La 22° Brigata Garibaldi “Lanciotto” e la battaglia di Cetica (29 giugno 1944)

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Aligi Barducci “Potente”, comandante militare della Brigata “Lanciotto”

Il 24 maggio del 1944, dalla fusione dei raggruppamenti partigiani “Checcucci”, “Romanelli”, “Lanciotto” e “Fabbroni”, si costituiva formalmente la 22° Brigata Garibaldi “Lanciotto” agli ordini della Delegazione Toscana del Comando Generale delle Brigate Garibaldi[1]. La nuova formazione, intitolata al nome di “Lanciotto Ballerini”, leggendario comandante partigiano caduto nel gennaio 1944 a Valibona in uno scontro con i fascisti della “Muti”, accorpava le quattro preesistenti formazioni che nei mesi precedenti avevano operato tra Monte Morello, Monte Giovi, il Mugello e l’appennino tosco-romagnolo. Dopo i rastrellamenti nazifascisti e la dispersione subita in aprile sul Falterona, molte di queste bande erano riparate di nuovo su Monte Giovi, tra Mugello e Valdisieve, dove potevano contare sul riparo e l’estesa solidarietà della popolazione locale. L’idea di accorpare queste bande ponendole sotto un comando unificato – un’ipotesi già discussa nella prima metà di aprile nel corso di un incontro avvenuto tra i capi della resistenza mugellana nella fabbrica Stefanini di Borgo San Lorenzo – presupponeva però l’abbandono di Monte Giovi, non adatto al concentramento di una nuova grande unità partigiana, per trasferirsi in un’area più idonea, individuata dopo qualche discussione nel massiccio del Pratomagno[2]. Il 23 maggio, un gruppo di circa duecento partigiani guidati da Aligi Barducci “Potente” – già membro della banda di Alfredo Bini, poi raggruppamento “Romanelli”, e al quale era stato affidato unanimemente il compito di organizzazione militare della nuova formazione – lasciava Monte Giovi diretto sul Pratomagno, dove già alcuni partigiani guidati dallo stesso Bini e da Giulio Bruschi “Berto” erano stati inviati per predisporre il terreno.

Qualche giorno dopo l’arrivo di Potente in Pratomagno la formazione ebbe il riconoscimento ufficiale da parte della Delegazione toscana del comando delle Brigate Garibaldi[3]. I quattro raggruppamenti originari divennero le quattro compagnie costitutive: la “Checcucci” ne fu la I con Bruno Bertini “Brunetto” comandante militare e “Cecco” commissario politico, la “Fabbroni” la II con Lazio Cosseri comandante e Vasco Palazzeschi “Mara” commissario, la “Romanelli” la III con “Bini” comandante e “Zio” commissario e, infine, la “Lanciotto” la IV con Renzo Ballerini comandante e Pietro Corsinovi “Pietrino” commissario. Il comando militare della brigata fu affidato invece a “Potente”, cui si affiancarono Giulio Bruschi “Berto” commissario politico e Rindo Scorsipa “Mongolo” Capo di Stato Maggiore. La dislocazione sul Pratomagno della formazione vide le quattro compagnie schierarsi sul massiccio a copertura dei versanti del Casentino e del Valdarno secondo il seguente schema: la prima compagnia tra la Consuma e Strada in Casentino, la seconda tra Strada e Poppi, la terza tra Castelfranco e Reggello e la quarta tra Reggello e la Consuma[4]. Il comando della Brigata venne invece installato ben nascosto, tra i faggeti posti al margine di una radura tra l’Uomo di Sasso e il Varco di Gastra, in quota al rilievo.

L’arrivo della Lanciotto diede così luogo sul massiccio a un’alta concentrazione partigiana, considerato peraltro che nel settore più meridionale agivano altre formazioni autonome come la “Mameli” e “La Teppa”, nonché il gruppo di paracadutisti inglesi operanti dietro le linee nemiche del “Long Range Desert Group”, mentre tra il Casentino e il Pratomagno aretino erano attestai anche i partigiani della 23° Brigata Garibaldi “Pio Borri”[5].

Dai primi di giugno e a partire soprattutto dalla liberazione di Roma, il rapido avanzare del fronte di guerra spinge le diverse formazioni lì attestate ad accelerare l’organizzazione e il loro consolidamento, intensificando l’attività militare e di disturbo nei riguardi delle unità tedesche presenti nell’area. Per impedire che il Pratomagno possa divenire «un luogo di rifugio e di sosta per i nazifascisti in ritirata o, peggio ancora, un caposaldo di resistenza atto a contrastare l’offensiva alleata» in direzione di Firenze, il comando della “Lanciotto” decide di portare alcune squadre della I e II compagnia a Cetica, considerata la «porta d’accesso al Prato Magno»[6]. Nel paese, «un agglomerato di case in pietra» ai piedi del massiccio dove termina la carrozzabile proveniente dal Casentino, si installano in pianta stabile e nello stupore della popolazione locale gli uomini della Lanciotto: «la gente di Cetica» – avrebbe poi scritto nelle sue memorie Fernando Gattini “Lupo”, allora membro del distaccamento “Adriano Gozzoli” della II compagnia – «sapeva che queste montagne ospitavano un gran numero di partigiani, ma non pensava che un giorno ci saremmo accasermati proprio in paese, come fossimo forze regolari. Perciò, nel vederci arrivare in massa, spavaldi e sicuri del fatto nostro, non hanno nascosto la propria meraviglia e una certa apprensione»[7].

Lazio Berto Mara

Da sinistra a destra: Lazio Cosseri, Giulio Bruschi “Berto” e Vasco Palazzeschi “Mara” sul Pratomagno

Durante tutta la loro permanenza a Cetica si sviluppa con gli abitanti un profondo rapporto di solidarietà, non nuovo in un’area, quella del Pratomagno, dove gli uomini della “Lanciotto”, forti di un controllo del territorio e delle vie di comunicazione apparentemente incontrastato, instaurano secondo alcuni una sorta di «piccola repubblica» partigiana, intervenendo in soccorso e a protezione della popolazione locale[8]. Il 24 giugno, la II compagnia guidata da Lazio Cosseri assalta in località Quorle, non distante da Cetica, il magazzino di un commerciante speculatore asportandovi circa 120 quintali di zucchero che la formazione subito distribuisce agli abitanti di Cetica, Montemignaio, Strada[9]. Sopratutto a Cetica, il rapporto tra partigiani e abitanti è secondo Gattini solidale:

Non c’è famiglia che non si dia da fare per noi, per rappezzare il nostro precario abbigliamento, per confezionare fazzoletti rossi con il nome della formazione ricamato a mano, per farci mangiare in casa, insieme a loro. Gli abitanti del paese vivono con noi un mese di intensa comunione ideale e pratica, contribuendo come pochi altri alla lotta contro il fascismo. Purtroppo, come è accaduto ad altri, pagheranno duramente la loro generosità.[10]

L’attività partigiana nella zona è infatti in rapida ascesa dai primi di giugno con attacchi mirati che si susseguono a danno di tedeschi e fascisti e che contribuiscono a innalzare il livello di tensione. Le azioni di disturbo dirette in particolare dagli uomini della “Lanciotto” sullo snodo viario della Consuma mettono a repentaglio i collegamenti tedeschi tra Valdarno e Casentino. A queste vanno poi sommandosi la cattura e il sequestro a danno degli occupanti di uomini e mezzi. Il 23 giugno, sempre effettivi della II compagnia della “Lanciotto” riescono a catturare  un colonnello e un capitano tedeschi, fermati in auto in compagnia della loro interprete, Fiorenza, una nobildonna fiorentina che li ha ospitati nella propria villetta di Rifiglio, presso Strada. Durante il trasporto dei prigionieri, però, l’alto ufficiale era riuscito a liberarsi e ad avere la meglio su “Giorgio”, il partigiano russo che lo scortava, salvo poi venir ucciso dai partigiani per evitarne la fuga[11]. L’azione aveva creato seri problemi al comando della Brigata, facendo temere una immediata  reazione tedesca[12]. Stando al parere del parroco di Strada don Bozzo, un’incursione analoga compiuta il 26 nei pressi di Strada e conclusasi con il fermo e la requisizione di un’auto della Todt sarebbe stata alla base dell’attacco tedesco a Cetica del 29 giugno[13]. In realtà, anche dopo questo episodio, altri scontri tra unità della “Lanciotto” e reparti tedeschi erano continuati a susseguirsi fino al 29. Il 27, ad esempio, la compagnia di Lazio Cosseri aveva attaccato le postazioni tedesche a Strada «paese abbandonato dai tedeschi due giorni prima e in questo frattempo occupato dai partigiani per un’intera notte»[14], innescando così per rappresaglia la presa in ostaggio di una quarantina di civili, più tardi rilasciati[15]. Ma a quella data il comando della 10° Armata tedesca era già in allarme per la cattura, avvenuta il 26 tra Arezzo e Anghiari a opera dei partigiani della 23° Brigata “Pio Borri”, del colonnello von Gablenz responsabile del Koruck 594 (il comando preposto alla sicurezza delle retrovie), circostanza questa che di fatto determina da lì in poi un sensibile inasprimento tra Pratomagno, Valdarno e Val di Chiana della repressione tedesca contro civili e partigiani. Dal 27 gli uomini del 2° Battaglione del 3° Reggimento Brandenburg avviano infatti un massiccio rastrellamento tra Montemignaio e Cetica[16]. All’alba del 29 giugno (lo stesso giorno in cui in Val di Chiana unità della Herman Goering danno avvio alle operazioni di rastrellamento sfociate tragicamente nei massacri di Civitella, Cornia e S. Pancrazio) i reparti del Brandenburg giungono a Cetica. Allora – è riassunto nel diario della Brigata,

  le vedette del 1° dis.[taccamento] della 2° [compagnia] segnalano spostamento di uomini vestiti in borghese ed armati provenienti da Strada e diretti a Cetica. Erano tedeschi, frammisti con italiani, travestiti da partigiani, che volevano distruggere il centro di resistenza partigiana. La 2° ingaggia battaglia con tedeschi potentemente armati. La 2° è dislocata a S. Maria di Cetica, a Calognole, ed al Mulino, dove due partigiani rimangono feriti. I tedeschi vista la resistenza opposta chiamano in aiuto i mortai; mentre la 1° giunge di rinforzo schierandosi sul ciglione della conca di Cetica. I tedeschi cominciano a subire le prime perdite; però ricevono rinforzi, ma i partigiani rinforzata dalla 4° cp. Continuano il combattimento sebbene vi siano delle perdite tra i nostri. Il nemico posto di fronte a serie difficoltà prese le donne ed i borghesi e gli fece marciare davanti, cosa questa che costrinse i partigiani di desistere dal fuoco, e di ripiegare di poco. I tedeschi giunti in Cetica, si trattengono un’ora circa e danno fuoco a tutte le abitazioni, fucilano prima tre innocenti borghesi. Tentarono fra tanto di raggiungere il mulino per distruggerlo, per toglierci la possibilità di macinare il grano, ma ciò gli fu vietato, poiché si riprese il combattimento. Quando i tedeschi ripiegarono su Strada, i partigiani, osservando le loro mosse, li precedettero, e fra Rifiglio e Pagliericcio tesero loro una imboscata che costò ai tedeschi gravi perdite.[17]

Lupo e Mara

Luglio 1944. Sulla sinistra: Fernando Gattini “Lupo”, membro del distaccamento “Adriano Gozzoli” della II compagnia della Brigata “Lanciotto” impegnato il 29 giugno nella battaglia di Cetica

