Ai mondiali noi non tifavamo Unione Sovietica

A Bologna il 12 Novembre 1989 Occhetto annunciò di voler cambiare nome al Partito comunista italiano, lei sapeva che lo avrebbe fatto?

Non sapevo che lo avrebbe fatto a Bologna e in quella circostanza, ma sapevo che avrebbe affrontato radicalmente la questione.

 

Quali furono le sue reazioni? Quali le speranze, quali i timori?

Soprattutto in Toscana e in Emilia il Pci era una forza socialista riformista. A Bologna, per esempio, c’era una delle amministrazioni più progressiste d’Europa, per questo l’idea di andare oltre il nome per me non era un trauma. Anche Berlinguer aveva riconosciuto la fine della spinta propulsiva della Rivoluzione d’ottobre. Sentivamo la necessità di andare oltre il Pci per salvare il meglio del suo patrimonio.

Il timore invece era che quegli elettori che avevano vissuto il partito come una forza progressista, che non aveva niente a che vedere con la realtà sovietica, non comprendessero la decisione di cambiare nome. Il problema più grande fu infatti far capire loro che non veniva messo in discussione quello che avevano fatto fino ad allora.

 

Quindi a Pistoia, per esempio, furono organizzate iniziative per spiegare la svolta ai militanti?

Non ci sono state differenze sostanziali tra le città toscane, i dibattiti furono organizzati ovunque. In Toscana ben il 35% degli iscritti non era d’accordo con la svolta. Per esempio, mi ricordo di un confronto che ebbi con Lido Romanelli, un personaggio storico pistoiese che ha costruito la Cooperazione agricola a Lamporecchio. Ci scrivemmo, «L’Unità» pubblicò le due lettere, una di fronte all’altra, e le differenze apparirono tanto chiare quanto nette. Fu un periodo quindi personalmente molto intenso, di scontro duro tra i vari orientamenti, nelle sezioni, tra iscritti e iscritti; però anche bello da un punto di vista politico, perché in Toscana ci fu una partecipazione tesa, ma molto ampia.

 

Cosa pensava chi era contrario al cambio di nome?

I contrari alla svolta pensavano che, cambiando nome, una parte del patrimonio del Pci venisse smarrita. «Se siamo diversi dall’Urss perché dobbiamo cambiare nome?» si chiedevano in molti, ritenendo la svolta come un’autocertificazione dell’omogeneità con l’esperienza sovietica, che invece non era stata la nostra.

 

Come fu gestita la svolta annunciata alla Bolognina?

Il partito non ha saputo darsi un’organizzazione nuova e ha perso del tempo. È venuta meno un’attenzione all’organizzazione che, anche se non può sostituire la politica, la deve accompagnare. Durante il secondo congresso, per esempio non ci si accorse che mancava il numero legale per la votazione del segretario: questo voleva dire aver perso il polso della situazione. Fu deciso di convocare un secondo congresso perché si ritenne il primo insufficiente, passarono così due anni che, sommati ai ritardi di prima, sono stati micidiali, non soltanto per il tempo trascorso, ma perché ci costrinsero a stare a discutere sul tema del nome, anziché discutere di quale progetto di società cercavamo, di quale organizzazione del partito volevamo. Fu clamoroso quando Occhetto propose di parlare di una carta di intenti del nuovo partito, ma non ne fu discusso perché tutto ormai era inchiodato solo sul nome.

E questa fu una responsabilità di chi era contrario alla svolta. Questi ritenevano infatti che la loro posizione si mantenesse più forte fintantoché si fosse rimasti a parlare solo del nome. Invece, se si fosse discusso dei valori, delle alleanze internazionali, dell’Europa, del progetto di società, la contrapposizione sul nome sarebbe stata superabile.

 

Il problema era quindi il rapporto con l’Unione Sovietica. Lei fu sindaco dopo Renzo Bardelli che già nel 1981 aveva rilasciato un’importante intervista a «La Repubblica» dove criticava duramente la situazione in Urss. Lei cosa pensò di quella presa di posizione pubblica?

La critica all’Unione Sovietica era giusta, forse però avrebbe potuto trovare parole diverse. Con Bardelli avevamo una diversa concezione della politica: lui riteneva giusto condurre una battaglia personale, convinto che gli altri avrebbero seguito; io pensavo invece che fosse necessario costruire un percorso per portare dalla nostra parte quante più persone possibili. La differenza tra noi due risiedeva in questo e non sulle posizioni che lui aveva esplicitato nell’intervista (anche se penso che di quell’articolo molto sia stato frutto della penna di Giampaolo Pansa che lo intervistava).

 

Esistevano quindi delle questioni aperte nel rapporto con l’Unione Sovietica?

La questione del rapporto con l’Unione Sovietica è stata sottovalutata: mi ricordo per esempio quando ero ragazzino che, nel paese de Le Grazie, dove sono cresciuto, durante i mondiali di calcio noi tifavamo Italia, ma alla Casa del Popolo eravamo solo due o tre, i ragazzi, la parte più matura invece, non quella di 80 anni, ma di 40, tifava Unione Sovietica.

Questo è stato il limite della nostra generazione. Per noi l’Unione Sovietica non era un problema, non era né un limite né un modello, per noi non esisteva. Quindi non avvertivamo la pesantezza di questo problema perché non si poneva. E questo è stato un grande errore di sottovalutazione.

A un certo punto ci siamo resi conto che ciò che per noi non era un problema, in realtà lo era, e che quella sovietica era una famiglia che condizionava la nostra credibilità nei confronti degli altri. Era un peso vero e bisognava affrontarlo. Ci rendevamo tutti conto che i paesi sovietici, oltre a non essere un modello, erano diventati qualcosa di profondamente negativo. Quando i carri armati entrarono a Praga ero entrato da pochi mesi nella direzione provinciale del Pci a Pistoia e, se non ci fosse stata una presa di distanza chiara, mi sarei dimesso. La presa di posizione ci fu, e fu quindi diverso rispetto al ‘56, ma, col senno di poi, anche quella del ‘68 non fu sufficiente. Il partito prese posizione ma non ruppe definitamente il vincolo con l’Urss.

 

È possibile dire che è stato anche un problema di “tempi”?

Si. Il momento giusto per prendere definitivamente le distanze dall’Unione Sovietica, per fare una forza unica di sinistra in Italia, era stato il 1956. Quello è stato l’errore più grande del gruppo dirigente di Togliatti.

Noi più giovani abbiamo la responsabilità di non aver percepito il problema e di aver pensato che non fosse un problema. Su questo aveva ragione Renzo Bardelli: già dalle vicende di Praga ci rendemmo conto del peso negativo, ma ci è voluto troppo tempo per rompere il vincolo con l’Urss, perché dal ‘68 all’89 son trascorsi vent’anni. Occhetto già percepiva il problema: «attenzione – diceva – il fallimento dei paesi dell’Unione Sovietica riguarda innanzitutto quei partiti che ne sono stati protagonisti, ma tocca anche noi che ci chiamiamo così, pur non avendo quelle responsabilità, e toccherà anche tutte le forze della sinistra europea». Durante quegli anni di passaggio sono stato convinto di due cose: bisognava andare oltre e la campana suonava per tutti.

 

Vannino Chiti, nato a Pistoia nel 1947, è entrato nel Pci a vent’anni. Nel 1989 era consigliere regionale del Pci, già sindaco di Pistoia dal 1982 al 1985, e futuro presidente della Regione Toscana dal 1992 al 2000. Eletto deputato nel 2001, è stato Ministro per le riforme istituzionali e i rapporti con il Parlamento dal 2006 al 2008. È stato eletto senatore nel 2008 ha ricoperto la carica di vicepresidente del Senato dal 2012 al 2013.

 

Francesca Perugi collabora da anni con l’Istituto storico della Resistenza di Pistoia e ha appena concluso un dottorato in storia del cristianesimo contemporaneo presso l’Università Cattolica di Milano. Si è occupata di storia repubblicana italiana e pistoiese. Tra le sue pubblicazioni: Racconti di vita e di lotta. Storie di mezzadri pistoiesi, in S. Bartolini, La mezzadria nel Novecento, Settegiorni 2015 e “Si può essere buoni cattolici e disubbidire apertamente ai vescovi?” Il mondo cattolico pistoiese di fronte al referendum per l’abrogazione del divorzio, in «QF. ​Quaderni di Farestoria», I.S.R.Pt Editore, Pistoia, Anno XVI, n. 3, settembre-dicembre 2014,​ pp. 43-50​​.

Articolo pubblicato nel febbraio del 2020.




L’Archivio di Paolo Barile

Figura di primo piano del diritto italiano, Paolo Barile (1917-2000) è stato non soltanto un illustre costituzionalista, ma anche un grande intellettuale, un uomo di cultura che fin dai giorni della militanza nella Resistenza e nel Partito d’Azione, e poi lungo più di cinquant’ anni di battaglie politiche e civili, ha fatto sentire la propria voce anche al di fuori dell’ambito strettamente giuridico di competenza, partecipando attivamente al dibattito politico-istituzionale e vivendo la propria carriera di magistrato, avvocato, docente universitario con uno spiccato senso di responsabilità civile.

Nato a Bologna nel 1917, Barile studia a Roma dove si laurea nel 1939 in giurisprudenza con Giuseppe Messina. Nel 1941 vince il primo posto del concorso in Magistratura ordinaria e prende servizio nel 1943 presso il Tribunale militare di Trieste, per poi passare a quello di Firenze e in seguito a quello di Pistoia. Dopo aver aderito nel 1941 al movimento liberalsocialista, nel 1943 entra nel Partito d’azione e, tornato a Firenze dopo l’8 settembre, partecipa attivamente alla Resistenza. Tra i dirigenti del Comitato militare del Comitato toscano di liberazione nazionale, nel novembre è catturato insieme agli altri membri del Comitato militare dalla polizia di Mario Carità; torturato e portato in ospedale per una pugnalata alla testa, è reclamato dal comando tedesco e trasferito nel carcere militare della Fortezza da Basso. Nonostante le insistenti richieste di fucilazione avanzate dai fascisti, i prigionieri sono rilasciati con l’obbligo di presentarsi settimanalmente; a questo punto Barile entra in clandestinità e nel maggio 1944 riprende la sua attività nella Resistenza fiorentina. Dopo la Liberazione è chiamato da Piero Calamandrei a lavorare nel suo studio e nel 1947 si dimette dalla magistratura per cominciare la libera professione di avvocato, che porterà avanti per decenni con il suo rinomato studio professionale. Inizia anche la carriera accademica: diventa assistente di Calamandrei all’università, consegue la libera docenza in Diritto costituzionale e in Istituzioni di diritto pubblico, dal 1954 ottiene la cattedra di Istituzioni di diritto pubblico all’Università di Siena e dal 1963 ricopre quella di Diritto costituzionale presso l’Università di Firenze, presso cui insegnerà fino al 1992. La sua carriera culmina con la carica di ministro per i rapporti con il Parlamento ricoperta nel governo Ciampi tra il 1993 e il 1994. Muore nel 2000 a ottantatré anni.

