La mostra “Il Partito comunista italiano a Livorno dal dopoguerra allo scioglimento”

Una mostra sul Pci a Livorno. Perché siamo nel centenario? Anche. Perché è stato il partito egemone nella città e nella provincia di Livorno fino ed oltre il suo scioglimento? Certamente. Perché è stato uno dei protagonisti della vicenda politica, sociale e culturale del secolo scorso, e non solo nel panorama italiano? Di sicuro.

Ma anche per altre ragioni, intrinseche al ruolo e agli scopi di un Istituto come l’Istoreco.  Al primo posto metterei la conservazione e la cura del patrimonio documentale di un partito politico. Custodia e cura che non potevano però prescindere dalla sensibilità di alcuni dei suoi protagonisti. Mi riferisco in particolare all’ex segretario di federazione dei DS, Marco Ruggeri, che ci affidò l’archivio della Federazione molti anni or sono. Perché le carte che raccontano una storia non vanno solo prodotte, vanno anche conservate e, quando è possibile, anche affidate ad istituti od enti terzi, penso ad istituti come il nostro o agli stessi archivi di Stato provinciali, che le possono valorizzare e che sono capaci di renderle disponibili a tutti per la ricerca e la consultazione. Lo stadio successivo della loro conservazione è svilupparne le potenzialità, digitalizzarle e renderle fruibili al pubblico più vasto tramite la rete. Sono operazioni che richiedono competenze specifiche, passione, e risorse economiche, ma non ultimo anche armadi idonei alla conservazione.

L’Istoreco di Livorno ha fatto una parte di questo cammino grazie all’aiuto di molti, soprattutto della Regione Toscana e della Fondazione Gramsci di Roma, appoggiato in questa operazione dalla sensibilità della Sovrintendenza archivistica della Toscana.

Il centenario ci ha indotto a proporre una Mostra che rappresenta in sintesi una specie di percorso di lettura dentro gli anni che vanno dal 1944 al 1991, cioè dalla Liberazione della città labronica allo scioglimento di quella compagine politica. Il nostro archivio conserva anche carte successive a quel periodo, relative alle successive evoluzioni di quella compagine politica. Ma abbiamo deciso di dedicarci alla componente più omogena del nostro deposito. Quello che viene dopo è un’altra storia.

E così abbiamo deciso di organizzare questa proposta proprio nell’anno dell’anniversario. Poiché il 1921, l’anno della fondazione del Pcd’I, partito fondato fra l’altro, e non è del tutto casuale, proprio nella città di Livorno, questa operazione c’è apparsa ancora più appropriata.

Abbiamo optato per questo mezzo comunicativo che ha dei limiti enormi. Il primo immediatamente evidente a chiunque, è l’impossibilità di proporre un approfondimento, un percorso critico ben sviluppato e appoggiato alla enorme bibliografia esistente, ma che ha pure il vantaggio assolutamente non trascurabile di diventare una narrazione facile da comprendere, emozionante, ma anche ricca di dettagli. Del resto l’Istoreco, in questo anno reso difficile dal Covid ha organizzato significativi momenti seminariali di approfondimento[1], prodotto e pubblicato un volume su una figura di assoluto rilievo, come quella di Bruno Bernini[2], presentato volumi su questa storia.[3] Non solo. Sta organizzando da adesso alla fine dell’anno, altri appuntamenti, diciamo più tradizionali, per riflettere insieme agli addetti ai lavori, su quella vicenda. Appuntamenti nei quali dare la preminenza all’indagine storiografica e alle ultime acquisizioni della ricerca.

Ma la decisione di ricorrere ad una Mostra, cioè ad un mezzo che fosse ricco di immagini, di fotografie di militanti che potessero ancora oggi riconoscersi, di documenti di archivio come volantini e manifesti, legati alla storia del Pci ma anche alla storia di questa città, c’è apparso il mezzo più immediato, quello più suggestivo, ma anche in qualche modo anche quello più democratico, che provasse ad avvicinare tutti, gli esperti ed i giovani estranei a quella vicenda, i vecchi militanti e gli indifferenti, perché quella vicenda prendesse l’aspetto della vita vissuta, prendesse la forma dei volti e dei corpi che occupavano le piazze, che lanciavano slogan, che discutevano nelle sezioni.

Appena ci siamo messi in cammino per la sua realizzazione, realizzazione per la quale abbiamo trovato talvolta anche aiuti insperati, siamo stati avvicinati da due fotografi-militanti o militanti-fotografi (Roberto Leonardi e Antonio Brugnoli) che hanno arricchito la nostra proposta mettendoci a disposizione la loro raccolta iconografica.

Una Mostra, come è ovvio e, come ha scritto anche con senso poetico, l’assessore alla Cultura di Livorno, Simone Lenzi, è anche un’operazione che si caratterizza per leggerezza[4]. Ma sempre seguendo il suo ragionamento, accanto alla leggerezza del linguaggio, si accosta la pesantezza del contenitore, dei containers. Simbolo per eccellenza del lavoro in una città che è stata sempre ancorata al porto e a tutte le attività che si svolgono sulle sue banchine. Non casualmente l’appoggio più significativo l’abbiamo trovato proprio fra i soggetti che vivono e lavorano sul porto. Ma la Mostra non si sarebbe realizzata senza la compartecipazione generosa del Comune di Livorno. Quindi il nostro è il risultato di uno sforzo collettivo, di privato e pubblico, di istituzionale e personale. Tutti insieme, noi che ci abbiamo lavorato, chi ci ha dato un contributo in lavoro e mezzi, chi in denaro, a tutti quei volontari che si sono messi a disposizione per abbassare i costi dell’allestimento, va il nostro più sentito ringraziamento. L’operazione però cosa ci insegna? Che li singoli, i soggetti economici e istituzionali, sono stati disponibili, ad affiancare un’operazione di questo tipo perché hanno compreso che era una operazione culturale, con nessun retro pensiero nostalgico, né tantomeno una laudatio temporis acti, ma una iniziativa che voleva innescare una discussione sul nostro passato e sul nostro presente. Un presente così deficitario dal punto di vista politico, nel quale ognuno di noi, ogni cittadino democratico, avrebbe piacere di ritrovare un filo rosso che capace di proporre un progetto di futuro, un orizzonte di convivenza civile meno violento e più solidale, da tutti i punti di vista. E che dentro questo progetto ci sia uno sguardo e un impegno per ridare piena dignità al mondo del lavoro, quel lavoro così pesantemente attaccato dalla precarietà e dalla insicurezza, spesso incapace anche di riportare a fine turno, la vita, a casa.

E proprio perché questo ragionamento che sottostà in gran parte alla nostra proposta, abbiamo aperto la mostra proprio sul tema del Lavoro scrivendo:

“Non c’è agitazione industriale che non sia accompagnata dalla solidarietà delle organizzazioni di Partito e dall’intervento delle amministrazioni locali, governate da Pci, per una soluzione della vertenza, per il superamento della crisi. Come a dire: la piazza e la mediazione politica. Non sempre, come è ovvio, l’intervento e le agitazioni operaie e sindacali sono sufficienti a superare tutti gli scogli. Spesso le decisioni vengono prese altrove, in luoghi di potere lontani dall’influenza che quella compagine può esercitare.” L’altrove di adesso spesso è in un altro continente o in una Holding senza testa, apparentemente, perlomeno. Nelle nostre immagini sfilano migliaia di partecipanti in difesa dei diritti di chi lavora, dal Cantiere, alla Spica, dal Porto alla Motofides, dal lavoro nelle campagne alla denuncia del doppio lavoro delle donne.

Nella Mostra subito dopo il tema del Lavoro abbiamo messo la sezione sulle Battaglie civili, quelle battaglie che spesso non sono rappresentabili con facilità con una foto o  uno slogan, ma sono quelle nelle quali si sono realizzate le alleanze migliori. Per la riforma agraria, per una sanità pubblica, per il diritto di famiglia o la nazionalizzazione dell’energia elettrica. Quelle battaglie che hanno reso più civile il nostro Paese, anche quelle dove il Pci non si è trovato in prima linea, pensiamo alla Statuto dei lavoratori che fu approvato con l’astensione dei suoi rappresentanti. Ma pensiamo anche a come in Toscana, a partire da Arezzo, Lucca, Volterra, si è combattuta quella grande battaglia civile per la chiusura dei manicomi o per il trionfo della legge sul divorzio e sull’aborto.

La sezione Vita di Partito, possiamo dire è quella più interna alle vicende di quel grande corpo sociale organizzato che fu il Pci.  Abbiamo scritto:

“Dalle grandi assisi con il ritratto di Stalin e di Togliatti che campeggiano su tutto, alle fotografie degli anni Settanta con le ragazze con i pantaloni a zampa d’elefante, con i volti degli uomini e delle donne meno austeri e più pieni (la fame dell’immediato secondo dopoguerra è solo un ricordo lontano).Le scuole di partito organizzate con poche cerimonie ma con molta partecipazione per una base di militanti e di quadri con un basso livello scolastico ma che dimostra un forte desiderio di conoscenza fino alle immagini più leggere che testimoniano un’idea di partecipazione diversa, l’emergere della dimensione del privato, di un impegno meno totalizzante rispetto a quello degli anni Cinquanta.”

Il mondo cambiava e cambiava anche il Pci dentro quell’Italia che aveva cominciato ad andare di corsa.

La sezione sulle Feste de l’Unità, è a nostro parere, quella più allegra e partecipata. Immagini di uomini e di donne che con orgoglio e caparbietà, rinunciando anche alle ferie, lavorano per costruire gli stands, per riempirli di persone, per proporre una immagine di sé e del partito, che incarnano l’idea di essere una grande forza di massa, partecipata e organizzata. Una vetrina per il mondo che sta intorno, per gli amici e i nemici. É anche la sezione dove emergono con forza, anche se non la sola, alcuni dei bellissimi manifesti disegnati dal grafico della Federazione livornese, Oriano Niccolai.[5] Un grande anche nel panorama nazionale.

La Mostra continua con altre due sezioni: quella sulla Pace e la questione internazionale e quella sullo Sport che chiude il nostro allestimento. Proviamo a soffermarci sulla prima che in questo momento, con le terribili notizie che provengono dall’Afghanistan, è di una attualità sconcertante. Poco dopo la fine del secondo conflitto mondiale, si aprirono altri scenari di guerra: la Corea, la guerra civile in Grecia, l’Indocina, i movimenti di liberazione negli ex paesi coloniali etc etc. Non solo. Gli uomini e le donne usciti salvi dalla guerra temevano più di tutto le armi atomiche. Il ricordo di Hiroshima e Nagasaki era evidentemente ancora vivo nei loro cuori e nelle loro teste per non destare preoccupazione. Ed era un sentimento che si rafforzava nelle file comuniste con un forte sentimento antiamericano. Quando ci fu l’attacco all’Afghanistan da parte dell’allora Unione Sovietica, non ci furono manifestazioni a favore della pace. Era un mondo bipolare e questa storia ce lo racconta anche nella sua dimensione periferica, quella di una provincia italiana del centro Italia. Ci racconta anche una capacità di mobilitarsi accanto ai popoli in lotta per la libertà, dalla Spagna di Franco all’Algeria del dominio francese, dalla Cuba prima di Castro alla lotta dei Viet-cong. Sicuramente spesso erano articolazioni di una posizione troppo filosovietica ma erano anche, e lo si vide a partire dai carri armati a Praga, l’espressione di un percorso autonomo di solidarietà e di convivenza che perlomeno albergava tra le masse, e non solo fra quelle comuniste. Era un sentimento che si esprimeva anche con gesti concreti di solidarietà, con l’impegno dato in prima persona. Un atteggiamento che raccontava la capacità di aprire le porte dell’accoglienza e rifiutava la logica della costruzione dei muri. Un atteggiamento che non considerava l’altro un “diverso”, uno straniero, ma che lo percepiva soltanto come una persona in difficoltà. Di questi tempi con le sirene di quelli che vorrebbero gettare a mare i richiedenti asilo, questa attitudine all’inclusione, ci manca.

La Mostra poi si chiude con una sezione importante ma anche allegra. La sezione dello Sport. Per rendere omaggio alla città più medagliata d’Italia, Livorno, per rendere omaggio alla rete di attività sportive promosse dall’organizzazione giovanile di quel partito, dalla rete dell’Uisp ai Circoli Arci, ai comitati delle gare remiere. Quella rete che promosse dall’interno di una sezione comunista, quella della Venezia, la Coppa di gara remiera intitolata ad Ilio Barontini, ardente antifascista, fuoruscito in Russia e in Francia, combattente di Spagna e molto altro ancora. Perché lo sport non è un modo qualsiasi di riempire il tempo libero e non ha valore per lo sforzo individuale. Lo sport è condivisione di valori, solidarietà praticata sul campo, impegno e disciplina, vita di comunità. È uno strumento ideale per avvicinare i giovani e coinvolgerli in un impegno a tutto campo; è uno strumento per allontanarli dalla strada in una città fortemente colpita dalla guerra e dai bombardamenti prima, e poi per tenerli lontani dalle suggestioni della droga. Non era e non è poco.

[1] Alcuni percorsi di protagoniste nel Pci: Edda Fagni, con Carla Roncaglia, Presidente Istoreco e Alessandra Mancini autrice del volume, Edda Fagni, L’innovazione pedagogica, Edizioni del Boccale, Livorno, 2010.

[2] Michela Molitierno, Catia Sonetti, La vicenda non comune di un militante comunista, Ets, Pisa, 2020.

[3] Il 14 aprile 2021 abbiamo presentato il volume scritto da Mario Lenzi, O miei compagni. Una testimonianza, Comune di Livorno, Livorno, 2013; il 23 marzo 2021, il volume di Mario Tredici, Gli altri e Ilio Barontini, Ets, Pisa, 2017 eil 17 maggio quello su Bruno Bernini

[4] Simone Lenzi, Prefazione del Catalogo su: Il Partito comunista italiano a Livorno dal dopoguerra allo scioglimento, in corso di pubblicazione.

 [5] Rosso creativo. Oriano Niccolai. 50 anni di manifesti, a cura di Margherita Paoletti e Valentina Sorbi, Debatte, Livorno, 2013.




Aspettando la rivoluzione: dai grandi scioperi alla “nascita” del PCdI a Firenze.

L’Italia del 1919-’20: un Paese spaesato, diviso, violento, gravato dal sommarsi di paure diverse e nuove, da consolidata estraneità nei confronti dello Stato, ostilità o indifferenza verso una classe dirigente spesso lontana e impermeabile, da un diffuso antiparlamentarismo, gravato dalla crisi economica, da disagio sociale, segnato dagli effetti di  una pandemia – la Spagnola – e dalle conseguenze del primo conflitto mondiale.

