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L’operaio che guidò la Regione Toscana

Gianfranco Bartolini, classe 1927, nasce a Fiesole il 17 gennaio e proprio questa terra, dove abiterà fino alla sua scomparsa nell’ottobre del 1992 segna in modo indelebile la sua attività, politica e istituzionale. Autodidatta (ha la quinta elementare), figlio della sua generazione, dove il mestiere si imparava “a bottega”, all’età di otto anni inizia a lavorare come fabbro presso il negozio del padre Domenico in via Matteotti a Fiesole.

A quattordici era già operaio allo stabilimento delle Officine Galileo dove l’impegno politico e antifascista, certamente attinto in ambito familiare – il padre era stato consigliere comunale socialista prima dell’avvento al potere del fascismo – comincia a farsi largo nell’indole di un ragazzo che, già dalla giovanissima età, mostrava convinzioni culturali e impegno civile. Più volte ricordato come uomo ‘del fare’, Bartolini sussume pienamente quel clima di militanza collettiva, di impegno civile e municipale che caratterizza gli anni successivi al dopoguerra, avendo già partecipato come partigiano alla lotta di liberazione nel 1944. Proprio la Resistenza rappresenta un capitolo molto importante per la sua vita e per la sua città natale, Fiesole. Durante la terribile esperienza del passaggio del fronte nell’estate del 1944, anche quest’ultima fu infatti gravata – in particolare nel mese di agosto – dal peso e dalla violenza dell’occupazione nazista, culminante nel noto eccidio dei tre carabinieri. In questa fase i Bartolini svolsero un ruolo molto importante. Mentre il padre di Gianfranco si impegnò a lungo per aiutare la popolazione locale a sopravvivere nella situazione di emergenza, il figlio – al tempo diciassettenne – fu protagonista di alcune azioni di guerra con la “Banda partigiana di Fiesole” (poi diventata SAP di Fiesole) dipendente dal CLN cittadino fino alla liberazione avvenuta il 1° settembre.[1]

Le Officine Galileo segnano un altro momento fondamentale della sua vita. Dopo aver rivestito il ruolo di Segretario nella Commissione interna della grande fabbrica fiorentina, venne infatti chiamato alla segreteria della Camera Confederale del Lavoro di Firenze negli anni ’60 del XX secolo, diventandone segretario nel 1965. Dirà di lui Giorgio Napolitano che proprio il suo impegno come dirigente sindacale, la sua militanza politica, l’esperienza del lavoro in fabbrica sono state le prove superate con serietà, impegno e sobrietà che gli hanno permesso di diventare un autentico uomo di governo.

Solo 6 anni più tardi, nel 1971, ebbe l’incarico di segretario regionale della Confederazione generale italiana del lavoro (CGIL), entrando nel Direttivo nazionale della CGIL e della Federazione nazionale CGIL-CISL-UIL.

Ma il legame con le radici rimase sempre inalterato e l’impegno politico lo vide entrare nell’amministrazione comunale di Fiesole giovanissimo. Già nel 1951, all’età di 24 anni, capolista del Partito comunista, riportò 215 voti di preferenza a fronte dei 644 voti ottenuti da Luigi Casini, rappresentante del Partito socialista e figura emblematica dell’antifascismo fiesolano. Alle elezioni amministrative successive (nel 1954, quando lo stesso Casini conseguirà 341 voti e Gianfranco 510) viene rieletto e riconfermato Assessore ruolo che manterrà fino al 1964.

Il suo sguardo attento di Assessore al bilancio non mancava di osservare i limiti oggettivi della cittadina collinare e il difficile rapporto con il capoluogo di Regione; è nel commentare il bilancio del 1964 che ebbe a dire:

Fiesole è oggi sempre più pressata dai bisogni che sono bisogni propri di una città moderna, una città che adesso è un po’ la periferia di Firenze […] È un problema che investe un po’ tutti i Comuni limitrofi, ma specialmente Fiesole ne risente in misura maggiore per cui il suo bilancio va sempre più in deficit. [Noi] non siamo certo in grado, oggi, di poter assicurare a Fiesole questi servizi che dovrebbero essere, io penso, in dotazione ad una città moderna, e forse non lo saremo mai […]. Fiesole ha un po’ il carattere di “Città – dormitorio”, infatti il Capoluogo ha avuto un certo sviluppo edilizio costituito da una serie di villette per il ceto medio, mentre nelle frazioni si è visto uno sviluppo per l’edilizia popolare per operai, ecc. …[2]

D’altro canto l’economia era la sua “fissazione”, non solo per retaggio sindacale, ma anche per la convinzione che il modello toscano dei distretti fosse un successo e che quindi intrecciare impresa, infrastrutture, attrezzature del territorio, mondo dell’università e della ricerca fosse il perno sul quale progettare il futuro. Bartolini aveva la percezione, e ciò emerge spesso nei suoi discorsi, che i meccanismi di globalizzazione in atto stiano portando l’industri italiana, il sistema produttivo, l’economia in generale verso il declino.