L’archivio di Paolo Barile è stato donato nel 2013 da Stefano Grassi (avvocato, docente universitario, stretto collaboratore di Barile), che ne era entrato in possesso dopo la morte del giurista, all’Istituto Storico Toscano della Resistenza e dell’Età contemporanea, di cui Barile stesso era stato uno dei fondatori nel 1953 e presidente nel 2000 per pochi mesi prima della morte.

Il fondo è stato condizionato, ordinato ed inventariato, e dopo alcuni anni di lavoro è finalmente a disposizione degli studiosi. Al termine dell’intervento consta di più di 1200 fascicoli, contenuti in 250 buste circa, ed è articolato in 12 seguenti serie. L’arco temporale si estende dal 1960 al 2000 (con una sottoserie contenente esemplari a stampa di scritti di Barile dal 1944): purtroppo la maggior parte dei documenti antecedenti al 1966 è andata distrutta con l’alluvione di Firenze.

Nell’impossibilità di dare conto in dettaglio, in queste poche righe, del contenuto di ciascuna serie, proviamo a mettere in evidenza le potenziali ragioni di interesse per gli studiosi. L’archivio contiene corrispondenza, appunti, schemi e bozze degli scritti, ritagli stampa, opuscoli, materiale vario accumulato dal soggetto produttore nel corso della sua attività di professore universitario, di consulente, di ministro, insomma moltissimo materiale di studio relativo alle questioni di volta in volta trattate nell’ambito dei diversi incarichi. Gli scritti di Barile – riuniti sostanzialmente in tre serie, contenenti articoli in periodici specializzati e non, monografie, saggi, voci per enciclopedie, interventi a convegni e conferenze, interventi per trasmissioni radiotelevisive, pareri e audizioni per enti diversi – costituiscono una raccolta quasi completa della sua intensa produzione: dunque, anche se per la maggior parte editi, il loro valore risiede proprio nel fatto di permettere, nel loro complesso, di seguire l’evoluzione del pensiero del giurista, e in particolare la sua riflessione sui diritti di libertà. Allo stesso tempo, consentono di studiare, ripassare o approfondire numerosi argomenti inerenti alle fasi e alle modalità di attuazione della Costituzione, al percorso compiuto dai diritti nella storia dell’Italia repubblicana, a questioni politiche ed etiche che hanno animato il discorso pubblico. Anche altre serie possono richiamare l’interesse di studiosi del diritto e di storia contemporanea; ad esempio la consistente raccolta di ritagli stampa offre una carrellata di articoli di autori diversi su temi e vicende ampiamente dibattuti, come la legge sul divorzio, la legge 194, i rapporti tra Stato e Chiesa, il ruolo della magistratura, il rapporto tra poteri dello Stato, l’istituto del referendum.

Il materiale epistolare è per la maggior parte di tipo organizzativo; si trova in particolare in tre serie costituite da fascicoli per lo più tematici, che quindi riuniscono anche appunti, scritti, periodici e materiale di studio, e in una serie dedicata alla corrispondenza di tipo più personale, che contiene scambi epistolari con personalità anche di spicco del panorama giuridico, politico, intellettuale, principalmente nazionale. Pur nella netta predominanza del profilo pubblico rispetto a quello privato, la corrispondenza fa luce sulla personalità del soggetto produttore, sui suoi interessi, sul suo universo di valori, sulla sua fittissima rete di relazioni all’interno della società civile e di vari contesti politici e culturali.

Nel suo complesso, e in modo complementare ad altri fondi di giuristi conservati presso istituzioni giuridiche e universitarie, il fondo Barile può interessare un bacino di utenza non strettamente limitato al diritto costituzionale, supportando percorsi di ricerca su aspetti diversi della storia politica, istituzionale, sociale e culturale del nostro Paese nella seconda metà del secolo scorso.

Articolo pubblicato nel gennaio del 2020.




Memorie del ’73: Livorno a fianco del popolo cileno

Il colpo di stato in Cile dell’11 settembre 1973, che portò alla tragica morte del presidente Salvador Allende e all’instaurazione del regime militare del generale Augusto Pinochet, attivò una delle più straordinarie mobilitazioni di solidarietà per un fatto di politica estera nel mondo, con l’Italia in primo piano nell’accoglienza dei rifugiati cileni. Secondo i dati dell’Istituto Cattolico per le Migrazioni su una popolazione di 13 milioni, circa un milione di cileni fu costretto ad abbandonare il paese per ragioni politiche a causa della dura e massiccia repressione inaugurata dal regime. L’interessamento italiano agli affari cileni fu, ancor prima del golpe, di carattere eminentemente politico e ad esso contribuirono in maniera rilevante gli intensi rapporti fra i partiti della sinistra cilena e di quella italiana. Per questo appare interessante l’atteggiamento tenuto in quella vicenda da una “città rossa” per antonomasia come Livorno.

La raccolta di alcune testimonianze orali di ex militanti e amministratori comunisti e i ricordi personali di uno degli esuli cileni che furono accolti a Livorno all’indomani del colpo di stato hanno consentito di mettere in luce aspetti dell’opera svolta dalla società civile e dal Pci nell’organizzare pratiche di solidarietà in favore dei rifugiati cileni.

Il punto di partenza di questa ricerca è un ex cinema di Livorno dove il nostro testimone cileno, Rafael Aguirre, si ritrova ogni settimana insieme ai suoi compagni del coro per provare.

Dopo poco i coristi decidono di preparare per la prossima esibizione “El pueblo unido jamás será vencido”, una delle più note canzoni legate alla presidenza di Salvador Allende (1970-1973) e al movimento di Unidad Popular.

IntiQuesta canzone è più attuale che mai: recentemente la tensione tra la popolazione civile cilena e le forze armate è sfociata in violenze che ricordano il passato e in migliaia sono scesi in strada a Santiago in segno di protesta intonando questo inno alla resistenza. Perché l’impatto emotivo suscitato da questo brano è ancora così forte? Cosa ha rappresentato per la generazione di cileni che ha vissuto il ‘73? E dalla prospettiva dei comunisti italiani cosa ha significato?

Come ricorda Mauro Nocchi, storico militante comunista di Livorno, l’esperienza della «via cilena al socialismo», sperimentata per la prima volta nella storia dal presidente democraticamente eletto, Salvador Allende, fu salutata dai comunisti italiani con grande entusiasmo:

Era un’esperienza importantissima, per noi rappresentava l’applicazione concreta di quello che già Togliatti aveva teorizzato nell’VIII Congresso (del Pci) fino alla morte, che era la «via italiana al socialismo». L’unità popolare era il fulcro di questo tentativo di trasformazione della società.

Tra i vari provvedimenti previsti dal progetto di riforma di stampo socialista cileno vi era anche il proseguimento della riforma agraria, che era già stata avviata dal governo precedente, guidato dal democristiano Eduardo Frei Montalva e che aveva portato alla nazionalizzazione di numerosi latifondi e a svariate occupazioni di terreno (“tome”). Il 3 novembre 1970, in un clima di fermento popolare, anche la famiglia di Rafael Aguirre, ottenne un piccolo appezzamento di terreno; da quel momento la sua vita inizierà ad intrecciarsi in modo indissolubile con l’esperienza allendista.

Dal 23 giugno 1973, data in cui avviene il primo tentativo fallito di golpe conosciuto come il “Tanquetazo”, si profila una minaccia concreta all’assetto democratico del paese. Successivamente a questo evento Aguirre (insieme ad altri cinque compagni che faranno parte del gruppo di rifugiati politici a Livorno) entra in contatto con le milizie di protezione di Allende, il cosiddetto «Grupo de amigos del Presidente» (Gap) e viene portato in incognito alla scuola di addestramento paramilitare presso la località montana di Cañaveral:

Noi eravamo lì da circa dieci giorni quando è iniziato il golpe. Quella mattina (11 settembre ‘73) ci hanno avvisato che i militari si erano sollevati a Valparaiso, di Santiago ancora non sapevamo niente; ci hanno dato delle armi e ci hanno mandati alla casa privata di Allende, in Tomás Moro. Quando siamo arrivati lì Allende era già partito per la Moneda, era rimasta la moglie, “la Tencha”, con le figlie. Quando iniziarono i bombardamenti, alcuni compagni del Gap portarono via i familiari del Presidente. Circa a quattro o cinquecento metri dalla casa c’erano i militari. Noi eravamo disposti a difendere il governo. Il combattimento non è durato molto, ma abbiamo resistito, i militari provarono ad entrare, ma non ci riuscirono. Io sono stato colpito da alcune schegge alla testa, il taglio più grande era quello al costato, senza conseguenze per fortuna. Abbiamo dovuto lasciare le armi e siamo scappati […] Bisognerebbe cominciare a prepararsi prima e non all’ultimo momento quando le cose precipitano. Forse è stato quello lo sbaglio dell’Unidad Popular e dei partiti di sinistra.

Una delle prime zone che perquisirono [i golpisti] fu il quartiere dove abitavamo noi, Lo Hermida, con un dispiego di forze enorme, c’erano i carri armati in strada […] Per più di una settimana non ho visto i miei compagni, cambiavo sempre casa e cercavo di evitare le pattuglie dei militari […] Durante quel periodo, durato almeno un mesetto, ci vedevamo sporadicamente e scappavamo per salvarci la pelle. Non sapevamo se i nostri nomi erano caduti nelle mani dei militari o no, di quelli che avevano occupato il Cañaveral, non sapevamo se i dirigenti erano riusciti a salvare i nostri documenti.

E aggiunge che negli anni seguenti:

a mano a mano venne pubblicato l’elenco con i nomi delle persone che non erano più ricercate [dalla Junta Militar]. Il mio nome faceva parte della lista. Era una lista enorme.

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“Il Telegrafo” di Livorno, 13 settembre 1973

Il golpe cileno segnò profondamente la società civile italiana, già di per sé inquieta e profondamente politicizzata, ma resa ancor più ricettiva dai timori di un’involuzione autoritaria del paese. Furono organizzate sin dai primi giorni in diverse città italiane, tra cui Livorno, numerose manifestazioni a sostegno del popolo cileno. Il quotidiano di Livorno “Il Telegrafo” in data 13 settembre ’73 riporta la notizia di reazioni di ferma protesta per il golpe cileno in tutti gli ambienti politici e sindacali cittadini, ma anche di astensioni al lavoro in segno di solidarietà con il popolo cileno e di una manifestazione unitaria presso il teatro “4 Mori”. Anche le parole di Mauro Nocchi ritraggono una città profondamente solidale:

Alcuni giorni dopo il golpe si organizzò al Goldoni un concerto con gli Inti-illimani (gruppo musicale andino n.d.a.). Questa fu la prima cosa che si fece. Con le canzoni che cantavano avevano già la linea politica.

Queste azioni di solidarietà si fondavano su valori condivisi da una parte consistente della società italiana, di giustizia sociale e antifascismo, proprio come testimonia il sindacalista della Cgil, Bruno Picchi:

I lavoratori si ritrovarono in Piazza della Repubblica […] C’era la consapevolezza di cosa significasse quel gesto. C’era tensione, nel senso di dover difendere i valori che ci avevano lasciato i nostri padri.

Intanto si diffondono le prime notizie delle terribili violenze subite dagli oppositori politici del regime di Pinochet. A livello istituzionale, l’Italia non riconosce il nuovo governo cileno.

