’incontro con i fascisti, sulla base dell’antisocialismo e del culto dei caduti: caduti della Grande Guerra, come si vide in occasione delle onoranze al Milite Ignoto, il 4 novembre 1921, cui il cardinale partecipò; e caduti della rivoluzione fascista, come si vide invece durante le esequie degli squadristi Zoccoli e Menichetti nel 1921, legittimate dalla presenza rispettivamente di Maffi e del suo segretario, mons. Calandra. Tuttavia, queste aperture non ebbero l’esito sperato, come emerse nel 1922. In giugno, a Pisa, le camicie nere si piazzarono all’esterno della cattedrale impedendo il regolare svolgimento della tradizionale processione del Corpus Domini e sollevando le proteste del cardinale. In settembre, a Buti, il pievano Cascioni Poli (reduce della guerra e sostenitore del PPI) sparò un colpo di pistola in aria per attirare l’attenzione delle forze dell’ordine e mettere in fuga i fascisti che nottetempo stavano tentando di irrompere nella canonica, allontanandosi poi dal paese per ragioni di sicurezza. Si tratta, com’è evidente, di episodi limitati ma utili a comprendere gli attriti che a Pisa caratterizzano i rapporti tra cattolici e fascisti fino al termine della faida Santini-Morghen e per qualche verso anche dopo.

Ricostruire le vicende delle altre diocesi risulta più complesso, date la mancanza tanto tra il clero quanto tra i laici delle personalità di rilievo nazionale e la debolezza del movimento cattolico nelle zone dove le sinistre erano più radicate. A Livorno, ad esempio, la voce cattolica più autorevole era rappresentata dal «Fides» – un bisettimanale che, cessato al termine del 1921, nella veste grafica e nelle idee (rigidamente integriste, in linea con il pensiero del suo direttore don Giovanni Casini) rivelava una posizione non certo all’avanguardia, preoccupata dalle trame di massoni, ebrei e socialisti più che dal fascismo[1].
Nemmeno a Massa la situazione era favorevole al movimento cattolico, che però si mostrò più battagliero. Ai contrasti tra la curia vescovile e i popolari si sommavano infatti le vivaci polemiche tra il settimanale fascista «Giovinezza» e il corrispettivo cattolico «La Difesa popolare» che, diretto dall’avv. Carlo Perfetti, aveva come motto: «Lavoratori di tutto il mondo, unitevi in Cristo». Lo scontro culminò nel marzo-aprile 1922, quando i fascisti parlarono di «pericolo clerico bolscevico», accusando il PPI di essere una «forza antinazionale» sostenuta da sacerdoti «traditori della nostra fede». Parole respinte con sdegno dalla controparte, secondo cui se i principi cristiani fossero rimasti confinati nelle chiese per timore della violenza, le «masse sfruttate» non avrebbero mai ottenuto la «giusta mercede» né l’Italia avrebbe ritrovato la pace[2].
Ancora diversa l’atmosfera a Lucca, dove la Chiesa esercitava un’influenza considerevole sulla vita politica e sociale. Qui, non a caso, i fascisti capeggiati da Carlo Scorza agirono con cautela. Il loro obiettivo era chiaro (separare i cattolici dal PPI) ma di difficile realizzazione, perché il foglio cattolico di riferimento (il settimanale «L’Esare») respinse con fermezza qualsiasi ipotesi di doppia militanza; inoltre, nel maggio 1921 il bollettino diocesano precisò che i cattolici potevano esercitare attività politica ma non militare nei partiti liberali né accettare i principi del socialismo, lasciando come unica opzione il PPI. Pur a fronte di un’opposizione ferma, prima della marcia su Roma le camicie nere evitarono di avviare una vasta campagna di violenze contro i cattolici, limitandosi a rare aggressioni e qualche scritta sui muri. In questo senso, il caso lucchese risulta emblematico del livello di violenza nei rapporti tra cattolici e fascisti, che a queste date restava ancora contenuto.

Ritratto mons. Simonetti

Ritratto mons. Simonetti

L’eccezione maggiore è costituita dal delitto di Collodi, frazione di Pescia, che a conoscenza di chi scrive costituisce l’episodio più grave occorso nell’area in questione. Qui nell’ottobre 1921 i fratelli Lamberti, militanti fascisti e proprietari di una cartiera chiusa a causa di uno sciopero, uccisero a colpi di pistola Ubaldo Ciomei, consigliere comunale di Pescia e attivista dell’Unione del lavoro di Lucca, dandosi poi alla latitanza. Il settimanale cattolico locale, «Il Popolo di Valdinievole», condannò con fermezza i responsabili e presentò la vittima nelle vesti di «martire», senza che si giungesse peraltro a una vera e propria rottura con il fascismo. Al risultato contribuì il vescovo di Pescia Angelo Simonetti, i cui inviti alla pace e alla fratellanza favorivano di fatto il partito più forte; inoltre, fin dal dicembre 1920 egli aveva dichiarato in una lettera a «Il Popolo di Valdinievole» che «la vera azione cattolica non è né deve essere per sé e per i suoi fini politica, né deve perciò confondersi affatto con quella di un partito» – una sconfessione del PPI che certo non aiutò ad arginare l’ascesa del fascismo nella diocesi .

La formazione del governo Mussolini, che includeva esponenti popolari, fu accolta dai cattolici se non con gioia almeno con fiducia in un avvenire più ordinato. I mesi e gli anni seguenti videro in realtà un aumento sensibile degli attacchi contro di loro, senza che per questo si verificasse un ripensamento. Anzi, com’è noto il rappresentante principale dell’antifascismo cattolico, don Sturzo, fu costretto all’esilio dai superiori; il PPI fu sciolto; e sulla memoria di don Minzoni, il parroco ferrarese ucciso dagli squadristi nell’agosto 1923, calarono censura e oblio. Sull’esito incise la minaccia del manganello, certo, ma anche elementi di più lungo periodo, sedimentati a fondo nella mentalità cattolica, come l’insistenza sui doveri più che sui diritti e la convinzione che in mancanza di un accordo con l’autorità politica la missione della chiesa sarebbe fallita. Per queste ragioni, benché consapevoli del carattere agnostico e violento del fascismo, nella grande maggioranza dei casi i cattolici lo ritennero un male minore rispetto al nemico tradizionale: il socialismo. Questa prospettiva caratterizzò tutto il pontificato di Pio XI, che solo negli ultimi mesi di regno cominciò a distaccarsene, con una scelta che peraltro il successore si guardò bene dal sottoscrivere. Solo le sconfitte patite nel corso della Seconda guerra mondiale convinsero il papato e i cattolici italiani a voltare definitivamente le spalle a Mussolini.

Nota:
1. Cfr. ad es. La mala bestia, in «Fides», 16 gennaio 1921.
2. Il cinquantenario della morte di Giuseppe Mazzini ha visto Dio ridotto a portabandiera del P.P. e il popolo insidiato dalla coppia Sturzo-Lenin, in «Giovinezza!», 19 marzo 1922; «Giovinezza» sulle furie!, in «La Difesa popolare», 1° aprile 1922, p. 2.

L’articolo è la relazione presentata in occasione del seminario organizzato il 20 ottobre 2022 dalla Biblioteca F. Serantini dal titolo 1922: Pisa e la Toscana tra fascismo e antifascismo.




Il caso di Shangai a Livorno, 1930-2017.

Introduzione

L’obiettivo di questo breve articolo è quello di ripercorrere la storia del quartiere di Shangai di Livorno, partendo dalla sua nascita, alla fine degli anni ’20 del ‘900, per arrivare ai giorni nostri.
Il focus sarà quello di determinare le ragioni che hanno portato alla nascita di un quartiere problematico, e riflettere su quelle azioni, quelle scelte che, nel tempo, sono riuscite ad offrire nuove opportunità e possibilità per i suoi abitanti. In particolare emergerà che il periodo più positivo vissuto dagli abitanti del quartiere corrisponde a quello che va dagli anni ’70, con l’inaugurazione della sezione del PCI di Shangai[1] fino al primo decennio degli anni 2000. Durante questi anni, infatti, diverse associazioni e realtà religiose e politiche, portate avanti dagli stessi abitanti di Shangai, hanno risollevato le sorti di un quartiere difficile sotto molti punti vista, promuovendo senso di comunità, cooperazione e coesione sociale. Nel 2017 è stato chiuso il “Punto Incontro Donna” di Shangai, uno degli ultimi e più saldi pilastri sociali del quartiere, e la situazione già precaria del popolare e degradato rione, ha iniziato a peggiorare gradualmente nonostante i molti investimenti e tentativi di miglioramento da parte dell’amministrazione comunale.