Firenze è parte di questo contesto. Anzi qui semmai le divisioni sono ancora più nette e gravi. La città è dominata da una classe dirigente conservatrice, ostile alla stella politica giolittiana, forte dei domini terrieri, signori dei poderi mezzadrili, detentori del potere politico ed economico. La propria superiorità rispetto ai ceti inferiori è un dato di fatto, una distanza naturale e incolmabile. Per povertà e disagio sociale può esserci solo benevolenza, paternalistiche concessioni, beneficenza. La città è stata interventista, intellettuali e studenti, professionisti si sono mobilitati, del resto proprio Firenze era stata sede della fondazione del movimento nazionalista, dimora di D’Annunzio, frequentata da Marinetti e dai futuristi. Fili ed eredità che si ritrovano nella fioritura di tante associazioni nazionaliste e anticomuniste nel dopoguerra, fra le quali anche un fascio abbastanza debole e precario. Ma è anche città di una crescente classe operaia. Paradossalmente proprio grazie alla guerra.

Firenze non era città di vere grandi fabbriche, se confrontate alla realtà del nord. I maggiori stabilimenti nel primo dopoguerra contano fra i 1000 e 2000 addetti. Ma è città di manifatture, che si radicano nella tradizione artigiana del territorio, pur in assenza di grandi stabilimenti è anche città operaia, frutto di uno sviluppo relativamente recente fra il primo decennio del secolo e gli anni della guerra. Di una classe operaia di tradizione artigiana, fiera del proprio mestiere, del proprio lavoro frutto di arte e conoscenze. Ancora a fine ‘800 la tradizionale dimensione agraria della classe dirigente fiorentina e la volontà di mantenere l’immagine di una Firenze d’arte e cultura avevano limitato lo sviluppo produttivo in una realtà frammentata e dispersa. Solo in età giolittiana ha una prima crescita, ma soprattutto negli anni del primo conflitto mondiale con la mobilitazione bellica degli stabilimenti, ad esempio le Officine Galileo passano dal 1907 al 1917 da circa 200 a circa 2000 addetti.

Una crescita che parallelamente vede l’esplosione di una presenza organizzata del sindacato e del partito socialista.  Nel 1920 il PSI conta oltre 8700 e la Camera del Lavoro oltre 63.000 soci divisi in circa 218 leghe. Una massa arrabbiata per i sacrifici e le scelte della guerra si organizza in una straordinaria rete di associazioni mutualistiche, ricreative, cooperative, accanto a quelle di partito e sindacato, trovando piena espressione nella dirigenza massimalista che ne ha assunto il controllo. Proprio la prospettiva neutralista e l’ostilità verso il conflitto mondiale accrescono i consensi dell’ala più intransigente del Psi fra le masse dei lavoratori già esasperate dalla precarietà e dalla durezza delle proprie condizioni lavorative. Peraltro la componente riformista, nonostante fosse ancora rappresentata da uomini come Giovanni Pieraccini e Giuseppe Pescetti e fosse radicata nelle associazioni economiche, sindacali e cooperative, aveva subito un duro colpo a seguito della svolta intervista di suoi numerosi esponenti, a partire dal direttore del periodico del partito “la Difesa”, Michele Terzaghi, espulso insieme all’on. Carlo Corsi. Tanto che proprio negli anni della prima guerra mondiale Firenze è definita la “capitale dell’intransigentismo”. La città aveva ospitato nel 1917 la Direzione nazionale del Psi che indica il sentimento patriottico come incompatibile con il marxismo e, in novembre, la riunione costitutiva dei gruppi “intransigenti-rivoluzionari” di Lazzari, Serrati, Gramscie Bordiga.

Un ruolo dominante dell’ala massimalista e rivoluzionaria che è ulteriormente rafforzato dal difficile contesto del dopoguerra. Fin dai primi mesi di pace tutte le categorie avanzano rivendicazioni e attuano scioperi. Alla Galileo sono molteplici le rivendicazioni per carovita o obiettivi politici. Centro dei moti per il carovita nel ’19 (con oltre 1400 arresti e oltre 400 persone mandate a processo) ai quali partecipano gli operai che raccolgono il malcontento di una comunità prostrata dal conflitto e dalle scelte governative dell’immediato dopoguerra. Del resto tutta la regione è scossa da tensioni e scontri. Nel 1919-1920 la Toscana è la seconda regione per numero di scioperi agricoli, seconda solo all’Emilia Romagna. I proprietari sono costretti nel corso del ’19 a rivedere le proprie posizioni e a concedere aumenti salariali.

Nel 1920 la situazione precipita. Toscana ed Emilia spiccano per numero di scioperi in un contesto nazionale che vede peraltro il nostro Paese al primo posto a livello europeo nel primo semestre di quell’anno. A gennaio quelli dei postelegrafonici e quindi dei ferrovieri aprono, pure a Firenze, una lunga scia di agitazioni, che vedono emergere sempre più la figura di Spartaco Lavagnini segretario della sezione fiorentina del sindacato ferrovieri. Proseguono le lotte agrarie. Nella primavera scontri prima in Emilia, poi in Toscana provocano vittime fra i lavoratori delle campagne e con scelte dal basso viene proclamato lo sciopero  a Firenze, Piacenza, Bologna e Modena. Dopo mesi di tensioni il 7 agosto 1920 viene firmato il nuovo patto colonico regionale fra agrari e Federterra. Ma la disputa sui patti agrari fra popolari e agrari nell’autunno del ’20 rimette tutto in discussione.

Anche nel mondo dell’industria i fronti contrapposti si muovono, gli industriali si organizzano in proprie associazioni, a maggio nel corso dell’ottavo congresso della FIOM Bruno Buozzi fa approvare un documento che chiede aumenti salariali del 40%, indennità di licenziamento, dodici giorni di ferie pagate all’anno. La CGdL approva i consigli di azienda destinati a tutelare i lavoratori in fabbrica e intervenire nell’organizzazione del lavoro. Per gli industriali è troppo. Contratti, diritti, miglioramenti delle condizioni di lavoro sono pretese inaccettabili in una totale negazione della dignità del lavoratore e del lavoro tanto più offensiva in un territorio come questo segnato da forti tradizioni e culture professionali. Non è solo una questione economica, è ancor prima una questione di rispetto mancato, negato, di riaffermazione di potere, gerarchie, tradizioni. Reazioni consolidate ma che diventano inaccettabili in un momento in cui davvero si vede la rivoluzione scuotere l’Europa. I lavoratori si muovono.

A Firenze il clima è già incandescente. 10 agosto  a Firenze in via Centostelle viene fatta saltare in aria la polveriera di San Gervasio provocando otto morti e molti feriti. 29 agosto comizio socialista a Firenze all’interno della campagna nazionale del partito per chiedere la smobilitazione delle classi di leva ancora sotto le armi, eliminazione della censura sulla stampa, amnistia per i reati di guerra, rapporti politici ed economici con la Russia. Le forze dell’ordine sparano sul corteo dei manifestanti senza adeguato preavviso per fermare una parte del corteo, di giovani, che volevano andare in corso dei Tintori verso la sede della Camera del Lavoro. 4 morti (tre operai e una guardia) e vari feriti. Mentre almeno cinquantamila persone con bandiere rosse seguono il funerale dei tre operai, viene proclamato lo sciopero generale.

L’occupazione delle fabbriche nel settembre del ’20 ha una partecipazione compatta e disciplinata delle poche grandi fabbriche e di molte delle aziende di modeste dimensioni. Dal 2 al 30 settembre l’occupazione interessa circa una decina di fabbriche e circa 3000 operai organizzate da fitta rete di rappresentanti di fabbrica, , commissioni interne, commissari di reparto, consigli di fabbrica, capaci di autogestire gli impianti che infatti, a differenza di altre regioni, continuarono a garantire ritmi di produzione quasi normali.

Aspetto qualificante delle lotte di fabbriche è l’attenzione prestata al tema della professionalità, al ruolo sociale e produttivo del lavoro. Aspetto che affonda le sue radici nelle caratteristiche di fondo della classe operaia fiorentina e che vede come corollario la lotta contro la concezione della fabbrica come dominio assoluto del padrone. C’è un’attenzione, quasi una cura della fabbrica, delle macchine, dei prodotti che segna la storia della classe operaia fiorentina e che emergerà in un momento drammatico quale la primavera estate del ’44 quando saranno gli operai a salvare le fabbriche dal trasferimento in Germania, voluto dai nazisti in ritirata, smantellandone i pezzi in modi tali da poterle poi, a liberazione avvenuta, ripararle, tutelando cose i beni dei padroni ma anche e soprattutto il proprio futuro e quello del Paese. La Pignone è la fabbrica che meglio rappresenta questa tendenza, non a caso nell’occupazione del 1920 commissione interna e commissari di reparto sono impegnati fortemente a dare prova di capacità e autonomia organizzativa e produttiva, la fabbrica sono anche loro perché senza il loro lavoro, senza la loro cultura del lavoro, la loro professionalità, i loro sacrifici, essa non esisterebbe, la fabbrica quindi non è solo il padrone. La rivendicazione del valore sociale ed economico del lavoro operaio sarà il filo rosso che segnerà tutte le diverse fasi del Novecento.

Contemporaneamente la dirigenza della sezione socialista conosce un processo di ulteriore radicalizzazione che si concretizza nell’esclusione degli esponenti riformisti dalle liste per le elezioni amministrative nell’autunno del 1920, che vedono peraltro la vittoria della lista “nazionale”. Al di là delle aspettative di massimalisti e comunisti, l’aspettativa della rivoluzione, spaventando ceti sociali diversi, consolida le forze conservatrici. A novembre la corrente comunista assume la guida della sezione urbana e di tutta la Federazione. L’adesione della maggioranza dei delegati fiorentini al Partito comunista d’Italia nel congresso di Livorno del gennaio del 1921 non appare quindi una sorpresa, ma il culmine del processo di radicalizzazione articolatesi negli anni e nei mesi precedenti. Infatti 4003 voti andarono ai comunisti, 3309 ai massimalisti e 229 ai riformisti. Come già sottolineava Giovanni Gozzini molti anni fa, tutta la regione vede una significativa adesione al nuovo partito, tanto che la Toscana ne è il secondo punto di forza a livello nazionale dopo il Piemonte. La scissione è maggioritaria nelle province di Firenze, Arezzo e Massa Carrara. Ma proprio a Firenze emerge uno degli elementi di maggiore novità del PCdI rispetto al PSI, pur nella stretta contiguità con valori e miti del massimalismo (che si rispecchiano in parte anche in una contiguità di classe dirigente): l’emergere di una nuova classe dirigente – ben simboleggiata dal segretario provinciale Spartaco Lavagnini – non solo espressione dei ceti operai e non più medio-borghesi, ma soprattutto interprete “di un rapporto diverso con le masse popolari, non più di tipo pedagogico e tribunizio – proprio degli “intellettuali” appartenenti alla tradizione socialista – bensì fondato su un’esperienza diretta di lotta e di organizzazione, molto più vicino alle aspirazioni e ai bisogni del popolo” [cfr. La formazione del partito comunista in Toscana 1919-1923, Quaderni dell’Istituto Gramsci – Sezione Toscana n. 3, Firenze, 1981, p. 208]. In città il nuovo partito riesce a strutturarsi significativamente e rapidamente grazie all’adesione plebiscitaria della Federazione giovanile socialista che porta in dote non solo entusiasmo, ma anche molte sedi, fondamentali per avviare un’organizzazione effettiva sul territorio. Immediato è l’impegno a costituire gruppi nei luoghi del lavoro, a partire dalle fabbriche; significativa la “conquista” della FIOM cittadina. Ma la strada appena imboccata non sarebbe stata agevole. E non solo per le divisioni a sinistra.

Firenze è, infatti, contemporaneamente precoce anche nelle violenze squadriste che intervengono a segnare la vita della città e della provincia, con la forza della violenza, proprio fra il dicembre del 1920 e i primi mesi del ’21, spinte dalle paure dei ceti medi spaventati dalla rivoluzione minacciata e soprattutto dai sostegni di agrari e industriali, la vecchia classe dirigente gravemente turbata dalla perdita del potere locale dopo le sconfitte alle elezioni amministrative tenutesi nell’autunno (con l’eccezione di Firenze città). Dopo il settembre delle bandiere rosse il quadro stava infatti rapidamente mutando e avrebbe colpito in primo luogo proprio la neonata sezione del partito comunista d’Italia con la barbara uccisione del suo segretario Spartaco Lavagnini, il 27 febbraio 1921. Troppo evocata, la rivoluzione aveva saputo suscitare e unire tutti i suoi oppositori proprio mentre i suoi sostenitori si dividevano ed isolavano, rimaneva mito e spettro, senza, del resto, essere mai stata realtà.




La deportazione politica in Toscana

Come è noto, in Toscana l’occupazione nazista ha imposto un sacrificio straordinario alle popolazioni civili a causa del perdurare di una guerra totale e devastante con eccidi e stragi che rendono la Toscana la più colpita d’Italia per numero di morti. A questo si aggiungono le vittime della deportazione, un’ulteriore modalità per terrorizzare una popolazione già allo stremo.

Nel periodo che va dal dicembre 1943 al settembre 1944 numerosi gli arresti per motivi politici e la conseguente deportazione degli arrestati nei campi di concentramento nazisti dipendenti dalle strutture delle SS (da distinguere nettamente dai campi per militari internati controllati dalla Wehrmacht o dai campi di lavoro coatto gestiti direttamente dalle aziende.) L’arresto e la deportazione dei “politici” era motivato perlopiù con la definizione Schutzhaft (arresto e detenzione dei sospetti “a protezione del popolo e dello stato”), un provvedimento messo in atto fin dal 1933 dalle autorità naziste per trasferire a scopo preventivo nei lager i propri avversari politici, dapprima i connazionali, considerati pericolosi per la sicurezza del Reich.

All’incirca 1000 i deportati politici nati o arrestati in Toscana fermati con l’allora vigente procedura d’arresto con destinazione campo di concentramento. Tale procedura fu utilizzata fin dall’inizio del 1944 dalle forze occupanti (SS e polizia tedesca in Italia), in collaborazione con le strutture repressive della RSI e riguardava le tre categorie principali dei deportati politici: partigiani veri e propri, sospetti fiancheggiatori, renitenti alla leva. Si annoverava tra questi anche chi aveva aderito a forme di resistenza civile, ad esempio ai grandi scioperi nelle aree urbane ed industriali. Per la Toscana, ma soprattutto per l’area Firenze/Prato/Empoli, prevalenti sono i casi di arresto nel corso della retata avvenuta proprio a seguito dello sciopero generale del marzo 1944. Il trasporto che partì l’8 marzo 1944 da Firenze e arrivò l’11 marzo a Mauthausen nell’Austria annessa al Reich Germanico, conteneva  338 uomini rastrellati in Toscana in seguito allo sciopero. Poche decine i sopravvissuti.