Sempre Nocchi ci fornisce un’importante testimonianza riguardo alle azioni di protesta contro il regime:

Venne fuori l’idea di non far giocare la coppa Davis in Cile come atto di protesta. Io mi ricordo feci un manifesto, c’era lo stadio di Santiago con i prigionieri e la polizia che li sorvegliava con scritto sotto: “non si gioca nei lager”

Il Pci si impegnò in una mobilitazione organizzativa e propagandistica senza precedenti per un fatto di politica estera. La stampa di partito fu letteralmente tappezzata da notizie provenienti dall’America Latina a partire dall’autunno del 1973, in modo da fare del golpe che aveva affossato la democrazia cilena un motivo di discussione con l’intento esplicito di creare un clima utile al rilancio del Pci e della sua strategia.

L’allora segretario di partito Enrico Berlinguer, assieme ad altri dirigenti, aveva compreso già da tempo che l’«immobilismo dignitoso» in cui stagnava il partito non poteva più continuare. Il golpe cileno fece da catalizzatore, infatti a un mese da questo tragico evento Berlinguer decise di pubblicare una serie di articoli sulla rivista «Rinascita», nei quali espose l’idea del «compromesso storico» fra i principali partiti di sinistra: Pci, Dc e Psi, per impedire che l’Italia fosse colpita dallo stesso destino.

Dal punto di vista di Picchi la proposta di Berlinguer significava:

Ricercare nell’avversario di sempre le migliori forze, le migliori energie, per rafforzare la democrazia e una politica che fosse utile ai più deboli.

Per Daniela Bertelli (militante del Pci di Livorno):

Fu un fenomeno che portò ad un ripensamento sulla linea del Pci e non ebbe scarsa influenza sulla nostra politica […] Io ho creduto nel compromesso storico. Il discorso della differenza, che è un punto forte del femminismo italiano, per me era molto presente come modo di stare nel mondo. Questo perciò mi faceva anche essere aderente ad un tipo di impostazione come quella del compromesso storico.

Nel frattempo Rafael Aguirre, insieme ai suoi cinque compagni (e a molti altri oppositori di sinistra), decide di mettersi in salvo saltando il muro dell’Ambasciata italiana a Santiago, in modo da sfuggire alla spietata “caccia all’uomo” che si stava svolgendo all’esterno.

Quando eravamo all’Ambasciata i familiari passavano di fronte al cancello, noi li vedevamo, ma non potevamo dire niente, perché c’era sempre una pattuglia di militari; potevamo solamente mandare delle lettere alla famiglia tramite i funzionari del Consolato.

Dopo alcune settimane, Aguirre ed altri rifugiati ottengono il salvacondotto ed hanno circa 24 ore di tempo per abbandonare definitivamente il paese; grazie ai voli umanitari organizzati dall’ONU raggiungono Roma il 23 dicembre 1973 dove vengono in un primo momento accolti presso l’hotel Imperator, che era uno degli alloggi messi a disposizione dalla città capitolina per ospitare gli esuli cileni.

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La scheda di un esule cileno (Archivio Istoreco, Livorno)

Il palazzo romano di largo Torre Argentina diviene la sede dell’associazione “Italia-Cile” e dell’organizzazione internazionale “Chile Democratico”; in poco tempo Roma si trasforma nel maggiore centro propulsore, su scala internazionale, della massiccia azione di sostegno alla causa cilena.

Nel marzo del 1974 ad Aguirre e ad altri cinque compagni viene assegnata come città ospitante Livorno, partono quello stesso mese alla volta della città toscana. Solo nell’agosto del 1974 viene raggiunto dalla moglie Lina e dai figli, il ricongiungimento familiare era stato possibile grazie alla richiesta avanzata da Aguirre alla Croce Rossa internazionale presso l’Ambasciata italiana a Santiago.

Come testimonia Nocchi:

Alcuni cileni vennero anche a Livorno. Noi li aiutavamo come potevamo, alcuni trovarono lavoro nelle cooperative, poi piano piano si sono dispersi, c’è chi si è sposato, chi è tornato in Cile; poi nel tempo non li conosci più come cileni, sono livornesi […]

Inoltre, ci tiene ad evidenziare che:

Tutti i cileni che venivano stavano zitti. Erano talmente allibiti, addolorati da quello che era successo in Cile, che non se la sentivano di parlare. Sembra un po’ quello che accadde agli ebrei che tornarono dai lager nazisti.

Questo silenzio durato ben 46 anni che viene interpretato da Nocchi come reazione ad un sentimento di vergogna e sdegno per quanto accaduto, a mio avviso, può essere letto in parte anche come la conseguenza del sentimento di paura che, come affermato in un suo intervento dall’ex ambasciatore italiano Enrico Calamai dopo le sue esperienze in Argentina e in Cile durante gli anni Settanta, lascia tracce profonde anche a distanza di anni.

Questa testimonianza, come molte altre raccolte in questi anni da altri studiosi, è una memoria traumatica; un indicatore di questa sofferenza è il documento rilasciato dall’Ambasciata italiana a Santiago al nostro testimone, il quale successivamente deciderà di strapparlo. Oggi più che mai, è necessario rimettere insieme i pezzi di quel documento e ricomporre quella storia fatta di violenza e di nostalgia, ma anche di solidarietà e vicinanza.

Articolo pubblicato nel gennaio del 2020.




Migrazioni sarde e circoli tra Siena e Toscana

L’Italia, come nazione dai forti tratti regionali e dalla intensa attività migratoria, ha sviluppato nel tempo delle catene di rappresentanza degli emigrati all’estero. A New York o a Sidney sono nate intorno alle ambasciate o ai centri culturali, o per conto proprio, associazioni di aiuto e di rappresentanza regionale all’estero. Eoliani, molisani, ma anche laziali, veneti, piemontesi, ogni area regionale ha visto nascere associazioni che spesso hanno siti e si ritrovano on line. Così è avvenuto anche per l’emigrazione sarda. La pagina “Sardegna migranti – Regione Sarda” mostra una mappa di sardi e di circoli in America ed Europa e Australia assai fitta.

Per ciò che riguarda l’emigrazione italiana in Italia centrale e la relativa nascita dei circoli occorre riconoscere una particolarità e cioè che – a parte gli storici circoli dei sardi a Roma – essa è legata in modo significativo al fenomeno della migrazione dei pastori tra gli anni ‘60 e ‘80 del Novecento. Infatti approfittando della situazione favorevole per via dell’abbandono delle campagne nell’Italia centrale da parte dei mezzadri, e la crisi di quel tipo di agricoltura, molte famiglie di pastori della Sardegna interna hanno affittato la terra e si sono trasferite con greggi, cani e bambini in Continente.

La sollecitazione a partire veniva dalla storica assenza di proprietà terriera pastorale in Sardegna, dove le aziende erano caratterizzate dalla continua ricerca di pascoli e da un pesante nomadismo. E veniva qualche volta anche dal disagio di situazioni locali fortemente caratterizzate da storiche faide familiari. Nel tempo anche in Sardegna sono state realizzate aziende pastorali moderne con proprietà della terra con l’espansione dei pastori verso il Campidano e il progressivo acquisto dei pascoli. Ma i primi successi della nuova azienda pastorale, in provincia di Siena, si sono avuti nell’area della agricoltura ex mezzadrile e nelle zone più scabre e inadatte alla agricoltura vera e propria, dove i pastori sardi si sono insediati in zone come le Crete senesi, in aree interne del Monte Amiata, ma anche in classiche zone di piano-colle mezzadrile come la Val di Chiana e la Val d’Arbia.

Questa colonizzazione è stata positiva sia per i sardi che per l’agricoltura toscana. L’emigrazione, difficile per lo sradicamento sociale e culturale, ma di successo imprenditoriale, ebbe dei problemi di immagine per l’incontro di tradizioni e culture diverse, ma anche per il verificarsi di casi di sequestro di persona che avevano utilizzato la nuova rete insediativa pastorale. Il Circolo dei sardi Peppinu Mereu (un poeta popolare sardo, morto assai giovane) nacque nel 1985 per dare una risposta alla difficoltà di ambientazione dei migranti e per affermare l’onestà e la laboriosa vita produttiva dei pastori, contro l’immagine che rischiava di affermarsi a causa di alcune frange delinquenziali. Il primo presidente, Pietro Siotto di Orune, era pastore e poeta in ottave.

Negli anni ’80 una attenzione al fenomeno venne dalla Regione Toscana, che promosse a Siena una Conferenza dell’Agricoltura che mostrò l’importante ruolo nel PIL agricolo della pastorizia sarda. Inoltre nel tempo il pecorino toscano, prodotto con il latte di pecore sarde, fu riconosciuto come prodotto DOP, con uno straordinario e felice ibridismo culturale. Il Circolo di Siena accomunò vari aspetti dell’emigrazione sarda, tra questi anche i professori e gli studenti universitari. Vi ebbe un ruolo importante Luigi Berlinguer, docente e poi Rettore a Siena, che era stato anche consigliere regionale per la Toscana. Il Circolo entrò nella FASI, la rete nazionale dei circoli sardi , e quindi ebbe il riconoscimento e un contributo da parte della Regione Sardegna per le spese finalizzato alla valorizzazione della cultura sarda. Negli anni ‘90 venne avviato anche un programma di iniziative culturali finalizzato alla valorizzazione degli scrittori sardi, ma anche dei vini e dei prodotti della gastronomia. L’emigrazione sarda aveva anche favorito la creazione di un piccolo universo di allevatori di cavalli e di fantini che entrarono nel quadro della vita del Palio e delle contrade di Siena dove sono ancora ben radicati. Fantini e cavalli sardi (ben oltre il famoso ‘Aceto’) sono ancora all’ordine del giorno nei Palii passati e futuri. Il circolo serve anche a restituire una immagine di autonomia e di non-subalternità della cultura sarda, della sua storia, della sua letteratura ed arte.

Nel panorama dei circoli regionali Firenze, con l’ACSIT (Associazione Culturale Sardi in Toscana), ha un ruolo importante per fare rete. A Firenze ci sono state mostre importanti sull’archeologia nuragica, concerti ed eventi culturali. Così la grande stagione del romanzo sardo, avviatasi dopo gli anni ’80 e ancora assai viva, ha visto autori e libri presentati nella rete dei Circoli. Negli ultimi anni è stato dato rilevo alla valorizzazione di Emilio Lussu, (figura centrale della Sardegna del ‘900) e del suo ruolo nella elaborazione costituzionale delle autonomie. Sempre nel 2019 si è evidenziato il contributo degli emigrati sardi alla Resistenza in Toscana, ma anche nell’Italia del centro-nord.

I Circoli hanno acquisito dimensioni che vanno oltre l’incontro nostalgico con il cibo e il ballo tradizionale, cercando di essere ambasciatori di una cultura regionale dinamica cui gli emigrati continuano a dare un contributo.

Negli anni ‘80 la Provincia di Siena promosse una ricerca sull’immigrazione dei pastori sardi, che fu condotta dall’Università e diretta dal Prof. Pier Giorgio Solinas, docente di Etnologia a Siena. Questa ricerca raccolse storie, vissuti, innovazioni sociali e culturali di questo mondo innestato nella cultura toscana. Si trattava allora di circa 1000 famiglie. Nel 1998 una indagine di Famiglia cristiana, parlava di 2000. In quegli anni una indagine del sociologo Benedetto Meloni approfondì questi temi, mentre anche in Sardegna nascevano studi sulle nuove forme del pastoralismo[II].