Prima delle origini

Nell’area che corrisponde oggi al quartiere, fino all’inizio del ‘900 si trovavano “solo orti, campi, acquitrini, e rovi”[2]. Era una zona conosciuta dai livornesi soprattutto per la strada che portava al cimitero cittadino, la via del Camposanto. Vi abitavano poche persone, e vi erano insediate alcune fabbriche come la Parodi dove si lavorava l’olio, la Gallinari che produceva coloranti e bitume e la famosa fabbrica della Richard Ginori. Era quasi un’area verde di campagna, perfino con un corso d’acqua, il Rio Cigna[3].

Origini

La nascita del quartiere risale al 1930, quando l’Istituto Case Popolari di Livorno iniziò la costruzione di blocchi abitativi detti “popolarissimi”[4].
La decisione di costruire questo nuovo quartiere a nord della città, che sembra prendere il nome proprio da quanto lontano, disagiato e sovraffollato fosse, in richiamo anche alla città cinese, mancante di tutto quello che invece era presente nel centro, è da ricollegarsi addirittura alla fine dell’800. Fu allora infatti che la questione dei fabbisogni abitativi iniziò ad assumere sempre maggiore importanza. La Livorno postunitaria infatti era in espansione, con un numero crescente di iniziative imprenditoriali. Il commercio portuale fioriva, ma soprattutto la città necessitava un “riassetto organico edilizio del degradato centro cittadino”[5]. Le epidemie di colera nei blocchi del centro (intorno alla centralissima attuale via Grande) erano estremamente comuni, a cavallo tra ‘800 e ‘900, proprio in questi “fatiscenti e insalubri edifici del centro… occupati da miserabili che non possono certamente permettersi di procurarsi una casa in buone condizioni”[6].
In realtà questa necessità di alleggerire il centro abitato da “miserabili” aveva anche delle motivazioni di tipo politico. Nel 1922 i fascisti conquistarono violentemente il Municipio, costringendo il sindaco Mondolfi e l’intera giunta a dimettersi[7]. Solo tre anni prima, nel 1919, vi erano state proteste e saccheggi nel centro cittadino per il caroviveri. Quindi per evitare il ripetersi di tali eventi, il nuovo governo cittadino nel ’26 decise di cedere a titolo gratuito terreni per case popolari da costruire in vista dello sventramento dei blocchi “insalubri”, abitati da persone difficili da tenere sotto controllo, del centro. Questi appezzamenti di terreno comunale erano stati prima (nel 1923 circa) cedute ad associazioni di combattenti, di madri o vedove di guerra che tuttavia non riuscirono ad utilizzarli e dovettero restituirli al Comune, che a sua volta li cedette all’Istituto Case Popolari[8]. Inoltre le case “popolarissime” di Shangai nacquero all’interno della politica di disurbanizzazione, ovvero quella che l’architetto Calza-Bini, presidente dell’I.C.P. di Roma aveva esposto in un’intervista al “Giornale d’Italia” nel 1928 in cui affermò che tutti coloro che non avevano necessità di stare in città dovevano essere trasferiti in periferia tramite la costruzione, da parte dei vari istituti di case popolari, di nuove case in parti periferiche, agricole e/o industriali, delle città. In particolare Calza-Bini nominò in quegli anni una commissione che pubblicò nel 1926 un testo intitolato “Per la costruzione di case popolari rapide ed economiche”, che descriveva i casamenti a cortile chiuso di Shangai[9].
Costanzo Ciano, mano destra di Mussolini, e livornese, spese molte energie per dare l’avvio ad un’edilizia popolare per quei ceti costretti a lasciare il centro e andare nelle nuove abitazioni[10], soprattutto per soddisfare i suoi interessi economici personali[11].
Dallo sventramento dei palazzi insalubri del centro, le famiglie furono traferite nelle abitazioni che iniziarono ad essere costruite a Shangai, caratterizzate dalle “stimmate del degrado e della bassissima qualità abitativa”[12]. È un fenomeno molto comune nelle vicende abitative dei poveri: i bassifondi scompaiono in un posto e riappaiono in un altro[13]. Si trattava di caserme, costruite con materiali scadenti, dove andarono ad abitare famiglie molto povere e numerose. Non solo i materiali delle costruzioni erano di pessima qualità, anche l’impianto delle stesse era di basso livello (quasi sempre l’unico servizio igienico si trovava direttamente in cucina, le abitazioni erano mono affaccio).
I blocchi continuarono ad essere costruiti negli anni successivi, senza però un piano di sviluppo di servizi, infrastrutture e stradario adeguato al popoloso nuovo quartiere che rimase quindi isolato dal resto della città[14]. I bambini inoltre non avevano nemmeno un oratorio dove andare a giocare, anche se almeno la prima scuola del quartiere, le “Campana”, fu costruita pochi anni dopo il primo blocco abitativo, sempre negli anni ’30. Dopo la seconda guerra mondiale, infine, venne terminato il cosiddetto blocco delle “signorine” perché’ subito occupato da prostitute, attirate dalla presenza di una grande base di soldati americani nelle vicinanze[15].

[prosegue]

NOTE: 1. Susini Marco, Shangai:
un quartiere e la sua gente, Bandecchi & Vivaldi, Pontedera, 2004. p.31.
2. Ibidem, p.17.
3. Ibidem, p.18.
4. Ibidem, p.19.
5. Ulivieri Denise, “Primato livornese: edilizia popolare d’autore”, in Nuovi Studi Livornesi, Vol. XIX- 2012, Debatte editore, Livorno. pp.99-101.
6. Ibidem, pp.97-120.
7. Mazzoni Matteo, Costanzo Ciano, il fascismo a Livorno, in Quaderni di Fare storia, Anno XIII – N.2-3 maggio –
dicembre 2011, I.S.R.Pt Editore, Pistoia. p.22.
8. Bartolotti Lando, Livorno dal 1748 al 1958. Profilo storico urbanistico, Di Lando Bortolotti, Leo S. Olschki Editore, Firenze, 1977, p.327.
9. Ibidem, p.349.
10) Ulivieri D., Primato…,cit., p.102.
11. Mazzoni M., Costanzo Ciano…,cit., pp.21,22.
12) Susini M., Shangai…,cit., p.19.
13. Forgacs David, Margini d’Italia. L’esclusione sociale dall’Unità a oggi, Ed. Laterza, Roma-Bari, 2015. p.41.
14. Pia Margherita, La riqualificazione dei quartieri nord in I programmi per i quartieri nord di Livorno. Il contratto di quartiere “Corea”, in Qualità e Città/1, a cura di Landini Franco, ALINEA editrice, Firenze, 1999, p.11.
15) Susini M., Shangai…,cit., pp.19-22.




La Città Bianca in camicia nera: gli anni della guerra

Poverannoi!”: l’Italia entra in guerra

Quando il 10 giugno 1940 Mussolini si affaccia dal balcone di Palazzo Venezia per annunciare l’ingresso italiano nel conflitto, il regno di Carlo Scorza a Lucca si è concluso da otto anni, e con esso il tentativo del ras cosentano di scalzare “quel gelatinoso collante di interessi” (Umberto Sereni) che costituiva il sistema di potere cittadino. La vita era proseguita, il volto della città stava cambiando: nel corso degli anni ’30 vengono inaugurate nuove infrastrutture (l’autostrada A11 Firenze-Mare, la tratta Montecatini Terme-Lucca, l’aeroporto di Tassignano), i templi del commercio (il Mercato del Carmine) e del pallone (lo stadio Littorio, oggi Porta Elisa, ultima eredità di Scorza che l’aveva fortemente voluto), i luoghi della memoria fascista (il sacrario ai caduti fascisti sul baluardo S. Paolino, oggi sostituito dal monumento al musicista Alfredo Catalani)[1].