Nel contesto della crescita dell’attività resistenziale ma anche della repressione nazifascista, vanno iscritti arresti, detenzioni e deportazioni particolarmente intensi nel mese di giugno del 1944. Il trasporto partito dal campo di transito di Fossoli (MO) il 21 giugno e arrivato a Mauthausen il 24 giugno è per numero di deportati il secondo trasporto con cittadini nati e/o arrestati in Toscana, dopo quello dell’8 marzo. Molti di loro, prima di essere trasferiti a Fossoli in attesa della successiva deportazione, avevano trascorso un periodo di detenzione nel carcere delle Murate a Firenze. Diversi i nomi di noti antifascisti toscani tra i deportati del 21 giugno, come Enzo Gandi, Giulio Bandini, Marino Mari o Dino Francini. In questo trasporto troviamo anche persone legate alla vicenda dei fatti di Radio Co.Ra.: Marcello Martini, Guido Focacci, Angelo Morandi e Salvatore Messina, tutti arrestati a seguito dell’irruzione delle forze naziste in un palazzo di Piazza D’Azeglio a Firenze dove avvenivano collegamenti radio clandestini con gli alleati.

In conclusione, la deportazione politica dalla Toscana ha visto il sacrificio di antifascisti e resistenti noti e meno noti, ma gli arresti e le retate hanno avuto anche carattere indiscriminato perché non sempre si teneva conto della reale attività d’opposizione al regime dell’arrestato. Questo è particolarmente evidente nel trasporto col numero più alto di deportati dalla Toscana: quello già menzionato dell’8 marzo 1944 da Firenze. Infatti, l’intenzione delle forze d’occupazione era quella di creare, attraverso le deportazioni, un forte deterrente da possibili ulteriori azioni di lotta o resistenza civile ma contestualmente quella di trasferire in massa manodopera da ridurre in schiavitù, utile per l’economia di guerra del Terzo Reich. L’organizzazione del lavoro schiavo dei deportati è testimoniata da un numero cospicuo di fonti documentali: elenchi, schede personali, corrispondenza. Di particolare interesse le schede del sistema Hollerith-IBM.

Ad arrestare i “politici” toscani furono soprattutto italiani, cioè i militi della Guardia Nazionale Repubblicana (ca. il 90% degli arresti è da attribuire a loro); è documentata in molti casi anche la presenza dei carabinieri. Questo ci dice l’alto grado di collaborazionismo da parte delle autorità fasciste, essenziale per la riuscita stessa della deportazione.

A Dachau ma soprattutto nel complesso concentrazionario di Mauthausen con le sue decine di sottocampi, destinazione della maggior parte dei deportati politici della Toscana, si determinò un altissimo tasso di mortalità per le condizioni così estreme da non far loro superare in media più di otto mesi di sopravvivenza. In molti casi gli “inabili al lavoro”, dopo le selezioni, furono eliminati nelle camere a gas.

Questo testo è tratto dal saggio di Camilla Brunelli e Gabriella Nocentini, presente nel secondo volume de IL LIBRO DEI DEPORTATI – Deportati, deportatori, tempi, luoghi (ed. Mursia, 2010) a cura di Brunello Mantelli.

Interno Museo della Deportazione Figline di Prato




La Camera sindacale del Lavoro di Livorno

La storia non può cancellarsi davanti agli storici: così ha scritto Marc Bloch. Infatti, anche se per molto tempo è stata pressoché ignorata dalla storiografia locale, dal 1920 al ’22, a Livorno fu attiva una seconda Camera del Lavoro, aderente all’Unione Sindacale Italiana e punto di riferimento operaio nei conflitti tra capitale e lavoro, prima che il fascismo distruggesse, assieme alle sedi del movimento operaio, anche le conquiste dei lavoratori.

Una prima sezione livornese dell’USI si era costituita dopo la fine della Prima guerra mondiale, «in questa città ove il riformismo ha sempre imperato»: lo riferisce un comunicato pubblicato il 15 dicembre 1918 sul giornale dell’USI, «Guerra di Classe», da cui si apprende del rilevante apporto di alcuni ferrovieri e che, ottimisticamente, venivano prenotate 500 tessere per l’anno seguente.

1920 USI LivornoNel gennaio 1919, si giungeva quindi alla ricostituzione del Fascio operaio “Emancipazione e lavoro” – già attivo prima del conflitto, con sede in via dei Cavalieri – che raccoglieva un certo numero di giovani operai, attorno ad alcuni vecchi militanti, che non si riconoscevano nella Camera confederale del Lavoro, rivendicando l’assoluta autonomia della classe lavoratrice da tutti i partiti politici e dai governi. Nel programma pubblicato su «Guerra di Classe» dell’11 gennaio 1919, si rendeva nota la sua adesione all’USI, «l’unica organizzazione nazionale che sia rimasta incorruttibile e fiera sul terreno della più rigida lotta di classe».

Lo sviluppo della realtà sindacalista veniva favorito dall’inasprirsi della situazione economica e sociale post-bellica e della conseguente radicalizzazione delle lotte operaie, tanto che «a malapena trascorreva anche una sola settimana senza scioperi, ostruzionismi, tumulti, cortei, comizi ed altre forme di azione politica di sinistra». In questo clima, tra febbraio e marzo 1919, «un gruppo di animosi» si attivò per la creazione di una Camera del lavoro alternativa e in antitesi a quella, fondata nel 1886, aderente alla Confederazione Generale del Lavoro (CGdL), con sede in via Vittorio Emanuele 24, nei pressi di piazza Colonnella.

Tale Camera confederale era ormai controllata da una maggioranza socialista riformista, ad eccezione della Federazione dei metallurgici (FIOM) a prevalente indirizzo massimalista, con sempre meno spazio d’iniziativa per le minoranze repubblicana e anarchica, e a promuovere questo primo tentativo sindacalista di scissione erano stati alcuni ferrovieri socialisti, lavoratori repubblicani e, soprattutto, operai e scaricatori anarchici, uniti dall’opposizione verso la condotta, ritenuta inadeguata e perdente, della dirigenza riformista.

Peraltro, a Livorno vi era stata una precedente esperienza di sindacalismo conflittuale nel 1904, durante il periodo in cui il noto agitatore sindacalista Alceste De Ambris si era trovato a Livorno con l’incarico di segretario della Federazione nazionale dei Bottigliai. Fu infatti dopo lo sciopero generale del 19 settembre di quell’anno che comparve il combattivo Gruppo di propaganda sindacalista che raccolse un certo numero di sindacalisti rivoluzionari di matrice socialista-soreliana, fautori dell’azione diretta e dello sciopero generale espropriatore.

Tra il 1905 e il 1906, il principale esponente del socialismo riformista livornese, l’on. Giuseppe Emanuele Modigliani, si preoccupò di osteggiare accanitamente «l’infatuazione direttista» all’interno del Partito socialista, riaffermando la centralità della politica parlamentare. De Ambris rispose alle sue argomentazioni, precisando che l’azione sindacale non escludeva quella parlamentare purchè subordinata ad essa, ricordando che «l’emancipazione dei lavoratori deve essere opera dei lavoratori stessi».

Il “sindacalismo puro” nel contesto livornese non aveva però avuto seguito, stretto come era tra la predominanza socialista – sia riformista che massimalista – e la consistente e storica presenza anarchica; anche perché a livello nazionale i sindacalisti rivoluzionari nel 1907 decisero di separarsi dal PSI ma di rimanere nella CGdL.

Infatti, il processo che avrebbe portato all’affermazione dell’USI a Livorno fu possibile soprattutto grazie al consistente apporto degli “anarco-sindacalisti” che, peraltro, fornirono ad essa la quasi totalità dei quadri dirigenti.

Lo scoppio dei moti del caroviveri, nel luglio 1919, che videro l’iniziativa unitaria della Camera del Lavoro, del Partito socialista e dei gruppi anarchici, nonché la susseguente ondata di arresti e denunce, presumibilmente ritardò la costituzione della Camera sindacale; appare comunque significativo che, durante la sommossa popolare, all’Ardenza fu approvata una risoluzione assembleare che ricalcava quella rivendicata dalla forte Camera sindacale di Piombino, Elba e Maremma, aderente all’USI.

Nei mesi seguenti, a Livorno, gli attivisti che facevano riferimento al sindacalismo d’azione diretta – così come la minoranza anarchica all’interno della Camera confederale del Lavoro – ebbero un ruolo decisivo nello sciopero generale indetto per la libertà di Errico Malatesta, arrestato a Tombolo nel febbraio 1920.

Un prima occasione in cui emerse il crescente dissenso nei confronti della linea moderata della Camera confederale del Lavoro fu lo sciopero generale attuato il 6 e il 7 aprile, per protestare contro l’eccidio avvenuto a San Matteo della Decima, frazione di S. Giovanni in Persiceto (Bo), dove le forze dell’ordine avevano ucciso 8 lavoratori ad un comizio indetto dall’USI. In tale frangente, a Livorno, il 6 aprile si erano mobilitati soprattutto anarchici e repubblicani, mentre i dirigenti confederali e socialisti avevano cercato di abbassare la tensione, così come l’on. Modigliani parlando al comizio, mentre l’anarchico Natale Moretti aveva sostenuto lo sciopero generale ad oltranza. L’indomani però la situazione era del tutto sfuggita di mano ai dirigenti riformisti e – come titolò «Il Telegrafo» del 9 aprile – «i socialisti [furono] esautorati dagli anarchici». Una moltitudine di operai e sovversivi, dopo aver fatto irruzione nella Camera del Lavoro ed essersi impadroniti del vessillo di questa, dettero vita ad un corteo non autorizzato che, cantando Bandiera Rossa, giunse sino alla stazione ferroviaria dove fu caricato due volte dalle forze dell’ordine. Erano quindi seguiti scontri da piazza Dante sino a piazza del Cisternone, con un bilancio di alcuni feriti, tra i quali l’anarchico Oreste Gori e Vittorio Colombini, operaio del Catenificio Bassoli.

Ulteriore significativa rottura fu conseguente alla sollevazione cittadina contro la repressione governativa, agli inizi di maggio, quando la direzione della Camera confederale era riuscita – seppure a stento – a far rientrare la sommossa popolare sul piano della protesta civile e contenere l’agitazione anarchica, aprendo così al sindacalismo rivoluzionario nuove possibilità di sviluppo nel contesto sovversivo.

Appare infatti evidente, come osserva Luigi Tommasini, che «i fatti del maggio segnarono una grave frat­tura fra movimento anarchico e Partito socialista, e ebbero ripercussioni evidenti a livello sindacale, dato lo stretto coinvolgimento degli organismi camerali nello svolgimento degli avve­nimenti».

Se la Camera confederale del Lavoro, attraverso il segretario Zaverio Dalberto, stigmatizzò il comportamento dei «facinorosi», da parte loro gli anarchici e i sindacalisti rivoluzionari, subito dopo il Consiglio nazionale dell’USI tenutosi a Firenze, concordarono un’azione comune verso gli aderenti dei «partiti sovversivi» (socialista, repubblicano e anarchico) di serrata critica verso la dirigenza confederale della Camera del Lavoro.

Inoltre, in luglio, in occasione del Congresso della Camera del Lavoro confederale i dirigenti erano stati contestati per la mancata mobilitazione in solidarietà con la rivolta antimilitarista di Ancona del mese precedente. Nel corso della stessa assemblea, rispetto all’annunciata nascita della Camera sindacale, fu approvato all’unanimità un reciso ordine del giorno che riteneva incompatibile l’iscrizione ad entrambe le strutture.

Mentre all’interno della Camera confederale rimaneva un’incalzante minoranza anarchica, il progetto sindacalista portò, come primo passo, alla nascita ufficiale di una sezione livornese dell’USI con alcune decine di lavoratori aderenti. La notizia venne comunicata su «Guerra di Classe» del 17 e del 24 luglio 1920, con il seguente commento: «Era ora! Tutte le ottime illusioni sulla unità proletaria, che molti nostri compagni si facevano, e che in omaggio a queste avevano sempre ostacolato una nostra separazione dai confederalisti, oggi, dopo gli ultimi avvenimenti, sono completamente cadute, e i compagni fiancheggiano con fede ed entusiasmo l’opera nostra».

Nell’ambito dell’intenso lavoro organizzativo intrapreso dalla neonata sezione dell’USI verso alcune categorie (operai, muratori, calzolai, falegnami, lavoranti in crogiuoli…), il 25 luglio, presso le scuole Benci, venne promosso un nuovo partecipato comizio riguardante la vertenza metallurgica – con interventi di Moretti, Attilio Chichizzola e Augusto Consani – che approvò un ordine del giorno a sostegno del contegno dell’USI nei confronti della FIOM «tendente ad una unità d’azione nell’attuale agitazione metallurgica».

Il 27 agosto, mentre nelle fabbriche era in atto l’ostruzionismo operaio, in piazza del Municipio si svolse un comizio sulla vertenza metallurgica con gli interventi di Russardo Capocchi per la FIOM, Sereni per la Camera confederale del Lavoro e Moretti per l’USI, prefigurando la presa di possesso delle industrie.

Gli sviluppi della dura agitazione nazionale dei metallurgici fece però rinviare ancora l’apertura della Camera sindacale a Livorno, vedendo i militanti e dirigenti dell’USI impegnati a partecipare assieme alla FIOM, diretta dal socialista massimalista Capocchi, all’Occupazione delle fabbriche e alla loro difesa.

Dopo che a metà agosto in diverse fabbriche erano stati attuati scioperi bianchi e forme di ostruzionismo, il 2 settembre, alle ore 15, gli operai di undici stabilimenti – ai quali se ne aggiunsero almeno altri cinque – entrarono in sciopero e li occuparono, innalzandovi bandiere sia rosse che nere, e in alcuni di questi, come alla Metallurgica e al Cantiere Navale F.lli Orlando, si continuò a produrre in autogestione.

Se per gli anarco-sindacalisti la pratica autogestionaria, quale forma di lotta prefigurante l’espropriazione dei mezzi di produzione, dimostrava «ai pescicani dell’industria siderurgica e meccanica, che la classe lavoratrice è matura per gestire da sé le fabbriche»; ben diversa era la posizione del Partito socialista, così come risulta da un articolo contro «la gestione diretta delle officine occupate […] nel senso che gli [sic] danno gli anarchici», pubblicato in prima pagina sull’«Avanti!» del 5 settembre e, non casualmente, ripreso l’indomani sul principale quotidiano padronale livornese («Il Telegrafo», 6 settembre 1920).