Sarà il 1975 a segnare la sua piena maturità politica, quando già Consigliere provinciale a Firenze, venne eletto con la seconda legislatura al Consiglio della Regione Toscana: nella lista del Pci e nella circoscrizione di Firenze, riportò 9.488 preferenza e divenne Vicepresidente della Giunta Regionale (Vicepresidente di Lelio Lagorio e, dal settembre 1978, di Mario Leone) con la responsabilità diretta della programmazione economica e del bilancio.

Alle consultazioni successive, giugno 1980, conquistò 15.489 preferenze e per questo è confermato nei suoi incarichi Vicepresidente e Assessore (sempre a programmazione e bilancio, con Presidente Leone) divenendo – dal 31 maggio 1983 – presidente della Giunta, carica che assume, pur modesto e schivo di carattere, con il fermo impegno di tentare la ricerca di soluzioni di governo e la collaborazione con realtà internazionali facevano perno sull’idea e sulla pratica della programmazione.[3]

Le vicende politiche regionali lo portano, infatti, alla guida di un governo “quasi” monocolore, retto da una scarsa maggioranza che godeva di un’altrettanto scarsa fiducia, soprattutto da parte dei vecchi alleati del Psi, che lo consideravano debole, soprattutto a causa del suo insediamento sociale “limitato alla classe operaia”.[4]

Eppure ci si dovette ricredere e accettare che il temuto monocolore rappresentasse, in realtà, una risorsa volta verso un impegno comune per l’innovazione del sistema produttivo, un confronto diretto con le forze sociali, con l’imprenditoria, con la Chiesa e con le Forze armate. Dall’’85 al ’90, con la fine naturale della terza legislatura, l’alleanza di governo sarà più ampia: una compagine determinata dal rientro dei socialisti e l’avvento dei socialdemocratici; ma per le Regioni saranno anche gli anni più difficili: da una parte il Governo le considera meri uffici decentrati dall’altra il Parlamento legifera  in tutti i campi regionali.

Gianfranco Bartolini affronta la sfida da riformista e regionalista convinto. Del resto, già nel 1984, come Presidente di turno della Conferenza dei Presidenti delle Regioni, aveva consegnato al Presidente della Commissione bicamerale per le riforme istituzionali, Aldo Bozzi, la proposta della Camera delle Regioni. Un Governo Regionale in fieri e in via di stabilizzazione, uno sviluppo delle autonomie locali, un’idea – insomma – regionalista e autonomista della quale Bartolini si fa portavoce e promotore in grado di accettare e gestire le sfide della modernità, facendo perno sull’idea e sulla pratica della programmazione:

Bartolini si cimenta in particolare modo con un’idea di programmazione “concordata e contratta”, e lo fa con modernità e apertura; batte e ribatte su esigenze cruciali di innovazione; non si chiude in vecchie visioni statalistiche ma sostiene “nuovi rapporti tra pubblico e privato”, difende “una sorta di gemellaggi tra la Regione e le imprese”, suggerisce “intese che si propongano di suscitare investimenti e occupazione, di dare risposta ai problemi dello sviluppo tecnologico, di affrontare quelli dell’ambiente e delle infrastrutture”.[5]

Rimarrà in carica per l’intera durata della quarta legislatura del governo toscano, fino al 1990, mantenendo ininterrottamente la delega per le politiche della programmazione e i rapporti con il Parlamento, il Governo e Comunità Europea. Come era nella sua natura, o forse come gli aveva insegnato l’esperienza, negli anni in cui si pone a guida della Regione Toscana non perse occasione per intrecciare rapporti di varia natura: il dialogo e il confronto si sviluppava verso ogni espressione della società toscana partendo dalla cittadinanza, passando per il mondo dell’industria e dell’imprenditoria, rivolgendosi all’associazionismo e alle cariche vescovili, fino alle più alte sfere istituzionali. Questa fitta rete di relazioni rispecchiava la sua naturale tendenza alla concretezza nell’agire locale, legandosi, d’altra parte, a un’interpretazione dei fatti globale e internazionale. Non a caso poi, all’inizio del 1989, di fronte alla Commissione parlamentare per le questioni regionali, traccia un importante bilancio del regionalismo italiano esordendo proprio con la dimensione europea di questo movimento[6].