Il conflitto tra i due contendenti è piuttosto duro e assume la forma di un vero e proprio scontro frontale, inconsueto per chi come i partigiani della “Lanciotto” è abituato a operare con attacchi a sorpresa, come è nella pratica della guerriglia. Se l’imparità di fuoco è evidente, gli uomini di “Potente” dimostrano però d’aver conseguito un grado di preparazione e di organizzazione militare non trascurabile, considerata la recente costituzione della Brigata e l’endemica mancanza di armamenti, alla quale gli attesi aviolanci alleati previsti in quelle settimane sul Pratomagno non hanno per il momento saputo porre riparo. L’effetto sorpresa ricercato dai tedeschi con lo stratagemma dei soldati camuffati da partigiani è infatti prevenuto dalle sentinelle della “Lanciotto” presenti lungo la via d’accesso al paese che riescono tempestivamente ad avvisare a Cetica il comando di compagnia e sul Passo di Gastra quello di Brigata. Nel poco tempo a disposizione si cerca di porre al riparo i civili mentre i tre distaccamenti delle due compagnie presenti a Cetica vengono disposti a semicerchio a monte dell’abitato. Solo lo scudo che i tedeschi si fanno dei civili rastrellati durante il loro avvicinamento attenua il potenziale di fuoco dei partigiani, i quali, ben nascosti «fra le macchie, dietro le capanne» al limitare del paese, «si mordono le mani» perché costretti a sparare «a raffiche irregolari» per non colpire gli ostaggi, assistendo quindi semi-impotenti all’incendio del paese da parte degli occupanti[18]. Riescono tuttavia a circoscrivere l’azione degli assalitori, cercando di impegnarli verso altre direzioni e ponendo in salvo così il prezioso mulino di Cetica. L’abitato principale, tuttavia, è ridotto in macerie e alla fine della giornata si contano 13 civili (tutti uomini) uccisi dai tedeschi tra quanti erano stati presi in ostaggio. Un prezzo certamente alto, ma – hanno ragione di credere gli uomini della “Lanciotto” – ben diverso da quanto sarebbe potuto accadere in conseguenza di un ipotetico sganciamento delle compagnie partigiane: «a Cetica», avrebbe scritto più tardi Lazio Cosseri, «non accadde quello che di solito accadeva quando i tedeschi entravano come belve in un paese inerme, radunando donne, vecchi, bambini che trucidavano senza pietà». Ciò in questo caso non si verificò «perché i partigiani non abbandonarono mai il paese»[19]. Fu proprio all’iniziativa personale di Lazio, particolarmente scosso dal brutale colpo inflitto a Cetica dai tedeschi, che allora si dovette un’estemporanea e ardita controffensiva lanciata verso gli assalitori. Alla sera del 29, postosi alla guida di una quindicina di compagni divisi in due squadre, il comandante della II compagnia si diresse rapidamente sulla strada di Pagliericcio tra Cetica e Montemignaio lungo la quale dopo l’azione stavano ritirandosi i tedeschi . Qui Lazio riuscì a tendere un’imboscata a un gruppo in ripiegamento provocando – stando ai resoconti partigiani – l’uccisione di più di 50 soldati e portando a questo modo – sempre secondo le relazioni ufficiali partigiane – il numero complessivo dei caduti nelle file nemiche a 65[20]. In realtà, il bilancio delle perdite, rispetto alle soventi poco attendibili ricostruzioni ex post, fu probabilmente più attenuato, da entrambe le parti. Le fonti tedesche infatti al termine dell’operazione del 29 giugno registrano la morte di soli 2 soldati del battaglione Brandenburg e il ferimento di altri 5 a fronte dell’uccisione di ben 45 «banditi»[21]. Solo 10 invece i caduti accertati nelle file della “Lanciotto” secondo i rapporti della Brigata[22].

Lapide Cetica partigiani

Cippo in memoria dei caduti partigiani durante la battaglia di etica del 29 giugno 1944 (www.pietredellamemoria.it)

Ad ogni modo, quella che fu da lì ricordata come la “battaglia” di Cetica, seppur difficile da descriversi come un completo successo partigiano, ebbe tuttavia grande rilievo ai fini dell’ulteriore sforzo di organizzazione della Brigata “Lanciotto” in vista delle più decisive prove cui sarebbe andata incontro successivamente, quando, col progressivo avvicinamento tra luglio e agosto del fronte di guerra alla linea dell’Arno, la formazione, col concorso delle altre Brigate e sotto il comando di “Potente”, si costituì in Divisione “Arno” contribuendo in modo capitale alla liberazione di Firenze. Qualche giorno dopo gli scontri di Cetica, infatti, in una riunione convocata da “Potente” al valico di Gastra tra tutti i comandanti e i commissari politici di compagnia della Brigata, si provvide alla ricostruzione dei fatti del 29 giugno e, ai fini di un utile ammaestramento per il futuro, a una disamina critica dei limiti e delle manchevolezze di quell’azione. Per quanto l’urto frontale dell’attacco tedesco non era riuscito a scompaginare completamente le forze della “Lanciotto” attestate a Cetica, che anzi erano state in grado di riorganizzarsi in breve tempo contrattaccando tempestivamente, diversi limiti erano emersi nel coordinamento tra i comandi delle diverse compagnie e a causa dell’eccessiva improvvisazione di alcuni di questi. In tal senso, emblematica era stata l’azione a sorpresa intrapresa dalla II compagnia di Lazio su decisione personale di quest’ultimo e in completo disaccordo col suo commissario “Mara”. Il dibattito sulle presunte responsabilità dei singoli o dei comandi si fece a tratti polemico, stando che diversi tra i convenuti erano convinti che «con le forze presenti a Cetica sarebbe stato possibile non solo resistere ai tedeschi, ma assestare un duro colpo al nemico e impedire o almeno limitare i danni al paese»[23]. Anche per questo, a riparazione delle supposte omissioni e manchevolezze, si decise di stanziare subito 100.000 lire distogliendole dalle casse della Brigata in favore dei sinistrati di Cetica e di distribuire loro quanto era rimasto in riserva in termini di alimenti e indumenti. Sulle responsabilità militari, spettò invece a “Potente” dire la parola definitiva, auspicando per l’avvenire un ulteriore potenziamento dei collegamenti tra i comandi e facendo osservare «con paterna dolcezza» a Lazio le imprudenze da lui commesse «nel predisporre lo schieramento senza curare la difesa alle spalle» lanciandosi all’attacco in un momento inopportuno[24].

Dalla condivisa consapevolezza degli errori commessi a Cetica per difetto d’organizzazione o eccessiva avventatezza – non diversamente da quanto nelle stesse settimane avveniva di analogo sui Monti Scalari entro la neocostituita 22° bis Brigata Garibaldi “Sinigaglia” a conclusione del sofferto esame dei limiti tattici e organizzativi scontati nel corso della “battaglia” di Pian d’Albero[25] – si presentava anche per la “Lanciotto” un’utile, seppur travagliata, occasione per riconsiderare alcuni aspetti operativi e strutturali che erano stato decisi, spesso in modo precario e poco organico, nel corso di un rapido e accidentato processo costitutivo tipico di una grande formazione partigiana in via di sviluppo. In sostanza, il successo che la Divisione “Arno” di Potente avrebbe in seguito ottenuto nei difficili frangenti della battaglia di Firenze richiese il superamento dei limiti che, come nel caso di Cetica,  avevano caratterizzato al pari di altre Brigate le prime fasi di vita e attività  della “Lanciotto”.

[1] La data del 24 maggio è indicata come atto fondativo della brigata nella relazione ufficiale della stessa (cfr. ISRT, fondo Resistenza armata, b. 2, relazione generale della XXII Brigata Lanciotto). Altre testimonianze fanno risalire invece l’atto ufficiale di costituzione della formazione all’8 giugno e a una riunione tenutasi all’Uomo di Sasso, sul Pratomagno, tra tutti i comandanti militari e politici dei raggruppamenti (ivi, b. 3, Relazione di Alessandro Pieri “Stella” presentata all’ANPI provinciale di Firenze nel maggio 1945, p. 17 e V. Palazzeschi, Mara. Dall’antifascismo alla Resistenza con la 22° Brigata “Lanciotto”, La Pietra, Milano 1986, p. 66).

[2] Giuseppe Maggi “Beppe” in Più in là. Ventitré partigiani sulla lotta nel Mugello, a cura del Circolo La Comune del Mugello e del Centro di documentazione di Firenze, La Pietra, Milano 1975, p. 47; L. Tagliaferri, Monte Giovi nella Resistenza, in AA.VV., Monte Giovi: se son rose fioriranno…Mugello e Valdisieve dal fascismo alla Liberazione, Edizioni Polistampa, Firenze 2012, p. 411.

[3] G. ed E. Varlecchi, Potente. Aligi Barducci, comandante della Divisione Garibaldi “Arno”, a cura di M. Augusta e S. Timpanaro, Libreria Feltrinelli, Firenze 1975, p. 85.

[4] ISRT, fondo Resistenza armata, b. 2, Diario della XXII Brigata “Lanciotto”.

[5] G. Verni, Appunti per una storia della Resistenza nell’aretino, in I. Tognarini (a cura di), Guerra di stermino e Resistenza. La provincia di Arezzo 1943-1944, ESI, Napoli 1990, pp. 98-173 (in particolare pp. 142 e sgg.); A. Curina, Fuochi sui monti dell’Appennino toscano, Badiali, Arezzo 1957; C. Biscarini, Soldati nell’ombra. 1944. Operazioni speciali nelle province di Siena, Arezzo, Livorno, Grosseto, La Spezia, Effigi, Arcidosso (GR) 2011.

[6] V. Palazzeschi, Mara, cit., p. 72.

[7] F. Gattini, Le nostre giornate, La Pietra, Milano 1980, pp. 113-114.

[8] V. Palazzeschi, Mara, cit., p. 73.

[9] ISRT, fondo Resistenza armata, b. 2, Diario della XXII Brigata “Lanciotto”, 24 maggio 1944.

[10] F. Gattini, Le nostre giornate, cit., p. 115.

[11] L. Cosseri (a cura di), Lazio. Ribelle tra i ribelli, Aska, Firenze, 2004, pp. 185-187.

[12] F. Gattini, Le nostre giornate, cit., p. 122.

[13] Per l’episodio cfr. ISRT, Fondo ANPI, b. 2, fasc. Brigata “Lanciotto”, relazione di Lazio Cosseri, Cetica, 26 giugno 1944. Per il giudizio di Bozzo cfr. G. Bozzo, Giorni di lacrime e di sangue. Dal diario personale del tempo d’emergenza nell’alto Casentino, Libreria Salesiana Firenze, 1946, p. 44.

[14] ISRT, Fondo ANPI, b. 2, fasc. Brigata “Lanciotto”, relazione di Lazio Cosseri, Cetica, 27 giugno 1944.

[15] G. Bozzo, Giorni di lacrime e di sangue, cit., pp. 12-20.

[16] G. Fulvetti, Uccidere i civili. Le stragi naziste in Toscana (1943-1945), Carocci, Roma 2009, pp. 118-119.

[17] ISRT, fondo Resistenza armata, b. 2, Diario della XXII Brigata “Lanciotto”, 29 giugno 1944.

[18] ISRT, fondo Alessandro Pieri, Cetica, dattiloscritto, p. 4.

[19] L. Cosseri (a cura di), Lazio, cit., p. 191.

[20] Ivi, p. 192; ISRT, fondo Resistenza armata, b. 2, Diario della XXII Brigata “Lanciotto”, 29 giugno 1944.

[21] Bundesarchiv-Militärarchiv, Friburg, RH 2/663, Ic-Meldung, 30 giugno 1944.