Il Circolo di Siena vorrebbe rinnovare quella indagine per vedere come si è evoluto quell’insediamento e come ha funzionato nel passaggio delle generazioni. Nel 2019 anche in Toscana il mondo pastorale di origine sarda ha segnalato il proprio disagio riguardo il prezzo del latte aderendo alle manifestazioni promosse in Sardegna, ed ha avuto il drammatico onore delle cronache per alcuni assalti alle greggi da parte di lupi o di cani inselvatichiti. Un mondo aperto e dinamico , sul quale dopo ormai 60 anni sarebbe utile fare un bilancio e un aggiornamento: forse oggi sono i Circoli a potere essere protagonisti dello studio della propria storia vicina sulla nuova terra della loro vita. La Toscana dove sono nati figli e nipoti. Toscani a tutti gli effetti.

Note
[I] Immagine tratta da «Famiglia Cristiana», 7, 1998.
[II] Ρ. G. Solinas, Pastori sardi in provincia di Siena, Laboratorio Etno-Antropologico, Dipartimento di filosofia e scienze sociali, Siena 1990, 3 voll.; A. G. Murru Corriga, Dalla montagna ai campidani, Edes, Sassari 1990; B. Meloni, Pastori sardi nella campagna toscana, in «Meridiana», 25, 1996.

Articolo pubblicato nel dicembre 2019.




«…tutto era cambiato, ma come fosse cambiato era tutto assolutamente da vedere…»

Con questa intervista a Giuseppe Matulli, Presidente dell’Istituto Storico Toscano della Resistenza e dell’Età contemporanea di Firenze, si apre su Toscana Novecento la nuova rubrica dedicata alla Storia e alla Memoria della “caduta del Muro” (https://www.toscananovecento.it/custom_type/una-nuova-rubrica-di-toscananovecento/). Un percorso di approfondimento e riflessione pensato in occasione del trentesimo anniversario del crollo del Muro di Berlino che proseguirà nei prossimi mesi con la pubblicazione di altre interviste a personalità politiche, sindacali, culturali toscane che di quell’evento furono testimoni e, nei loro contesti di riferimento, a loro modo protagonisti.

 

[Avvertenza: nel trascrivere l’intervista si è cercato di mantenere il più possibile inalterato nei suoi aspetti formali ed espressivi il discorso parlato. Ove necessario, a scopo di chiarificazione si sono inseriti fra parentesi quadre brevi indicazioni e aggiunte al testo, rinviando invece ulteriori interventi di commento o spiegazione nelle note a piè di pagina. L’intervista è stata registrata il giorno 26 novembre 2019 presso l’Istituto Storico Toscano della Resistenza e dell’Età contemporanea di Firenze]

D. Presidente Matulli, può dirci intanto brevemente, lei che ruolo aveva nel 1989? Quali attività professionali e politiche svolgeva o aveva svolto sino ad allora?

R. Io mi sono occupato di politica fin da giovanissimo, militando nelle file della Democrazia Cristiana. Ero già stato vicesindaco del mio comune, Marradi, e consigliere regionale, eletto nel 1970 nella prima legislatura regionale. Fui poi eletto in Parlamento, nel 1987, dove sono rimasto fino al 1994. Dunque, nel 1989 ero parlamentare della DC[1].

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Giuseppe Matulli al tempo della sua deputazione parlamentare per la DC nella X e XI Legislatura (fonte:Wikipedia)

D. Presidente, come ha vissuto gli eventi che hanno portato alla caduta del Muro, il 9 novembre 1989? Aveva la percezione che qualcosa di quella portata potesse accadere? O invece è stato qualcosa di inatteso? Che emozioni e riflessioni le ha suscitato quell’evento? E inoltre, che tipo di impatto quei fatti ebbero sul piano politico, rispetto al suo ruolo e al partito cui apparteneva, ma anche nel suo contesto territoriale di riferimento?

R. La caduta del muro…quell’evento in realtà ci prese di sorpresa. Cioè, si capiva benissimo in quel periodo che la situazione si andava trasformando…sotto gli effetti della Glasnost’ e della Perestrojka avviate da Michail Gorbačëv[2]…ma il tipo di evento, per la sua portata e significato, lasciò scioccati tutti…c’è un episodio a tal riguardo particolarmente rivelatorio, che mi ricordo…quando De Mita era Presidente del Consiglio e fece un viaggio in Russia[3] prima della caduta del muro, si ebbero alcuni cenni di tensione con il nostro ambasciatore a Mosca, Sergio Romano, perché – almeno così pare – questi non ravvisava concretamente il segno di una radicale trasformazione in corso…riteneva che si trattasse [in riferimento alle politiche di ristrutturazione di Gorbačëv] prevalentemente di propaganda, senza nulla di sostanziale sotto…e quando De Mita gli chiese da cosa traeva queste conclusioni gli rispose che era la storia della Russia che gli faceva capire queste cose qui…evidentemente non aveva capito granché…le cose poi avrebbero rivelato tutt’altro…ma ciò è significativo del fatto che allora c’era questo processo difficile da decifrare…quali sarebbero state le conseguenze…

…certo qualcosa di nuovo c’era rispetto…non dico a Brežnev, ma anche rispetto ad Andropov o al suo successore[4]…ma non si riusciva a capire come si sarebbe risolto…quindi, la caduta del muro fu una sorpresa…che fu una sorpresa allora poi lo si vede anche nelle ricostruzioni del tempo…si pensi alla famosa domanda che il giornalista dell’Ansa rivolse alle autorità di Berlino est: “se è possibile [attraversare la frontiera], ma allora da quando è possibile?”…la risposta data dalle autorità fu addirittura sorprendente: “ci risulterebbe fin da questo momento”[5]…fu lì che esplose tutto, di fronte alle autorità tedesche dell’Est che praticamente dichiaravano il muro non più esistente, comunque non più una frontiera…

Ma come la vivemmo noi, in Italia…come un fatto che, in parte, era la conseguenza logica di quello che stava avvenendo con la presidenza di Gorbačëv…ma era una conseguenza logica difficile da prevedere, perché se era logico il movimento che veniva fuori…era difficile prevedere che le cose andassero così…erano movimenti, come dire, misteriosi, in un mondo altrettanto misterioso in cui si era visto di tutto…si era visto la Primavera di Praga, poi si era visto l’invasione…eran tutti colpi di scena che non consentivano, o almeno a noi, non consentivano di fare una valutazione…e quindi…si rimase così…sicuramente però fu un fatto enorme.

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12 novembre 1989. Achille Occhetto, segretario generale del PCI, intervenendo al rione Bolognina annuncia la “svolta” del partito che porterà poi nel febbraio 1991 al suo scioglimento (fonte: Wikipedia)

Naturalmente, cosa significava qui da noi, a livello locale, la caduta del muro…a livello locale, allora, il rapporto fra parlamentare e territorio era molto stretto, era difficilissimo passare un fine settimana senza avere un paio di incontri…ed era molto interessante andare a riflettere con la gente di questi avvenimenti, con tutte le incertezze…era sicuramente un fatto molto importante, talmente importante che poi qualche giorno dopo arrivò la Bolognina[6]….e ricordo che in Parlamento, una volta, mentre partecipavo ai lavori di una commissione, mentre si stava organizzando il calendario, dissi rivolgendomi a un collega: “voi del gruppo comunista…”. “Ma come” [mi sentii rispondere] “ma ci chiami ancora comunisti?!”…ma erano passati appena pochi giorni [dalla Bolognina]!!…[ilarità]…ecco c’era questa sensazione stranissima, ma non era una sensazione, che so io, che avesse dei connotati precisi…era una sensazione che tutto era cambiato, ma come fosse cambiato era assolutamente tutto da vedere…naturalmente, in periferia e in questi incontri, appunto…era molto interessante seguire i dibattiti, non solo per quanto mi riguarda nelle sezioni locali della DC, ma io ricordo di aver dibattuto molto con il segretario [regionale toscano del Partito Comunista Italiano], anche lui deputato, [Giulio] Quercini[7]…e gli dissi “d’accordo avete cambiato nome, ma avete aspettato che crollasse l’Unione Sovietica, o almeno che crollasse il muro”…sì, è vero…c’era questa sensazione di grande cambiamento…

Le conseguenze erano sicuramente rilevanti…io ricordo, come una mia impressione…non so se in occasione di una qualche ricorrenza della caduta del muro o di lì a poco nei primi anni Novanta…a me fece in qualche modo sorridere che la DC tirò fuori in quella particolare occasione un manifesto, facendo riferimento alla battaglia politica del 1948, un manifesto titolato “18 aprile 1948 dalla parte giusta” che era il modo più stupido di fare una cosa di questo genere[8]…che nel 1948 tu fossi stato dalla parte giusta lo dimostra ancora il fatto che ai primi anni Novanta eri ancora lì…ma non è che nei primi anni Novanta puoi avere vantaggio da una scelta fatta cinquant’anni prima…dà la sensazione di gente che pensava a una continuità che non ci poteva più essere…ma ecco, a parte questo, la percezione che non poteva più esserci la continuità, nel 1989, c’era…al punto tale che io qualche anno dopo partecipai a un seminario che fece a Berlino la Fondazione Adenauer sul processo di unificazione tedesca… qui siamo già successivamente al 1989, quando prese corpo il processo di unificazione tedesca….ma anche la partecipazione a questo seminario mi fece toccare con mano cose imprevedibili…

mi ricordo, a parte l’interesse di andare a vedere cosa accadeva là……ci portarono a vedere le vecchie zone della Germania dell’Est, Berlino Est…ma la cosa che mi fece più impressione, e che credo sia un fatto piuttosto significativo, è che…intanto la sensazione che si dice anche adesso, ma che non poteva essere che così…è stata un’unificazione o è stata un’annessione? Non poteva che essere un’annessione, perché la forza di quell’altra parte era crollata e quindi era inevitabile che succedesse questo…ma, tipico dei tedeschi – [perché] noi non saremmo mai riusciti a fare una cosa di questo genere – noi andammo a vedere l’esercito…l’unificazione dell’esercito era emblematica del sistema…tutti i corpi avevano il doppio comando…dall’inizio fu fatto così…un battaglione, una divisione eccetera era governato non da uno ma da due generali, uno di qua e uno di là [uno della Germania Ovest e uno della Germania Est]…due colonnelli…era tutto doppio, io rimasi allibito…è proprio la razionalità tedesca, per un certo periodo…non si fa la rivoluzione ma si fa l’unione, così si mettono tutti e due…vanno avanti alcuni mesi, dopodiché quelli della Germania dell’Est, ovviamente, vengono mandati in pensione, non è che vengono degradati o puniti…ecco…il fatto di vedere queste cose, in cui si vedevano due colonnelli che parlavano dell’unificazione delle forze armate era un fatto…che faceva un certo effetto.