Al contrario, sin dalla prima settimana, i solidali sindacati dei ferrovieri e dei lavoratori del porto garantirono le forniture di materiali e materie prime alle fabbriche occupate.

Gli stabilimenti furono sgomberati dalle maestranze dopo oltre trenta giorni di resistenza, con risultati inferiori alle aspettative; ma il referendum sul concordato tra FIOM e padronato a Livorno registrò la contrarietà di circa 4.270 operai metalmeccanici, rivendicando il pagamento per intero delle giornate d’occupazione ed esigendo che negli aumenti salariali conquistati non rientrasse l’aumento di L. 2,60 al giorno già ottenuto a maggio, ma anche per la contrarietà all’istituzione della Commissione paritetica che avrebbe dovuto sanzionare presunti atti di indisciplina avvenuti durante l’occupazione.

Il progetto sindacalista riprese quindi impulso, in sintonia con la radicalizzazione dei settori operai più risoluti, dopo l’esito deludente del grande movimento delle occupazioni industriali e il contestato accordo nazionale sottoscritto dalla CGdL. In tal senso, da parte dell’USI livornese, furono intensificati gli incontri con gli operai di alcune fabbriche e le iniziative di propaganda, come il comizio rivolto ai lavoratori dell’edilizia, presso le Case Popolari, tenuto da Eugenio Bini e dal muratore anarchico Filippo Filippetti, referente sindacale del settore edile.

A fine settembre del 1920, in un clima di persistente tensione sociale si giunse quindi all’attivazione della nuova Camera sindacale, che poteva contare, oltre ai lavoratori già aderenti all’USI, su consistenti nuclei operai che, non sentendosi più rappresentati dalla FIOM, stavano aderendo al Sindacato Metallurgico dell’USI.

Nel mese di ottobre del 1920, mentre a Bologna venivano arrestati tutti i componenti del Consiglio generale dell’USI, a Livorno, sulla stampa anarchica locale, si trova riscontro dell’avvenuta apertura della Camera sindacale, con sede in viale Caprera – angolo via delle Lance, nel popolare quartiere “Nuova Venezia”, pur se la prima segnalazione in merito da parte delle autorità di polizia comparve tardivamente, in un rapporto datato 22 novembre.

La Camera sindacale, oltre ad essere luogo di riunione per le diverse categorie, sarebbe stato anche uno spazio di socialità, ospitando anche  feste ed altre iniziative di solidarietà, quasi come una Casa del popolo.

Al 2 dicembre, un’ulteriore nota prefettizia – secondo la quale la Camera sindacale si era costituita nei primi giorni di novembre – indicava in circa 600 gli iscritti, di cui 120 al Cantiere navale Orlando, 100 alla Società Metallurgica Italiana, 100 nelle cooperative sul porto e i restanti suddivisi nelle altre medie e piccole industrie cittadine (Prodotti Chimici, Fabbrica carbone fossile Ruchat, Fabbrica Isolatori, Conduttori Elettrici, Officine meccaniche Vestrini, Oleifici Nazionali, Cementeria, Stabilimento Petrolio, Semoleria…).

Tale rilevazione doveva però essere “arretrata” di qualche mese, oppure limitata al settore industriale, in quanto in un nuovo rapporto, datato 8 dicembre, il prefetto informava il Ministero dell’Interno che l’USI aveva raggiunto i mille iscritti mentre, nello stesso periodo, apparivano in calo quelli alla Camera del lavoro confederale che, pochi mesi prima, aveva dichiarato 15 mila tesserati dei quali circa quattromila della FIOM. Infatti, sull’organo nazionale dell’USI, «Guerra di Classe», del 1° gennaio 1921, veniva riferito che il giornale a Livorno era diffuso settimanalmente in 700 copie e che gli iscritti alla Camera sindacale erano ormai duemila e altre categorie andavano organizzandosi (muratori, ferrovieri, elettricisti, arte bianca, facchini del mercato, calzolai, vestitrici di damigiane, etc.).

La rilevanza numerica del passaggio di iscritti dalla Camera confederale a quella sindacalista è indirettamente confermata dal tono polemico del dirigente della FIOM, Adolfo Minghi, giunto a sostenere, davanti ad un’assemblea di metallurgici, che la Camera sindacale era «dannosa alla classe lavoratrice e di vantaggio alla borghesia», nonché altre accuse che dovette ritrattare. Peraltro, il successo di adesioni alla Camera sindacale livornese appare del tutto in linea con le dinamiche nazionali che vedevano l’USI in rapida crescita con 180.000 iscritti a metà del 1919, 305.000 alla fine dello stesso anno e circa 500.000 nell’autunno del 1920.

Alla Camera del lavoro dell’USI aderivano – riconoscendosi nella sua autonomia classista – lavoratori anarchici di diversa tendenza, senza-partito, repubblicani, socialisti ed anche comunisti, «molti dei quali militavano nella Camera sindacale». Inoltre, la stessa componente comunista della CGdL – legata prima alla frazione “intransigente” di Firenze del Partito socialista e poi al PCdI, con a capo il ferroviere Spartaco Lavagnini – avrebbe optato per privilegiare le intese con i sindacalisti rivoluzionari, in funzione antiriformista, così come avvenne all’inizio del 1921, durante gli scioperi contro i licenziamenti di massa nelle fabbriche livornesi, soprattutto nel settore metalmeccanico, per la “crisi” ritenuta «una bassa manovra egoistica e reazionaria per gettare sul lastrico migliaia di lavoratori».

Su tali posizioni di forte antagonismo, la Camera sindacale si rafforzò, divenendo anche punto di riferimento delle Commissioni interne di fabbrica, mentre lo scontro fra la linea confederale e quella sindacalista si fece sempre più aspro. La Camera del Lavoro della CGdL, infatti, era orientata a contrattare (oggi si direbbe concertare) le modalità di attuazione dei licenziamenti, cercando di mitigarne gli effetti con la richiesta di contributi e sussidi per i disoccupati, nonché suggerendo i criteri – discriminanti per sesso, anzianità e provenienza – con i quali il padronato doveva effettuarli. All’opposto, la Camera del Lavoro sindacale rifiutava recisamente tale contrattazione per regolare i licenziamenti, sostenendo la necessità di una lotta contro quella che riteneva una manovra politica degli industriali per indebolire il movimento operaio e annullarne le recenti conquiste salariali e normative. Su queste posizioni, con impostazione sindacalista rivoluzionaria, lotte importanti furono attuate dagli operai allo Stabilimento Italo Americano Petrolio, alla Società Molini, alla Mattoni Refrattari dell’ing. Mathon, alla Società Conduttori Elettrici e agli Oleifici Nazionali, non senza scontri fisici tra “estremisti” (ossia sindacalisti rivoluzionari, anarchici e comunisti) e confederali.

Nel settembre 1921, durante la vertenza alla Società Metallurgica Italiana contro un taglio salariale del 10%, la Camera sindacale sostenne con forza la lotta degli operai e, durante una partecipata manifestazione, intervenne il dirigente nazionale dell’USI e segretario della Camera sindacale di Sestri Ponente, Antonio Negro, che accusando i riformisti del PSI e della CGdL per i numerosi cedimenti, ricordò come «un anno fa le bandiere rosse sventolavano su tutte le officine: avevamo le armi, eravamo i padroni, e dovevamo restare tali. Ma i dirigenti di allora hanno tradito e bisogna spodestarli, e d’accordo con Lenin occorre fare la rivoluzione». Il 20 ottobre seguente il prefetto ebbe quindi a paventare come «il partito sindacalista, e per esso la Camera del Lavoro sindacale, tende ad impadronirsi del movimento operaio, sostituendosi alla FIOM e qualora vi riuscisse l’ordine pubblico certamente non se ne avvantaggerebbe».

Per contrastare l’ondata di scioperi e insorgenze sociali, oltre al consueto intervento poliziesco (come avvenuto, ad esempio, contro l’occupazione operaia degli Oleifici Nazionali), anche a Livorno il padronato, le gerarchie militari e i settori più reazionari della borghesia locale avevano affidato la «controrivoluzione preventiva» alle squadre fasciste e nazionaliste, per cui la Camera del Lavoro sindacale dovette attivarsi anche su questo fronte, divenendo un punto di riferimento per la difesa proletaria e per l’organizzazione degli Arditi del popolo.

A tragica conferma del ruolo sostenuto dalla Camera sindacale nella battaglia antifascista, vi è la morte sotto il piombo degli squadristi e delle forze dell’ordine di due aderenti all’USI durante l’attacco fascista a Livorno del 2 agosto 1922, costato ben otto vittime. Nella periferia nord, nel corso di uno scontro a fuoco, cadde il già citato Filippetti, ardito del popolo e rappresentante sindacalista per il settore edile; mentre nel quartiere S. Marco rimase ucciso Gisberto (o Gilberto, secondo altre fonti) Catarsi, operaio del Cantiere “Parodi e Del Pino”, facente parte del consiglio direttivo della Camera sindacale e militante del gruppo anarchico “C. Cafiero” di Montenero.

In quelle giornate di reazione, assassinii e distruzioni sistematiche delle sedi sindacali e politiche della sinistra, dopo che la Camera confederale fu devastata una seconda volta, soltanto la Camera sindacale rimase inespugnata, difesa con le armi dai suoi militanti e forte della collocazione nel quartiere sovversivo della “Nuova Venezia”. Imposto lo stato d’assedio alla città, il 10 agosto la Camera sindacale subì una seconda perquisizione, venendo interdetta su ordine dell’autorità militare, dopo essere stata mezza devastata dai carabinieri col pretesto di scovarvi armi ed esplosivi. Per la sua chiusura definitiva i fascisti dovettero però attendere di governare, dopo la Marcia su Roma. Pur senza sede e senza giornale, i sindacalisti dell’Unione ancora in libertà continuarono la propria attività, sempre più illegale, sino al gennaio 1925 quando, a livello nazionale, con un decreto prefettizio l’USI fu formalmente dichiarata fuorilegge, costringendola ad agire all’estero o in clandestinità.

[Il presente testo è un estratto della ricerca: Marco Rossi, L’altra Camera del Lavoro. Livorno 1920 – ’22. L’azione dell’U.S.I. e Augusto Consani, sindacalista rivoluzionario, Gruppo editoriale USI-CIT, Livorno 2020]




Itinerari chiniani a Montecatini Terme

Si dice che Montecatini sia l’armonico e straordinario connubio di antico e moderno, identificabili rispettivamente con la parte alta della città, sede dell’antico castello e teatro di numerose battaglie, e con la zona dei bagni termali, a valle, dove prima dei Lorena i benefici delle acque rimanevano relegati ad un’insalubre area stagnante.
Inizialmente l’unica Montecatini era quella sulla collina, fondata intorno all’anno Mille, e bruciata dall’incendio del 1554. Si deve al periodo delle grandi riforme leopoldine (1773) il ritorno alla salubrità della zona sottostante: il Granduca Pietro Leopoldo fece costruire canali di smaltimento delle acque per recuperare il territorio e favorire l’uso delle sorgenti termali, per le quali cominciò, inoltre, un’intensa edificazione di stabilimenti. Nonostante le migliorie pubbliche consentissero una riqualificazione della parte bassa, si dovette però aspettare fino al 1905 per veder nascere il Comune di Bagni di Montecatini, poi Montecatini Terme, che immediatamente assunse nell’estetica cittadina gli inconfondibili tratti della belle epoque. Basterebbe scorrere le fotografie del tempo o una serie di vetuste cartoline per notare tripudi di cappellini piumati su belle signore in posa, davanti ai classici e maestosi edifici termali.

Un indiscusso protagonista di questa ristrutturazione cittadina all’insegna del bello fu Galileo Chini con la sua manifattura ceramica, della quale coordinava la direzione artistica. La storia della fabbrica è ormai nota e, per riassumerla in pillole, non rimane che far riferimento agli innumerevoli successi nazionali e internazionali che, sin dalla fondazione (1896, al tempo Arte della Ceramica) essa accumulava: Torino (1898) Parigi (1900), Pietroburgo, Gand, Bruxelles (1901) e ancora Torino (1902) sono solo alcune delle Esposizioni in cui la Manifattura ricevette le onorificenze più alte.
Nei primi vent’anni di attività, quindi, il successo della produzione chiniana era talmente attestato sul territorio che chiamare tali maestranze per intervenire sui lavori pubblici era sintomo d’indiscusso prestigio. Questo fu probabilmente il pensiero dell’architetto Raffaello Brizzi e dell’ingegner Luigi Righetti, quando proposero in Giunta Comunale l’affidamento della copertura per i velari principali al Chini.

In effetti, i lavori per il Palazzo Comunale di Montecatini impegnarono le Fornaci (che nel frattempo si erano trasferite a Borgo San Lorenzo, cambiando la ragione sociale in Fornaci San Lorenzo Chini & C.) dal 1918 al 1920, quando una serie di vetrate fu eseguita all’interno dell’edificio. In realtà la copertura dei lucernari, affidata alla ditta Quentin, era cominciata almeno due anni prima, come dimostra la serie archivistica Lavori pubblici conservata presso l’Archivio Storico del Comune e recentemente rinvenuta, ma la scabra intelaiatura di ferro e vetro non soddisfaceva gli stilemi estetici ormai pienamente devoluti alle rotondità Liberty. I Chini proposero pertanto nuovi bozzetti per il velario d’ingresso, dove allegre forme tondeggianti si concentravano nel puttino centrale e si alternavano ai vetri colorati e nitidi, alle sagome geometriche di quelli laterali.
Alle opere in vetro si aggiunse un ciclo pittorico (otto pennacchi con soggetti allegorici e dodici lunotti, dove risiedono putti e corbeille fiorite) situato sulla volta dell’imponente scalinata e sempre eseguito per mano di Galileo Chini.