[22] 12 caduti e 23 feriti sarebbero le perdite partigiane secondo il già citato diario della Brigata. Altre fonti interne indicano invece 10 caduti e 6 feriti, cfr. ISRT, fondo Alessandro Pieri, Cetica, cit., p. 5; G. ed E. Varlecchi, Potente, cit., pp. 204-205.

[23] F. Gattini, Le nostre giornate, cit., p. 129.

[24] G. ed E. Varlecchi, Potente, cit., p. 234.

[25] M. Barucci, Sulla strada per Firenze. La Brigata Sinigaglia e la strage di Pian d’Albero 20 giugno 1944, Pacini editore, Pisa 2018, pp. 150-152.

Articolo pubblicato nell’aprile del 2019.




La memoria dei bombardamenti nella città di Livorno

Uno degli aspetti che emerge con maggior forza dalle memorie delle persone comuni riguardo la Seconda guerra mondiale è sicuramente il ricordo delle distruzioni provocate dalle incursioni aeree. Tale memoria tuttavia, per molto tempo non ha trovato del tutto spazio nella narrazione del conflitto e in quella della Liberazione, dal momento che le truppe alleate hanno dato un decisivo contributo alla sconfitta degli occupanti nazifascisti. Sebbene questo contributo sia innegabile, la conduzione da parte del comando alleato della campagna italiana è stata militarmente dura: l’avanzata delle truppe era preceduta da bombardamenti massicci che avevano lo scopo di colpire obiettivi strategici e di fiaccare l’animo della popolazione. Il bombardamento a tappeto di gran parte del territorio italiano messo in atto dalle fortezze volanti faceva parte pertanto della strategia bellica degli alleati.

In questa strategia rientrava anche l’attacco a Livorno che, a partire dalla primavera del 1943, divenne obiettivo di primissimo piano della guerra aerea grazie alla presenza di alcune infrastrutture fondamentali: il porto, il cantiere navale, la Motofides, l’Azienda Nazionale Idrogenazione Combustibili (ANIC). Il danneggiamento di tali strutture industriali risultava fondamentale sia per compromettere la capacità bellica dell’Italia, sia (dopo la caduta del fascismo) per evitare che potesse servire alle forze armate tedesche presenti sul territorio italiano. I bombardamenti su Livorno furono complessivamente 56 e si collocano tra giugno 1940 e luglio 1944. Cominciarono da parte dell’aviazione francese subito a ridosso dell’entrata in guerra dell’Italia anche se i danni provocati da tali attacchi furono molto limitati e non particolarmente presenti nella memoria di chi li ha subiti. Il primo attacco avvenne il 16 giugno del 1940 e provocò danni nel quartiere Venezia, in Piazza Grande e in Piazza Magenta; il secondo del 22 giugno dello stesso anno colpì abbastanza gravemente l’albergo Palazzo e i Bagni Pancaldi; il terzo del 9 febbraio 1941 riguardò la zona dell’ANIC nella periferia nord della città.

Un rifugio sugli Scali D'Azeglio bombardato (Fondo fotografico Sandonnini: Istoreco, Livorno)

Il rifugio sugli Scali D’Azeglio bombardato (Fondo fotografico Sandonnini: Istoreco, Livorno)

L’incursione che è rimasta fortemente impressa nella memoria collettiva della città è però quella del 28 maggio del 1943 ad opera dell’aviazione americana. Secondo quanto scritto dal generale del corpo d’armata, comandante generale della protezione civile antiaerea (UNPA), alle 11.30 di quella mattina (per pochi minuti) e alle 12.15 (per la durata di un quarto d’ora) circa 60 aerei dell’aviazione americana si abbatterono sulla città e l’intera zona portuale provocando ingenti danni a stabilimenti e attrezzature militari. Secondo le stime prefettizie le bombe sganciate in due ondate successive, a distanza di 30 minuti una dall’altra, corrispondevano a 180 tonnellate: i morti accertati furono 225 (tra cui 13 militari) destinati però a salire dopo poche ore a 280 a causa dei decessi avvenuti in ospedale, i feriti 232. Ma tutta la città venne duramente colpita: vennero completamente distrutti 200 edifici, come anche la Centrale telefonica e il Palazzo del governo.

Dalle testimonianze di molti anziani emerge il ricordo drammatico di quel giorno perché fu il primo bombardamento che coinvolse completamente tutta la città. Per la prima volta la popolazione si è sentita veramente in pericolo, oggetto della guerra totale. Così ricorda il farmacista Aleardo Lattes, esponente di primo piano della borghesia ebraica livornese, in una pagina delle sue Memorie inedite, conservate presso l’archivio dell’Istoreco di Livorno:

“Il 28 maggio 1943 alle ore 11,30 la sirena di allarme suonò lugubre. Il popolo, ormai abituato ai falsi allarmi, ripetutisi da circa tre anni, passeggiava per le strade non curante quando, dopo pochi minuti, una prima ondata di bombardieri pesanti sganciò alla periferia della città, e principalmente sullo stabilimento Anic, produttore della benzina sintetica, un centinaio di bombe incendiarie seminando ovunque rovina e distruzione.

Ugo ed io, venne anche Emma, eravamo in farmacia. Era con noi anche qualche passante ritardatario   che non aveva fatto in tempo a raggiungere il rifugio di Piazza Cavour, tanto la carica delle bombe fu fulminea. Dal segnale di allarme alla caduta della prima bomba passarono tre minuti esatti. Le muraglie della farmacia ed il rendi resto, collocato sul banco centrale, tremavano come se un violento terremoto ne scuotesse le fondamenta.

Alle 11,45 il bombardamento cessò, o meglio ebbe una sosta. Cautamente uscimmo fuori per constatare il tragico effetto del bombardamento. Una nuvola immensa di fumo nero copriva l’orizzonte. Erano saltati in aria i depositi della benzina sintetica che bruciavano spandendo per l’aria un calore acre e soffocante che rendeva soffocante la respirazione. Le persone uscite, come noi dai rifugi, (poiché non era ancora segnalato il pericolo) si guardavano muti come per dire: E’già finita? E già la popolazione riprese a circolare per le strade quando, alle 12,30 una seconda ondata di bombardieri proveniente dal mare investì la città rovesciandovi un numero imprecisato di bombe di grosso calibro che, a giudicare dagli effetti disastrosi prodotti, doveva essere di circa un centinaio. Fu uno di quei bombardamenti cosiddetti a catena di una violenza tale da far rimanere annichiliti muti e rattrappiti sotto la volta reale della farmacia stretti gli uni agli altri, come se si attendesse da un momento all’altro che una bomba cadesse su di noi, tanto si avvicinavano al centro della città con fragore sempre più assordante. […] Una bomba cadde sugli scali d’Azeglio, al centro della strada proprio sopra un rifugio dove si trovavano una cinquantina di persone. Fu un vero macello, sulla via si aprì una voragine dove un mucchio informe di agonizzanti si dibattevano nel dolore. La violenza delle schegge e lo spostamento di aria aveva fatto crollare, come se fosse di carta, il terzo e il secondo piano dello stabile n.9.

Sebbene da parte dell’autorità podestarile e della Prefettura vennero messe in atto azioni per riportare la vita cittadina ad un livello di relativa normalità, i problemi abitativi, di gestione dei rifugi antiaerei (che si erano rivelati del tutto inefficaci di fronte al pericolo reale), quelli di approvvigionamento di acqua e di materie prime contribuirono a diffondere in città la sensazione di un crollo immanente e di una incapacità da parte delle autorità preposte di assicurare una vera protezione alla popolazione.

In questa situazione già notevolmente compromessa il 28 giugno avvenne un secondo bombardamento che risultò ancora più devastante del primo: in appena nove minuti la città venne sorvolata da 97 fortezze volanti che sganciarono circa 237 tonnellate di  bombe da 500, 1000 e 2000 libbre provocando 209 vittime (tra cui 29 militari italiani e 3 tedeschi), la distruzione di 180 edifici, fra cui gli stabilimenti Moto Fides, Vetreria italiana ed altre industrie, la stazione ferroviaria, il mercato centrale, i cimiteri, i rifugi di recente costruzione nelle vie Galilei, Mastacchi e Garibaldi. Le conseguenze dell’incursione sono descritte, con parole drammatiche, dal prefetto della città accompagnato dal podestà e dal generale dei carabinieri Carlino, nella sua prima ricognizione

Il duomo di Livorno distrutto dai bombardamenti (Fondo fotografico Sandonnini: Istoreco, Livorno)

Il duomo di Livorno distrutto dai bombardamenti (Fondo fotografico Sandonnini: Istoreco, Livorno)

 “da una rapida visita eseguita in città si poté avere la percezione esatta della potenza del bombardamento nemico e dei gravi danni provocati al centro cittadino, agli stabilimenti della zona industriale e alla stazione ferroviaria (…) si ebbe anche purtroppo notizia che quattro ricoveri pubblici (…) erano stati colpiti in pieno da bombe e che la quasi totalità dei rifugiati erano rimasti o morti o feriti. Qui l’opera di soccorso fu lunga e assai faticosa perché feriti, corpi umani e brandelli di carne si trovavano frammisti a grossi blocchi di calcestruzzo provenienti dal crollo dei ricoveri e per la cui rimozione occorsero argani e lunghe ore di febbrile lavoro. Qualche ora più tardi, alle squadre di pronto intervento si aggiunsero altre squadre di operai da Rosignano e da Pisa e alcune centinaia di soldati e decine di automezzi messi a disposizione dall’Autorità portuale”.

Proprio il crollo dei rifugi antiaerei che fu la causa del gran numero di vittime rafforzò nella popolazione il convincimento della loro inutilità e dell’assenza di ogni protezione. In città non si poteva più panificare, i negozi erano chiusi, le vettovaglie erano portate in autocarro da Firenze, l’acqua arrivava da Pisa con le motocisterne. La città non era più vivibile e moltissimi furono gli sfollati nelle campagne circostanti la città. Il 25 luglio 1943, in concomitanza con la caduta del regime, Livorno subì un terzo bombardamento in piena notte alle 0,15: morirono 43 civili nell’Istituto Maddalena (41 bambini e 2 suore) e vennero colpite numerose fabbriche alla periferia della città. Le incursioni aeree si susseguirono ancora a settembre e dicembre del ’43 e proseguirono nella primavera del ’44 fino alla liberazione della città avvenuta il 19 luglio dello stesso anno.

La memoria del conflitto si presenta pertanto a Livorno soprattutto come memoria della “morte che viene dal cielo”. Per la maggior parte della popolazione locale il periodo tra il ’43 e il ’44 è associato ad un profondo senso di precarietà e di smarrimento che solo lentamente, con la ricostruzione della città e del tessuto sociale al suo interno, verrà superato. Il ricordo però di queste esperienze emerge con prepotenza anche a decenni di distanza nei racconti di chi ha vissuto quei terribili giorni.

Articolo pubblicato nell’aprile del 2019.




Quella “storia ottocentesca” di un figlio di N.N.

Si ringrazia Franco Bertolucci della Biblioteca “Franco Seratini”1 per il tempo messo a disposizione e l’intervista concessa all’autore.