La guerra scatenata dalla Germania di Hitler nel 1939 fino a quel momento era sembrata lontana, nonostante le esercitazioni antiaeree, le prime limitazioni sulla vendita di alcuni alimenti e i cortei del maggio 1940 contro Francia e Inghilterra [2]: poi la “spettacolosa adunata del popolo lucchese […] che resterà impressa nei secoli […]. La folla ha avuto un solo sentimento, ha sentito un solo dovere: quello di accorrere attorno ad un altoparlante per udire la parola del Duce”[3]. Così il quotidiano La Nazione; in realtà, ricorda Loredana Pera (classe 1926), non c’è altra scelta:”quando Mussolini dichiarò guerra […] il suo discorso fu trasmesso via radio alla città, e tutti furono obbligati, se non volevi passare dei guai, ad ascoltarlo”[4]. “Una marea di gente”, è la testimonianza di Neva Fontana, nata nel 1927, “ma obbligata ad andarci. Poverannoi!, si stava lustri se non ci si andava!”[5]. È il momento delle delazioni, bastano poche parole tacciabili di disfattismo per ritrovarsi in guai seri: nel migliore dei casi un rimprovero da parte del proprio datore di lavoro, come accade alla madre della Pera, la sigaraia Velia Luporini, denunciata da una collega per aver commentato sarcasticamente le possibilità di una vittoria italiana[6]; altrimenti si aprono le porte del carcere di S. Giorgio, dove alcuni membri della Milizia fascista portano il professor Favilli, uno dei docenti dell’allora sedicenne Divo Stagi, per sottoporlo all’umiliazione dell’olio di ricino [7].

Il giorno successivo le prime partenze per il fronte francese (i miliziani del Battaglione Intrepido); il 15 giugno la benedizione dell’altare, con l’arcivescovo Torrini che esorta i fedeli lucchesi all’obbedienza in tempo di mobilitazione: porta la stessa data la circolare del Ministero dell’Interno che dispone l’arresto degli ebrei stranieri tra i diciotto e i sessant’anni, ritenuti “elementi indesiderabili imbevuti di odio contro i regimi totalitari” [8]. In provincia di Lucca per coloro che sono ad un tempo nemici dello Stato e della presunta purezza razziale, dopo i primi provvedimenti limitativi sul commercio disposti dalla Questura nel marzo 1940 [9], si aprono le porte delle sedi di internamento di Castelnuovo Garfagnana, Bagni di Lucca e Altopascio [10]: i successivi due anni sarebbero stati all’insegna delle privazioni e del più totale isolamento, tanto che i severissimi regolamenti impediscono agli internati persino di disporre di denaro e gioielli di valore [11].

Dalla caduta alla rinascita: la prima fase della RSI a Lucca

Sono passati tre anni dall’inizio dell’avventura bellica italiana: la “guerra parallela” prefigurata da Mussolini si è rivelata un fallimento su tutti i fronti, portando al definitivo crollo del regime ufficialmente suggellato nelle drammatiche ore del 25 luglio 1943 [12]. Il fascismo si scioglie con una rapidità tale da lasciare sconcertati gli alleati tedeschi, e nemmeno la nomina di Carlo Scorza a segretario del PNF qualche mese prima – nel segno di un ritorno all’instransigenza delle origini – è bastata a invertire il declino [13]. La sera dell’8 settembre l’annuncio dell’armistizio, accolto dai lucchesi con la gioia di chi vi scorge l’imminente fine del conflitto: pochi giorni dopo la liberazione di Mussolini per mano tedesca, la rinascita del fascismo sulle rive del Garda e, il 16 settembre, la riapertura del fascio lucchese sotto la guida di Michele Morsero – parallelamente alla nascita delle prime formazioni partigiane capeggiate da Manrico Ducceschi e Carlo Del Bianco [14].

Per tutti i dodici mesi successivi fino alla liberazione di Lucca (5 settembre 1944), la Repubblica sociale avrebbe cercato in ogni modo di legittimarsi agli occhi della popolazione con scarsi risultati: tre capi si sarebbero alternati al vertice della provincia dopo Morsero (il duro Mario Piazzesi, il più moderato Luigi Olivieri e infine il fedelissimo di Pavolini, l’empolese Idreno Utimpergher), scontrandosi da un lato con la disobbedienza civile di fatto della Chiesa lucchese (che non raccoglie l’invito delle autorità repubblicane a convincere i giovani a rispondere ai bandi di leva, disertati in massa [15], e anzi fornisce assistenza e aiuto a ebrei, prigionieri di guerra in fuga e partigiani [16]), dall’altro scontando la crescente ostilità della popolazione civile causata dalla pratica dei rastrellamenti, effettuati allo scopo di scovare renitenti o braccia abili da destinare al lavoro coatto in Germania (è quanto accade ad esempio il 21 agosto 1944 proprio nel capoluogo di provincia, dove pur non essendovi alcuna vittima i fascisti si lasciano andare a veri e propri atti di brigantaggio a danno degli arrestati [17]). Il tutto senza dimenticare la guerra ancora in corso, che lambisce sempre più da vicino il territorio: il 1° novembre viene bombardata Viareggio, il 6 gennaio 1944 è la volta di Lucca stessa. E mentre da sud le truppe Alleate avanzano, il morale vacilla – e così pure le sempre più deboli istuzioni repubblicane: resta loro, come mezzo di autoaffermazione, soltanto l’esercizio della violenza, l’esibizione della forza per mascherare la debolezza.

Il “posto d’onore”: la XXXVI° “Mussolini” e gli ultimi colpi del fascismo lucchese

Quando a cavallo tra il 1943 e il 1944 inizia a prendere corpo la militarizzazione del nuovo Partito fascista repubblicano, decisa al I° congresso del Partito fascista repubblicano di Verona (anche per far fronte al disastroso risultato dei bandi di leva della RSI), Lucca si trova a giocare il ruolo fondamentale di “città campione” (C. Giuntoli), la prima in assoluto nell’Italia sottoposta a occupazione tedesca a veder costituita sul proprio territorio una Brigata Nera – la famigerata XXXVI “Mussolini”, nata con ben otto giorni di anticipo rispetto a quanto stabilito dal decreto costitutivo che ne autorizzava la creazione e comandata da Utimpergher. “Le ragioni della scelta di Pavolini […]”, ha sottolineato Carlo Giuntoli, “furono probabilmente legate a tutta una serie di ragioni tattiche, Lucca era infatti una delle poche città toscane […] non ancora minacciate dalle truppe anglo-americane”; al contempo però gioca un ruolo non secondario la “fiducia che [Pavolini] nutriva in questo gruppo di fedelissimi” [18]. Sono gli stessi “fedelissimi” che avevano rivendicato dalle colonne dell’Artiglio – il foglio del fascismo lucchese – il proprio “posto d’onore” nelle neo-costituite BN [19].

Scarsa in termini numerici tanto da essere una brigata soltanto nel nome (236 effettivi [20], in larga parte veterani e reduci della Grande guerra e del primo squadrismo, oppure giovani nati e cresciuti sotto il regime[21]), la XXXVI° di Utimpergher rinuncia anche a quel poco di copertura istituzionale che la RSI aveva cercato di ammantare le proprie azioni fino al giugno 1944: i brigatisti neri sono entusiasti collaboratori, nelle vesti di spie e delatori, dei tedeschi nell’opera di ripulitura delle retrovie del fronte, un’occasione unica per portare avanti vendette personali e rappresaglie: come nel caso della Certosa di Farneta, presso la quale si rifugiava l’ex direttore dell’ospedale psichiatrico di Maggiano e antifascista militante, Guglielmo Lippi Francesconi, arrestato ai primi di settembre dai tedeschi assieme al resto degli occupanti del convento e fucilato a Massa pochi giorni dopo, vittima della delazione del collega/rivale Vittorio Marlia, acceso sostenitore del regime[22]; oppure il camaiorese Amedeo Biancalana, sospettato autore di scritte antifasciste consegnato ai tedeschi che lo giustizieranno dal vicecomandante locale della XXXVI° Cirillo [23]; e ancora le spedizioni punitive, come quella di San Lorenzo a Vaccoli (la prima in assoluto, il 3 agosto 1944), per vendicare l’attentato contro due commilitoni e vede i brigatisti razziare il paese e arrestare 5 uomini, poi deportati in Germania [24].