IMG_5861Quest’arte manifatturiera, connotata dalle forti istanze dell’artigianalità di bottega e allo stesso tempo permeata di spirito moderno, aveva già in precedenza lasciato il segno in città: il Padiglione Tamerici, progettato nel 1903 da Giulio Bernardini per la vendita dei Sali, fu decorato da quattro pannelli in grès realizzati dalla Manifattura per Domenico Trentacoste. Modellati con sapiente equilibrio di forza e gentilezza, essi raffigurano i differenti ruoli connessi all’arte dei vasai: Il Fornaciaio, il Molatore, lo Scultore e il Disegnatore; quest’ultimo ha le sembianze di Galileo Chini. Tali bassorilievi erano stati presentati all’Esposizione Italiana di Arti Decorative e Industriali di Torino del 1902, prima di trovare definitivamente posto sulla facciata di questo edificio. All’estero ricerche sul grès avevano prodotto risultati di straordinario interesse (si pensi a ceramisti di grande fama come Auguste Delaherche, in Francia o i fratelli Martin, in Inghilterra) ma in Italia l’uso di questo materiale era del tutto innovativo per la ceramica dell’epoca. Il tipo di grès usato dalla fabbrica fiorentina era grigio e nella maggior parte dei casi presentato con sintetici decori in blu di cobalto: esemplari che sono definiti di ‘grès salato’, perché rivestiti da una pellicola vetrosa trasparente ottenuta dalla combustione del cloruro di sodio. Ciò mette in luce l’alto livello tecnico raggiunto dalla fabbrica, che si pone così in linea con i più progrediti laboratori europei del tempo.
Passeggiando sul gran Viale delle Terme ci troviamo di fronte all’imponente facciata dello Stabilimento Tettuccio, ricco di storia e che rappresenta, oggi, una vera città termale con parchi, caffè, concerto e negozi. Interessanti sono le decorazioni dei vari padiglioni che ne arricchiscono la sontuosità: dalle ceramiche della Galleria delle Bibite di Basilio Cascella, agli affreschi di Giuseppe Moroni nella Sala di Scrittura o di Giulio Bargellini e Maria Biseo nel Salone del Caffè, fino alle decorazioni di Ezio Giovannozzi nella cupola della Tribuna dell’Orchestra, coperta con tegole a squame in maiolica della Manifattura Chini. Si noti, in questo senso, che gli interventi di rivestimento ceramico esterno hanno esiti vicini a quelli di Salsomaggiore: le Terme Berzieri riportano, infatti, elementi di somiglianza e talvolta di assoluta corrispondenza.
Non lontano, sempre all’interno del parco cittadino, si trovano le Terme Tamerici, ristrutturate nel 1910 da Giulio Bernardini e Ugo Giusti. Galileo Chini qui realizzò pannelli, banconi, vetrate e persino i pavimenti della vecchia sala di mescita. L’incarico di ampliare le Terme Tamerici interessò in particolare la decorazione esterna in grès ceramico che s’inserì organicamente nell’architettura neo-medioevale dell’edificio: le teste leonine, i rosoni, gli stemmi policromi e i vari tipi di piastrelle con motivi geometrici e a intreccio sono elementi che in parte saranno ripresi dall’esperienza di Galileo in Siam e in parte riutilizzati per altri lavori.

Montecatini può dunque vantare interventi artistici importanti e qualificati, e non solo per commesse istituzionali. Spesso l’intervento della famiglia Chini è richiesto per lavori di carattere privato: ne è esempio splendido il Grand Hotel & La Pace. Costruito nella seconda metà dell’800 e più volte trasformato, fu radicalmente ristrutturato agli inizi del ʼ900. Nel 1904 fu inaugurato il Salone delle Feste, affrescato da Galileo, autore peraltro anche dei disegni per le vetrate della vecchia hall. Di chiara ispirazione klimtiana e di produzione totalmente autoctona, i vetri della Manifattura Chini ricorrono a schemi decorativi tratti dai moduli artistici della Secessione viennese, con un impianto compositivo che si articola su diversi livelli geometrici, affiancati poi da composizioni floreali dalle evidenti riduzioni formali. La stessa influenza stilistica si ritrova nelle tre splendide e vivaci vetrate di Villa Agatina (V.le Giacomo Puccini, 67), eseguite con grande maestria dalla Manifattura Fornaci di San Lorenzo su disegno di Galileo.

La Belle époque assegnò dunque a Montecatini – città spensierata e modaiola – una precisa collocazione estetica all’interno del gusto Liberty e lo fece avvalendosi, anche concettualmente, ai maestri nel settore. La Manifattura Chini lascia anche su Montecatini un segno indelebile, una traccia che andrebbe rispettata nel solco della tradizione storica e artistica e perpetuata attraverso notevoli opere di valorizzazione come quella permessa dalla sensibilità degli eredi nella conservazione dell’Archivio Storico dell’impresa e della famiglia.

Elena Gonnelli è laureata in Lettere con il prof. Andrea Battistini, ha conseguito una seconda laurea magistrale in Archivistica con Antonio Romiti curando il riordino e l’inventario analitico dell’Archivio della Manifattura Chini di Borgo San Lorenzo. Insegnante di scuola media, lavoro inoltre presso l’Archivio di Stato di Bologna e come collaboratrice esterna per diversi archivi del territorio. Direttore dell’Istituto storico lucchese – Sezione Montecatini Monsummano. Tra le sue pubblicazioni: Il Codice numero 1 dell’Archivio Storico pre unitario di Montecatini: questioni storicoarchivistiche, in «Caffè Storico – Rivista di Studi e cultura della Valdinievole», anno I, n. 1, Luglio 2016, in corso di stampa; L’Arte della Ceramica e il Liberty italiano, in «Il senso della Repubblica. Nel XXI secolo quaderni di storia e filosofia», Heos, anno IX, n. 6, Giugno 2016; L’Archivio della Manifattura Chini: il disegno per Porretta, «Nuéter», anno XLI, n. 82, Dicembre 2015, Porretta Terme; L’Archivio della Manifattura Chini, in «Quaderni di storia e cultura viareggina: Da Firenze a Viareggio. Viaggio nell’arte di Galileo Chini», Istituto Storico Lucchese – Sezione di Viareggio, n. 7, 2016.




Maria Luigia Guaita

Presentando la prima edizione de La guerra finisce la guerra continua Ferruccio Parri, il capo-partigiano “Maurizio” poi, nel giugno 1945, Presidente del Consiglio dell’Italia liberata, ricorda Maria Luigia Guaita come «una delle staffette più brave, ardite, estrose e generose» che hanno partecipato alla lotta di Liberazione, una «donna della Resistenza» fidata, coraggiosa e capace.

Nata a Pisa l’11 agosto 1912 Maria Luigia Guaita trascorre l’infanzia a Torino per poi raggiungere Firenze nel 1926. Qui, grazie al fratello Giovanni, allora giovane studente, inizia a frequentare gli ambienti dell’antifascismo di estrazione liberalsocialista entrando in consuetudine con personaggi come Nello Traquandi, già tra gli animatori del periodico clandestino «Non mollare» e del Circolo di cultura politica di Borgo S. Apostoli, ed Enzo Enriques Agnoletti, uno dei principali esponenti dell’azionismo fiorentino durante la Resistenza.

Avvicinatasi al Partito d’Azione (PdA) la giovane Maria Luigia ne cura l’organizzazione dell’attività clandestina sfruttando, in un primo tempo, quel contatto giornaliero col pubblico – e, quindi, con altri antifascisti – consentitole dalle mansioni di impiegata di sportello presso una filiale fiorentina della Banca Nazionale del Lavoro. Durante la lotta di Liberazione, poi, opera come staffetta, contribuisce alla diffusione di stampa antifascista e all’organizzazione delle cellule clandestine legate al partito.
Agli ordini del Comando militare azionista si adopera, inoltre, per il collegamento tra il Comitato Toscano di Liberazione Nazionale (CTLN), gli Alleati e le formazioni partigiane presenti nell’area compresa tra Viareggio, Massa Carrara, la Lunigiana e il Pistoiese garantendo un servizio – rileva Carlo Francovich – «particolarmente delicato e pericoloso», ma di fondamentale importanza ai fini dell’organizzazione tattico-strategica della lotta di resistenza e generalmente svolto «da giovani donne, la cui audacia era talvolta temeraria»: tra queste, oltre alla Guaita, si ricordano Orsola Biasutti, Anna Maria Enriques Agnoletti, Gilda Larocca, Adina Tenca, Andreina Morandi. Quest’ultima – sorella di Luigi Morandi, il radiotelegrafista del gruppo Co.Ra ferito a morte il 7 giugno 1944 durante l’irruzione dei tedeschi nell’appartamento in Piazza d’Azeglio, ultima sede della radio clandestina azionista –, nei mesi dell’occupazione germanica collabora con la Guaita e, anni dopo, ne ricorda mediante un curioso aneddoto la versatilità e l’instancabilità operativa: «[Maria Luigia Guaita] Non disdegnava nessun tipo di impegno; sapeva trasformarsi anche in vivandiera, come quando riuscì ad ottenere dal proprietario del famoso ristorante Sabatini due sporte piene di conigli, destinati (e purtroppo non arrivati per una serie di contrattempi) alla formazione di Lanciotto Ballerini, che operava dalle parti di Monte Morello» e, nel gennaio 1944, resterà ucciso nella battaglia di Valibona.
Nel quadro più ampio dell’impegno antifascista di Maria Luigia Guaita assume particolare rilievo l’attività di falsificazione di documenti, permessi e timbri in soccorso a partigiani e perseguitati politici alla quale viene iniziata da Tristano Codignola, uno dei più brillanti e capaci dirigenti azionisti: «Con Pippo [Codignola] – ricorda – sarebbe stato duro lavorare, pensavo, ma avrebbe capito e Pippo capì sempre la buona volontà di tutti noi. Ricercato dalla polizia, braccato dalle SS, riuscì a creare insieme a Rita [Fasolo] e a Nello [Traquandi] tutta l’organizzazione politica del partito. Attivo, infaticabile, riempiva le lacune, colmava i vuoti imprevedibili – e di giorno in giorno, d’ora in ora – sfuggiva alla cattura».
L’efficacia del servizio ricorre, altresì, nelle parole lette dallo stesso Codignola all’Assemblea regionale del PdA, tenutasi a Firenze nel febbraio 1945, con le quali rileva come, sotto la solerte guida di Traquandi, esso sia divenuto nel tempo «un magnifico strumento di resistenza, fornendo falsificazioni di ogni natura, tessere, fotografie, timbri, carte annonarie e via dicendo»: Maria Luigia, senza esitare nel mettere a disposizione la propria abitazione fiorentina di via Giovanni Caselli 4, coordina con perizia l’apprestamento e la distribuzione dei documenti falsi permettendo a tale attività di raggiungere un notevole grado di perfezione. Dopo la Liberazione, a riconoscimento dell’impegno resistenziale il Ministero della Guerra le riconosce la qualifica di partigiano afferente alla Divisione “Giustizia e Libertà”-Servizio Informazioni per il periodo compreso tra il 9 settembre 1943 e il 7 settembre 1944.

La primavera del 1945 segna l’avvio della rinascita democratica dell’Italia alla quale le donne, conquistato il diritto al voto, contribuiscono in prima persona. In Assemblea Costituente, ne sono elette 21: 9 democristiane, 9 comuniste, 2 socialiste – tra le quali la toscana Bianca Bianchi – e una proveniente dalle file dell’Uomo qualunque. In Toscana nessuna delle candidate nelle liste del PdA – Olga Monsani, Margherita Fasolo, Eleonora Turziani – ottiene i voti necessari per l’elezione. Maria Luigia Guaita è tra quanti, nei primi anni di vita della giovane Repubblica, confidano nel disegno politico azionista e nel progetto di rinnovamento palingenetico delle strutture dello Stato e della società italiani. Tali aspettative non trovano, però, concretezza e nelle parole da lei consegnate al proprio libro di memorie emergono con forza la delusione per la fine prematura del PdA e l’amara percezione del progressivo appannamento dei valori e delle speranze che hanno animato le donne e gli uomini della Resistenza: «Se devo necessariamente adoperare le parole che esprimono i concetti di libertà e di giustizia, – scrive – ho un attimo di esitazione, spesso ricorro a una perifrasi. “Giustizia e Libertà” mi ha cantato troppo nel cuore, per tutti gli anni della lotta clandestina. Allora mi sforzavo soltanto di essere disciplinata, ma sempre con un sottile struggimento di non fare abbastanza, anche per le perdite dolorose di tanti compagni, i migliori; e ognuno di loro si portava via una parte di me. Venne la liberazione; affascinata da questa parola sperai nell’affermarsi delle forze socialiste. Poi le giornate di Roma, il congresso al Teatro Italia. Ricordo Ragghianti, che tratteneva Parri per la giacchetta, il volto duro e caparbio di Carlo, quello tagliente e tirato di Pippo, la dialettica di La Malfa: il crollo del Partito d’Azione. Pensavo che il sacrificio di tanti compagni (e così di nuovo mi bruciava nel cuore il dolore per la loro morte) sarebbe stato sufficiente a disciplinare le forze, attutire gli screzi, frenare le ambizioni». Ciò, come noto, non avverrà e il PdA si scioglierà nel 1947.

All’assenza dalla vita politica partecipata corrisponde un intenso impegno della Guaita in attività di natura culturale e imprenditoriale. Donna emancipata da sempre legata al mondo intellettuale non solo fiorentino, ella contribuisce a fondare e animare le Edizioni “U” di Dino Gentili cui si devono, grazie all’opera editoriale di Enrico Vallecchi, la pubblicazione di numerosi volumi proibiti sotto la dittatura fascista. Maria Luigia Guaita collabora, inoltre, con «Il Mondo» di Mario Pannunzio, fa parte dell’Associazione Liberi Partigiani Italia Centrale (A.L.P.I.C.) e, nel 1957, dà alle stampe quel libro di memorie che Roberto Battaglia ha paragonato al Diario partigiano di Ada Gobetti definendolo «una spregiudicata narrazione delle vicende d’una staffetta partigiana che si muove o corre dalla città alla montagna e viceversa», nel quale l’autrice «insieme ai toni scanzonati del bozzetto, sa trovare, specie nelle ultime pagine del libro, quelli tragici ed ardui dell’epica partigiana, allorché descrive l’impiccagione di italiani e sovietici a Figline di Prato».
Degno di rilievo si rivela, infine, l’impegno della Guaita nel campo dell’imprenditoria tessile nella Prato della ricostruzione nonché, sul finire degli anni Cinquanta, la fondazione a Firenze della Stamperia d’arte «Il Bisonte», cui segue l’apertura sulle rive dell’Arno di una scuola per insegnare ai giovani le tecniche tradizionali dell’incisione. Nel 1981, a riconoscimento di questo importante impegno imprenditoriale, il Presidente della Repubblica Sandro Pertini le conferisce il titolo di Commendatore.
Maria Luigia Guaita muore a Firenze il 26 dicembre 2007, all’età di 95 anni. Con lei, dirà il sindaco di Firenze Leonardo Domenici, «scompare una delle personalità più rappresentative della nostra città»: una donna della Resistenza e un’indiscussa protagonista della vita imprenditoriale in Toscana, in Italia e all’estero.