Chiunque abbia vissuto – o anche solo frequentato – per qualche tempo in una città universitaria ricorda certamente, pur senza esservisi soffermato attentamente, il ricco campionario di affissioni, scritte e adesivi che ne coprono i muri: autentica testimonianza di quel caratteristico underground di associazioni, circoli, collettivi e centri sociali vicini all’estrema sinistra e al movimento anarchico, questi veri e propri archivi murali sono particolarmente ricchi nei pressi dei dipartimenti universitari, e la città di Pisa non fa eccezione. In quella che fu una delle capitali italiane del ’68 non c’è angolo dove non ci si imbatta in qualcuno di questi “reperti”: in via Padre Bruno Fedi, dietro al polo universitario Porta Nuova, “A” stilizzate, simbolo dell’anarchia, disegnate con una bomboletta spray a coprire croci celtiche fasciste; scritte nere contro i “ricercatori di morte” e la pratica della sperimentazione animale; adesivi contro la TAV e a sostegno del Rojava, del movimento “Non una di meno” e del recente sciopero mondiale per il clima tenutosi il 15 marzo; in piazza San Frediano, la cui chiesa un tempo ospitava messe in suffragio di Mussolini, svetta una grande falce e martello nera; infine, in via Pietro Toselli, non lontano da Palazzo Gambacorti, sede dell’amministrazione comunale, il volto in bianco e nero di un giovane con i capelli ricci, che ricorda un poco – salvo l’assenza di barba – la celebre fotografia di Che Guevara scattata da Alberto Korda a L’Avana nel 1960. È lo stesso volto la cui fototessera correda una scheda dell’AVIS, che sorride con il pugno alzato sulla prima pagina del settimanale anarchico Umanità Nova – “la polizia ha assassinato un altro nostro compagno”, recita il titolo – e che campeggia sulla copertina della prima edizione del libro di Corrado Stajano “Il sovversivo”, edita da Einaudi nel 1975, a tre anni dalla morte di quel giovane dai capelli ricci che ne era il protagonista.

Cantava il Canzoniere Pisano che “Era il sette di maggio, giorno delle elezioni | e i primi risultati giungan dalle prigioni | c’era un compagno crepato là | era vent’anni la sua età”: le prigioni sono quelle del carcere “Don Bosco” di Pisa, dove il “compagno” ventenne, il giovane anarchico Franco Serantini – questo il nome del giovane “sovversivo”, protagonista dell’omonima ballata del Canzoniere e di molte altre – muore alle 9.45 del 7 maggio 1972, a seguito delle violente percosse subite per mano dei reparti della celere, che hanno caricato il corteo di protesta organizzato da Lotta Continua contro il comizio del parlamentare Giuseppe Niccolai del Movimento Sociale Italiano. Corteo al quale Serantini non aveva partecipato se non nelle sue fasi finali, senza mai unirsi al resto dei manifestanti, dopo aver passato il pomeriggio alla sede del circolo AVIS del quale era socio, vicino alla piazzetta dove Niccolai sta tenendo il proprio comizio: il ragazzo, poco più che uno spettatore isolato, è facile preda dei poliziotti, le cui manganellate provocheranno una emorragia cerebrale fatale per il giovane, nato a Cagliari il 16 luglio 1951 da genitori ignoti (“figlio di nn”), un’infanzia passata fra il brefotrofio, due famiglie adottive e tre diversi istituti: l’ultimo di questi è il riformatorio “Pietro Thouar” di Pisa, dove il giovane viene mandato nel 1968, dopo una breve permanenza presso l’Istituto per l’osservazione dei minori di Firenze. La sua è una “storia ottocentesca”, ha scritto Stajano “ai limiti dell’invenzione settaria”, quella di un giovane “alla ricerca di qualcosa che lo compensi di ciò che non ha mai avuto” e finisce per trovarlo – come molti suoi coetanei – nel gusto dell’attivismo politico, avvicinandosi inizialmente alle organizzazioni giovanili di PCI e PSI, poi a Lotta Continua e infine aderendo al gruppo anarchico “Pinelli” di Pisa alla fine del 1971. Soltanto pochi mesi dopo Franco avrebbe trovato la morte, vittima di una intera catena che va ben oltre i poliziotti che l’hanno massacrato in Lungarno Gambacorti, e passa per le guardie e il personale medico del carcere fino al procuratore generale Mario Calamari, che cerca di ostacolare le indagini sull’accaduto: Serantini entra suo malgrado in quella genealogia di vittime delle forze dell’ordine – e di uno Stato venuto meno al proprio ruolo, sancito dalla Costituzione – che arriva fino ai giorni nostri: la Scuola Diaz, Federico Aldrovandi, Stefano Cucchi.

Fin dai giorni immediatamente successivi alla sua morte, quella del giovane anarchico figlio di nn – fa notare Franco Bertolucci, ideatore della biblioteca “Franco Serantini” e fondatore della BFS edizioni – è una memoria che divide profondamente la città: una parte di essa, la Pisa conservatrice della borghesia e dei baroni universitari, già ostile alle istanze studentesche e operaie di fine anni ’60 – bollate in toto come “violente”, nonostante la violenza sia soprattutto quella delle forze dell’ordine – “non ha voluto condividere la memoria di Serantini per una scelta di classe, di opposizione a quelle rivendicazioni giudicate “moralmente nefaste”, che mettevano in discussione poteri e privilegi acquisiti a cui non si voleva rinunciare”. Contro questa damnatio memoriae si erge però tutta quella parte della società che vuole invece conservare e tenere vivo il ricordo di Franco: una memoria, sottolinea ancora Franco Bertolucci, nella quale si possono riconoscere tre livelli: uno intimo e personale; uno collettivo e laico; infine uno di natura politica. “Il caso Serantini”, afferma Bertolucci, “coinvolge persone, amici e conoscenti di Franco, fortemente colpiti da questa tragedia e che negli anni, individualmente, hanno cercato di mantenere vivo questo ricordo attraverso gesti “anonimi” che testimoniano questo affetto: […] i mazzi di fiori, i bigliettini e le poesie lasciati sulla tomba o nei pressi del monumento, ma anche alcune lettere inviate nel tempo alla nostra stessa biblioteca e/o a riviste”.

Su questo primo livello se ne innesta un secondo “laico e civile, di quella parte della città che ha adottato Serantini post mortem, perché resasi conto della grave ingiustizia da egli subita, e facendo sì che la sua memoria non restasse nel libro dei ricordi di una comunità ristretta”: è l’opera di tutta quella parte della società civile che si impegna per la verità giuridica (nel 1974 gli avvocati Massei e Sorbi promuovono la costituzione di un “Comitato giustizia per Franco Serantini”) e per valorizzare gli ideali e le utopie di Franco, tramite la ricchissima produzione intellettuale di scrittori, artisti e musicisti nel corso degli anni, da Franco Fortini a Costantino Nivola fino allo stesso Stajano, il cui libro permette di far conoscere la vicenda in Italia e all’estero. La stessa Biblioteca Serantini, fondata nel 1979, è un importante tassello di questo mosaico, che negli anni ha promosso tante iniziative nel ricordo di Franco, contribuendo all’inaugurazione del monumento che ancora oggi si trova in piazza San Silvestro (o, come la chiamano ancora oggi i militanti anarchici e della sinistra radicale, “piazza Serantini).

Da ultimo si situa il livello politico della memoria del Serantini militante rivoluzionario, anarchico e antifascista: una memoria entrata fin da subito nel patrimonio dei circoli libertari e dell’estrema sinistra, della quale il nostro piccolo adesivo seminascosto in via Toselli non è che una testimonianza. Ancora oggi le organizzazioni che popolano l’underground della sinistra pisana rivendicano questa memoria, ciascuno secondo le sfumature della propria formazione politico-culturale. Un esercizio della memoria che dura tuttora, e che, ricorda ancora Bertolucci, è parte di una più vasta battaglia: non più giuridica – in quasi cinquant’anni nessun rappresentante istituzionale ha mai riconosciuto l’ingiustizia inflitta a Serantini – ma storica, nel momento in cui questa battaglia assume, oggi più che mai, una valenza che è anche politica.

1La Biblioteca “Franco Serantini” ha lanciato una campagna nazionale di sottoscrizione per l’acquisto di una nuova sede: tutte le informazioni a questo link.

Articolo pubblicato nell’aprile del 2019.




Lo sviluppo delle case “popolari ed economiche”

Evoluzione della cultura dell’edilizia popolare ed economica.
Il concetto di edilizia popolare viene da lontano, con caratteristiche legate alle condizioni contingenti della Repubblica Italiana; si caratterizza, ora come supporto alle condizioni economiche della popolazione, ora come incentivo alla ricostruzione dopo le devastazioni delle guerre, ora come azione integrata nel risanamento e recupero di parti del territorio urbano degradato. La legge del 1942 nasce in periodo bellico e di lì a poco la ricostruzione diventerà un torrente in piena la cui rapidità e diffusione renderà quasi del tutto inefficaci i complessi meccanismi amministrativi previsti, spalancando le porte ad un processo di speculazione inarrestabile.
I primi interventi dopo la legge del ’38 sono i due edifici in via Ferrucci che nel 1946 si chiamava via Campo Marzio. A questi seguono quelli di viale Matteotti e di viale Italia.  Verso la metà degli anni ’40 inizia a formarsi una tipologia insediativa più caratterizzata: quella dei cosiddetti Villaggi. Si rafforza anche una concezione nefasta per la vita delle città: quella degli “alloggi per…” quindi della concentrazione nello stesso ambito urbano di categorie sociali omogenee.
È da rilevare come la cultura architettonica rimanga ancora largamente ai margini di queste realizzazioni. Nel 1956 viene completato il programma per realizzazione dei 41 edifici ai margini della via Pagliucola, le “Casermette”. Negli anni successivi viene realizzato, lungo la via Ombrone Vecchio, il Villaggio di Castel de Luci, per un totale di 37 alloggi. Di seguito saranno realizzati 19 alloggi in località Sei Arcole. Con finanziamento specifico sarà promossa l’eliminazione delle “case malsane”. La realizzazione dei Villaggi prosegue: nel 1958 viene completato il Villaggio di via Sestini, un piccolo quartiere dormitorio costituito da 32 alloggi.
Dopo il completamento delle Casermette, l’IACP, nel 1957, inizia la trattativa per l’acquisto delle aree tra la via Dalmazia e la via di Valdibrana. Con questo complesso residenziale inizia una nuova configurazione dello spazio urbano: non più un sistema residenziale fine a se stesso ma un vero e proprio quartiere, dotato dei servizi e delle attrezzature che caratterizzano i centri urbani. Queste caratteristiche rappresenteranno un
1 Legge n. 640/1964. Provvedimenti per l’eliminazione delle case malsane valore nuovo per la città di Pistoia, che inizierà a manifestare i suoi effetti nel corso degli anni ‘60.
All’opera contribuiscono anche architetti di grande prestigio (Giovanni Michelucci, Leonardo Savioli…) anche se in alcuni casi
peseranno sugli abitanti carenze legate al confort abitativo, alla sicurezza, alla privacy. Ma saranno comunque rapporti umani a trarre da questa esperienza urbanistica i frutti migliori. La consegna di buona parte degli alloggi avviene sostanzialmente in modo simultaneo intorno al 1960-61. Per i giovani risiedere al Villaggio Belvedere rappresenta un tratto identificativo importante. Nel villaggio il tenore di vita non è mai caratterizzato dal disagio ed il lavoro è in valore diffuso, con una buona parte dei residenti occupata alle officine San Giorgio. La stessa caratterizzazione in “villaggio di sopra” e “villaggio di sotto” sarà una delle basi dialettiche per capire i differenti modi e motivi di aggregazione sociale caratteristici degli anni sessanta: patrimonio del quale, nei decenni seguenti, mancheranno una attenta valutazione ed una adeguata valorizzazione.
Dal Villaggio Belvedere sono scaturiti giovani motivati: molti laureati, professionisti, artisti, a riprova del fatto che la diversità, unita al desiderio di integrazione e di comunità, possono produrre quella qualità sociale ed umana che rappresenta l’unico vero supporto alla
convivenza ed allo sviluppo in una società civile.