Gianfranco Bartolini esprime un riformismo forte. Ancorato alla fermezza dei valori, alla fine degli anni ’80 già intravedeva un’era di crisi politica, l’assenza di grandi propositi di rinnovamento dovuta, forse in parte, anche alla paralisi delle istituzioni marchiate da un centralismo soffocante che alimentava “le diseguaglianze e il divario fra le aree del paese, aprendo varchi pesanti a larghe fasce di illegalità e a fenomeni che reclamavano la centralità della questione morale”. La libertà, affermava, non può tradursi nelle ingiustizie e nelle inefficienze che vanno mortificando l’intera società e piegando la democrazia agli interessi dei più forti.[7]

Non solo sull’economia tout-court si basava però la sua azione di governo: la difesa del suolo,[8] il regionalismo, l’autonomia statuaria, le “aree vaste” come risposta alla crisi della società toscana. Su quest’ultimo tema, affrontato per la prima volta in maniera organica in occasione del dibattito in Consiglio regionale, avviato dall’approvazione del Programma regionale di sviluppo 1988-1990, Bartolini svilupperà un’approfondita analisi sulle difficoltà che il sistema policentrico toscano stava affrontando sul piano economico. Se le strategie interne non sono più in grado di garantire le condizioni necessarie e i livelli di efficienza adeguati per attestarsi sui mercati sarà necessario “individuare nuovi ambiti, all’interno dei quali sia possibile stabilire le condizioni necessarie per annullare le diseconomie esistenti e per rilanciare il policentrismo, che è un valore nella nostra regione, ma ad una scala diversa e meno angusta, se vogliamo stimolarne il rilancio e fargli ritrovare il dinamismo del passato”. [9]

Gianfranco Bartolini muore a Firenze il 10 ottobre 1992.

Elena Gonnelli, archivista, direttrice della sezione Montecatini Terme-Monsummano dell’Istituto storico lucchese, collaboratrice dell’Istituti storico toscano della Resistenza e dell’età contemporanea per il quale ha curato l’inventario del fondo G. Bartolini  e la mostra “Gianfranco Bartolini: il sindacalista, l’amministratore, il Presidente”.

Note:

[1] I. Tognarini in La Toscana e il Riformismo: una riflessione a 15 anni dalla scomparsa di Gianfranco Bartolini, Associazione Autonomie Locali Legautonomie Toscana, Pisa, 2009, p. 22.

[2] G. Bartolini. Il governo regionale cit., pp. 13-15.

[3] Archivio Comunale di Fiesole, Delibere del Consiglio Comunale, Serie I, n. 44, 25/03/1964

[4] P. Ranfagni, Il coraggio della sfide, in Gianfranco Bartolini. Un uomo del popolo alla guida della Regione, a cura di P. Ranfagni, Direzione generale della Presidenza Giunta Regione Toscana, Firenze, 2014, pp. 20-24.

[5] G. Napolitano, Presentazione in G. Bartolini. Il governo regionale, a cura di M. Badii, F. Gigli, P. Ranfagni, Edizioni della Giunta Regionale, Firenze,1995, p. 14.

[6] Archivio Gianfranco Bartolini, d’ora in avanti AGB, Scritti e discorsi, b. 10, 33.14, 1989.

[7] I. Tognarini in La Toscana e il Riformismo, cit., pp. 19-28.

[8] Bartolini stigmatizzerà più di una volta la mancanza di una normativa nazionale per la difesa del suolo, lamentando in generale l’assenza dello Stato su queste tematiche, facendo particolare riferimento all’alluvione del 1966 di Firenze e la Toscana. Cfr. AGB, Scritti e discorsi, b. 8, 30.33 e 30.36, 1986.

[9] AGB, Scritti e discorsi, b. 9, 32.15, 1988. Sul concetto di “area vasta” (compresa la Firenze-Prato-Pistoia) e su quello, conseguente, della Città-metropolitana Bartolini tornò molte volte, anticipando il varo della legge 142/90.




“Hanno sparato a Togliatti!”