Mirco Bianchi, dottore in Storia contemporanea, è responsabile dell’Archivio dell’Istituto storico toscano della Resistenza e dell’età contemporanea.




L’Istituto agronomico per l’Oltremare di Firenze e la cooperazione italiana in Libia negli anni Cinquanta

L’azione italiana verso l’Africa negli anni Cinquanta, ovvero nel decennio di incerta sperimentazione nell’assistenza che precedette in Italia l’avvio di una vera e propria politica di cooperazione allo sviluppo, si evolve lentamente nel secondo dopoguerra attraverso un progressivo riavvicinamento fra l’Italia e il continente africano, sotto la spinta di una serie di contingenze politiche ed economiche. È cruciale in questa vicenda la presa d’atto della necessità di un nuovo atteggiamento, di una nuova impostazione dell’operato italiano rispetto alla gestione pratica dei rapporti con i territori al di là del Mediterraneo, che metta al sicuro la nuova dirigenza dell’Italia repubblicana dagli attacchi dell’ONU e dalla diffidenza dei paesi di nuova indipendenza: una politica certamente funzionale all’immediata querelle sulla tutela delle ex colonie italiane, ma necessaria anche successivamente quando l’Assemblea delle Nazioni Unite del 1949 aveva posto fine all’impero coloniale italiano, sottraendo all’Italia la trusteeship della Libia e riservandole quella della Somalia sotto forma di amministrazione temporanea fiduciaria.

Si trattò da quel momento di ridefinire una politica postcoloniale in linea con l’evoluzione del discorso globale. Già nel 1948 un promemoria del Ministero per l’Africa italiana (MAI) evidenziava, infatti, come «sarà facile riesumare le accuse ripetutamente rivolteci, che ci accingiamo a riportare in Africa, con il pesante apparato burocratico, i monopoli e le esclusive statali del fascismo»; sempre nello stesso promemoria si sottolineava quindi l’urgenza di cambiare atteggiamento e metodi, «stabilire un clima di fiduciosa convivenza con i paesi e le colonie confinanti, realizzabile soltanto sulla base di relazioni economiche che, dietro  i commerci e le attività italiane, non nascondano lo Stato italiano»[1]. In questa prima presa d’atto rintracciata fra le carte, e forse redatta a opera del sottosegretario per l’Africa italiana, Giuseppe Brusasca, appare già chiara la consapevolezza di una contingente necessità di adattamento, determinata dalla volontà italiana di ottenere la tutela sulle ex colonie, o quantomeno un ruolo di rilievo nel continente africano. Il concetto è espresso, ancora più esplicitamente, dall’Amministratore della Somalia, Giovanni Fornara, che in una lettera del 9 dicembre 1950 al Presidente del Consiglio dei Ministri e Ministro ad interim per l’Africa italiana, Alcide De Gasperi, ribadisce l’importanza dell’essere «anche l’Italia tra i paesi che hanno e che avranno una parola da dire e un apporto da dare quando si tratterà di problemi africani», una scelta che avrebbe potuto porre il paese «in una posizione vantaggiosa, in partenza, per collaborare alla soluzione di tali problemi, tanto più data la nostra abbondanza di tecnici e specialisti»[2].

"Ritorno in Somalia. … le truppe italiane salpano … alla volta di Mogadiscio per una missione di pace: l'amministrazione fiduciaria della colonia, affidata dalle Nazioni Unite al nostro paese.". In: La Domenica del Corriere, 19 febbraio 1950

Ritorno in Somalia. … le truppe italiane salpano … alla volta di Mogadiscio per una missione di pace: l’amministrazione fiduciaria della colonia, affidata dalle Nazioni Unite al nostro paese“. In: La Domenica del Corriere, 19 febbraio 1950

Proprio in merito al tema dei “tecnici e degli specialisti”, tralasciando la questione politica, che necessiterebbe di una trattazione più ampia, si accennerà qui solo all’aspetto amministrativo che, evidentemente, si lega al più noto tema della continuità dello Stato. Nel dopoguerra anche la burocrazia coloniale era rimasta fondamentalmente protetta dal processo epurativo e si conservava per lo più uguale a se stessa, salvo «qualche trasformismo ideologico: dalla retorica del colonialismo si era dovuti passare a quella dell’Eurafrica e poi persino all’ideologia della primissima cooperazione internazionale. In taluni il passaggio era stato anche sincero, dettato dalla volontà di mettere a disposizione del Paese le proprie competenze; in molti si era trattato di poco più di un travestimento che non metteva in discussione il passato nazionale ed individuale»[3].

Nel caso della burocrazia del MAI, del resto, la nuova classe politica di governo italiana si trovava di fronte a una situazione complessa: «pochi erano nel suo seno gli esperti su questioni coloniali, mentre a ragione molti degli antifascisti erano portati a non fidarsi di coloro che pure avevano tutte le credenziali per essere dei veri esperti, che però erano anche stati funzionari o pubblicisti per il regime fascista. Ciò creò disorientamento»[4]. Si considerino, ad esempio, le difficoltà incontrate da uno dei principali responsabili del MAI e della politica africana dell’Italia, l’ex partigiano e sincero antifascista Giuseppe Brusasca: ad Angelo Del Boca, che gli chiedeva come mai si fosse circondato soltanto di ex funzionari coloniali, rispose: «fu tutto quello che trovai. Ed erano i soli a saper mettere le mani nei documenti del MAI. Se li avessi estromessi il mio compito sarebbe stato anche più gravoso»[5]; e ancora, sempre con Del Boca, Brusasca giustificò queste scelte, affermando di essere stato «costretto a fare il fuoco con la legna che aveva sottomano, cioè con i rottami del più vieto colonialismo»[6].

Un’analoga continuità, tuttavia, si verificò non solo nell’immediato dopoguerra, ma anche dopo la definitiva perdita delle ex colonie nel 1949: esemplare, in quest’ottica, è l’esperienza dell’Istituto Agronomico per l’Oltremare di Firenze, passato da supporto della colonizzazione del fascismo a consulente della FAO per la cooperazione agraria con i nuovi Stati indipendenti negli anni Cinquanta e poi a soggetto attivo di cooperazione allo sviluppo negli anni Sessanta: in questo caso, gli uomini, le tecniche e le concezioni del passato furono impiegati dal governo italiano per rispondere a richieste irreversibilmente modificate, cui dovettero adattarsi contestualmente, generando la trasformazione – con successi ed errori, con novità e permanenze – di un approccio coloniale in un approccio postcoloniale alla espansione agraria italiana all’estero. Secondo Labanca si rafforzava così la convinzione che «la tecnica fosse neutra e che la loro passata collaborazione con le autorità coloniali non avesse di per sé comportata un’immedesimazione con quel progetto di dominio. Tali conclusioni erano alquanto discutibili e gli intendimenti erano certamente autoassolutori: ma la questione apparve come minore, anche perché coinvolgeva numeri assai ristretti di studiosi e di tecnici»[7]. Proprio la cultura tecnica coloniale, quindi, rappresentò un efficace canale di continuità, in particolare sul piano periferico, dove, «nell’alternativa tra “persone nuove”, che nulla avevano a che fare con il passato coloniale, ma che pure non avevano alcuna esperienza africana, e “persone vecchie”, che provenivano direttamente dal passato coloniale, ma che avevano una pregressa esperienza africana, la scelta fu evidentemente per quest’ultima opzione»[8].

L’Istituto agronomico per l’Oltremare di Firenze (IAO)

Rivista dell'IAO "L'Agricoltura Coloniale", 1921

Rivista dell’IAO “L’Agricoltura Coloniale”, 1921

Le origini dell’attuale Istituto Agronomico per l’Oltremare risalgono al progetto del 1904 di Gino Bartolommei Gioli, docente di scienze agrarie all’Istituto di Studi  Superiori di Firenze già ‘consulente agrario’ di Ferdinando Martini, di un Istituto Agricolo Coloniale pensato sul modello delle istituzioni analoghe presenti in Germania, in Francia, in Belgio, in Olanda e nel Regno Unito. Un’istituzione che avrebbe dovuto integrare (e forse anche dirigere) i lavori compiuti localmente dall’Ufficio Agrario Sperimentale in Eritrea ed essere «una ‘scuola’ ‘agricola’ di tipo teorico-pratico, perché interamente dedicata alle scienze tropicali e subtropicali e, più in generale, a quelle implicate dall’economia agricola, sia in veste pura che applicata; una scuola coloniale, perché concepita e realizzata per rispondere efficacemente alle sollecitazioni provenienti dalle colonie»[9]. Il contesto di riferimento era quello culturale toscano, e specificatamente fiorentino,  dove già spiccavano, per notorietà e per prestigio, le scuole pratiche di agricoltura di Pisa e Scandicci, l’Istituto Forestale di Vallombrosa, la Scuola di Orticoltura e Pomologia di Firenze e, ancora, la Società per gli Studi Geografici e Coloniali dell’Istituto Geografico Militare e la Scuola di Geografia, oltre che l’Accademia dei Georgofili di Firenze – con la quale Bartolommei Gioli collaborava.

Il 22 gennaio 1907 ebbe ufficialmente luogo l’inaugurazione dell’Istituto Agricolo Coloniale (ma già dal 1904 al 1906, Bartolommei Gioli e i suoi collaboratori avevano operato facendo capo all’Istituto Botanico dell’Istituto di Studi Superiori, vale a dire all’Università di Firenze). In quei primi anni, anche l’IAO aveva svolto una funzione di qualche rilievo per contribuire a concentrare l’attenzione e creare un clima positivo intorno alla questione libica. Negli anni successivi, a causa della guerra, l’IAO visse un periodo difficile ma, nel dopoguerra, l’attenzione rinnovata per il ruolo delle colonie permise di sollevare il problema della formazione del personale destinato a lavorarvi, questione su cui l’Istituto di Firenze poteva rivendicare un pregresso chiaro e inoppugnabile. Si poneva a quel punto l’occasione di incentivare l’azione didattico-formativa fino a consolidare l’Istituto fiorentino quale centro di eccellenza per la preparazione tecnica degli uomini destinati a espatriare.

Armando Maugini, Direttore dal 1924 al 1963 (fotografia di Lumachi, Fototeca IAO)

Armando Maugini, Direttore dal 1924 al
1963 (fotografia di Lumachi, Fototeca
IAO)

Nel 1924, l’IAO e il suo nuovo direttore Armando Maugini, figura chiave dell’Istituto che diresse dal 1924 al 1964, affrontarono un cambiamento importante in questa direzione: con il Regio decreto n. 991 del 15 maggio 1924 (convertito in legge il 20 luglio 1925), Luigi Federzoni volle trasformare l’Istituto in ente autonomo consorziale (retto da un Consiglio di amministrazione che comprendeva i rappresentanti del Ministero delle colonie, dell’economia, degli Affari esteri e dei governi coloniali), rendendolo l’organo consultivo ed esecutivo del Ministero delle Colonie, con il preciso compito di preparare i tecnici agronomi che si apprestavano a condurre o a partecipare alle missioni organizzate nelle colonie, oltreché a provvedere all’impianto di stazioni sperimentali in Tripolitania, Cirenaica, Eritrea e Somalia. Nelle fasi successive, quindi, l’IAO partecipò, con le prestazioni del suo personale scientifico, con le attività di consulenza, con l’invio di numerosi tecnici, dottori in agraria e periti agrari all’avvaloramento agricolo della Libia. Nel frattempo il suo direttore ottenne numerosi altri incarichi in Africa e in Italia: divenne infatti, tra l’altro, membro del Consiglio superiore coloniale, capo dei centri sperimentali africani e direttore dell’Ispettorato generale dell’Agricoltura del Ministero dell’Africa.

«A quel tempo l’Istituto non era certo l’unico ente a muoversi in questo campo […]. Ma facendo leva sulla solida preparazione e sulla grande tradizione agraria di Firenze e della Toscana, basata soprattutto sull’analisi della mezzadria, e sullo speciale rapporto con il ministero e con i governi coloniali l’Istituto di distinse come il più aperto e dinamico»[10]. Così negli anni successivi l’IAO, divenne il principale centro di studio, di propaganda e di consulenza agricola coloniale presente in Italia, tanto da arrivare a ricoprire, nel 1938, il ruolo di organo tecnico-scientifico del Ministero per l’Africa Italiana nel campo della ricerca e della sperimentazione agraria: il decreto legge del 17 luglio 1938, convertito in legge il 19 maggio del 1939, lo trasformava in Regio Istituto Agronomico per l’Africa Italiana, alle dipendenze dirette del MAI. All’IAO veniva insomma assegnato il compito tecnico via via sempre più rilevante di studiare l’economia delle colonie e formare il personale tecnico in grado di fornire le soluzioni più adatte ai problemi agricolo-coloniali: «una funzione tecnica e non politica, certamente, ma che comunque aveva necessariamente una ricaduta politica sull’Istituto, nel senso che ne indirizzava fermamente le attività e le scelte scientifiche»[11], ad esempio per quanto concerneva la didattica (che prevedeva ora anche corsi semestrali rivolti ai tecnici agrari che avessero vinto il concorso di ammissione al Corpo Agrario dell’Africa Italiana). Fino allo scoppio del secondo conflitto mondiale, l’IAO godette quindi di una struttura solida e organizzata e di un notevole prestigio. Ne è dimostrazione fisica e concreta la nuova sede inaugurata nel 1942 in via Cocchi, la cui «magnificenza costruttiva raccontava, di per sé, il trionfo coloniale fascista»[12].

Sede  IAO ,1942

Sede IAO ,1942

Con la caduta del fascismo per l’Istituto guidato da Maugini cominciò una fase completamente diversa, su cui più qui ci si concentrerà. Come bene evidenziato da Nicola Labanca, «il punto di partenza è che non ci fu alcun taglio col passato. Praticamente gli stessi uomini che avevano fatto la vita dell’Istituto prima del 1940 continuarono a farla dopo il 1945. Non deve sorprendere quindi se essi si attivarono nel periodo fra 1945 e 1947-49, quando ancora qualcuno poteva illudersi che l’Italia sarebbe tornata a calcare da potenza coloniale le terre africane, preparando relazioni, rapporti e depliant a favore del ‘nostro ritorno in Africa’»[13]. Nel quadro delle trattative di pace, infatti, la raccolta e l’illustrazione delle attività svolte dall’Italia in Africa furono uno dei primi incarichi affidati dal Ministero all’Istituto, proprio per le sue più tradizionali esperienze coloniali: l’IAO collaborò attivamente all’esame delle materie legate alle trattative con il Governo libico, per la definizione di accordi chiamati a perfezionare a livello di politica agraria la risoluzione dei vecchi rapporti coloniali, e realizzò vari sopralluoghi in Tripolitania per documentare le mutate situazioni dei coloni e tutelare gli interessi delle famiglie contadine; contemporaneamente, su richiesta del Ministero del Tesoro, l’Istituto intervenne nell’esame delle richieste di risarcimento per danni di guerra riguardanti gli italiani negli ex possedimenti africani.