Io per come la ricordo ora, almeno, fu proprio la sensazione di un enorme cambiamento, di questa vicenda incredibile dell’unificazione tedesca…anche un certo entusiasmo, il fatto che lo si considerava un fatto molto positivo…era la fine della guerra…la vera fine del dopoguerra…peraltro metteva in luce…la famosa battuta di Andreotti “ho tanta simpatia per la Germania che ne preferisco vedere due”[9]…che è una battuta…ma questo è un discorso che faccio ora naturalmente, e che non facevo allora…ma è una battuta significativa…a me viene in mente [per contrasto] Alcide De Gasperi…parlo di lui perché, per l’appunto, ho avuto recentemente la possibilità di studiarne aspetti di questo tipo[10]…quando De Gasperi è Presidente del Consiglio in Italia nel 1945…naturalmente il paese allora era del tutto isolato…lui approfitta immediatamente del fatto che i francesi, i quali erano e si consideravano – per certi aspetti anche meritoriamente nonostante il fatto che [nel 1940] fossero stati spazzati via immediatamente dai tedeschi – loro si consideravano gli unici vincitori continentali…e cosa succede, quando gli americani si organizzano con la cortina di ferro, si organizzano nel punto che loro ritenevano più delicato, cioè la barriera tedesca, e quindi…allora i francesi avevano tutto l’interesse per dire…guardate che la cortina di ferro arriva fino all’Italia…e quindi avere un fronte meridionale che fosse un po’ più importante…dunque dicevo, agevolato anche dal fatto che De Gasperi era persona stimata, peraltro era molto amico di Bidault[11] sul piano personale, e allora fecero subito…perché il primo uomo di stato che venne in Italia nel 1948 fu Bidault, il primo accordo internazionale che fece l’Italia fu l’unione doganale con la Francia, che non era cosa banale per rimettersi in moto…però…De Gasperi aveva anche questa caratteristica, un po’ perché era realista e sapeva che l’Italia non poteva andare a dettar legge in Europa…e quindi quando i francesi lo cercavano non gli pareva il vero…ma quando però i francesi gli dicono “si può fare tutto quel che si vuole [dell’Europa] ma i tedeschi vanno tenuti fuori”…e lui [De Gasperi] ha il coraggio di dire fin dall’inizio “finché i tedeschi non avranno riacquistato la sovranità piena il dopoguerra non sarà finito”…e il dopoguerra finiva di fatto, appunto, con l’unificazione tedesca…come dicevo prima, il dopoguerra finiva con il crollo del muro…e da lì in poi infatti cambia tutta la politica…

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Il diario di Giuseppe Matulli dei suoi due viaggi compiuti a Praga nel marzo 1989 e nel gennaio 1990, prima e dopo la caduta del Muro di Berlino.

…quanto ci fosse la consapevolezza allora di questo cambio di paradigma, io dubito molto…devo dire a livello personale…dopo che il  Partito Comunista Italiano era diventato PDS…[anche] la DC si trasformò…ritornò ad assumere il nome di Partito Popolare…ecco, quella era una finzione, perché le forze politiche rimanevano le stesse, ma si sentivano talmente inadeguate al loro tempo che cambiavano nome, però era una presa in giro…di se stessi, della storia, dell’opinione pubblica…perché rimanevano sempre quelli…io non partecipai, nonostante allora fossi sottosegretario alla pubblica istruzione, quando durante questo periodo ci fu la formazione del Partito Popolare Italiano, perché la cosa non mi convinceva per due motivi…il primo perché, nonostante il processo fosse guidato da un personaggio che godeva di stima universale quale Martinazzoli[12], il fatto di scegliere il 18 gennaio [1994] come data di fondazione, la stessa data in cui nel 1919 era stato fondato il Partito Popolare, era una cosa ridicola…il fatto poi che il partito era nato nel 1919 dall’appello agli “uomini liberi e forti” di Sturzo[13]….Martinazzoli aveva fatto un appello simile….cioè era uno scimmiottamento di una cosa avvenuta settant’anni prima che aveva del ridicolo, non aveva il senso della storia…naturalmente guardavano al passato…non aveva senso…e questo valeva anche per le trasformazioni del PCI…nelle sue varie metamorfosi…PDS, DS ecc. ecc…sia nell’uno che nell’altro caso, tutto fu fatto sulla base della caduta delle ragioni di contrapposizione fra due formazioni politiche che avevano cambiato nome…fu un processo tutto rivolto a guardare al passato, nel senso però di come rimediare al passato, senza però avere il coraggio di guardare al futuro…c’era quindi sempre questa sensazione che tutto era cambiato, ma che si faceva fatica a capire il cambiamento…

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La delegazione italiana a Praga è ricevuta dal dissidente ceco Jiří Hájek (al centro). Matulli è il primo sulla sinistra (fonte: G. Matulli, Praga prima e dopo…p.8)

Fu più o meno in contemporanea a questo processo che feci l’esperienza di un viaggio oltrecortina, a Praga[14]… l’idea del viaggio fu di Agrusti[15] di approfittare della vacanza del Parlamento per il congresso del PCI[16], siamo nel marzo del 1989, per andare a Praga al processo di appello al drammaturgo Havel[17] e prendere contatto con gli esponenti del movimento di “Charta 77”[18]. Jiří Pelikán che era in Italia[19] e Gilberto Bonalumi[20], un nostro amico ci davano una mano molto preziosa nella preparazione. Andiamo là e…mi ricordo cosa ci disse Hájek[21] che ci ricevette a Praga…ancora non era crollato il muro di Berlino ma era successo quello che era successo anche in tutti gli altri paesi del blocco sovietico…e Hájek ci disse; “certo che avverrà anche qui…[Matulli legge un passo del suo diario]…”sui marciapiedi della via lungo la Moldava dove abitava Havel, Hájek ci dice di non essere pessimista, ma, aggiunge: nei tempi della storia non in quelli della cronaca”…e questo in risposta alle nostre domande che gli chiedevamo cosa stesse succedendo….era significativo…dopo quando lo ritrovammo per il nostro secondo viaggio a Praga [vedi nota a piè di pagina numero 14] e gli ricordammo “ma lei ci aveva detto così…” [alludendo alla previsione rivelatasi sbagliata di  Hájek]…risultò chiaro che era perché nessuno, neppure Hájek poteva immaginare che lo Stato fosse praticamente un castello di carta e che bastasse dire “si vorrebbe” perché crollasse…quindi…io ho vissuto  questa esperienza…

…tutte queste novità, sì, ma si viveva in un’atmosfera talmente diversa che non si riusciva a dire che cosa sarebbe successo…c’era questa grande sorpresa e questa grande difficoltà che ancora oggi stiamo pagando…della incapacità di capire cos’era successo…forse oggi si ha la sensazione che buona parte…anzi…addirittura…noi lo capimmo solo quando si stava per andar via da Praga, per tornare in Italia… persino Jiří Pelikán e il nostro ambasciatore a Praga [Giovanni Castellani Pastoris], che pure tenevano rapporti con Dubček[22] e con Hájek, avevano cioè rapporti col movimento di dissenso al regime…nemmeno loro lo capivano, solo alla fine…cioè che i dissenzienti, che noi nel nostro viaggio a Praga andavamo a trovare nascosti nelle loro case, facendo finta di niente e non dicendo nulla a nessuno [per timore del regime]…e invece noi ci dimostrammo fuori dal mondo, dei “deficienti”…perché loro avrebbero voluto che noi…tre parlamentari italiani, certo non chissà quali autorità, ma comunque…loro avrebbero voluto che noi che si arrivava nella Praga di allora (prima cioè della caduta del muro) avessimo fatto una conferenza stampa con loro…perché questo significava dare forza a loro, far vedere che non erano dimenticati…e invece noi…non avevamo capito assolutamente niente di quello che succedeva là…è una riflessione che ho fatto dopo naturalmente[23]. Al punto tale che poi, al ritorno in Italia, qualcuno che si occupava di politica estera ci aveva detto che questi dissidenti erano velleitari, tanto che si ventilava la possibilità di accordi col regime di Husák, perché questi dissidenti erano dei velleitari…li chiamavano poi infatti “i poeti”…dopodiché, dopo tornati in Italia, i “poeti” invece avevano fatto la rivoluzione e avevano vinto…in questa rivoluzione….che però loro non volevano, giustamente, che si chiamasse “di velluto”…lo sapevano loro che cosa essa aveva significato…sacrifici…in tal senso ci sono anche molti aneddoti che ci raccontarono alcuni intellettuali…ci sono episodi anche carini, simpatici per così dire…ce ne è uno in particolare favoloso…[Matulli si prodiga a ritrovare l’esempio che vuol raccontare nelle pagine del suo diario del viaggio]…c’erano intellettuali che venivano posti [dal regime] a fare lavori non intellettuali perché sennò potevano essere pericolosi…e sicché, c’è il racconto…ecco…[Matulli cerca di ritrovare nel proprio diario il punto in cui si rievocano i casi dei due dissidenti Voclav Benda e Martin Paulosh, entrambi laureati in scienze e filosofia, ma costretti dal regime comunista cecoslovacco a lavorare come fuochisti di una caldaia, non trovandolo cerca di rievocare a mente le parole di Paulosh]: “…per mandare avanti una caldaia eravamo in tre ed avevamo cinque lauree”[24]…è bellissima questa…

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23 marzo 1989: Alexander Dubček (al centro) incontra la delegazione italiana. Matulli è alla sinistra di Dubček mentre alla destra vi sono Agrusti e Castagnetti (fonte: G. Matulli, Praga prima e dopo…p.31)

D. Presidente Matulli, so che lei ha fatto altri viaggi oltrecortina, in Polonia se non erro. Che ricordo ne ha, anche rispetto al ruolo che ebbe in quel contesto il cattolicesimo rispetto ai movimenti dissidenti?

R. Questo è un discorso a mio avviso molto difficile…perché, dunque io sono stato due volte in Polonia, la prima volta mi pare nel 1966 o 1967, poi dopo ci sono tornato qualche anno dopo…e in Polonia, intanto c’è un dato pacifico…la Polonia era un paese cattolico per un fatto nazionale…la religione era più importante della lingua, di tutto, perché si distingueva dagli ortodossi russi e dai protestanti tedeschi…un polacco non poteva che essere cattolico…questo dato identitario ha un’importanza enorme nella gestione del mondo comunista, perché il partito comunista anche nel periodo del potere stalinista non poteva fare a meno di tenere rapporti di un certo tipo con la Chiesa. La cosa singolare è che nella società polacca, e forse non solo nella società polacca, ma almeno lì il dato era evidente, c’erano divisioni…tre gruppi almeno di cattolici polacchi…io ne ricordo almeno due di posizioni più radicali…un gruppo che era praticamente collaborazionista col partito comunista e l’altro, che si chiamava Znac, “Il segno” in polacco…questo gruppo, associazione, pubblicava una rivista dal titolo Tygodnika Powszechnego, in italiano “Settimanale Universale” con sede a Cracovia…a Cracovia io incontrai il direttore Jerzy Turowicz[25] un intellettuale non da ridere, il quale, pur non avendo mai studiato l’italiano ma avendo studiato il francese e lo spagnolo parlava correttamente anche l’italiano…Turowicz, ci diceva che…la censura allora non scherzava…Turowicz…ecco purtroppo questa è una cosa che non si può più accertare…ma Turowicz era molto amico di Papa Wojtyla [Giovanni Paolo II] che allora era arcivescovo di Cracovia…ma Turowicz era un uomo di una laicità straordinaria, tanto è vero che durante il Concilio [Concilio Vaticano II, 1962-65] lui venne a Roma e io lo portai a Firenze, dove fece una conferenza…poi andò a parlare con La Pira [Giorgio La Pira] e quando lo riportai a Roma in macchina lui mi parlò dell’integralismo di La Pira, in termini…cioè, con molto rispetto perché La Pira è La Pira…ma La Pira aveva una visione che era più profetica che politica e quindi…poi La Pira lo dice addirittura nell’intervento alla Costituente, che lo Stato laico non ha nessun senso…e lui invece [Turowicz] era profondamente laico e quindi da questo punto di vista era abbastanza diverso anche da Wojtyla…