I fatti

14 luglio – Non appena, a Abbadia S. Salvatore, paese minerario sul Monte Amiata, si seppe dalla radio dell’attentato contro il segretario del Pci, Palmiro Togliatti, ferito a colpi di pistola all’uscita della Camera dei Deputati, si crearono assembramenti di persone. Alle 14.00, quando finì il turno dei minatori, si formò spontanea una prima manifestazione durante la quale si verificarono alcune aggressioni verbali e fisiche ai danni di ex fascisti. Seguirono un’assemblea e un comizio del segretario di zona del Pci, Domenico Cini, che addossò al governo la responsabilità politica e morale dell’accaduto. Al termine partì un corteo di varie migliaia di persone. Gli esponenti dei partiti di centro e di destra che ebbero la disavventura di trovarsi lungo il percorso furono aggrediti. Colpi di pietra mandarono in frantumi i vetri delle finestre di alcune delle loro abitazioni. Cinque di esse vennero invase e danneggiate. Gruppi di dimostranti devastarono le sedi della Dc e delle Acli, presidiarono l’ufficio postale e impedirono a chiunque di usare il telegrafo, tanto che il brigadiere dei carabinieri, per chiedere rinforzi, dovette fare ricorso al telefono della società Seat-Valdarno, ma soprattutto occuparono l’edificio di una cabina telefonica, nodo importante nel sistema nazionale delle telecomunicazioni,
Quando arrivò in paese un camion di poliziotti e di carabinieri proveniente da Chiusi, una folla ostile lo circondò. I militari furono costretti a chiudersi in caserma. L’automezzo fu messo fuori uso: gomme sgonfiate, candele asportate. Poco dopo giunse un altro camion, inviato da Siena. In questo caso gli agenti si diressero alla cabina telefonica e si asserragliarono nella sala macchine, ponendo di fatto fine all’occupazione dei dimostranti. Ma nella notte vennero tagliati due cavi, quello della Seat-Valdarno e quello fra la caserma e la cabina telefonica.

Palmiro Togliatti in ospedale dopo l'attentato

Palmiro Togliatti in ospedale dopo l’attentato

15 luglio – La mattina del 15 luglio gli accessi al paese furono messi sotto controllo da blocchi stradali fatti con tronchi e pietre. Un folto presidio venne istituito intorno alla cabina telefonica. In pratica i due contingenti di forze dell’ordine, quello nella caserma e quello nell’edificio della cabina, erano separati e senza contatti. A quel momento la situazione sembrava relativamente tranquilla. Il sindaco Gualtiero Ciani, pur condividendo in pieno i motivi della protesta, si adoperò per stemperare alcune delle situazioni di maggiore tensione. E d’altra parte i manifestanti avevano la sensazione che il paese fosse sotto il loro controllo.
Verso le 16.00 un autocarro della polizia, con a bordo sette uomini si fermò al posto di blocco eretto nei pressi dell’ospedale, su quella che era la principale via di accesso al paese. Trasportava viveri per i poliziotti e i carabinieri giunti il giorno prima, ma, agli occhi di chi vigilava il posto di blocco, si trattava comunque di uomini armati che si sarebbero aggiunti agli altri. Due agenti che scesero dal camion per rimuovere gli ostacoli furono circondati, sequestrati e portati nel bosco, in località Terrabianca. Dopo alcune ore sarebbero stati rilasciati. La tensione divenne estrema. Il camion non retrocedeva, i manifestanti neppure. Scoppiò una bomba a mano. Seguì una fitta sparatoria da entrambe le parti. La guardia Battista Carloni fu colpita al collo in modo molto grave. Morì il giorno successivo. Altri poliziotti furono feriti più lievemente. Il maresciallo, Virgilio Ranieri, che comandava il reparto, portò i feriti nel vicino ospedale. Poi tentò di raggiungere la centrale telefonica. Alcuni manifestanti lo circondarono e gli intimarono di non proseguire. Evidentemente non tornò indietro. Fu aggredito e accoltellato a morte.

16 luglio – Il 16 luglio arrivarono a Abbadia San Salvatore il parlamentare del Pci, Torquato Baglioni, e il segretario provinciale dell’Anpi, Fortunato Avanzati, che era stato comandante della Brigata Garibaldi Spartaco Lavagnini, per incontrare i dirigenti comunisti locali. Le direttive del partito che invitavano a far rientrare la protesta erano ormai giunte, chiare e inequivocabili, ponendo fine ad ogni incertezza. Fu deciso, insieme al sindaco, alla commissione interna della miniera, alle sezioni comunista e socialista dell’Anpi, di redigere un manifesto in cui si invitava la popolazione a riprendere il lavoro. Così avvenne, come in tutta Italia.
Nel pomeriggio le forze di polizia e l’esercito occuparono militarmente il paese, iniziando perquisizioni a tappeto e arresti di massa, seguiti spesso da pesanti percosse. Anche il sindaco venne incarcerato. Alcuni di coloro che avevano preso parte attiva allo sciopero e alla protesta cercarono rifugio nei boschi della montagna e solo dopo qualche giorno furono convinte a costituirsi.