Maurizio Lazzari, architetto e autore di saggi e articoli di storia dell’architettura, è membro della redazione della rivista “Farestoria” dell’Istituto storico della Resistenza di Pistoia.

Articolo pubblicato nell’aprile del 2019.




Storia di una memoria. Il settantacinquesimo anniversario dell’Eccidio del Montemaggio.

75 anni fa, il 28 marzo 1944, un reparto della Guardia Nazionale Repubblicana di stanza a Siena, comandata da Renato Billi e Alessandro Rinaldi, attaccò un gruppo di partigiani a casa Giubileo (nel Comune di Monteriggioni) uccidendone uno in combattimento e fucilando, poco dopo, diciotto prigionieri; dell’episodio ci fu un unico superstite, Vittorio Meoni, che riuscì a salvarsi in modo rocambolesco.

Proprio Meoni, venuto a mancare lo scorso anno, in questo lungo periodo, è stato il testimone ma anche il custode di una memoria divenuta esemplare[1] fin dall’azione che la generò.

In particolar modo la fucilazione dei prigionieri (a parte quella del partigiano Giovanni Galli, rimasto ferito durante il conflitto a fuoco e finito sul posto dai fascisti che non tentarono in nessun modo di prestare soccorso) si rivelò un atto calcolato e pianificato a sangue freddo. Una serie di indizi, che vennero ampiamente valutati durante il processo, celebrato tra il 1947 ed il 1949, denunciò in modo inequivocabile la premeditazione dell’Eccidio. Innazitutto il lasso temporale: i partigiani vennero catturati intorno alle otto del mattino; la fucilazione avvenne alle quattordici; ci fu quindi tutto il tempo di prendere ordini dal Prefetto di Siena, Giorgio Alberto Chiurco (difficilmente l’esecuzione sarebbe avvenuta senza il suo benestare), ma anche di predisporre un eventuale trasferimento dei prigionieri in carcere in attesa di processo.

Altro ancora: l’accuratezza della scelta del luogo. Casa Giubileo venne scartata subito, lo stesso si verificò per la località di Campo ai Meli. Il motivo fu probabilmente la presenza di testimoni: entrambi questi luoghi, case coloniche, erano abitati e passare per le armi anche due intere famiglie di civili fu, probabilmente, valutato inopportuno. La scelta cadde pertanto su La Porcareccia, una radura isolata sulla strada che risaliva da est il Montemaggio partendo da Abbadia Isola.

Racconta Vittorio Meoni che, all’arrivo delle vittime, la piazzola con la mitragliatrice e un drappello di militari erano già stati predisposti: il successivo ordine di sedersi e di togliersi le scarpe non lasciò adito a dubbi[2].

Dopo la fucilazione i cadaveri vennero lasciati sul posto per più di un giorno (furono raccolti soltanto la mattina del 30) e il prefetto di Siena rifiutò il permesso, richiesto dalle famiglie per mezzo della mediazione di un sacerdote, di riesumare i corpi dalla fossa comune dove erano stati frettolosamente seppelliti. Soltanto cinque giorni dopo si procedette alla riesumazione, al riconoscimento e alla traslazione delle salme nel camposanto di Castellina Scalo[3].

Immediatamente dopo la tragedia iniziò a strutturarsi la memoria dell’evento.

IMG_1271La notizia divenne di pubblico dominio ma seguì due canali diversi, quello ufficiale delle autorità fasciste le quali, in un primo momento, dichiararono che i partigiani erano morti nel conflitto a fuoco (versione diffusa dai giornali del Regime e più volte cambiata), e quello spontaneo legato alla rete dei familiari e dei conoscenti dei caduti; quest’ultima tradizione fu considerata senz‘altro più degna di fede per una serie di ragioni, prima fra tutte quella emozionale; in secondo luogo, in un territorio come quello senese, dove la maggioranza della popolazione viveva e lavorava in campagna e dove tante famiglie  nascondenvano un parente o un amico renitente alla leva, il fatto che tutte le vittime fossero giovani nonché di umile estrazione (a parte una, le altre erano contadini e operai)  fece sì che in moltissimi considerassero particolarmente vicina la tragedia.

La condanna fu pressoché totale e già un anno dopo, a liberazione avvenuta ma ancora a guerra in corso (28 marzo 1945), un gran numero di persone, spontaneamente, si recò a Casa Giubileo e alla Porcareccia per ricordare e rendere omaggio ai caduti che nel frattempo avevano assunto una sorta di sacralità e avevano ottenuto la definizione di martiri.

Altra tappa fondamentale per la costruzione della memoria dell’Eccidio fu la celebrazione del processo che portò alla sbarra Chiurco, Rinaldi e altri ottantuno imputati. Le testimonianze degli accusati furono incongruenti, contrastanti e chiaramente finalizzate a dimostrare l’estraneità dei singoli rispetto al gruppo dei carnefici[4], mentre il testimone chiave dell’accusa, Vittorio Meoni, si dimostrò preciso ed esauriente, riconoscendo, tra l’altro, molti militi del plotone d’esecuzione. La ricostruzione puntuale, la chiarificazione delle dinamiche e l’individuazione dei protagonisti fornì una grande mole di dettagli nuovi, fino a quel momento sconosciuti, che si saldarono nell’immaginario della popolazione locale dell’epoca.

Il processo, alla lunga, si concluse con un nulla di fatto (come del resto tutti gli analoghi procedimenti intentati in quegli anni contro i criminali di guerra italiani); in primo grado  per trentaquattro imputati si aprirono le porte del carcere con pene variabili dall’ergastolo ai dodici anni di reclusione, ma in seguito all’amnistia e al successo delle istanze presentate in cassazione, ben presto tutti i protagonisti dell’eccidio della Porcareccia vennero scarcerati[5].

Nonostante l’impunità, la memoria si era tuttavia istituzionalizzata: la neonata Repubblica, dopo il ventennio fascista, aveva bisogno di nuove radici morali e queste passavano anche attraverso gli eccidi e i massacri commessi dai nazifascisti sul nostro territorio[6]; per tale ragione l’anniversario dei fatti del Montemaggio, a partire dalle prime manifestazioni spontanee della primavera 1945, divenne un appuntamento fisso con i propri simboli (il tronco d’albero tagliato a metà, emblema delle vite giovani stroncate con la violenza, i gonfaloni dei comuni di provenienza dei martiri), un inno (O bella ciao!) un cerimoniale e un cerimoniere di indiscusso prestigio (lo stesso Vittorio Meoni).

Parallelamente alla fine della generazione che aveva vissuto e subito il drammatico periodo degli eventi dittatoriali e bellici  si ebbe l’avvento della Seconda Repubblica e, con questo, le radici morali e memoriali dell’età precedente vennero rimesse in discussione da una parte dei protagonisti della nuova classe dirigente. Anche la memoria periferica non fu immune da questa sorta di revisione che ai nostri giorni sta investendo, in modo indiretto, anche il ricordo della tragedia del Montemaggio. Mi riferisco in particolar modo al tentativo di riabilitare  il principale responsabile, ossia il Prefetto fascista di Siena, Giorgio Alberto Chiurco.

L’operazione  è visibilmente campata per aria poiché va contro decenni di ricerche senza presentare alcuna prova né nuova né tantameno decisiva, pertanto non è finalizzata in alcun modo a influenzare la comunità scientifica. L’obiettivo è un altro, ossia riscrivere la storia del fascismo italiano  trasformandolo, da dittatura violenta e sanguinaria che fu, a vittima degna di rispetto; ma tale operazione, oltre che contro la storia, intesa come disciplina legata a una rigorosa  metodologia scientifica è, con tutta evidenza, una mina vagante contro quella forma di memoria che costitusce il fondamento stesso della nostra Democrazia.

 

[1]Sul concetto di memoria esemplare cfr TODOROV T., Gli abusi della memoria, Miliano, Meltemi, 2018, p.63 e ss.
[2]MEONI V., Memoria su Montemaggio, Siena, Pistolesi, 2003, pp.29 e ss.
[3]ELIA D.F.A., Montemaggio. Dall’Eccidio al processo, Bari, Laterza, 2007, pp.142-143.
[4]Archivio I.S.R.S.E.C. Vittorio Meoni, Processo Chiurco, Verbali di dibattimento novembre 1947.
[5]ORLANDINI A. – VENTURINI G., I Giudici e la Resistenza. Dal fallimento dell’epurazione ai processi contro i partigiani, Milano, La Pietra, 1983, pp.43-46.
[6]Cfr TODOROV T., Gli abusi …, op. cit., p.71

Articolo pubblicato nel marzo del 2019.




Facibeni, Bartoletti, Nesi: la Madonnina del Grappa nella luce del Concilio

«Niente di meno indicato richiederebbe il ricordo del Padre, che un ripetersi cordiale dei suoi fatti e del suo esempio, senza approfondire e senza tener d’occhio gli aspetti positivi della realtà, che cambia e si evolve di suo. Ora mi pare che uno dei valori più schietti e più esigenti dello spirito del Padre sia proprio quello di adattare le linee del suo pensiero e della sua esperienza ad una situazione in atto, evitando la pura celebrazione di ciò che fu, di ciò che fece. Per questo io credo che gli ex allievi abbiano una grande responsabilità: essi traggono dalla esperienza di lavoro e di casa riflessioni vive. Pertanto essi dovrebbero esser quasi la consulta permanente, il vivaio fecondo di riflessioni sulla possibilità di inserire sempre più l’eredità del Padre nei problemi e nelle attese del nostro tempo. Ciò obbligherebbe oltretutto gli stessi ex allievi ad avere un impegno ed un atteggiamento di presenza nel mondo di oggi ed eviterebbe loro il rischio tremendo di esser stati tratti per distaccarsene dal popolo, piuttosto che esser stati tratti dal popolo per restarvene inseriti, con una capacità maggiore di arricchimento spirituale, in una elevazione del bene comune» (Nesi, 1964). In questa riflessione che don Alfredo Nesi consegnò nel 1964 alla rivista dell’Opera della Divina Provvidenza Madonnina del Grappa in occasione del sesto anniversario della morte di don Giulio Facibeni, si avvertono insieme l’eco del rinnovamento conciliare, allora di quotidiana attualità, e la particolare prospettiva con la quale il sacerdote guardava all’eredità lasciata dal Padre, come don Facibeni veniva chiamato a Firenze. Alfredo Nesi, intimo amico di don Lorenzo Milani, era nato a Lastra a Signa (Firenze) il 18 luglio 1923, e dopo aver condotto la sua formazione sacerdotale al seminario Cestello ed essere stato ordinato presbitero nel 1946, era entrato nell’Opera Madonnina del Grappa nel 1947. Da quell’anno e fino al 1954 era stato a Rovezzano dove, da subito, aveva coniugato l’esperienza sacerdotale e pastorale con quella educativa e socio-culturale dando avvio a scuole professionali e di avviamento al lavoro. Dal 1954 al 1958 svolse attività a Rifredi accanto a don Facibeni, perfezionando poi i suoi studi in teologia alla pontificia università Angelicum di Roma fino al 1962. Quando scrisse queste riflessioni su Facibeni sulle pagine de «Il Focolare», don Nesi si trovava già da due anni a Livorno, dove era stato chiamato dal vescovo Andrea Pangrazio come parroco nel quartiere Corea: da lì sarebbe poi fiorita la sua innovativa esperienza dell’Istituzione Sperimentale del Villaggio Scolastico.