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Giiovanni Paolo II durante il suo primo viaggio in Polonia nel 1979 (foto di Barbara Bartkowiak, via Wikipedia Commons – CC)

…io non lo so, l’ho sempre sentito dire…tutti celebrano il peso determinante del papato di Wojtyla [nella caduta del comunismo]…dunque, però io, lo dico molto sinceramente, confesso di non averlo capito questo tipo di meccanismo…certo capisco benissimo che uno va…poi va in Polonia…in Polonia succede quel che succede[26]…ma Solidarnoś[27] succede per effetto del Papa oppure succede per effetto della Storia che crea questo…questa specie di bolla per cui si può essere al massimo cattolici e comunisti, ma non si può essere comunisti…?…cioè…la posizione del comunista anticattolico [in Polonia] è una minoranza estrema, insomma…per cui non lo so…io vedo più il crollo della capacità di [tenuta dell’Unione Sovietica]…

…perché l’Unione Sovietica secondo me…c’è una continuità storica impressionante nella storia della Russia…recentemente ho letto uno studio sui Gulag…i Gulag non sono niente di nuovo, cioè sono quelli che c’erano ai tempi dello Zar…la politica estera, al di là di tutte le affermazioni della Russia come stato guida del comunismo internazionale eccetera…ma anche nella diatriba interna al comunismo sovietico tra Stalin e Trockij… Trockij voleva predicare il comunismo in tutti i paesi del mondo e Stalin fa la politica di potenza, fin da quel momento, e la fa…e tutti gli avvenimenti gli consentono di fare esattamente quello che avrebbe fatto lo Zar…ed è esattamente quello che sta facendo ora Putin…cioè c’è una continuità impressionante…ed è in questa continuità che fallisce…cioè fallisce…ha fatto anche troppo devo dire [Stalin]…ha fatto anche troppo a reggere fin quanto ha retto…però alla fine, gli si è disgregato in mano tutto quanto….quindi in conclusione io credo che sia molto più la inconsistenza delle politiche sovietiche [la ragione del crollo del muro]…anche perché, la Russia è un paese ricco e il comunismo era riuscito a impoverirlo…

…ma forse anche questo è un elemento di continuità…un paese ricco, lo Zar lo gestiva con una mano di ferro da far paura, violentissima…tutta la gestione precedente della storia russa è violentissima…e quindi, cosa faceva [Stalin]…faceva quello che avevano fatto gli altri prima di lui…quel che facevano prima, lui [Stalin] lo faceva in nome del popolo invece che in nome della nazione, dello Stato ecc.…dopodiché, vedere in questo quadro un paese [la Polonia] che emerge all’attenzione mondiale, perché, prima il Papa…e questo Papa che ha anche un suo successo…certo, che si tratta di un fatto psicologicamente, simbolicamente enorme…ma insomma, quando va in Polonia…è un fatto che sicuramente contribuisce, ma contribuisce in una situazione che era già pregiudicata…ma comunque, tornando a Turowicz, questo intellettuale molto avanzato…lui diceva molto chiaramente, il cattolicesimo polacco è stato rinforzato dal comunismo…ma comunque il cattolicesimo polacco è anzitutto un fatto identitario nazionale…lo si vede anche oggi, come si è saldato di nuovo al nazionalismo in quel paese…ma io credo che le ragioni del crollo [del comunismo] siano assai più complesse di quelle legate a questo solo aspetto religioso…

[…]

………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………….

[1] Giuseppe Matulli (Marradi, 5 dicembre 1938), laureato in economia e commercio presso l’Università degli Studi di Firenze, ha svolto per lunghi anni attività amministrativa e politica, rivestendo importanti incarichi sia a livello locale che nazionale. Assessore e vicesindaco del proprio comune di nascita (Marradi) e Presidente della Comunità Montana dell’Alto Mugello, è stato consigliere regionale della Toscana dal 1970 sino al 1987. Sindaco di Marradi dal 1985 al 2002 è stato anche vicesindaco di Firenze dal 2002 al 2009. Esponente della Democrazia Cristiana, ne è stato segretario regionale per la Toscana dal 1983 al 1987. Eletto alla Camera dei Deputati nel 1987 per la X Legislatura e poi riconfermato sempre nelle file della DC alle successive elezioni del 1992, ha rivestito l’incarico di sottosegretario della Pubblica Istruzione nei governi Amato e Ciampi. Nel marzo 2019 è stato eletto Presidente dell’Istituto Storico Toscano della Resistenza e dell’Età contemporanea di Firenze.

[2] Glasnost’ (convenzionalmente, “trasparenza”) e Perestrojka (“ricostruzione”) indicano come noto l’insieme di riforme che caratterizzarono il nuovo corso politico di Mikhail Gorbačëv, ultimo segretario generale del Partito Comunista Sovietico, e che innescarono la catena di eventi che portò alla dissoluzione dell’Unione Sovietica.

[3] Ciriaco De Mita, politico, segretario nazionale della DC e Presidente del Consiglio dal 13 aprile 1988 al 22 luglio 1989. Nell’ottobre del 1988 De Mita, assieme al Ministro degli Esteri italiano Giulio Andreotti, si recò a Mosca in visita ufficiale a Michail Gorbačëv.

[4] Leonid Brežnev, Jurij Andropov e Konstantin Ustinovič Ĉernenko, in ordine i tre segretari generali del Partito Comunista Sovietico prima di Mikhail Gorbačëv.

[5] Matulli si riferisce qui alla famosa domanda che il giornalista italiano dell’ANSA Riccardo Ehrman pose il 9 novembre 1989 nel corso di una conferenza stampa a Berlino Est a Günter Schabowski, portavoce del governo della DDR circa l’entrata in vigore del nuovo regolamento di transito tra le due Germanie; regolamento dibattuto nei giorni precedenti dalle autorità tedesche orientali e nel quale erano contemplate graduali aperture nella legge che impediva l’espatrio ai cittadini della DDR. Al quesito di Ehrman, se cioè il regolamento valesse anche per il transito da Berlino Est a Berlino Ovest e se sì da quando, Schabowski rispose inavvertitamente “a quanto ne so, da subito”. La notizia, rilanciata da tutta la stampa, fu letta come il preavviso della decisione delle autorità della Germania dell’Est di aprire il confine tedesco e spinse un ingente numero di persone a radunarsi presso il muro

[6] Il 12 novembre 1989, il segretario del Partito Comunista Italiano Achille Occhetto durante la commemorazione del 45° anniversario della battaglia di Porta Lame tenutasi a Bologna nella sala comunale di via Pellegrino Tibaldi, nel rione della Bolognina del quartiere Navile, annunciò l’apertura (da cui, la “svolta della Bolognina”) del processo politico che porterà il 3 febbraio 1991 allo scioglimento del Partito.

[7] Giulio Quercini (Siena, 16 dicembre 1941), consigliere regionale dal 1980 al 1987, segretario federale toscano del Partito Comunista italiano e deputato alla X Legislatura.

[8] Matulli qui allude al cartello-manifesto che aprì il Consiglio nazionale della Democrazia Cristiana del 18 aprile 1990 nel quale campeggiava accanto alla foto di De Gasperi e sopra lo scudo crociato la scritta: “18  APRILE 1948 18 APRILE 1990 DALLA PARTE GIUSTA”

[9] Matulli allude alla famosa frase pronunciata in occasione della riunificazione tedesca da Andreotti: “Amo talmente tanto la Germania che ne preferivo due”

[10] Giuseppe Matulli, Alcide De Gasperi: quando la politica credeva nell’Europa e nella democrazia, Prefazione di Enrico Letta, Clichy, Firenze 2018.

[11] Georges Bidault, Presidente del Governo provvisorio della Repubblica francese dal giugno 1946 al dicembre 1946 e poi Presidente del Consiglio francese dall’ottobre 1949 al giugno 1950

[12] Mino Martinazzoli, l’ultimo segretario nazionale della Democrazia Cristiana e promotore della fondazione, il 18 gennaio 1994, del nuovo Partito Popolare Italiano di cui divenne Segretario generale.

[13] Si allude al manifesto (L’Appello ai liberi e forti) redatto nel 1919 dalla Commissione provvisoria guidata da Don Luigi Sturzo al momento della fondazione del Partito Popolare Italiano

[14] Tra il 19 e il 24 marzo 1989, Matulli, assieme ai colleghi parlamentari Luigi Castagnetti e Michelangelo Agrusti, compì un viaggio oltrecortina a Praga, dove ebbe la possibilità di entrare in contatto con alcuni dei principali dissidenti storici del regime comunista cecoslovacco, tra i quali Alexander Dubček, Václav Havel e Jiří Hájek. Successivamente, compì un secondo viaggio a Praga tra il 2 e il 5 gennaio 1990, dopo cioè la caduta del Muro di Berlino, incontrando nuovamente i dissidenti, protagonisti nel frattempo della “Rivoluzione di velluto” che tra il novembre e il dicembre 1989 aveva portato alla dissoluzione del regime comunista cecoslovacco. Di entrambi questi viaggi, Matulli pubblicò un breve diario, cfr. G. Matulli, Praga prima e dopo. Diario di un viaggio in due stagioni, Centro Toscano di Documentazione Politica, supplemento gratuito, A. IV, n. 3, marzo 1990.

[15] Michelangelo Agrusti, politico e parlamentare DC

[16] XVIII Congresso nazionale del PCI che si svolse a Roma tra il 12 e il 22 marzo 1989.

[17] Václav Havel, politico e drammaturgo ceco, dissidente e perseguitato politico sotto il governo comunista della Cecoslovacchia. Dopo la “Rivoluzione di velluto” fu tra il 1989 e il 1992 l’ultimo Presidente della Cecoslovacchia e nel 1993 primo Presidente della neocostituita Repubblica Ceca.

[18] Movimento di dissenso  costituito in Cecoslovacchia nel 1977 da alcuni eminenti esponenti dell’intellettualità e della cultura, tra cui lo stesso Václav Havel, il diplomatico Jiří Hájek, il filosofo Jan Patočka, il drammaturgo e poeta Pavel Kohout

[19] Jiří Pelikán attivista cecoslovacco, tra i sostenitori e promotori della “Primavera di Praga”, dopo la repressione sovietica del governo di Dubček trovò riparo in Italia.