Il 5 settembre 1944 Lucca viene liberata, ma i brigatisti neri continuano a spargere sangue: il 23 settembre a seguito di un’azione partigiana viene colpita Castelnuovo Garfagnana (8 vittime uccise a colpi di mitra e rivoltellate dai brigatisti neri, che poi completamente ubriachi si danno al saccheggio)[25]; il 29 settembre a Castiglione di Garfagnana, dove il locale presidio repubblicano si accanisce sul partigiano Luigi Berni, legato per il collo ad un camion con un cavo d’acciaio e trascinato per le strade fino alla morte per soffocamento [26]. Lo scempio a danno del Berni è l’ultimo atto della XXXVI° sul territorio toscano: su pressione delle SS i reparti della brigata sarebbero stati trasferiti prima in Emilia e poi in Piemonte, dove avrebbero continuato ad essere operativi fino al drammatico epilogo del fascismo a Dongo: qui Utimpergher viene fucilato il 28 agosto 1945, lo stesso giorno di Mussolini.

1Marco Pomella, La storia di Lucca, Typimedia, Roma 2019, pp. 130-131

2Andrea Ventura (a cura di), La voce dei testimoni, Maria Pacini Fazzi, Lucca 2020, p. 121

3Cit. in Ibidem, p. 95

4Ivi

5Ibidem, pp. 64-65

6Ibidem, pp. 95-96

7Divo Stagi, Racconto della mia vita, Maria Pacini Fazzi, Lucca 2019, p. 49

8Cit. in Silvia Q. Angelini, Sergio Sensi, L’internamento libero nel comune di Altopascio (1941-1943), p. 39, in “Documenti e Studi” 48/2021, pp. 39-61

9“Il ministro dell’interno […] ha disposto che non debbono rilasciarsi o rinnovarsi licenze per commercio ambulante di articoli di cancelleria e di toilette uso personale a persone appartenenti alla razza ebraica.”, in Virginio Monti, La Questione ebraica in provincia di Lucca e il campo di concentramento di Bagni di Lucca, TraLeRighe Libri, Lucca 2021, p. 19

10Silvia Q. Angelini, Sergio Sensi, Op. cit, p. 40

11Ibidem, pp. 42-43

12 Renzo De Felice, Breve storia del fascismo, Mondadori, Milano 2002, p. 47

13Giorgio Bocca, Storia d’Italia nella guerra fascista , 1940-1943, Mondadori, Milano 1996, p. 474

14Edoardo Longo, I Neri di Mussolini. Repubblica sociale e violenza fascista in Lucchesia, 1943-1944, tesi di laurea magistrale – Università di Pisa, a.a. 2017-2018, pp. 59-60

15 Ibidem, p. 61

16Il ruolo delle istituzioni ecclesiastiche e più in generale dei cattolici nella Resistenza è stato aprofondito nel volume a cura di Gianluca Fulvetti Di fronte all’estremo. Don Aldo Mei, cattolici, chiese, resistenze, edito da Maria Pacini Fazzi nel 2014.

17Edoardo Longo, I Neri di Mussolini…., pp. 79-80

18Carlo Giuntoli, La XXXVI Brigata Nera Mussolini, p. 92, in “Documenti e Studi” nn. 40-41/2016, pp. 89-115

19Ivi, p. 91

20Carlo Giuntoli, La XXXVI Brigata…, p. 94)

21Edoardo Longo, I Neri di Mussolini…, pp. 75-76

22Luciano Luciani, Armando Sestani, Lucca e dintorni tra antifascismo, guerra e Resistenza, pp. 51-56, in Gianluca Fulvetti (a cura di), Guida ai luoghi della memoria in provincia di Lucca – vol. 3, Pezzini, Viareggio 2016

23 Edoardo Longo, I Neri di Mussolini, pp. 82-83

24 Ibidem, p. 84

25 L’intera vicenda è stata minuziosamente ricostruita da Feliciano Bechelli nel saggio La rappresaglia fascista del 23 settembre 1944 a Castelnuovo, in “Documenti e Studi” 43/2018, pp. 27-57

26 Edoardo Longo, I Neri di Mussolini…, pp. 87-88




Resistenza e Liberamuratoria

Nei primi mesi del 1954, Carlo Ludovico Ragghianti pubblicava il libro Una lotta nel suo corso [1], una raccolta ragionata di carte e documenti interni al Partito d’Azione, con la quale si proponeva di far luce sul contributo dato alla Resistenza dalla formazione politica azionista [2]. Il critico lucchese intendeva ovviare un ridimensionamento di alcune delle componenti resistenziali che più avevano sostenuto logisticamente e materialmente la lotta di liberazione, andando a rimarcarne i meriti e a definire i contorni di alcuni dei suoi protagonisti meno conosciuti. In tal contesto, alcune pagine della pubblicazione si soffermarono su un «industriale pratese, generosa tempra d’uomo e nobile patriotta, precocemente defunto»[3]: Adon Toccafondi. Ragghianti ne descrisse l’impegno per la Resistenza a Prato e a Firenze, ne chiarì la collaborazione con il CTLN e lo ricordò tra i primi amministratori dei mesi successivi alla liberazione regionale. Sindaco di Vernio, paese dell’Alta Valle del Bisenzio, Toccafondi si distinse per il suo impegno tanto nella cosa pubblica quanto nel tessuto associativo provinciale. Di estrazione democratica e repubblicana, antifascista di lungo corso, Adon fu iscritto alla Massoneria di Palazzo Giustiniani e, in questa veste, seppe dar nuova vita alla loggia “Giuseppe Mazzoni” di Prato, la prima ad essersi opposta al fascismo nel 1922. In tale veste, egli si configuròcome l’elemento particolare di passaggi oggi in parte dimenticati ma ben presenti nelle dinamiche resistenziali, quali i rapporti e la comunanza di valori tra Liberamuratoria e Resistenza, che non a caso conobbero alcune interessanti traiettorie, di cui Francesco Fausto Nitti e il repubblicano Menotti Riccioli furono tra gli esempi più conosciuti. In questa prospettiva deve essere letta la riscoperta di una figura quale quella di Adon Toccafondi partigiano, massone, primo sindaco della Vernio liberata. Massoneria e Resistenza, Lotta contro la dittatura e ricerca della Vera Luce si incontrano e si intrecciano in questa figura di partigiano che sempre si operò per il bene comune. Una figura in buona parte persa nelle nebbie della storia, il cui studio biografico sembra tutt’altro che un esercizio privo di valore.