Nell’ambito della nascente cooperazione multilaterale, invece, la situazione si pose immediatamente in termini più complessi: fin dal 1950, infatti, l’Ufficio per l’assistenza tecnica del Consiglio economico e sociale dell’Onu aveva approvato le offerte di aiuto alla Libia del Regno Unito e della Francia, in qualità di potenze amministranti, ma espresso una certa riluttanza a ricorrere ufficialmente all’opera dei tecnici italiani. Le organizzazioni internazionali coinvolte, infatti, sospettavano che da parte italiana si tentasse di sfruttare la presenza dei propri esperti per realizzare un’indiretta ingerenza politica, mentre la provenienza coloniale degli uomini appariva fonte di estremo imbarazzo nel nuovo contesto africano.

Così la prima missione ONU/FAO incaricata di studiare il contesto libico, aveva escluso la possibilità di coinvolgimento di un tecnico italiano, proposto dall’Ufficio Libia del MAE per il settore agricolo; unico risultato delle pressioni italiane, invece, fu la sosta della delegazione a Roma all’inizio del luglio 1950, quando vennero organizzati incontri con il Sottosegretario agli Esteri, Francesco Maria Dominedò, alcuni capi servizio del MAI, il prof. Armando Maugini dell’IAO e i dirigenti locali degli Enti di colonizzazione, oltre che con esponenti degli interessi bancari e industriali italiani in Libia[14]. Una volta arrivata in Libia alla metà di luglio, quindi, la missione internazionale prese contatto con il Commissario del Consorzio agrario della Tripolitania, l’italiano Angelo Mariani, e vi si intrattenne sui problemi dello sviluppo agricolo della Libia in un lungo colloquio, svoltosi il 17 luglio 1950, contro la volontà della British Administration of Tripolitania (BAT)[15].

Colonizzazione agricola fascista della libia (fonte: www.italiacoloniale.com)

Colonizzazione agricola fascista della Libia (fonte: www.italiacoloniale.com)

In sostanza, mentre l’ostilità inglese era percepibile già in queste prime fasi (il tecnico Mariani, ad esempio, fu congedato dall’incarico presso la BAT, appena qualche giorno dopo la partenza della missione Onu), i rapporti italiani con l’Onu sembrarono inizialmente decollare grazie all’alto livello delle competenze tecniche italiane. Nel settembre, ad esempio, anche il Gen. Albert Lebel, nominato esperto agrario presso il Commissariato Onu per la Libia, si recò a Roma allo scopo di raccogliere informazioni sulla situazione agricola del paese. Da sottolineare anche in questo caso i suoi contatti con il direttore l’Istituto agronomico di Firenze: in un lungo e dettagliato rapporto al Ministero, il direttore Maugini sottolineava che, a suo parere, per dare rilievo all’assistenza tecnica che avrebbe potuto derivare dall’Istituto agronomico e dai tecnici italiani che conoscevano i problemi della Libia, si doveva «concedere una collaborazione quanto più possibile completa e continuativa. In questo senso ho creduto mio dovere parlare col generale Le Bel [sic] dicendogli che noi tecnici italiani sappiamo scindere quello che può essere il doloroso ricordo del passato dai doveri nuovi che su un piano diverso le N.U. devono affrontare nella Libia; e che quindi le nostre esperienze e la nostra volontà di fare del bene alle popolazioni arabe restano a disposizione del Sig. Pelt e dei suoi collaboratori, nel modo più completo e senza la minima riserva mentale»[16]. Forse anche in conseguenza, Lebel dichiarò che avrebbe sottolineato al Commissario Onu per la Libia, Adrian Pelt, «l’opportunità che l’Onu si avvalga, anche in altri specifici settori, dell’opera di studiosi e tecnici italiani, i quali, essendosi dedicati per tanti anni allo studio di quei particolari problemi, sono i più adatti per continuarli e completarli, se necessario, e comunque per fornire utili indirizzi nel quadro dell’assistenza tecnica al nuovo Stato»[17].

Tripolitania, il villaggio Corradini, anni Cinquanta

Tripolitania, il villaggio Corradini, anni Cinquanta

La promettente collaborazione dell’Onu con l’Italia, però, dopo essersi sviluppata sin da subito su un piano parallelo a causa della mancata ammissione dell’Italia nel consesso delle Nazioni Unite, si inceppò all’inizio del 1951 con la nomina della seconda missione tecnica di assistenza, guidata dallo svedese John Lindberg e composta da due esperti finanziari per il Fondo monetario internazionale e dal tecnico americano Othelo J. Wheatley per la FAO: con la visita anche di quest’ultimo all’Istituto agronomico di Firenze, infatti, si palesò «l’assurdo – rilevato anche da parte araba – degli esperti che, appena assegnati qui [in Libia], si affrettano a ricorrere ai pochi tecnici italiani rimasti sul luogo, o a fare il dispendioso viaggio a Firenze (Istituto Agronomico), per mettersi in grado di conoscere le caratteristiche dell’economia libica»[18]. Una situazione paradossale, determinata dal mancato ricorso a tecnici italiani nelle missioni di assistenza su cui, nel febbraio 1951, la crescente insoddisfazione italiana venne alla luce durante la discussione del rapporto del Commissario Pelt sull’assistenza tecnica nel Consiglio delle Nazioni Unite per la Libia: il piano venne ritenuto dai rappresentanti italiani estremamente lacunoso, proprio perché “mancante” delle competenze di coloro che in passato per lunghi anni si erano occupati di studiare le possibilità di potenziamento delle risorse del paese, ovvero i tecnici italiani. In base a queste considerazioni, la pressione italiana sulla questione fu intensificata in sede Onu, ma in breve gli ostacoli si paleserono e l’esclusione dei tecnici italiani dal Programma di assistenza tecnica delle Nazioni Unite apparve non casuale, bensì determinata sia dalla situazione costante di morosità italiana nei contributi finanziari al Fondo Onu, sia in base a considerazioni di tipo prettamente politico. Già nel giugno dello stesso anno, in effetti, fu confermata l’ipotesi che a ostacolare la scelta di esperti italiani fosse stata e fosse una precisa direttiva politica del Technical Assistance Board, ovvero proprio il «parere espresso da Pelt che la loro presenza non sarebbe ben accettata dai libici»[19].

La partecipazione all’assistenza internazionale alla Libia, nel frattempo, stava diventando sempre più il motivo del contendere fra le grandi potenze. Il 15 giugno 1951, venne firmato a Londra un accordo tripartito fra USA, Gran Bretagna e Francia per ripartire equamente fra le tre nazioni le possibilità di intervento in Libia. A causa dei crescenti interessi economici in gioco, inoltre, fu naturale che, al momento di concordare il ruolo di ogni nazione nell’assistenza alla Libia, i preesistenti contrasti si acuissero anche tra Italia e Gran Bretagna. Nella situazione di stallo determinatasi, permase così a lungo la riserva politica nei confronti dei tecnici italiani:  ancora alla data del gennaio 1953, risultavano impiegati dai programmi Onu solo 2 tecnici italiani su 103 proposti e, per quanto riguarda la FAO, su un totale di 173 tecnici proposti, ne furono accettati solo 12[20].

Conclusioni

Nel contesto libico emerge chiaramente l’effettivo impiego della cooperazione come “arma” diplomatica, politica e commerciale da parte del governo di Roma. Lo evidenzia l’atteggiamento italiano nei confronti delle contribuzioni alla Libia in termini di assistenza tecnica e finanziaria, una tendenza, molto esplicita nei documenti riservati, a subordinare le proprie promesse a concessioni libiche nell’ambito politico e contrattuale (e in particolare nelle lunghissime trattative per l’accordo sui beni), e lo dimostrano le affermazioni dei responsabili della politica italiana, ma anche le “dritte” provenienti dai funzionari locali a Tripoli. È evidente, comunque, che nei rapporti italo-libici occorre distinguere una fase iniziale fino all’indipendenza, in cui le ottimistiche speranze italiane di poter conservare un’influenza politica ed economica in Libia semplicemente mantenendo inalterati i rapporti di potere nella ex colonia risultano fuorvianti e impediscono agli attori una considerazione realistica del contesto; è in questo momento che si hanno tentativi veri e propri di un anacronistico “ritorno”, anche in termini migratori, e che l’azione italiana si rivela più caparbia e controversa. Con l’indipendenza, invece, e l’estromissione definitiva degli italiani dalla vita politica attiva del Regno unito di Libia, fondi segreti, manovre diplomatiche e resistenza a oltranza dei coloni lasciano spazio a prospettive differenti: sul piano politico e su quello commerciale, l’azione italiana è segnata dalla necessità di un accordo con la Libia che ne definisca il nuovo ruolo sulla “quarta sponda”.

Tripoli, Caffè delle Poste, anni Cinquanta (fonte: www.airl.it)

Tripoli, Caffè delle Poste, anni Cinquanta (fonte: www.airl.it)

All’inizio degli anni Cinquanta, quindi, permangono ovviamente atteggiamenti e settori retrivi, ma si sviluppano allo stesso tempo nuove interazioni e la volontà di adeguarsi alle contemporanee iniziative internazionali; un adeguamento parziale e di facciata, probabilmente, ma pur sempre uno sviluppo verso un tipo di relazione nuova. Ne è un esempio emblematico la questione dell’impiego dei tecnici italiani da parte delle Agenzie specializzate dell’Onu, che tanta parte occupa nell’azione italiana verso la Libia: si tratta evidentemente di un processo di ammodernamento, sia nell’analisi dell’opportunità politica che l’“aiuto” riveste sia nella modalità di impiego degli ex tecnici coloniali, costretti ora per ottenere un incarico a garantire equità e risultati; i “vecchi” uomini, esposti dai giornali arabi al pubblico disprezzo con campagne pesantemente denigratorie, sono tacciati di colonialismo e di sfruttamento e perdono rapidamente ogni possibilità di influire positivamente sull’immagine che l’Italia vuole proiettare, venendo via via sostituiti da figure neutre e meno compromesse. Proprio la necessità di dialogare con gli attori internazionali dello sviluppo quindi determinerà progressivamente un adeguamento parziale e di facciata del personale tecnico italiano, per il quale si può parlare di una sorta di maquillage superficiale che lo porta a inserirsi progressivamente nei nuovi posti messi a disposizione dalla crescita rapida del settore della cooperazione allo sviluppo. In pratica, si può parlare di una vera e propria selezione naturale, che progressivamente allontana chi non è riuscito a reinventarsi e porta in Africa gli uomini più adatti a integrarsi nel nuovo corso, favorendo, così, alla lunga, un vero e proprio cambiamento di mentalità. Il carattere eterodiretto di tale evoluzione, influenzata più dalle scelte della comunità internazionale che da una maturazione interna, spiega la lentezza con cui le nuove idee permeano gli uffici e la burocrazia di Roma, per la resistenza iniziale espressa di fronte a ogni proposta innovativa e il conseguente ritardo con cui i funzionari italiani affrontano i pur necessari cambiamenti.

Ciò che emerge inaspettatamente nel contesto libico, invece, è la tendenza più progressista da parte dei cosiddetti tecnici: se nel rapporto dell’IAO con l’Amministrazione fiduciaria italiana in Somalia prevalse la continuità (e sul ruolo nel contesto somalo di Ferdinando Bigi, futuro direttore dell’IAO dopo Maugini, ci sarebbe da scrivere), per quanto riguarda la Libia i suggerimenti di Maugini, ad esempio, esprimono spesso considerazioni attente e al passo con l’evoluzione dei tempi, pur in uno dei settori, quello della colonizzazione agricola, dove maggiori erano le resistenze al cambiamento. Una posizione che si può spiegare con le convinzioni personali e la tiepida adesione di Maugini al fascismo, ma anche con un consapevole tentativo del direttore dell’IAO di riaffermare un ruolo nuovo per l’Istituto che non si esaurisse con la fine dell’esperienza coloniale e che contrastasse la forte diffidenza per il recente passato dell’Istituto.

16 ottobre 1945,  Quebec,  Canada: firma della Costituzione della FAO

16 ottobre 1945, Quebec, Canada: firma della Costituzione della FAO

In effetti, nonostante la sua nascita fosse avvenuta in epoca lontana da ogni riferimento fascista, fu questa un’eredità che l’Istituto, e con esso Maugini, si porteranno dietro a lungo. Il dopoguerra rappresentò quindi un momento di incertezza per la sopravvivenza stessa dell’IAO, rasserenato, però, dalle manifestazioni di simpatia e dalle richieste esterne di collaborazione per la realizzazione di studi e per la formazione di tecnici di paesi africani: nell’insieme, è certo che all’epoca l’Istituto era più conosciuto e apprezzato all’estero che non in Italia. L’attività di assistenza tecnica e consulenza dell’IAO, quindi, si rivolse in questi anni contemporaneamente a contesti diversi (come quello dell’America Latina) e a tipologie diverse di fruitori: amministrazioni pubbliche italiane, rappresentanze diplomatiche e consolari all’estero, organizzazioni internazionali (FAO, UNESCO, BIT, CIME), governi, italiani in madrepatria e all’estero; «da queste istituzioni arrivava a Firenze un linguaggio nuovo, nuove ispirazioni e una politica di nuovo conio il cui peso non puo essere sottovalutato»[21].