[20] Gilberto Bonalumi, giornalista e parlamentare DC

[21] Jiří Hájek, diplomatico ceco e ministro degli Esteri di Dubček durante la Primavera di Praga, denuciò all’ONU l’invasione sovietica del paese e per questo fu arrestato e incarcerato. Tra i fondatori del movimento di dissenso “Charta 77”, Hájek nel marzo 1989 ricevette la delegazione italiana di cui faceva parte Matulli, facendo loro da interprete. Come appuntò nel suo diario lo stesso Matulli, Hájek, professore di storia contemporanea e di diritto internazionale “parla correttamente russo, francese, inglese, tedesco, italiano, spagnolo”, cfr. B. Matulli, Praga prima e dopo, cit., p. 7.

[22] Alexander Dubček, segretario del Partito Comunista cecoslovacco e artefice all’inizio del 1968 del tentativo di riforma e di liberalizzazione del sistema politico cecoslovacco (“Primavera di Praga”) poi brutalmente represso nell’agosto successivo dall’intervento delle forze armate sovietiche.

[23] Ma già nel suo diario Matulli aveva però annotato la delusione del dissidente Voclav Benda, raggiunto nel suo piccolo appartamento praghese, che gli aveva confessato: “sentiamo l’Italia lontana, la più lontana fra tutti i paesi europei. Vi siamo grati per questa visita ma l’incontro sarebbe stato più significativo se si fosse svolto nella ufficialità dell’ambasciata (come ha fatto Mitterand)”, cfr. G. Matulli, Praga prima e dopo, cit., p. 20.

[24] “Attorno alla stessa caldaia eravamo tre ed avevamo cinque lauree”, si può leggere in effetti nel diario di Matulli, cfr. Id., Praga prima e dopo, cit., p. 20. Rafforza il concetto anche un’ulteriore annotazione dell’incontro col dissidente Benda al quale – ricorda Matulli – “attualmente gli è impedito anche il lavoro manuale, per cui dice, sorridente e ironico, che la sua attuale professione è quella di “donna di casa”, ibidem.

[25] (1912-1999) Giornalista cattolico polacco, editore di numerose testate polacche, in particolare diresse dal 1945 sino alla sua morte nel 1999 il settimanale di cultura cattolica Tygodnika Powszechnego. Il periodico era stato sospeso nel 1953 per non aver voluto pubblicare il necrologio di Stalin, riprendendo le pubblicazioni a partire dal 1956.

[26] Matulli allude al primo viaggio in Polonia compiuto nel giugno 1979 da Giovanni Paolo II, il cui successo parve assestare un colpo durissimo al governo comunista polacco.

[27] Il sindacato autonomo nato nel settembre 1980 in seguito agli scioperi dei lavoratori dei cantieri navali di Danzica e guidato dal futuro Premio Nobel per la Pace Lech Wałsa, artefice del processo di dissoluzione del regime comunista in Polonia.

Articolo pubblicato nel dicembre del 2019.




Il movimento anarchico pratese nel secondo dopoguerra

Nel secondo dopoguerra la massiccia adesione degli operai pratesi al Partito comunista ridusse praticamente a zero lo spazio politico occupato dagli anarchici. Morto nel 1957 Anchise Ciulli – una delle figure “storiche” del movimento libertario locale, che non aveva mai cessato del tutto l’attività politica e sindacale – l’anarchismo  attraversò in città un periodo di crisi, per rianimarsi sull’onda del Sessantotto e conoscere poi una nuova fase di riflusso insieme con tutti i gruppi della sinistra rivoluzionaria. Su questi temi abbiamo realizzato un’intervista con Federico Sarti, attivo nel movimento anarchico pratese negli anni Settanta. Ne proponiamo il testo ai lettori di ToscanaNovecento.

  

Nel secondo dopoguerra il movimento anarchico attraversò in Italia una fase di crisi che durò almeno fino al Sessantotto. Ciò vale anche per Prato?

Sì, sicuramente. Senza il Sessantotto con tutti i suoi fermenti, con la sua carica contestataria e, in fondo, libertaria, non ci sarebbe stata, neanche qui, una ripresa del movimento.

Che cosa puoi dirci a proposito di tale ripresa?

So che verso la fine degli anni Sessanta si costituì in città un gruppo anarchico che portava il nome di Gaetano Bresci. Io non ne ho fatto parte e non posso dire nulla di preciso sulla sua attività, ma il gruppo è esistito con certezza, tanto è vero che ne conoscevo all’epoca tre componenti.

E poi? In città si formarono altri gruppi?

Sì. Successivamente, nell’inverno del 1975, dall’incontro di alcune persone che si dichiaravano anarchiche, nacque un secondo gruppo a cui sono appartenuto anch’io (detto per inciso, io mi sono avvicinato all’anarchismo partendo da posizioni marxiste-leniniste). Questo gruppo, che non ebbe mai un nome, arrivò a contare una dozzina di membri, studenti ed operai, tutti intorno ai vent’anni (e anche meno). Molto rilevante era la presenza femminile: tra i componenti del gruppo figuravano infatti ben sei compagne. Il nucleo – che era vicino alle posizioni della Federazione comunista anarchica (FCA) ed esplicava la sua attività solo sul piano teorico – ebbe contatti con i compagni di Firenze (Crescita politica), Pistoia, Arezzo ed altre città toscane e decise di sciogliersi in seguito ad una consultazione interna perché la maggioranza (solo io votai contro lo scioglimento) riteneva che non ci fosse la possibilità di un inserimento proficuo nel tessuto sociale cittadino. Questo accadde nella prima metà del 1977, ma poco dopo in città si formò un terzo gruppo.

scansione0004Ce ne vuoi parlare?

La riunione costitutiva di questo nuovo gruppo, che assunse il nome di Coordinamento lavoratori comunisti anarchici, si svolse il 23 giugno 1977. Gli aderenti erano in tutto una dozzina, fra cui due donne. Nel corso della riunione costitutiva fu deciso di articolare l’organizzazione in tre gruppi di studio: uno sul decentramento produttivo (formato da tre persone), uno su ambiente e lavoro ( quattro persone) ed uno che si occupava di equo canone (quattro persone). Nell’occasione fu deciso di tenere un’assemblea di gruppo nei giorni di lunedì, mercoledì e venerdì e un’assemblea generale il martedì. I membri dovevano versare una quota mensile di cinquemila lire. Il gruppo disponeva anche di un cassiere per redigere i bilanci trimestrali.

Il Coordinamento fu particolarmente attivo sul fronte della lotta contro il nucleare ed ebbe quindi il merito di sollevare in ambito cittadino dei problemi che solo in seguito sarebbero stati ripresi da altre organizzazioni. Nel dicembre del 1977, nei locali del circolo culturale Il Ponte (che si trovava al di là del Ponte Mercatale, in via Matteotti 7) si tenne un convegno antinucleare regionale. Nel corso del convegno si costituì un comitato antinucleare locale ed in città venne diffuso un volantino che metteva in guardia contro i rischi legati alla costruzione delle centrali atomiche.

Il gruppo produsse anche un bollettino ciclostilato (che non sono purtroppo riuscito a rintracciare). Il bollettino venne distribuito in occasione del 1° maggio 1978: le copie erano in vendita ad offerta libera e rammento che vennero vendute tutte per un ricavato complessivo di ventiduemila lire.

Va poi detto che il Coordinamento stilò un volantino, molto critico nei confronti dei partiti della sinistra tradizionale: noi eravamo infatti convinti che, tramite la propaganda (dibattiti, filmati, mostre e così via), esistesse la possibilità di spostare su posizioni radicali i lavoratori che seguivano tali partiti, facendo maturare in loro una coscienza rivoluzionaria e rendendoli capaci di gestire da soli le loro lotte.

Il gruppo cessò l’attività verso la fine del 1978, ma continuò la campagna antinucleare per tutto l’anno successivo.

In quegli anni vi furono due appuntamenti elettorali molto importanti: le elezioni regionali del 15 giugno 1975 e quelle nazionali del 20 giugno 1976. Come vi comportaste in quelle occasioni?

La maggioranza di noi, coerentemente con i principi anarchici, era astensionista e quindi non si recò alle urne.

In voi c’era coscienza dell’esistenza di una tradizione anarchica a Prato oppure l’unico nome noto era quello di Gaetano Bresci?

No, almeno io non sapevo nulla dell’esistenza di una tradizione anarchica in città. L’unico nome conosciuto era quello di Bresci.

Quali furono le cause del riflusso successivo?

Furono le stesse che portarono prima alla crisi e poi all’esaurirsi dell’esperienza della sinistra rivoluzionaria.

 

Sai niente a proposito dell’approdo politico dei militanti anarchici di allora?

No, non lo so perché non ho mantenuto rapporti con la maggior parte di loro, e dei pochissimi che ancora vedo non conosco l’attuale tendenza politica.

 

Qual è oggi la situazione a Prato? Non vi è più nemmeno una parvenza di organizzazione? Vi sono solo degli elementi isolati e l’anarchismo è ridotto a pura testimonianza?

Sì, a Prato l’anarchismo è ridotto a pura testimonianza. Gruppi organizzati, che io sappia, non ce ne sono. Gli abbonati a Umanità nova  sono tre in tutto, me compreso (lo so perché il giornale pubblica l’elenco degli abbonati). Ad una manifestazione ho visto un compagno con una bandiera anarchica, ma non l’ho avvicinato e non so neppure chi sia…

 

Intervista a cura di Alessandro Affortunati.

Articolo pubblicato nel dicembre del 2019.




Una nuova rubrica di ToscanaNovecento

È la sera del 9 novembre 1989; Günter Schabowski, funzionario del partito di unità socialista della Germania, durante una conferenza stampa in diretta Tv, incalzato dal corrispondente dell’ANSA, Riccardo Ehrman, sui tempi della concessione dei permessi di viaggio ai tedeschi dell’Est, risponde con solo due parole: “Ab sofort”: da subito.Ci si è interrogati sulle ragioni di queste parole: sfuggite in un clima di incertezza e confusione o scelta consapevole?L’effetto è, prevedibilmente, immediato: i berlinesi si riversano in massa nei pressi del muro; le guardie, spiazzate e senza chiari ordini in merito, aprono i varchi per evitare episodi di disordine.

(Fonte: ansa it - copyright Ansa/Epa)

(Fonte: ansa it – copyright Ansa/Epa)

Dalla tv entrano nelle case di tutto il mondo le immagini festanti dei tedeschi di entrambe le parti, ora di nuovo insieme, degli abbracci e della commozione di un popolo separato per 28 anni, delle prime picconate al muro.

(Fonte: ansa it - copyright Ansa/Epa)

(Fonte: ansa it – copyright Ansa/Epa)

La caduta del muro di Berlino ha una carica e un valore simbolico tali da essere indiscutibilmente collocata tra i grandi eventi del Novecento. Barbara icona della Guerra Fredda, emblema della contrapposizione politica, ideologica, economica e militare tra Usa e Urss, ma anche garanzia di stabilità e di equilibrio tra i due blocchi in Europa, in una notte il muro diventa, con la sua caduta, simbolo dell’implosione di regimi fondati sull’ideologia comunista. Con il muro viene giù un mondo. Il processo è iniziato da tempo e non si concluderà la sera del 9 novembre ma quell’evento resta nell’immaginario collettivo quale simbolo visibile e tangibile del fallimento della via sovietica al socialismo. Di lì a poco inizierà lo smottamento degli altri regimi comunisti e la crisi di quei partiti che, pur con distinguo, criticità e declinazioni diverse, erano parte della galassia del comunismo europeo. Tutto ciò, non senza contraccolpi su tutto l’universo della sinistra.