Chi era dunque Adon Toccafondi? Adon Toccafondi nacque a San Quirico di Vernio, nell’alta Valle del Bisenzio, il 13 settembre 1902 da Alberto Lorenzo, ex carabiniere a cavallo e gestore di una cava di materiale edilizio e da Oliva Marchi [4]. Attraverso l’impresa del padre, la famiglia era in contatto con i noti industriali della vallata, Lemmo Romei e Angelo Peyron e fu molto probabilmente grazie a questo legame che il giovane Adon fu portato a studiare presso l’allora Regia Scuola delle Arti Tessili e Tintorie ovvero l’odierno Istituto Tullio Buzzi. Fu nel clima interventista dell’istituto che Toccafondi ebbe a sviluppare: da una parte una solida conoscenza della chimica tintoria; dall’altra, secondo le idee dello stesso direttore Tullio Buzzi, un patriottismo con intense sfumature repubblicane. Un patriottismo che, tuttavia, non sfociò mai nel becero nazionalismo ma che assunse tutta la caratura morale della democrazia, della concezione mazziniana dell’emancipazione del popolo. Caratteristiche queste di cui Toccafondi ebbe a dare prova in almeno tre ambiti: nella lotta contro il fascismo, nell’amministrazione della cosa pubblica (del comune) nell’opera interna all’Obbedienza.
Licenziato in chimica nell’ottobre 1920, egli ebbe ben presto a scontrarsi con la violenza squadrista [5]. Il caso avvenne nella vallata bisentina dei primi anni Venti, laddove le rivolte annonarie del 1919furono parallele a una ripresa dei lavori per la Direttissima Prato-Bologna. Nel contesto dell’alta valle, il cosiddetto “biennio rosso” si piegava nella prospettiva degli scioperi nei cantieri per le scarse retribuzioni e nella temporanea paralisi dei lavori nell’inverno 1920-1921. Posto che, in vallata, i prodromi del fascismo si manifestarono sin dall’estate del 1920, la reazione squadrista alle iniziative operaie si concretò a partire dal 17 aprile 1921, quando la prima vera spedizione in territorio pratese e bisentino causò due morti e numerose violenze. A Vernio e nell’intera Valle del Bisenzio, l’azione fascista proseguì senza soluzione di continuità e, già nel luglio successivo, la giunta socialista di San Quirico fu costretta a dimettersi sotto le pressioni delle camicie nere. Fu in tal contesto che il fascismo bisentino si interessò anche di Toccafondi. Le sue profonde convinzioni repubblicane lo resero un bersaglio per lo squadrismo verniotto. Nel giugno 1921, gli squadristi lo affrontarono in pubblico e gli strapparono il distintivo riportante l’effige di Mazzini. Un fatto identico si ripeté nel successivo settembre, nel contesto della repressione fascista contro lo sciopero tessile decretato in opposizione della riduzione dei salari.
Non sembra allora casuale che, pochissimi mesi dopo, egli trovasse lavoro nelle industrie del Nord Italia, prima a Monza, poi a Sesto San Giovanni, poi ancora sul Lago di Como (dove ebbe a instaurare una propria impresa) e, infine, nel Bergamasco, a Caravaggio. Ma non si trattò solo di un progresso professionale. Il Nord Italia portò anche a una sua maturazione personale e morale. Durante la sua permanenza in Lombardia ebbe a sposarsi ed a metter su famiglia. Ma, soprattutto, fu in Lombardia che Toccafondi entrò in maniera attiva nel movimento antifascista clandestino di Giustizia e Libertà, grazie al repubblicano Arnaldo Guerrini e a Carlo Ludovico Ragghianti.
Manifesto del Comune di Vernio 1 novembre 1944La Lombardia fu insomma la premessa alla lotta resistenziale. Tornato alla fine degli anni Trenta in Toscana fu grazie a Toccafondi che nel 1940 fu possibile riallacciare dei rapporti tra i gruppi socialisti e repubblicani tra Firenze e Prato. Lo stesso Ragghianti ebbe a ricordare l’“intemerato repubblicano” Toccafondi come uno dei protagonisti della locale Resistenza [6]. Adon fu tra i presenti al congresso di formazione del Partito d’Azione fiorentino e fu in contatto con tutti i suoi principali dirigenti. Assunto il nome di battaglia di “Leonardo”, egli dette un importante contributo alla stampa clandestina per la quale procurò sia macchinari, sia i materiali per la pubblicazione del periodico azionista «La Libertà». Come ugualmente ebbe rilevanza la sua collaborazione con radio Co Ra, la Commissione Radio guidata da Enrico Bocci, il cui ruolo di comunicazione con le forze alleate fece assumere all’attività di Adon contorni più marcati [7]. In particolare, il suo ruolo di collegamento assunse rilievo a margine della comunicazione tra il gruppo di Bocci e gli Anglo-americani, per l’invio da parte di questi ultimi di rifornimenti e munizioni. Fu il partigiano “Leonardo” che svolse il ruolo di collegamento tra il campo di ricezione degli aviolanci, nel Pratese, nei pressi di Montemurlo e il gruppo fiorentino. Per altro, la tragica fine della radio Co.Ra. gruppo Bocci, scoperta pochi giorni dopo la realizzazione del primo dei lanci di materiale e uomini, rischiò di colpire anche Adon. Toccafondi scampò di poco alla cattura tedesca grazie alla segnalazione di Vincenzo Cangioli, suo conoscente e datore di lavoro del fratello.
Il ruolo svolto da lui svolto all’interno della Commissione Radio rimandava all’importanza della sua figura nell’organizzazione della Resistenza nel Pratese. Almeno due sono i meriti da segnalare. Anzitutto, Adon Toccafondi fu il principale responsabile del reclutamento di personaggi chiave della Resistenza a Prato quali Mario Martini, il capo militare delle truppe partigiane, e l’intero gruppo dirigente del Partito d’Azione (Roberto Cecchi, Rodolfo Corsi, il prof. Salinari, Cesare Grassi…). Ma soprattutto, Toccafondi fu l’ufficiale partigiano di collegamento tra il CLN di Prato e il CTLN posto a Firenze. Quando, dopo i tragici fatti di Figline, Prato fu liberata, fu Toccafondi assieme a pochi altri a guidare le truppe alleate e partigiane nei territori del circondario. Di sicuro furono lui, il dott. Mensurati e Franco Calcagnini (entrambi appartenenti come Toccafondi al Partito d’Azione) ad entrare per primi a Vernio.
Il paese di Vernio fu il secondo contesto in cui si ravvide l’impegno di Toccafondi per la democrazia e la libertà. Qui egli fu nominato sindaco con l’accordo di tutte le forze del CLN locale su indicazione delle autorità refgionali. Egli si impegnò per la ricostruzione di un paese devastato che ebbe anche ad affrontare tragedie personali come il crollo della galleria di Saletto. Durante i lavori di ripristino della viabilità ferroviaria sulla linea Firenze-Prato-Bologna, all’imbocco della galleria di Saletto, un improvviso crollo travolse una cinquantina di operaie e operai provocando 32 vittime [8]. Adon si pose in contatto sin dal giorno successivo alla tragedia con il CTLN e il CLN di Prato per organizzare una raccolta fondi in memoria delle vittime, la quale produsse 25.000 lire, che il Comune impiegò in parte a saldo dei funerali. Ma egli ebbe anche meriti più generali. Sotto la sua amministrazione fu approntato un piano di recupero e di ricostruzione, fu garantito l’approvvigionamento alle popolazioni colpite dalla guerra, fu approntata la ricostruzione materiale delle strade e degli edifici, nonché del locale acquedotto. Lasciò l’incarico nel luglio 1945, ma a tutt’oggi la testimonianza di Carlo Rossi, tra i suoi successori, lo descrivono come «un uomo di valore» [9]. Di sicuro, nella sua qualità di amministratore, le carte archivistiche lo restituiscono come un uomo della collaborazione che seppe relazionarsi con tutte le forze politiche. Ed ancora oggi riluce una lettera del comunista Carlo Ferri in cui è definito il suo impegno per la Vallata come «impagabile» [10]. Del resto, «chiamato a più alto incarico» [11], Toccafondi fu posto sin dall’inizio del 1946 alla direzione provinciale della United Nation Relief and Rehabilitation Admnistration (UNRRA), l’organismo alleato rivolto al sostegno della locale Ricostruzione.
Adon Toccafondi inizio anni QuarantaMa Toccafondi fu anche appartenente alla massoneria e, in questa veste, espresse una volta in più la sua tenuta morale. Affiliato dal 1944 presso la loggia Michelangiolo di Firenze, si impegnò per il risveglio di quella che a livello nazionale fu la prima istituzione liberomuratoria ad essersi pronunciata pubblicamente contro il fascismo: la loggia “Giuseppe Mazzoni” di Prato. Adon riprese i contatti con antichi appartenenti come Amedeo Strobino e Nazzareno Cecconi e di concerto con il venerabile della Michelangiolo, Anton Giulio Magheri e con l’oratore, Menotti Riccioli, diede vita a un primo triangolo pratese da essa dipendente. Dalle carte d’archivio ben emerge come il triangolo dovesse evolvere in un’officina ispirata dai «principi che avevano informato la gloriosa Giuseppe Mazzoni» [12]. All’inizio del 1947, lo stesso Riccioli si aggiunse ad altri quattro fratelli Spartaco Turi, Italo Baragli, Salvatore Bucca, Cesare Conti per risvegliare la loggia Mazzoni. Una loggia che dalle biografie dei suoi stessi appartenenti assume un carattere intimamente antifascista e incardinato sui valori della democrazia e della libertà. Qui basti ricordare la lunga militanza di Menotti Riccioli nell’antifascismo repubblicano e aggiungere tra i primi aderenti all’officina pratese (successivi ai fondatori) Rodolfo Corsi, vicepresidente del locale CLN.
Di li a poco Adon sarebbe mancato in un terribile incidente stradale. Ma di lui sarebbe rimasto il ricordo che Menotti Riccioli ebbe a fare del suo «instancabile impegno» [13]. Toccafondi fu un personaggio che in ogni suo spunto biografico lottò per i valori di libertà, unità e democrazia. La commemorazione accorata fattane tanto in pubblico, «in una piazza San Marco completamente piena di gente» [14] quanto nei lavori di loggia vale a chiarirne «le sue nobilissime qualità»: «onestà, sincerità, immenso amore per la Famiglia, per la Patria, per l’umanità – poteva esser letto nei verbali dell’Obbedienza – ispiravano la sua vita pratica» [15], facendo di Adon «uno di quei vivi focolai d’umanità che tengono in alto i valori dello spirito».