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Don Alfredo Nesi

Quella di don Nesi – che fu certamente tra i più originali interpreti dell’eredità di Facibeni – era una prospettiva che mirava a non cristallizzare in un esercizio di pura memoria il pensiero e l’esperienza del fondatore dell’Opera, ma ad aggiornarle in maniera costantemente aderente ai “segni dei tempi”. Questa continua tensione alla revisione dei fondamenti su cui basare l’azione pastorale e spirituale dei sacerdoti dell’Opera diviene di particolare rilievo soprattutto se letta attraverso il filtro dell’azione di monsignor Enrico Bartoletti, figura di assoluta centralità per l’Opera negli anni successivi alla morte di Facibeni.

Don Nesi non a caso vedeva in monsignor Bartoletti, come chiaramente ebbe modo di esplicitare, «il vero costruttore dell’eredità di don Facibeni» (Nesi, 1996, p. 34). Una costruzione che tendeva a riadattare e ridisegnare la missione dell’Opera secondo le nuove architetture del rapporto Chiesa-modernità che il Concilio aveva tracciato. Un processo che in don Nesi era molto chiaro, quando sosteneva che «le normative tanto precise, le indicazioni sistematiche date e lasciate da don Bartoletti-vescovo ai Preti dell’Opera costituirono, in chiave tipicamente facibeniana, anche la lettura del Concilio Vaticano II» (Ibidem). D’altra parte, l’importanza che Bartoletti ricoprì per mantenere unita la comunità dei sacerdoti è stata più volte confermata da tutti i sacerdoti dell’Opera che ancora oggi, il 5 marzo, in occasione dell’anniversario della scomparsa di Bartoletti, organizzano un incontro di preghiera e ricordo. Tutto questo fa anche emergere alcuni tratti del percorso biografico di Bartoletti ancora poco messi in luce dalla storiografia e che rivelano il profondo, e poco conosciuto, legame tra due figure chiave del cattolicesimo novecentesco toscano e, più precisamente, italiano.

In primo luogo, è da evidenziare che dopo la morte di don Facibeni, il gruppo dei sacerdoti guardò a Bartoletti come al punto di riferimento insostituibile per mantenere l’Opera sulla linea e nel carisma indicati dal Padre. Più ancora, si può affermare che Bartoletti esercitò sui sacerdoti quel «carisma della paternità» (Nesi, 1996, pp. 153-164) prima così profondamente praticato da Facibeni verso i suoi sacerdoti: una paternità fatta di una intensa capacità di ascolto, della sensibilità di saper sentire con gli altri, di una dedizione senza stanchezze e senza riserve anche quando i superiori incarichi avrebbero forse consigliato di desistere.

Per altro verso emerge quanto l’ininterrotto esercizio praticato da Bartoletti nel meditare, aggiornare e reinterpretare la spiritualità di Facibeni abbia agito in profondità nel suo percorso di sacerdote, di vescovo e di vescovo tra i vescovi. Don Nesi, che dal 1954 al 1958 partecipò direttamente all’attività dell’Opera a Rifredi, sostiene che Bartoletti «visse con don Facibeni un’autentica comunione di spirito, di idee» (Nesi, 1996, p. 12). E d’altra parte lo stesso Bartoletti confidava, durante un incontro con i sacerdoti dell’Opera, di aver vissuto «i momenti più decisivi e importanti» della sua vita, «accanto al Padre» (Ai sacerdoti dell’Opera, 1980, p. 21). Nel discorso di commemorazione tenuto alla Madonnina del Grappa nel febbraio 1974 – fondamentale per comprendere l’ottica con la quale l’allora segretario della Cei guardava all’eredità di Facibeni – Bartoletti parlava del fondatore dell’Opera in termini di «profezia»: lo descriveva come «un dono, un carisma profetico, un profeta della continuità». «Vero profeta» perché il suo messaggio si poneva «in continuità di tradizione e di vita» e si inseriva, perciò, «in tal modo nel solco storico della vita della Chiesa, nel suo cammino, nel suo pellegrinaggio, nel suo itinerario nel mondo». Profeta soprattutto perché nel suo messaggio si potevano «cogliere fondamentali linee di vita sacerdotale, di vita pastorale e di vita cristiana per il nostro mondo di oggi». Traghettare l’Opera fiorentina nel post-Concilio significava per Bartoletti «capire questa profezia», per essere «sospinti a realizzarla, non in forme che ricopino soltanto quello che il Padre ha fatto, ma che, cogliendone invece lo spirito, lo sappiano inserire nelle nuove mutate situazioni, quelle situazioni, del resto, che egli già prevedeva e sentiva cogliendone i problemi e cercandone concretamente le soluzioni» (Bartoletti, 1982, pp. 298-299).

Monsignor Enrico Bartoletti con Paolo VI

Monsignor Enrico Bartoletti con Paolo VI

Sembra opportuno qui richiamare quanto sostenuto da Luigi Sartori a proposito di Bartoletti: secondo il teologo egli fu chiamato a vivere, nel corso di tutta la sua esperienza sacerdotale, una teologia di tipo «sapienziale». Una teologia cioè che diveniva un quotidiano esercizio di verifica e scoperta della verità, in quanto ogni situazione ed ogni evento costituivano per lui dei “segni dei tempi” e quindi erano «luogo della Parola, luogo teologico, da interpretare ulteriormente con operazione veramente teologale» (Sartori, 1988, p. 28). In questo senso si può affermare che Bartoletti trovò nell’Opera della Madonnina del Grappa un particolare «luogo teologico» in cui esercitare le sua capacità ermeneutiche: egli riteneva che Facibeni incarnando un carisma autenticamente «ecclesiale, presbiterale e missionario» avesse offerto alla Chiesa alcune intuizioni che sarebbero giunte a maturazione solo con il Concilio Vaticano II. E lo diceva, con estrema chiarezza, ai sacerdoti dell’Opera: «Se si ripensa a questi tre aspetti […] dello spirito del Padre, allora si capisce come appare chiaro l’averlo definito – sia pure con tutti i limiti necessari – un profeta dei tempi nuovi». Perché, argomentava in un incontro del 1971, «è su queste linee, in fondo, che il rinnovamento della Chiesa, della sua vita, di quella dei sacerdoti e della loro pastorale, viene prospettato e dal Concilio e dalla necessità dei tempi nuovi». Sulle linee cioè «della ricostruzione di una vera unità ecclesiale completa, che non sia né puramente presbiterale, né puramente sezionale (per esempio di giovani o di altri)» (Bartoletti, 1980, pp. 88-91).

Ma è nella proposta di un’autentica spiritualità sacerdotale sostanziata nella necessità che i sacerdoti dell’Opera si impegnassero a vivere una vera vita comunitaria che Bartoletti vedeva una delle intuizioni più innovative e anticipatrici di Facibeni: la «vita comune» e la «comunità di vita» tra i sacerdoti furono auspicate esplicitamente dalla costituzione conciliare Lumen Gentium (28) e nei decreti Presbyterorum Ordinis (8 e 9) e Christus Dominus (30,1). Pierluigi d’Antraccoli ha notato quanto Bartoletti sentisse la necessità di favorire la comunione del presbiterio come l’aspetto dominante della sua missione di vescovo: nei suoi discorsi e nelle sue omelie si ritrovano innumerevoli riferimenti a questo punto; e ne parlava sempre con trepidazione, con profonda umiltà, ma anche con fermezza (D’Antraccoli, 1978, pp. 50-51). Per questo l’intuizione facibeniana era per lui tanto significativa: il Padre aveva raccolto intorno a sé un gruppo di sacerdoti, lo aveva curato con amore, e, specialmente negli ultimi anni della sua vita, aveva dedicato molto tempo a fornirgli delle Regole di vita, evitando formule che fossero «eccessivamente strutturate». Erano stati anni di incertezze, di passi indietro, ma anche di forte confronto con altre esperienze come con la Missione de France, con la Comunità del Prado di padre Chevrier e monsignor Ancel. Tutto ciò era segno per Bartoletti che «ante tempus», don Facibeni aveva «concepito la vita presbiterale come vita comune». Non soltanto come vita di comunione o di partecipazione, ma proprio «come vita comune presbiterale, in modo da ottenere una struttura non tipicamente “religiosa”, ma di comunione presbiterale, quale si addice ai preti» (Bartoletti, 1980, pp. 88-91). Concetti tanto chiari anche in don Nesi quanto affermava che i preti di don Facibeni non erano chiamati ad essere una congregazione religiosa, ma «restando preti secolari, a vivere una vita apostolica» in cui la gente poteva «riconoscere subito la vicenda stessa del vangelo»; e solo una «vita comune dei preti» poteva favorire, finalmente, «la crescita di un laicato di collaborazione, di animazione, di comunicativa» (Nesi, 1996, p. 49). Una tale concezione, secondo Bartoletti, era assolutamente innovativa: se si eccettua una certa consonanza con le idee di San Filippo Neri, non aveva riscontri «non soltanto nelle attuali forme canoniche, ma neppure nella storia del diritto canonico» (Bartoletti, 1980, pp. 88-91).

Da qui lo sforzo costantemente profuso perché questa comunità di vita tra i sacerdoti si realizzasse davvero: un impegno che si tradusse in indicazioni dettagliate su come vivere concretamente la spiritualità sacerdotale, ma anche in chiari ammonimenti a non deviare dal carisma facibeniano.

lessi_enrico-bartoletti_testimone_paoline_92h98_origNon si sbaglia nel dire che la distanza tra la realtà dei fatti e l’ideale perseguito rimase sempre piuttosto notevole: lo si percepisce nello scorrere gli appunti degli incontri e nel ripercorrere le fasi di attrito e di crisi che in alcuni momenti hanno contraddistinto la vita dell’Opera e le relazioni tra i sacerdoti dopo la morte di Facibeni. Bartoletti ne era assolutamente consapevole: ma questo non gli impediva di considerare comunque di grande significato “teologico sapienziale” l’esperienza vissuta con l’Opera dopo la morte del Padre: si trattava di un esempio concreto di fraternità e comunità tra sacerdoti che era probabilmente quanto di più vicino alla sua idea di comunione del presbiterio egli avesse potuto sperimentare nella sua attività di prete e vescovo. Lo si avverte anche dal modo affettuosamente ironico con cui l’allora vescovo di Lucca raccontava quell’esperienza al suo clero diocesano: durante un’assemblea presbiterale – ricorda don Pietro Gianneschi che di Bartoletti fu segretario particolare per quasi sedici anni – il presule fece accenno, senza in realtà nominarli, ai preti dell’Opera con una frase molto significativa: «Il Concilio ha auspicato che i preti vivano una vita di comunità: certamente non è una esperienza facile. Lo verifico costantemente seguendo un gruppo di preti intelligenti, ma che rimangono… tanti “galli nel pollaio”».

Non sarebbe corretto asserire che don Nesi fu tra i sacerdoti dell’Opera quello che con le sue realizzazioni più si mantenne fedele al carisma del Padre: certamente però don Nesi è stato tra quelli che più si è impegnato, anche dopo la morte di Bartoletti, a ripresentare con costanza all’Opera la lettura bartolettiana dell’eredità di don Facibeni. Si tratta, in fondo, di una sorta di doppia paternità e di doppia eredità per l’Opera che, pur in una concretizzazione non priva di difetti, ha permesso al gruppo di sacerdoti di don Facibeni di vivere un’esperienza di vita comunitaria tra preti secolari che ha indubbie caratteristiche di originalità nel panorama del cattolicesimo italiano. Se ne rendeva conto don Nesi nel 1996 quando guardandosi indietro così sintetizzava tutte le fatiche e le soddisfazioni nel dare consistenza all’intuizione facibeniana: «Questo gruppo di Preti, che ora può cominciare a prendere il titolo di comunità, proprio perché può distinguersi dalle troppe ed uggiose comunità di ogni tipo e di ogni pizzicore, è stato profondamente toccato da don Facibeni. Ma oggi, dopo anni di passione, di tensione, comunque di fedeltà alla Madonnina del Grappa, quei Compreti, sono in Diocesi di Firenze, senza dubbio alcuno, un esempio di intesa e di reciproca collaborazione, che può davvero costituire, ora che finalmente si parla di vita comune tra i preti secolari, un riferimento concreto di una realtà in atto» (Nesi, 1996, p. 29).