Nel 1953 l’Istituto assunse l’attuale denominazione di Istituto agronomico (per l’Africa italiana, poi dal 1959 per l’Oltremare). La legge che sopprimeva il Ministero dell’Africa Italiana, trasferì l’Istituto alla tutela del Ministero degli Affari Esteri, mentre la trasformazione automatica dei residenti italiani nelle ex colonie in italiani all’estero fece sì che l’Istituto passasse sotto la competenza della Direzione generale dell’Emigrazione. Si trattò di un cambiamento necessario sia per la valutazione corretta del suo mandato sia per uscire dall’identificazione con il periodo coloniale, ma non risolutivo. La situazione di generale rallentamento delle attività dell’IAO inizierà a modificarsi, infatti, soltanto quando il sistema nazionale per la cooperazione si rafforzerà sul piano legislativo, organizzativo e finanziario e affiderà all’Istituto i primi progetti. Nel 1962 l’IAO sarà infine riformato (con la legge n. 1612 del 26 ottobre in vigore dal 16 dicembre che lo confermerà sotto la vigilanza del Ministero degli Affari Esteri), ma bisognerà attendere il 1979, e la legge n. 38, denominata “Cooperazione dell’Italia con i paesi in via di sviluppo”, perché all’Istituto venisse riconosciuta una rilevanza nel sistema italiano della cooperazione: l’articolo 11, infatti, recitava che “per la cooperazione allo sviluppo nel settore agricolo, il Ministero degli Affari Esteri si avvarrà anche dell’Istituto Agronomico per l’Oltremare, al quale potranno essere concessi contributi per i singoli programmi ad esso affidati”. Sarà infine nel 1987, con l’approvazione della legge n. 49 “Nuova disciplina della Cooperazione dell’Italia con i Paesi in via di sviluppo”, che l’Istituto entrerà a pieno titolo nel sistema nazionale di cooperazione allo sviluppo, come “organo tecnico-scientifico del Ministero degli affari esteri, oltre che per servizi di consulenza e di assistenza nel campo dell’agricoltura, anche per l’attuazione e la gestione di iniziative di sviluppo nei settori agro-zootecnico, forestale e agro-industriale”.

NOTE:
[1] “Promemoria” sull’AMB con indicazioni politiche programmatiche in relazione al dibattito all’ONU in AB b. 52 Azienda Monopolio Banane I f. Appunti 1948-1949.
[2] Lettera di Fornara al Presidente del Consiglio dei Ministri e Ministro a.i per l’Africa italiana del 9/12/1950, in AB b. 46 MAI Affari politici Somalia.
[3] Nicola Labanca, Oltremare. Storia dell’espansione coloniale italiana, Il Mulino, Bologna, 2002, p. 450.
[4] Idem, p. 430.
[5] Angelo Del Boca, Gli italiani in Africa orientale, Mondadori, Cles, 1992, vol. IV Nostalgia delle colonie, p. 129.
[6] Id., L’Africa nella coscienza degli italiani, Mondadori, Milano, 2002, p. 116
[7] Nicola Labanca, Oltremare, cit., pp. 450-451.
[8] Antonio Maria Morone, Brusasca l’Africano, in Giuseppe Brusasca e gli inizi della Repubblica. Atti del Convegno di studi (27 maggio 2006), a cura di Luigi Mantovani, Ed. Città di Casale Monferrato – Assessorato alla cultura, Chivasso, 2007, p. 62.
[9] AA.VV., L’Istituto agronomico per l’Oltremare. La sua storia,  Ed. Masso delle fate, Firenze, 2007, p. 13.
[10] Nicola Labanca, Uno straordinario campo da coltivare. Il Centro di documentazione inedita dell’Istituto agronomico per l’Oltremare di Firenze e le sue ricchezze, in «I sentieri della ricerca», n. 9/10 (2009), p. 117.
[11] AA.VV., L’Istituto agronomico per l’Oltremare, cit., p. 107.
[12] Idem, p. 111.
[13] Nicola Labanca, Uno straordinario campo da coltivare, cit., p. 124.
[14]  Appunto 90/687 dell’Ufficio Libia del MAE del 9/7/1950, in ASDMAE DGAP 50-57 b. 731 Libia 1951 f. A/III/c Esperti e assistenza tecnica 1950-1951.
[15] Tel.sso 140/50 dall’ambasciatore Giuseppe Vitaliano Confalonieri al MAE “Libia – Assistenza tecnica” del 31/7/1950, in  ASDMAE DGAP 50-57 b. 731 Libia 1951 f. A/III/c Esperti e assistenza tecnica 1950-1951.
[16] Cfr. Armando Maugini, “Rapporto sulla visita e soggiorno del Gen. Lebel esperto agricolo del Sig. Pelt presso l’Istituto agronomico dell’A.I.” del 10/9/1950, in ASDMAE DGAP 50-57 b. 731 Libia 1951 f. A/III/c Esperti e assistenza tecnica 1950-1951.
[17] F. 90/1022 dall’Ufficio Libia del MAE “Appunto per il Segretario generale – Missione gen. Lebel, esperto agrario presso il Commissario dell’Onu per la Libia” del 29/7/1950, in ASDMAE DGAP 50-57 b. 731 Libia 1951 f. A/III/c Esperti e assistenza tecnica 1950-1951.
[18] “Appunto per l’Ambasciatore Confalonieri” della Delegazione del Governo italiano al Consiglio delle N.U. per la Libia del 6/2/1951, in ASDMAE DGAP 50-57 b. 731 Libia 1951 f. A/III/c Esperti e assistenza tecnica 1950-1951.
[19] L. da Confalonieri a Zoppi del 30/8/1951, in ASDMAE DGAP 50-57 b. 763 Libia 1950-51 f. Assistenza tecnica alle ex colonie nel quadro del punto IV.
[20] Cfr. Appunto 65/973/c del 23/1/1953 “Utilizzazione di esperti italiani per l’assistenza tecnica alle Nazioni Unite”, in ASDMAE b. 867 Parte generale 1953 f. 12/1 Assistenza tecnica alle ex colonie.
[21] Nicola Labanca, Uno straordinario campo da coltivare, cit., p. 125.



L’eccidio di Monterongriffoli, 17 luglio 1920.

L’Italia uscì dalla Grande Guerra con una situazione di forte crisi economica e sociale, che causò un continuo incancrenirsi dello scontro politico. Nei primi mesi del 1920 si moltiplicarono le violenze. Il 7 marzo si registrò una prima aggressione alla Casa del popolo di Siena, durante la quale rimase ucciso un giovane di 18 anni, Enrico Lachi, per un colpo di pistola sparato da un appuntato dei carabinieri[1].
In segno di forte protesta, fu indetto lo sciopero generale. Si cominciava infatti a percepire una sentita avversione, di parte della forza pubblica e degli organi statali, contro i socialisti, che avrebbe in seguito condotto a una piena affermazione della violenza fascista[2].
Nel moltiplicarsi degli scontri, sabato 17 luglio si verificò l’episodio più tragico delle campagne.
L’oggetto del contendere era il “patto colonico”, del quale i mezzadri chiedevano alcune modifiche, per esempio di avere più del 50% del raccolto e di limitare il potere di escomio del padrone. L’occasione era il periodo della trebbiatura, il momento più delicato del lavoro nelle campagne, durante il quale lo sciopero assumeva una maggiore forza.
Un paio di poderi non ubbidivano all’ordine di scioperare emanato dal sindacato di matrice socialista. Di conseguenza, il proprietario della fattoria di Monterongriffoli, Aldo Bellugi Gragnoli, aveva chiesto al prefetto la protezione dei contadini che volevano tagliare il grano, in particolare il podere di Montepietri.
Problemi di scioperi si ebbero in tutta la provincia, che era in mano alle cosiddette “leghe rosse”, cioè le organizzazioni sindacali socialiste, tanto che fu proclamato lo “stato d’assedio”[3].
La nostra Provincia di questi giorni passati – scriveva il settimanale socialista “Bandiera Rossa Martinella” – è stata invasa da grandi forze armate col preciso scopo di soffocare col sangue la grandiosa compattezza delle masse agricole. La folla della campagna ha sostenuto l’urto violento, non ha piegato un attimo di fronte alla travolgente reazione padronale stimolante le autorità civili e militari alla più feroce repressione”[4].
La mattina del 17 luglio arrivarono a Monterongriffoli alcuni carabinieri del battaglione mobile di Roma, comandati da un maresciallo.
Il paese si sviluppava lungo la strada in discesa sotto una collina di tufo, e alla fine della stessa strada si trovava la villa padronale, che chiudeva l’abitato da un lato. Il maresciallo mandò una parte dei suoi uomini a sorvegliare il lavoro nei campi, mentre gli altri rimasero nella villa.

L’arrivo dei carabinieri aveva riscaldato gli umori degli scioperanti, che avevano comunque deciso di non impedire la trebbiatura da parte dei crumiri.
Erano i primi scioperi che venivano fatti; ancora il Fascismo non esisteva – ha testimoniato la sig.ra A. Meini – erano i contadini che volevano un po’ più di giustizia e stare un po’ meglio”[5].
Le rivendicazioni erano modeste e apparivano nel complesso degne di considerazione, non mettevano in dubbio l’istituto secolare della mezzadria. Ma gli animi erano stati accesi dalla forte propaganda socialista massimalista, dalla crisi economica e sociale, dalla speranza o paura – secondo in quale parte della barricata ci si trovava – di una rivoluzione come quella russa.
La scintilla che innescò la miccia degli scontri fu causata dall’arresto di tre contadini, che secondo alcune testimonianze erano ubriachi e provocarono i carabinieri, secondo altre avevano semplicemente sfoggiato vessilli rossi.
Ecco un paio di descrizioni contrastanti, da parte di due giornali, che fanno capire quanto fossero accesi gli animi e quanto le descrizioni risultassero di parte, orientando l’opinione pubblica dei lettori.
“La Vedetta Senese”, 19-20 luglio 1920.

A Monterongrifoli, frazione di S. Giovanni d’Asso, dove è situata la fattoria di proprietà del signor Aldo Bellugi, si trovavano 20 carabinieri per proteggere i lavori della trebbiatura. Nella mattinata di ieri 14 militi furono dislocati rimanendo così a Monterongrifoli 6 carabinieri con un commissario di P.S.
Una numerosa masnada di scioperanti si partì da S. Giovan d’Asso, distante pochi
chilometri, e si recò nella frazione a reclamare il rilascio di tre contadini arrestati.
Gli scioperanti ebbero la cura di sbarrare le strade d’accesso per impedire l’arrivo di rinforzi. Appena giunti a Monterongrifoli dettero un’assalto in piena regola ai R.R. C.C. tirando bastonate e commettendo violenza.
I carabinieri si difesero con i calci dei fucili cercando di ripararsi dalle botte date con rabbia e con forza, tanto che alcuno ebbe il calcio del moschetto spezzato da una bastonata. Mentre la zuffa continuava, arrivò un camion guidato da una guardia regia. Questa si accorse che un gruppo di forsennati cercava di prendere alle spalle un carabiniere per colpirlo a tradimento. Comprendendo che la vita del milite era in grave pericolo, la guardia sparò un colpo di rivoltella ferendo due contadini.
I carabinieri subito dopo, per non essere sopraffatti, spararono disperdendo la folla.
Si hanno a deplorare 4 morti e 4 feriti, fra i contadini.
I 6 carabinieri rimasero tutti più o meno gravemente contusi.
L’ord
ine è ristabilito”.

“Bandiera Rossa – Martinella”, 25 luglio 1920.

Ingresso Villa padronale a Monterongriffoli, giugno 2020

Sabato 17 verso sera tre contadini del vicino paese di Montisi si recavano a Monterongriffoli. Soffermatosi in una trattoria a bere, furono subito raggiunti dai carabinieri, i quali, senza motivo, li trassero in arresto, trasportandoli alla fattoria dell’agrario Aldo Bellucci-Gragnoli, poiché era colà che un camion di carabinieri comandati da un commissario di P.S. e da un maresciallo, sostava.
L
a folla composta, come dissi, di pacifici lavoratori, si avviava alla fattoria per chiedere il  rilascio degli arrestati. All’approssimarsi di questa, maresciallo, commissario e si dice anche il proprietario, ed il fattore, cominciarono a sparare. Fu un momento di panico. Si domandava se questi agenti e proprietari erano diventati pazzi. Si vedeva la faccia contorta del commissario che gridava sparando, il maresciallo e i carabinieri lo imitavano, dalle finestre della fattoria si faceva altrettanto. Cadevano contadini al suolo, feriti a morte. La folla veniva poi inseguita alla carica dai carabinieri, i quali piattonavano e colpivano col calcio del moschetto”.

La ricostruzione dei fatti risulta molto differenziata, nei giornali, nei documenti e nelle testimonianze. Quello che sembra certo è che arrivò una folla di persone, per chiedere di liberare i contadini fermati, che la folla entrò nel piazzale della villa padronale e che partirono colpi di arma da fuoco, non soltanto dalle pistole di ordinanza, come se qualcun altro avesse sparato contro i contadini.
Si contarono tre morti (Angelo Cingottini di 54 anni, Natale Baglioni di 30 anni e Settimio Capaccioli di 26 anni). Altre sei persone rimasero ferite.
I fatti di Monterongriffoli furono oggetto di un processo penale, tenuto nel corso del 1921, che si concluse in agosto, con le condanne per oltraggio e lesioni alla forza pubblica di alcuni contadini, che fecero ricorso in appello, e con l’assoluzione dai reati di omicidio e violenza del proprietaria dello fattoria Aldo e del parente Guido, per non aver commesso il fatto[6].
Poco dopo l’eccidio, ebbero termine le lunghe trattative sul patto colonico fra l’Associazione agraria in rappresentanza dei padroni e la Federazione italiana lavoratori della terra, in rappresentanza dei mezzadri.
Lo sciopero dei contadini può dirsi finalmente cessato” – scriveva il quotidiano “La Vedetta Senese” del 19-20 luglio –. Notizie che ci giungono da ogni parte della provincia confermano che i lavori sono già ripresi quasi da per tutto, e che in ogni modo l’agitazione è scomparsa possiamo sperare che fatti incresciosi non si abbiano a ripetere…
Disgraziatamente questo sciopero à voluto le sue vittime che potevano certamente essere evitate con un po’ di serenità
”[7].

Il paese di Monterongriffoli nei pressi della fattoria, giugno 2020

Note
[1] G. Maccianti, Una storia violenta: Siena e la sua provincia 1919-1922, Siena, Il Leccio, 2015, pp. 58-59.
[2] S. Maggi, Dalla città allo Stato nazionale. Ferrovie e modernizzazione a Siena tra Risorgimento e fascismo, Milano, Giuffrè, 1994, pp. 305-308.
[3] Lettera di Sesto Bisogni del 19 luglio, in “La Vedetta Senese”, 19-20 luglio 1920, p. 3.
[4] La ferocia bestiale dei carabinieri del re nello sciopero dei contadini, sbocca nel malvagio eccidio di Monterongriffoli, in “Bandiera Rossa Martinella”, 25 luglio 1920, p. 1.
[5] Statuto del Comune di Monterongriffoli. 1534, a cura di F. Raffaelli, Comune di San Giovanni d’Asso, 2001, p. 143.
[6] Archivio di Stato di Siena, Fondo Tribunale Penale di Siena, filza 611, Processi Penali, anno 1921, ottobre-novembre.
[7] Lo sciopero dei contadini. Lo sciopero è finito?, in “La Vedetta Senese”, 19-20 luglio 1920, p. 3.