Volendo far rimanere agile la lettura, si informa che laddove non indicato diversamente in nota, i riferimenti al testo sono ripresi da A. Giaconi, La vera luce della democrazia. Adon Toccafondi, antifascista, partigiano, massone, Firenze, Pontecorboli, 2022.

Note al testo:

[1] Una lotta nel suo corso. Lettere e documenti politici e militari della Resistenza e della Liberazione, a cura di L. Ragghianti Collobi e S. Contini Bonacossi, Venezia, Neri Pozza, 1954.

[2] Cfr. A. Becherucci, Le delusioni della speranza. Carlo Ludovico Ragghianti militante di un’Italia nuova, Milano, Biblion, 2021, pp. 154-155, 165-166.

[3] Una lotta nel suo corso, cit., p. 354.

[4] Comune di Vernio, Ufficio di Stato Civile, Registro degli atti di nascita, a. 1902, atto n. 186.

[5] Per i seguenti dati sul fascismo pratese e bisentino, cfr. A. Bicci, Prato 1918-1922. Nascita e avvento del fascismo, Prato, Medicea Firenze, 2014, pp. 120 e ss..

[6] C.L. Ragghianti, Disegno della Liberazione italiana, Pisa, Nistri Lischi, 1962, p. 307

[7] Sul ruolo e sulla vicenda della Co.Ra. gruppo Bocci, cfr. G. La Rocca, La “Radio Cora” di piazza D’Azeglio e le altre due stazioni radio, Firenze, Tip. Giuntina, 1985. Per un’efficace sintesi cfr. F. Fusi, Il servizio Radio CO.RA. e il suo contributo alla lotta di Liberazione, in «Toscana Novecento. Portale di Storia Contemporanea», https://www.toscananovecento.it/custom_type/il-servizio-radio-co-ra-e-il-suo-contributo-alla-lotta-di-liberazione/, ult. consultazione 14-11-2022.

[8] Cfr. La Direttissima ferita. La ferrovia Firenze-Bologna, 1944-1946, Vaiano, CDSE della val di Bisenzio, 2009, pp. 48-69.

[9] Testimonianza di Carlo Rossi, partigiano comunista e già sindaco di Vernio dal 1964 al 1983, del 24 aprile 2019.

[10] Istituto Storico Toscano della Resistenza e dell’Età Contemporanea, CLN di Prato, b. 5, f. 4, appunto di Carlo Ferri presidente del sottocomitato di Vaiano, novembre 1944.

[11] Testimonianza di Carlo Rossi, cit.

[12] Archivio Storico della Loggia “Meoni e Mazzoni”, Verbali della tenuta di primo grado, seduta del 2 febbraio 1947.

[13] Ivi, 15 gennaio 1948.

[14] Testimonianza di Carla Ignesti Toccafondi, figlia di Adon, il 28 novembre 2019.

[15] Archivio Storico della Loggia “Meoni e Mazzoni”, Verbali della tenuta di primo grado, seduta del 22 novembre 1947.

 




Le “marce” prima della Marcia.

Il convegno organizzato dall’Istituto Storico Toscano della Resistenza e dell’Età contemporanea per riflettere sul centenario dell’ascesa al governo nazionale del fascismo ha come titolo 1922. La provincia in marcia: attori, percorsi, narrazioni. Come sappiamo, la Marcia su Roma fu l’evento culminante di un processo per l’acquisizione del potere da parte di Benito Mussolini che non fu solo formale, emulando quanto era successo nei mesi e nelle settimane precedenti in tante realtà provinciali. La Toscana in questo, con le numerose “marce” che subirono i capoluoghi di provincia e i comuni più riottosi all’affermazione del fascismo, fu uno dei principali laboratori della violenza squadrista che rese possibile la conquista armata della Capitale [1] .

Secondo le notizie sulla consistenza del Partito nazionale fascista (Pnf) elaborate dal Ministero dell’Interno, esso contava in Toscana, nel maggio 1922, ben 411 dei 2.129 fasci presenti in tutto il Paese, con 51.372 aderenti su 322.310, e cioè rispettivamente 1/5 e 1/6 del totale. Con questa forza d’urto “squadrista” (tutti i fascisti, in teoria, dovevano esserlo dopo l’iscrizione al partito) era consequenziale un impegno massiccio nel conflitto civile attivo nella regione. La guerra di movimento dei fascisti foraggiata da numerosi gruppi economici solidali fu letale per i nemici, sia per la connivenza di una buona parte dello Stato, sia per il grado di organizzazione che affinarono con le “spedizioni punitive”. Tutto questo favorì l’occupazione di cittadine e capoluoghi fin dall’estate 1921, annullando qualsiasi regola del gioco democratico [2] .

Il primo passo per le “marce” fu compiuto all’indomani delle elezioni amministrative del novembre 1920, in corrispondenza all’ascesa socialista al vertice di molti comuni toscani. Non a caso si iniziò dalla provincia il cui capoluogo aveva resistito alla “marea rossa”, quella di Firenze. A Montespertoli, tra l’11 e il 12 ottobre 1920, un nucleo di fascisti andò all’assalto del comune. L’obbiettivo era far cadere la neoeletta giunta, ma l’impreparazione degli squadristi e la loro esiguità – 4 uomini capeggiati da Amerigo Dumini – contro la quale, è importante ricordarlo, fu decisiva la reazione popolare, fecero naufragare il tentativo [3].

Questo genere di resistenza fu breve. Già al termine della cosiddetta “battaglia di Firenze” combattuta tra il 27 febbraio e il 1° marzo 1921 i fascisti ebbero la meglio sui loro avversari, coadiuvati dalle forze dell’ordine e maggiormente compatti, almeno all’apparenza, all’interno [4] . Da qui, gradualmente e rispettando una gerarchia fatta di ordini e comandi militari, uomini e mezzi del cuore politico e geografico della regione si mossero per colpire tutti i principali centri “eversivi” delle province toscane [5].

Banco di prova fu la cittadina di Empoli, dove il 1° marzo 1921 un gruppo di macchinisti e fuochisti della Regia marina in borghese e scortati da carabinieri, in viaggio verso Firenze per sostituirsi ai tramvieri in sciopero, fu colpito da una pioggia di proiettili. I morti furono 9, i feriti 11. La reazione fascista fu immediata: nella notte tra il 2 e il 3 marzo la città fu occupata dai militari del Regio esercito e la Camera del lavoro distrutta. Lo stesso accadde poche ore dopo a Fucecchio, in risposta all’uccisione di uno squadrista di ritorno dalla spedizione empolese, con l’occupazione del municipio e l’assalto alla Casa del popolo. Nel giro di poche ore vennero sciolte tutte le giunte “rosse” della zona tranne quelle di San Miniato e Castelfranco, giudicate meno sovversive, e sostituite da funzionari di prefettura, di polizia o militari [6] .

Nell’arco di alcune settimane le spedizione punitive, chiamate dalla memorialistica del regime “gite di propaganda”, si fecero sempre più diffuse e in grande stile. Il fascio di Siena, particolarmente attivo per via dell’estrazione universitaria di buona parte dei suoi componenti e la fornitura di mezzi da parte del locale distretto militare, aiutò quello di Firenze nelle azioni in provincia di Arezzo e verso il confine umbro. Alla fine di aprile le amministrazioni comunali di Castiglion Fiorentino, Marciano della Chiana, Monte S. Savino e Foiano della Chiana, sottoposte a continue violenze e devastazioni nel loro territorio, furono costrette alle dimissioni [7] .