Articolo pubblicato nel marzo del 2019.




“Corradino” contro Hitler

Adolf Hitler cominciò ad organizzare i primi campi di concentramento subito dopo la presa del potere: il primo fu quello di Dachau, vicino a Monaco, che aprì i battenti nel marzo del 1933, seguito da numerosi altri (Buchenwald fu costituito nel 1937, Mauthausen l’anno successivo). Nei campi vennero rinchiusi gli oppositori del regime (socialdemocratici e comunisti in primo luogo, contraddistinti da un triangolo rosso), gli ebrei (triangolo giallo), gli zingari, gli omosessuali e via discorrendo. La sorveglianza dei campi era affidata alle SS: il trattamento era durissimo e tutti i prigionieri erano costretti a lavorare nelle cave o nelle industrie che producevano armi. Con lo scoppio della seconda guerra mondiale affluirono nei campi anche i soldati e gli operai catturati nel corso delle operazioni belliche o delle retate fatte nei paesi occupati, ed il numero dei campi stessi crebbe in misura esponenziale. Durante il conflitto vennero creati dai nazisti trenta campi principali ed un centinaio di campi sussidiari, dove vissero all’incirca un milione di persone (i morti venivano subito sostituiti dai nuovi arrivati). I primi campi di sterminio, destinati a realizzare la “soluzione finale” del cosiddetto “problema ebraico”, furono istituiti in Polonia: tra questi figurano anche i campi di Auschwitz e quello di Treblinka, noti per la loro fama particolarmente sinistra.

I prigionieri di guerra godevano dei diritti previsti dalle convenzioni dell’Aia (1907) e di Ginevra (1929), ed in particolare essi avevano diritto ad essere trattati con umanità, a ricevere cure mediche e razioni alimentari sufficienti, corrispondenza e pacchi. Tutto questo non valeva però per i soldati italiani catturati dai nazisti dopo il “tradimento” dell’8 settembre, il cui stato giuridico non era quello di prigionieri di guerra, ma di internati militari. La qualifica di internati venne loro attribuita dai tedeschi proprio allo scopo di privarli delle tutele previste per i prigionieri di guerra, a cominciare dall’assistenza della Croce rossa. Tale decisione fu presa facendo strame del diritto internazionale, in base al quale si può parlare di internati militari soltanto “quando l’appartenente alle Forze Armate di uno Stato belligerante sconfina in territorio neutrale” (Resistenza senz’armi. Un capitolo di storia italiana, 1943-1945, dalle testimonianze di militari toscani internati nei lager nazisti, [a cura dell’] Associazione nazionale ex internati, Firenze, Le Monnier, 1984, p. 388): in tal caso lo stato neutrale ha il dovere di internare i militari rifugiatisi nel suo territorio per impedire che tornino a combattere.

Corrado Capecchi (detto “Corradino”) è stato uno dei tanti internati militari italiani (IMI). Capecchi nacque a Carmignano, che apparteneva allora alla provincia di Firenze, da Tito e da Imola Cartei il 15 aprile 1921. Cattolico praticante, non si schierò apertamente contro il regime, ma non ne condivise nemmeno le parole d’ordine (più volte si rifiutò di prendere parte al sabato fascista e venne per questo richiamato): Corrado fece insomma parte di quell’Italia apolitica che, con la sua indifferenza, rimase sostanzialmente impermeabile alla penetrazione della cosiddetta “mistica fascista”.

Nel 1941 Capecchi partì per il servizio militare: incorporato nel 6. Reggimento dei bersaglieri ciclisti, venne in seguito trasferito alla Legione carabinieri ausiliari di Roma. Nel dicembre dello stesso anno raggiunse l’Albania col 4. Battaglione dei carabinieri. Il 9 settembre 1943 fu catturato dai tedeschi a Pristina, l’odierna capitale del Kosovo, e deportato in Germania.

Nella vita di Corrado l’esperienza fatta in Germania come internato militare rivestì grande importanza: ne fanno fede le pagine di diario che vengono oggi pubblicate. Il diario in cui Capecchi racconta la sua vita nel lager restò chiuso in un cassetto per più di sessant’anni, fino al 2011, quando il figlio Alessandro lo trovò per caso in una vecchia scatola di ricordi. Il campo dove Corrado venne internato era un campo per ufficiali e per reparti scelti, fra i quali rientravano i carabinieri, ma il trattamento riservato ai prigionieri, anche se meno duro rispetto a quello in uso negli altri campi, era comunque pessimo. Il diario comincia il 25 settembre 1943 e si conclude il 12 aprile 1945. Gli appunti di Capecchi si riferiscono però soltanto ad una ventina di giorni. Il quaderno si compone quindi di poche pagine, ma tutte sono ben scritte e dense di pathos. La fiducia in Dio ed il pensiero costante per i familiari e per la futura moglie ne sono i motivi ricorrenti.

Il 25 settembre 1943 Corrado arrivò dunque nel campo di concentramento di Wietzendorf, nella Bassa Sassonia (il suo numero di matricola era il 1045). La sensazione da lui provata fu di profonda afflizione: “Tutto è triste. Piove – egli annotò – Malinconia e sconforto […] Da tre giorni non si mangia: ieri sera (finalmente) un poco di brodaglia di patate e rape […] e niente più […] Incomincia il nostro martirio. Dio, abbiate pietà di noi”. Sul problema del cibo insufficiente, un problema centrale per tutti gli internati, Capecchi tornò anche il giorno successivo, scrivendo: “oggi un po’ di acqua calda con qualche patata, un pezzetto di pane e un grammo di margarina”. Migliore era la condizione dei prigionieri di guerra che ricevevano i pacchi dalla Croce rossa e da casa: a distanza di cinquant’anni Corrado conservava ancora nitido il ricordo dei francesi che, dal campo contiguo, lanciavano del pane agli italiani. Ma, nonostante gli stenti ed i patimenti, che dopo pochi giorni avevano già reso “irriconoscibili” i prigionieri, Capecchi, come la stragrande maggioranza dei suoi compagni non tradì mai i valori che riteneva giusti. Sotto la data del 2 ottobre 1943 si legge infatti: “un ‘corvo fascista’ è venuto a cercare volontari […] Preferisco morire di fame che combattere per questi mostri inumani di tedeschi” (ed il rischio di morire di fame era tutt’altro che teorico se è vero, com’è vero, che ogni mattina mancava all’appello qualche internato, morto durante la notte nella branda consunto dagli stenti). Il giorno dopo cominciarono per Corrado i lavori forzati: “oggi mi hanno portato a lavorare lontano da qua, pala e piccone, questo sarà il mio impiego”. Ed il 4 ottobre: “Sono al campo di lavoro 6024 […] Guardiani feroci e inumani che bastonano per niente. Ma cosa hanno […] al posto del cuore?”. Il 25 dicembre 1943, primo Natale di prigionia, fu – come si può ben capire – una giornata mesta, in cui si fece più acuta la nostalgia della famiglia lontana (“come passeranno i nostri cari questo Natale senza di noi e senza nostre notizie?”) e l’inizio dell’anno non fu migliore. Il 1° gennaio 1944 Capecchi annotava: “ed eccoci nel nuovo anno. Una triste fine ed un peggior principio […]. Solo malinconia e sconforto. Fame, tanta fame”. Nel febbraio del 1944 Corrado, stremato dalla fatica, dovette essere ricoverato. Rimase in ospedale fino al mese di settembre, quando fece ritorno al campo di lavoro. La sorveglianza era rigidissima ed il morso della fame continuava a farsi sentire: “andiamo a rubare le patate la notte per mangiare – scrisse il 4 settembre –. La Gestapo e le SS seminano terrore e morte”. L’incubo volgeva però al termine. Nell’aprile del 1945 il campo di Wietzendorf venne liberato dalle truppe alleate. Capecchi conclude così il suo diario: “Dopo lunghi mesi di indicibili sofferenze fisiche e morali è arrivata l’ora in cui possiamo finalmente lanciare il grande grido: “Libertà” […] Se potessi […] esprimere tutta la felicità, tutta la gioia che sprizza dalla mia persona inonderei di lacrime […] questa pagina […] Viva la libertà santa e bella”.

Fatto ritorno a casa il 26 luglio 1945, Corrado venne posto in congedo illimitato il 30 novembre: in quel torno di tempo pesava meno di quaranta chili. Nel 1947 si sposò con Maria Bernardina Bellini (che nel diario è indicata affettuosamente come “Bibi”) e due anni dopo ebbe l’unico figlio. Morì a Carmignano il 20 novembre 2007, all’età di ottantasei anni. Il 14 dicembre 2012 il prefetto di Prato consegnò ad Alessandro Capecchi la medaglia d’onore concessa al padre in quanto deportato ed internato nei lager nazisti.

Questa, in estrema sintesi, è la storia di Corrado Capecchi, una storia non dissimile da quella di molti altri suoi coetanei, la cui esistenza – segnata dal dramma della guerra e della prigionia, subìta fino all’ultimo giorno pur di non schierarsi dalla parte sbagliata – può a buon diritto dirsi eccezionale perché rappresenta una prova di grande coraggio. Quasi nessuno era al corrente della sua vicenda, ed è stato quindi giusto riproporla in un momento in cui nel Paese riaffiorano pericolosi sentimenti razzistici ed il senso della solidarietà verso i deboli sembra appannato: la pubblicazione del diario di Capecchi intende portare a conoscenza del pubblico (ed in primo luogo dei giovani) una storia esemplare: quella di un uomo che, a rischio della vita, si è rifiutato di venire a patti con la propria coscienza. Grazie dunque a Corrado ed a tutti gli internati che si rifiutarono di combattere e di collaborare con i nazifascisti per l’esempio che hanno saputo darci.

Articolo pubblicato nel marzo del 2019.




Un archivio di vite sospese.

La nascita del centro di accoglienza della Rugginosa si deve alla volontà di creare a Grosseto una struttura civile dove i migranti sbarcati nel sud Italia potessero trovare immediato alloggio, ricevere le cure di base ed essere informati sulle operazioni necessarie per la definizione della loro posizione giuridica. Fu a questo scopo che nel giugno 2014 l’ex asilo della Rugginosa, posto ai margini della statale Aurelia Antica, fu riorganizzato per garantire, oltre a posti letto sufficienti per ampi gruppi, anche il vitto e le cosiddette cure tutelari.

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Mama Africa, maggio 2015

La storia del giacimento documentario della Rugginosa inizia con i primi arrivi dei migranti avvenuti nel 2014 e copre un arco cronologico di circa 4 anni, in cui si è registrato il passaggio di più di 2000 persone. Arrivati in autobus per lo più dopo aver attraversato il Mediterraneo su barconi –della drammaticità del viaggio rimane traccia in tanti scritti e disegni–, i migranti rimanevano qualche giorno alla ex scuola materna della Rugginosa in attesa dei necessari rilievi sanitari, in un ambiente essenziale, ma accogliente agli occhi stanchi di chi arriva dall’inferno, trovavano ristoro, un letto, degli abiti puliti. Portavano addosso ancora il dolore, le ferite di un dramma iniziato molto tempo prima. Ecco che le famiglie, uomini, donne, ragazzi e bambini si trovavano subito accolti, si distendevano, si riposavano dopo un’esperienza dolorosa e terribile durata a lungo e terminata solo in quell’istante.