A trent’anni di distanza il rumore del crollo del muro, prima, e dell’Unione Sovietica, poi, arriva fino a noi, riecheggia nella ritrovata unità della Germania, nei nuovi assetti geopolitici che l’Europa si è data a partire dagli anni Novanta con l’accelerazione del processo dell’integrazione europea e l’allargamento dell’Unione ai paesi dell’Est; ma risuona anche nei conflitti che hanno squarciato l’ormai ex Jugoslavia, nell’attacco russo in Georgia del 2008, nell’ostilità, ora aperta, ora celata, fra Stati Uniti e Russia dal 2014 in Ucraina.

(Fonte: ansa.it – copyright Ansa/Epa)

(Fonte: ansa.it – copyright Ansa/Epa)

La redazione di ToscanaNovecento ritiene utile aprire uno spazio di riflessione e conoscenza sulle trasformazioni che l’evento simbolico “caduta del muro” ha prodotto, sulle conseguenze che esso ha avuto non solo da un punto di vista geopolitico ma anche sul modo di pensarsi e (auto)rappresentarsi della politica e del potere in Italia: lutto per alcuni, liberazione per altri, la fine della contrapposizione tra blocchi ha messo in discussione i riferimenti di chi, nato e vissuto in un mondo bipolare, forse fatica ancora oggi ad elaborarne la portata e il significato. Quello che proponiamo, e che andrà avanti con almeno un appuntamento al mese per l’ultimo scorcio del 2019 e per tutto il 2020, è un esperimento per questo portale: non articoli su singoli episodi storici di rilevanza locale o generale, ma una serie di interviste a personalità politiche, sindacali, culturali toscane sulle conseguenze della caduta del muro, sui significati di questo evento epocale, sia su un piano strettamente personale, sia sul piano pubblico dei rapporti e degli schieramenti politici.

Ci muoveremo in un “terreno accidentato tra memorie individuali e ricordi collettivi” (Passerini, 2003), ben consapevoli della differenza tra storia e memoria, quest’ultima “permanentemente in evoluzione, aperta alla dialettica del ricordo e dell’amnesia, inconsapevole delle sue deformazioni successive, soggetta a tutte le utilizzazioni e manipolazioni, suscettibile di lunghe latenze e improvvisi risvegli” (Nora, 1984). Ma ci sembra un percorso necessario per comprendere il recente passato e il presente.

Il primo appuntamento con la nuova rubrica del portale è per il mese di dicembre.

Articolo pubblicato nel novembre del 2019.




I Campeggi del Chianti negli anni Settanta

Vicenda recentemente storicizzata, dalla quale emerge una sorta di legame ideale con precedenti esperienze collettive che hanno animato la cultura e messo in movimento dinamiche sociali lungo parte del Novecento. Hippy e naturismo, pic-nic e colonie libertarie, campeggio autogestito, hanno epigoni in America, Inghilterra, e parte dell’Europa. Il bisogno di percorrere strade antiautoritarie o sottrarsi a controlli statali, assieme alla necessità di crescita e di autoformazione, hanno prodotto nel tempo e nello spazio numerosi esempi in qualche modo evocativi, e precedenti storici, di questi campeggi, come l’esperienza hippy dell’alessandrino del 1970-71 dove vengono occupati cascinali, e si aggregano quasi cento ragazzi e ragazze di provenienza beat generation e contestazione del Sessantotto, che accanto all’esigenza di una vita a contatto con la natura, si oppongono al mercato, al lavoro salariato, alla famiglia.

“Fuoco di bivacco al tramonto”, Moggiona (AR), luglio 1972

Negli USA, un po’ prima, gli anarchici si trovavano insieme in numerosi pic-nic, durante i quali fra grandi e piccoli si creano contesti che prevedono gioco e pranzo, ma anche e soprattutto, preludono a luoghi di scambio di informazione, di progettazione di attività politica. Così come nel Secondo dopoguerra, raduni dei “figli dei fiori”, musica e droghe lisergiche, diventavano happening liberatori e costruzione di identità libere, specie dalla religione e dalla oppressione sessuale. Accanto a questo, le prime colonie estive in ambito anarchico, per i bambini di compagni meno abbienti, sottraevano alla Chiesa il primato. A Barcellona, in Spagna, la Colonia “L’Adunata dei Refrattari” nel 1938, sullo scorcio della Rivoluzione perduta, crea luoghi per i bambini orfani della rivoluzione, pensando alla loro salute ai loro diritti ad essere soggetti e non oggetti della pedagogia. In Italia, negli anni Cinquanta a Ronchi di Massa Carrara e in precedenza a Sorrento (Na), Giovanna Caleffi Berneri realizza Colonie per i figli dei compagni, con la presenza di figure importanti dell’antiautoritarismo e della cultura pedagogica libertaria come gli obiettori di coscienza, Pietro Ferrua e Mario Barbani, oltre a Federico Ernovino, in seguito collaboratore a Partinico di Danilo Dolci, autore dell’esperienza comunitaria siciliana di Trappeto (TP), o ancora del Campeggio Internazionale Anarchico del 1969.

Orosei

Orosei (Sardegna), 1972

Il Secondo dopoguerra è stato ricco di sollecitazioni e di interventi diretti, “alternativi” rispetto a quegli ecclesiastici e finalizzati a specifiche porzioni di società, spesso quelle meno abbienti o operaie, o carenti di stimolazioni culturali oltre la famiglia la chiesa e la scuola. Dalla Comunità Olivetti di Ivrea, alle colonie “Figli del popolo” di ispirazione operaia, come quella promossa da una delle fondatrici dell’UDI (Unione Donne Italiane), Alessandra Meucci a Sesto Fiorentino. Sul periodo si legga quanto scrive Carlo De Maria nel Saggio introduttivo al volume, Giovanna Caleffi Berneri. Un seme sotto la neve (Reggio Emilia 2010) dove specifica il percorso dando conto proprio di ciò che avviene, solo apparentemente “accanto” ai fatti della storia, fra minoranze ereticali che si sviluppano nella società nel Secondo dopoguerra. Comunitarismo, pacifismo, laicità, libertarismo, pedagogia d’avanguardia, da Aldo Capitini ai coniugi Calogero, da Olivetti a Silone a Lamberto Borghi ad una grande quantità di persone pensanti, libere da dogmi ed aperte ad una società aperta.

Da tali principi e dalla necessità di applicare concetti di pedagogia libertaria a quello che fino ad allora era, nel migliore dei casi, un servizio reso alle comunità, attraverso le colonie comunali, Giampaolo Lumachi, coadiuvato in seguito da amici e collaboratori, si fa promotore verso l’Amministrazione comunale di San Casciano Val di Pesa (FI), di un modello completamente nuovo di servizio.

Manifesto e programma dei campeggi estivi del 1972

Manifesto e programma dei campeggi estivi del 1972 organizzati nel contesto dell’esperienza dei “Campeggi del Chianti”

Coinvolti cinque comuni del Chianti fiorentino (San Casciano val di Pesa, Bagno a Ripoli, Greve in Chianti, Impruneta, Tavarnelle Val di Pesa), prese avvio una esperienza della quale di fatto, solo Lumachi ne conosceva i contorni. Il coinvolgimento di una grande quantità di persone, avviene per contatti concentrici. Lumachi getta il sasso e ne controlla i cerchi che da esso si dipartono. Servono tecnici, specialisti, amici, monitori, i ragazzi giungeranno in seguito. Lumachi, insegnante fiorentino, abbandona il CEMEA (Centri di esercitazione ai metodi dell’educazione attiva, un’esperienza nata nel 1937 in Francia e diffusa in Italia a partire dal 1950) perchè in disaccordo con il clima “chiuso” degli aderenti, cercando forme di sperimentazione diretta sul territorio. Le sue conoscenze e relazioni sono di aiuto in questo senso. Da Lele Rago a Marcello Trentanove, ad una costellazione di persone che via via, per affinità, coinvolgerà in questo suo bisogno di pedagogia militante di agire libero e fuori dagli schemi. In tale percorso di crescita, non è estranea la sua adesione alla sinistra extraparlamentare e “luogo” di probabile incontro con Corrado Coradeschi del Centro Igiene Mentale di Borgo Pinti a Firenze, altro pilastro su cui poggerà l’esperienza di cui si tratta. Lumachi è il proponente e la matrice è di sinistra extraparlamentare e antiparlamentare con forte libertarismo e critica ai valori borghesi, alla religione, alla società, tramite lo strumento di una pedagogia diretta, immediata, antiautoritaria.

Sicilia 1973. terremotati

Campeggio in Sicilia, 1973. I ragazzi intervistano gli abitanti delle baracche dopo il terremoto.

Lo scorcio degli anni Sessanta, con le sue istanze di liberazione sessuale, di antimilitarismo ed antiautoritarismo, e di creatività e gioia di vivere, sono il naturale terreno di coltura della formazione dei “vecchi“, e l’aria da respirare, per le giovani generazioni. Tre sono le generazioni coinvolte, la più vecchia, nata negli anni Trenta del Novecento, è l’ispiratrice e la miccia che dà fuoco a quella esperienza, la mediana, fra anni Quaranta e Cinquanta, giovani che saranno via via coinvolti come monitori anche se con originaria differente funzione – mi vengono in mente le persone incrociate nel percorso, sia nei luoghi di esperienza che attraverso l’attività nei campeggi (operai, autisti), infine i ragazzi, gli utenti, nati quasi tutti negli anni Sessanta, che si troveranno a vivere una esperienza in qualche modo sconvolgente.

Un approccio differente alla conoscenza sperimentato negli anni in luoghi molteplici, diversi, ciascuno comunque vissuto in modo sempre attivo e nella consapevolezza della valenza dell’ambiente socialie come elemento educativo: Sardegna, Camaldoli, Igea (1972); Val d’Aosta, Sicilia, Sardegna (1973), Sardegna, Arcidosso (1974), Sardegna, Amiata (1975), Sardegna (1976).

Alberto Ciampi  – Architetto, si interessa di Avanguardie storiche del Novecento, Movimento Anarchico, e cura il Centro Studi Storici Valdipesa. Ha pubblicato libri, saggi e articoli su pubblicazioni periodiche. Collabora, fra l’altro, alla rivista d’arte “ApArte°” di Venezia ed è membro del Comitato Scientifico dell’Archivio Berneri – Aurelio Chessa di Reggio Emilia. Suoi, fra gli altri: “Futuristi e anarchici – Quali rapporti?”; “Un fiore selvaggio”; “Rivoluzione in Tipografia”; “Anarchia e Futurismo – Revolverate”; “Gli Indomabili”; “Forma e Forme”; “I colori dell’anarchia nelle pubblicazioni periodiche”; “Leda Rafanelli – Carlo Carrà: un romanzo – arte e politica in un incontro ormai celebre!”. Ha collaborato a: reprint de “L’Italia Futurista”; “Dizionario del futurismo italiano”; “Dizionario Biografico degli Anarchici Italiani”. In ambito locale, con il Centro Studi Storici della Valdipesa ha curato numerosi convegni e pubblicazioni.

Articolo pubblicato nel luglio del 2019.