I fascisti fiorentini, guidati dal ras toscano Dino Perrone Compagni, dopo aver preso parte alla spedizione contro Sarzana [8], si occuparono anche della provincia di Grosseto. La violenza fascista, dopo un mese di pressioni su alcuni comuni periferici, si scatenò sul capoluogo fra il 27 e il 30 giugno 1921, su Orbetello il 10 luglio e su Roccastrada il 24 successivo. La città di Grosseto fu letteralmente invasa da squadristi provenienti da ogni provincia limitrofa, raggiungendo il culmine quando, per far cessare le violenze, fu ordinata l’esposizione del tricolore dalle finestre e la partecipazione di tutta la popolazione ad una sorta di cerimonia laica nel pieno centro storico. A quei fatti seguì qualche giorno dopo l’analoga “conquista” di Orbetello, sebbene l’episodio centrale fu quello che interessò il comune di Roccastrada. Il bersaglio diretto era l’amministrazione socialista, la quale aveva resistito ad una serie di intimidazione rivoltegli proprio da Perrone Compagni nei mesi precedenti. Il 24 luglio, all’alba, circa 60 squadristi arrivarono in camion in paese e devastarono sistematicamente le case del sindaco, degli assessori e del presidente della Cooperativa di consumo. Si scagliarono poi contro una serie di attività private i cui proprietari erano stati bollati come “sovversivi”, quindi contro di loro e le relative famiglie. Quattro ore e mezzo dopo, ubriachi, i fascisti ripartirono alla volta delle frazioni di Sassofortino, Roccatederighi e Montemassi per continuare la cosiddetta “gita di propaganda”. All’uscita del paese una fucilata uccise uno dei fascisti, che per rappresaglia misero a ferro e fuoco Roccastrada [9].

L’apice delle marce “fasciste” in Toscana fu raggiunto un anno dopo, in occasione di quello che venne definito lo “sciopero legalitario” dell’agosto 1922, indetto dalle principali sigle sindacali contro le violenze fasciste. Perrone Compagni, in veste di ispettore regionale dei fasci, ordinò la concentrazione di centinaia di squadristi nella città di Livorno, la “piccola Russia” in terra toscana. La mattina del 2 agosto due squadre di fascisti erano state inviate nei vari stabilimenti e alla stazione dei tramvai, mentre i loro camerati pattugliavano la città. L’ordine era di far appendere le bandiere nazionali alle finestre delle case, per dimostrare il proprio patriottismo, e il tricolore venne issato anche sul Duomo. In quelle stesse ore il ferimento di due militi fu usato per motivare le violenze che seguirono. Il fatto più sanguinoso della giornata fu l’uccisione dei fratelli Gigli, Pilade e Pietro, quest’ultimo consigliere comunale comunista, e della loro madre. Messo alle corde dalle notizie di spargimenti di sangue e dalla scarsa collaborazione delle altre autorità pubbliche il sindaco Uberto Mondolfi, nella prima parte della giornata del 3 si dimise con tutta la giunta. La vittoria però non placò i fascisti a causa del ferimento, probabilmente accidentale, del segretario politico del fascio labronico. Gli squadristi attaccarono e devastarono la Camera del lavoro e le abitazioni di vari esponenti socialisti, portando il bilancio degli scontri a 18 feriti e 7 morti. Le spedizioni terminano in città solo il 4 agosto, con un’imponente manifestazione patriottica che suggellò, anche simbolicamente, l’unione tra le forze industriali, patriottiche, ex combattenti e fasciste che avevano concorso all’abbattimento giunta socialista, mentre il generale Ibba Piras, comandante della Divisione militare, assunse la gestione dell’amministrazione cittadina come commissario straordinario fino all’11 agosto [10].

Alla “Marcia su Roma”, quindi, gli squadristi toscani giunsero preparati da un anno di azioni illegali e organizzate. Per questo non deve stupire la presenza numerosa di corregionali che raggiunsero la capitale, né la presenza tra i comandanti delle colonne armate di Dino Perrone Compagni [11]. Allo stesso tempo il sostanziale clima di “calma” e “ordine” che si visse nelle provincie toscane tra il 27 ottobre e il 1° novembre 1922 perché, come sostiene Emilio Gentile, la «marcia su Roma doveva avere successo [prima] in altre parti d’Italia, per poter aprire al fascismo le porte della capitale» [12].

Nota:

1. Ricordo alcuni dei numerosi studi sul tema:G. Santomassimo, La marcia su Roma, Giunti, Firenze, 2000; G. Albanese, La marcia su Roma, Laterza, Roma-Bari, 2006; E. Gentile, E fu subito regime. Il fascismo e la marcia su Roma, Laterza, Roma-Bari, 2014. Tra le più recenti pubblicazioni con intento divulgativo ci sono: M. Franzinelli, L’insurrezione fascista. Storia e mito della marcia su Roma, Mondadori, Milano, 2022; M. Canali e C. Volpini, Gli uomini della marcia su Roma. Mussolini ed i quadrumviri, Mondadori, Milano, 2022.
2. I dati sono quelli citati in E. Ragionieri, Il partito fascista (appunti per una ricerca), in La Toscana nel regime fascista (1922-1939), Olschki, Firenze, 1971, p. 59.
3. Cfr. F. Catastini, P. Gennai, A. Pestelli, Liberali, sovversivi e partito dell’ordine a Montespertoli. Concentrazione di potere, gruppi familiari e politica (1919-1921), Pisa, Pacini, 2021.
4. Cfr. R. Cantagalli, Storia del fascismo fiorentino 1919-1925, Firenze, Vallecchi Editore, 1972; Andrea Mazzoni, Spartaco il ferroviere. Vita morte e memoria del ragionier Lavagnini antifascista, Pentalinea, Prato, 2021.
5. Marco Palla, I fascisti toscani, in Storia d’Italia. La Toscana, Einaudi, Torino, 1986, pp. 469-470.
6. Cfr. P. Pezzino (a cura di) Empoli antifascista. I fatti del 1º marzo 1921, la clandestinità e la Resistenza, Pacini, Pisa, 2007; R. Bianchi Due eccidi politici: Sarzana ed Empoli in Gli Italiani in guerra. Conflitti, identità, memorie dal Risorgimento ai nostri giorni, vol. IV, Il Ventennio fascista, Utet, Torino, 2009, pp. 325-331.
7. Fu dato ampio risalto nella stampa nazionale coeva, soprattutto per i tratti macabri dell’episodio, a quanto successo nella frazione “Renzino” di Foiano. Cfr. G. Sacchetti, L’imboscata. Foiano della Chiana, 1921: un episodio di guerriglia sociale, Arti tipografiche toscane, Cortona, 2000.
8. L’episodio dell’assalto fascista alle carceri di Sarzana e della reazione inconsueta delle forze dell’ordine è stato attentamente ricostruito in A. Ventura, I primi antifascisti. Sarzana, 1921. Politica e violenza tra storia e storiografia, Gammarò, Sestri Levante, 2010.
9. Cfr. I. Cansella, Roccastrada 1921. Un paese a ferro e fuoco in ToscanaNovecento. Portale di Storia Contemporanea https://www.toscananovecento.it/custom_type/roccastrada-1921-un-paese-a-ferro-e-fuoco/ (visualizzato il 23 agosto 2022). Il documentario sulla strage realizzato in occasione del centesimo anniversario è visibile sul sito dell’Istituto storico grossetano della Resistenza e dell’età contemporanea https://www.isgrec.it/on-line-in-hd-il-documentario-roccastrada-1921-un-paese-a-ferro-e-fuoco/ (visualizzato il 23 agosto 2022).
10. M. Mazzoni, Livorno all’ombra del fascio, Olschki, Firenze, 2009, pp. 3-24. Cfr. T. Abse, ‘Sovversivi’ e fascisti a Livorno (1918-1922). La lotta politica e sociale in una città industriale della Toscana, Quaderni della Labronica, Livorno, 1990
11. A. Giaconi, La fascistissima. Il fascismo in Toscana dalla marcia alla notte di San Bartolomeo, il formichiere, Foligno, 2019, pp. 22-46.
12) E. Gentile, E fu subito regime, cit., p. 159.