Un ruolo chiave ebbe la trasformazione stessa dell’edificio, progressivamente adattato alle esigenze della vita quotidiana e alla condivisione di spazi e tempi fra gli operatori e gli “ospiti” della struttura, che venivano coinvolti nella sua gestione. Le attività pratiche, le prime lezioni di italiano, il dialogo con i mediatori, che approdava di solito nel racconto della propria storia, fecero parte quindi di un’insieme di azioni messe in campo per riempire le lunghe giornate e, allo stesso tempo, migliorare l’instaurarsi di quelle prime relazioni umane che sono alla base dell’accoglienza e dell’integrazione. I migranti trovavano umanità e sostegno e, rassicuratisi, nelle poche giornate di riposo e attesa di una nuova collocazione, iniziavano a disegnare, a scrivere, a raccontare. Il disegno, la narrazione per immagini o il semplice gesto del “creare insieme”, diventavano allora un canale di comunicazione immediato, libero dai vincoli linguistici e comunicativi.

I disegni venivano appesi al muro, le stesse pareti si riempivano di scritte, pensieri, immagini. Chi lasciava il centro dopo la sua breve permanenza, lasciava una traccia, un messaggio che presto veniva emulato e ripetuto da chi arrivava dopo, in una sorta di passaggio del testimone. Nel corso degli anni i migranti della Rugginosa hanno realizzato, ciascuno secondo le proprie capacità, disegni o opere più complesse, dai murales alle incisioni con la tecnica dell’aerografo, dalle semplici impronte delle mani che i più piccoli, con la guida degli operatori, lasciano sul foglio, più un gioco che non una intenzione narrativa, ai collage che gli adolescenti realizzano ritagliando dalle riviste fotografie di famiglie sorridenti, macchine sportive, tavole imbandite con frasi semplici e incisive a ribadire il messaggio “In future”.

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Impronte di bambini eritrei, luglio 2015

Così è nato il deposito dei documenti della Rugginosa, composto da disegni che non sono dei semplici segni sulla carta, scarabocchi tracciati per ammazzare il tempo, o ritagli di giornale; sono segni di memorie e di speranze, fissano uniche e irripetibili emozioni di chi ha appena lasciato un mondo e ne trova un altro, e vi proietta speranze e preghiere. Sono documenti che testimoniano una storia viva, fatta di qualche oggetto, parole e immagini, ma anche di carne e sangue e raccontano di un centro di prima accoglienza che ha progressivamente assunto il valore di un piccolo esperimento di integrazione. Emerge con forza dunque la peculiarità di questo giacimento documentario: l’archivio è un segno, dato di un fenomeno che è transitato nel cuore del territorio grossetano, traccia di una realtà lontana e defilata rispetto alla città e alle sue mille facce. Grosseto non se ne è accorta, era altrove, mentre alla Rugginosa si impegnavano risorse, energie, competenze e c’era bisogno di dedizione coraggio e umanità. Le carte, che potrebbero essere buttate o finire tranquillamente in qualche ripostiglio in attesa di essere dimenticate o distrutte dal tempo, vengono prese a cuore dagli operatori, sono conservate, divengono oggetto di interesse da parte del direttore del Coeso Fabrizio Boldrini, storico di formazione, che ne avverte il profondo valore storico, umano e civile.

Dal punto di vista archivistico, le memorie e i disegni prodotti dai migranti della Rugginosa costituiscono un archivio inconsueto. La sua peculiarità è il fatto stesso di essere nato qui, sotto i nostri occhi, divenuto un archivio di memorie ancora in formazione, mentre il presente trascolora divenendo storia da interpretare e da scrivere. Non figura nei manuali di archivistica niente di simile. Non esistono casi analoghi da cui trarre modelli o ispirazione. La conservazione e dunque il riordino, affidato all’Isgrec, si è rivelato da subito un’importante e difficile sfida, sin dalla sua fase progettuale. Infatti, non si tratta nemmeno di un materiale classico, che per consuetudine di studi, possiede già un metodo di analisi e un sistema consolidato di archiviazione. Il materiale per la sua natura complessa ed eterogenea richiede l’incrocio di competenze diverse: vi sono disegni che vanno descritti, ma anche testi che si intrecciano alle immagini e sono scritti in varie lingue a comporre un mosaico estremamente multiforme e vivido di esperienze tutte umane.

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Disegno di un giovane nigeriano, settembre 2014. E’ riconoscibile in basso il palazzo delle poste di Grosseto

I disegni, poi, sono stati fatti usando ogni tipo di carta disponibile, dalla normale carta da fotocopiatrice a fogli di album, in qualche caso, a carta grezza da pacchi o a semplici tovagliette usa e getta per i pasti consumati in comune. Ad esempio, fa parte del giacimento documentario un corpus di 26 fogli ricavati da tela cerata con logo UNHCR, fittamente coperti di testi in lingua eritrea, sia sul recto che sul verso, che recentemente tradotti, hanno restituito un epistolario di un gruppo di eritrei passati dai campi della Libia, singolare testimonianza di vite sospese. Sono stati per lo più usati pennarelli, ma anche tempere penne e matite. In qualche caso alcuni ragazzi hanno utilizzato le superfici delle pareti del centro di accoglienza per esprimersi e creare evocative immagini di speranza, scrivere frasi di ringraziamento per gli operatori, o pensieri sulla terra appena lasciata.

Pertanto, per la estrema varietà e per la deperibilità dei materiali, talvolta per qualche tempo esposti alla luce diretta, i materiali sono stati digitalizzati nell’ottica di costruire un sito da cui in futuro poter attingere on line favorendo e promuovendone l’utenza. Si è elaborata una scheda descrittiva che tenesse conto delle caratteristiche fisiche del documento e del suo supporto, unitamente alle tecniche utilizzate per produrlo, ma che consentisse anche la trascrizione il più possibile fedele dei testi e la loro traduzione, per permettere di individuare parole chiave che potessero consentire ricerche per argomento, per nazione di provenienza dell’autore, per lingua, ma anche per le immagini utilizzate, i simboli, gli elementi figurativi.

Lunga e seria è stata la riflessione sui temi legati alla classificazione e alla creazione di possibili serie archivistiche e la revisione incessante del lavoro di analisi e catalogazione anche alla luce degli elementi che progressivamente sono emersi durante il lavoro di schedatura. Su tutti, tuttavia, il criterio per l’ordinamento e la collocazione delle schede descrittive che appare preminente è quello cronologico, che va a ricostruire le ondate degli arrivi delle persone migranti che, iniziati nel 2014, hanno visto una notevole crescita ed intensificazione negli anni 2015 e 2016, per poi diminuire quasi scomparire nel 2018 a seguito delle politiche ministeriali. Dunque, prevale il criterio storico-cronologico legato all’evolversi delle vicende geopolitiche che fanno sfondo alle esperienze umane dei migranti ma ne costituiscono pure il sostrato profondo e il motore principale.

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Foto di un murales nelle stanze del centro di prima accoglienza. Un pick-up pieno di persone attraversa il deserto

Tutto questo lavoro non sarebbe stato possibile senza il continuo confronto con gli operatori che hanno fornito ogni tipo di informazione e supporto utile per la contestualizzazione e la corretta lettura dei materiali, elemento imprescindibile per la loro descrizione e catalogazione.

Del passaggio dei migranti e delle loro vite sospese tra due mondi rimangono circa 520 disegni e 31 lettere, alcuni raccoglitori di cartelle cliniche, qualche oggetto. Dall’analisi complessiva affiorano nitidamente alcuni filoni tematici principali: espressioni di riconoscenza, la percezione dell’Italia e degli italiani, il racconto del viaggio affrontato per arrivare sulle coste italiane, il pensiero per la famiglia lontana e per il paese di provenienza, i desideri e gli auspici.

I ringraziamenti sono rivolti all’Italia, alla popolazione e alle istituzioni italiane, alle ONG che operavano nel Mediterraneo, alla Croce Rossa, alle forze dell’ordine e all’esercito. I nomi degli operatori della struttura vengono spesso citati nei documenti, accompagnati da espressioni di riconoscenza e affetto. L’Italia viene percepita come la “patria della protezione”, una “casa della pace”, dove regnano “l’uguaglianza, la fraternità e il rispetto dei valori umanitari”. In alcuni documenti è descritta come la “land of milk and sugar” o il “milk and honey”, attribuendole quindi una valenza simbolica di “terra promessa” o “paradiso terrestre”. In contrapposizione, la Libia viene spesso descritta come un “inferno”, un “penitenziario a cielo aperto”, un posto in cui “è meglio non rimanere” e dove “gli arabi uccidono le persone di colore”. Essi vengono descritti come figure vessatorie, che trattano i migranti come “schiavi”, “animali” e “strumenti di lavoro” e che estorcono loro denaro e averi.

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Trad.: Sotto il rifugio di un sole caldo noi facciamo i nostri sinceri ringraziamenti all’Italia e alla Croce Rossa. Noi saremo riconoscenti verso la nazione italiana fino alla fine della nostra vita. Senza dimenticare Lobna, Sarah, Cinzia e le loro colleghe. Lettera di ringraziamento di giovani della Guinea, settembre 2014

Il viaggio affrontato è un argomento ricorrente ed è sempre descritto come un’esperienza estremamente drammatica. In alcuni documenti si fa riferimento alla traversata nel deserto ma le più numerose sono le descrizioni del viaggio via mare per raggiungere l’Italia: nei disegni sono rappresentate spesso le imbarcazioni sovraffollate, dalle parole trapela la paura e lo sgomento. Alcuni ricordano di aver pensano ai propri cari, altri di aver pregato Dio di salvarli, altri ancora raccontano delle urla e dei pianti. Sovente i migranti raccontano delle operazioni di salvataggio, con riferimenti all’umanità e alla competenza dei soccorritori.

Anche il tema degli affetti è molto presente. C’è chi esprime affetto per la propria madre, chi sente la mancanza dei genitori e degli amici e si augura di rivederli. C’è poi chi parla con amore e nostalgia della moglie e dei figli rimasti in patria e spera che un giorno possano raggiungerlo. I migranti molto spesso menzionano il proprio paese di provenienza, non sempre in chiave positiva. I più hanno lasciato la propria terra a causa di guerre, di problemi economici e familiari, della violenza etnica, della mancanza di libertà di parola, dell’etnocentrismo, della corruzione e delle dittature.

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Foto del murales in uno dei locali del centro di prima accoglienza

Frutto di una precisa contingenza storica, l’archivio di migranti della Rugginosa colpisce anche per la potenza espressiva di tali disegni, per l’immediatezza comunicativa delle testimonianze, capaci di astrarre le sofferenze di quegli uomini e donne per renderle esempi universali del dramma delle migrazioni del nostro tempo. Oggi il centro della Rugginosa è chiuso, la situazione è cambiata, è sfumata per trasformarsi in altro, esito di leggi frutto di politiche che mutano. Tuttavia, ciò che è accaduto in luoghi come la Rugginosa chiede uno spazio di analisi e di riflessione, solleva domande e sollecita le coscienze su qualcosa che è già storia e non deve essere dimenticato. Per questo presto sarà on line una mostra virtuale con un’ampia selezione del materiale. Sono previsti progetti didattici con le scuole e un documentario, che ripercorrerà la storia del centro di prima accoglienza, degli operatori, dei suoi ospiti.

Articolo pubblicato nel marzo del 2019.