I fascisti senesi alla marcia su Roma

Quando scattò la fase operativa del disegno eversivo della marcia su Roma, il fascismo senese aveva assunto da vari mesi il controllo quasi completo della provincia di Siena. Basta dire che delle  amministrazioni comunali a guida socialista, elette nel 1920, ne sopravvivevano solo tre. Le altre ventisei erano cadute, una dopo l’altra, sotto le bastonature e le minacce dello squadrismo. I sindaci e le giunte erano state sostituite da commissari prefettizi. Tutte le Case del Popolo avevano subito assalti, danneggiamenti, incendi.  Ampio era il consenso di cui i fascisti godevano nelle istituzioni e nei corpi separati dello Stato.

Nel racconto costruito in seguito alla conquista del potere, il fascismo senese si fregiò di un articolo de “Il Popolo d’Italia” che lo indicava come il primo ad insorgere in Italia. In realtà in più di un capoluogo di provincia – da Cremona a Pisa, per limitarsi a due soli esempi – si verificò una sorta di corsa ad anticipare l’inizio del moto eversivo previsto per il 28 ottobre.

Prime o no che siamo state, le centinaia di camicie nere concentratesi a Siena di fronte alla sede provinciale del PNF in piazza del Carmine, si mossero nel tardo pomeriggio del 27 ottobre dirigendosi alla Fortezza di S. Barbara e poi al Distretto militare di S. Chiara dove si impadronirono di trecento fucili, di quattro mitragliatrici e di munizionamento.

La complicità neppure mascherata del tenente colonnello Enrico Nadalini, comandante dei fanti dell’87°, la conseguente “neutralità” arrendevole di quasi un migliaio di soldati e di una settantina di ufficiali presenti nelle caserme, l’inerzia benevola dei 250 carabinieri del maggiore Vittorio Calcaterra dislocati sul territorio provinciale, la resa del prefetto Mauro Michele Bertone, motivata con la “scarsità” (?) di forze a sua disposizione e con l’intento di non creare “gravi incidenti”, furono determinanti per la riuscita di un’insurrezione che in tutta evidenza non fu tale, bensì un colpo di mano agevolato da chi avrebbe dovuto contrastarlo.

Nella notte la stazione ferroviaria si riempì di squadristi che salirono su un treno – molti altri montarono alle stazioni lungo il percorso per Chiusi, a completare quella che fu chiamata la legione senese – e partirono alla volta di Monterotondo, nei pressi di Mentana, punto di aggregazione della colonna affidata al comando di Ulisse Igliori. Superato lo  sbarramento di Orte viaggiando sul binario dispari – l’altro era stato divelto dai soldati dell’esercito in allerta per lo stato di assedio dichiarato dal governo Facta e poi non firmato dal re –, il 28 arrivarono a destinazione precedendo i fiorenti e gli aretini a cui era stata assegnata la medesima destinazione.

Carenza di viveri, freddo e pioggia furono gli unici veri nemici. L’attesa di dirigersi a Roma durò fino al 30 e si sbloccò solo quando, con Mussolini incaricato di formare un nuovo governo, venne rimosso ogni sbarramento militare a difesa della capitale. In testa alla colonna Igliori, i fascisti senesi entrarono in città e parteciparono alla sfilata di fronte al Quirinale. Il 31 tornarono a Siena, sempre in treno.

I partecipanti all’impresa furono 1.032. Altre 899 camicie nere rimasero invece a presidiare i centri maggiori della provincia. Nell’insieme, numeri elevati rispetto ai 2.600 iscritti al PNF nella primavera del 1922.

In testa alla classifica della partecipazione, il capoluogo (167 partecipanti),  Montalcino (89), Montepulciano (85), Sovicille (79), Sinalunga (67), Poggibonsi (61), S. Gimignano (42), Abbadia San Salvatore (32), Rapolano (30), Trequanda (30). I fasci di frazione garantirono un afflusso importante in ogni comune.

La presenza di leader fascisti autorevoli per influenza sociale – ad esempio esponenti della nobiltà capaci di portarsi dietro gregari armati in un rapporto che evoca suggestioni di tipo feudale – può essere assunta come causa di una maggiore o minore partecipazione dalle varie località. Più in generale si può richiamare la “mobilitazione secondaria” ovvero l’effetto di reazione: laddove il socialismo era stato più forte e agguerrito, da lì venne un numero maggiore di marcianti.  Anche se, va subito aggiunto, non mancano le eccezioni, come Colle Val d’Elsa, Monticiano e Chiusdino.

Per offrire una qualche cognizione su età e condizione sociale dei 1.032, si anticipa qui di seguito la  sintesi dei risultati di uno studio che sarà pubblicato sul numero CXXIX del “Bullettino senese di storia patria”. L’indagine, condotta su otto comuni, rappresentativi di varie zone della provincia, dal capoluogo, alla Val d’Elsa, alla Val di Chiana, si è fondata sui registri dell’anagrafe, intrecciati con altre fonti quali la memorialistica, la stampa, i registri di leva. 310 sono i marciati sui quali è stato possibile raccogliere le informazioni necessarie.

L’età media fu di 24 anni e mezzo: i  più numerosi, gli appartenenti alle classi richiamate sui fronti di guerra, ma molti (39%) anche i nati dal 1900 in poi.

Guardando alla condizione sociale, i ceti medi (impiegati, insegnanti, commercianti, coltivatori diretti, ma soprattutto artigiani) costituirono un’ampia maggioranza (48,8%), a conferma, anche per il  Senese, della politicizzazione, e del conseguente protagonismo in senso estremista, del mondo di mezzo avvenuta in seguito alla guerra.

Mentre i ceti inferiori (salariati, braccianti, mezzadri) totalizzarono il 27,4% di presenze, a colpire è il 23,8% dei ceti superiori (vi sono conteggiati professionisti, fattori e studenti universitari perché, nel contesto dei singoli comuni, appartenevano, a vari gradi, all’élite, e come tali venivano percepiti), fra i quali spicca il 12,2% di possidenti – prevalentemente di famiglia nobile –, di industriali e di impresari edili (per dare un termine di raffronto generale, secondo il censimento del 1921 i possidenti costituivano l’1,3% della popolazione attiva della provincia).

Se a queste percentuali, relative all’insieme dei marcianti, si affiancano quelle dei 30 quadri di comando della legione – comandante in capo, console, seniori, decurioni, centurioni – dalle quali risulta una presenza ampiamente maggioritaria di ceti superiori (20 persone) rispetto ai ceti medi (9) e inferiori (1), non è infondato pensare che, almeno in provincia di Siena, il movimento fascista, pur tra contraddizioni e lotte interne che non mancarono, fu nelle mani, e dunque sotto l’egemonia, delle tradizionali classi dominanti fin dalla partecipazione alla marcia che la storia ha segnato come l’evento fondativo del regime.

Bibliografia

Sullo svolgimento della marcia.

Giorgio Alberto Chiurco, Fascismo senese. Martirologio toscano dalla nascita alla gloria di Roma, Tipografia Combattenti, Siena 1923.

Alberto Tailetti, La Marcia su Roma vissuta nei ranghi, in “La Rivoluzione fascista”, 31 ottobre 1932.

Gabriele Maccianti, Una storia violenta. Siena e la sua provincia 1919-1922, Il Leccio, Siena 2015.

Paolo Leoncini, Ottobre 1922: la “resistibile” marcia dei fascisti senesi, in “Maitardi”, periodico dell’Isrsec “Vittorio Meoni”, 2022, n. 2.

Sul ruolo dei ceti dominanti alle origini del fascismo senese.

Daniele Pasquinucci, Società e politica a Siena verso il fascismo (1918-1926), Quaderni dell’Asmos, n. 2, Nuova Immagine, Siena 1995.

Saverio Battente, Dalla periferia al centro: la classe dirigente a Siena fra nazionalismo e fascismo, in Paul Corner e Valeria Galimi (cura), Il fascismo in provincia. Articolazioni e gestione del potere tra centro e periferia, Viella, Roma 2014.