Opuscolo del Pci sui fatti del luglio 1948 e sulla repressione che ne seguì

Opuscolo del Pci sui fatti del luglio 1948 e sulla repressione che ne seguì

La lettura
Per comprendere ciò che accadde ad Abbadia S. Salvatore
si è fatto ricorso giustamente alla ricostruzione del contesto storico e socioeconomico, si è parlato della durezza del lavoro in miniera, dei tanti disoccupati, della forte tradizione partigiana, del radicamento del Pci e, andando indietro nel tempo, del retaggio di improvvise esplosioni di violenza come durante i drammatici scontri dell’agosto 1920 fra socialisti e clericali, nonché di un ribellismo atavico delle popolazioni amiatine che, nell’Ottocento, avrebbe trovato la sua espressione nel movimento religioso di David Lazzaretti, il profeta dell’Amiata, a cui fece riferimento lo stesso Togliatti nel discorso pronunciato durante la sua visita nel 1949.
Tutti questi fattori possono effettivamente aver concorso a rendere la situazione più incandescente che altrove, ma non certo a determinare una sorta di diversità politica, se non addirittura antropologica, da cui sarebbe scaturita la perdita di vite umane.
Tenendo sullo sfondo episodi simili che si verificarono in varie parti dell’Italia del centro e del settentrione e rimanendo alla provincia di Siena, bisogna, infatti, ricordare che devastazione di sedi della Dc, posti di blocco e altre iniziative tese ad assumere il controllo del territorio si verificarono in varie zone – a Siena, il 15 luglio, ci fu una sparatoria in via Montanini nei pressi della sezione democristiana – in un clima di allarme preinsurrezionale innescato dalle rivoltellate contro Togliatti, ma predisposto da quella cortina di ferro che, dalla rottura dell’unità antifascista del 1947, era calata a dividere gli italiani in ogni parte della penisola. Una cortina che se non aveva impedito il miracolo laico della firma della Costituzione, alimentava tuttavia profonde lacerazioni organizzate anche in contrapposti gruppi semiclandestini armati. Pronti a ricorrere alle armi, gli uni se il Pci avesse conquistato il governo con le elezioni o con altri mezzi, gli altri se si fossero presentate derive parafasciste. E l’attentato a Togliatti sembrava proprio l’inizio di una di quelle.
L’innesco dei fatti di Abbadia S, Salvatore fu dunque dovuto, almeno in parte, al caso e cioè alla presenza di quella centrale telefonica di importanza strategica. Per la sua difesa vennero inviate forze di polizia – tre camion fra il pomeriggio del 14 e quello del 15 – con l’ordine di superare ogni ostacolo, mentre altrove carabinieri e poliziotti furono lasciati sulla difensiva. Per fermare l’ultimo camion – ad Abbadia la situazione è tranquilla, la controlliamo noi, gridò inutilmente una donna al posto di blocco – si verificò la sparatoria in cui fu colpita a morte di Giovan Battista Carloni e che innescò l’aggressione al maresciallo Ranieri Virgilio.
La repressione invece fu, quella sì, davvero speciale. Dura in tutta la provincia di Siena, durissima sulla montagna, venne attuata non con il criterio della ricerca delle responsabilità individuali, bensì con il metodo della selezione politica, del rastrellamento di massa, della bastonatura indiscriminata, per rispondere con una operazione di antiguerriglia in grande stile a una guerriglia appena abbozzata, per quanto con conseguenze tragiche. Ed ebbe una sanguinosa appendice: la morte del capolega Severino Meiattini, ucciso il 18 luglio dalla polizia all’interno della sede della Federterra a Siena, durante il corteo funebre di Carloni e Virgilio, con le modalità tipiche della provocazione e della vendetta.
Un’ultima notazione sulla morte di Virgilio. La questione merita una rilettura degli atti processuali. Non risulterebbero tuttavia sevizie e torture, come pure si affermò. Emerge, questo sì, che dopo l’aggressione e le coltellate il maresciallo fu lasciato per strada senza soccorso perché i manifestanti non trovarono la pietà e il coraggio di trasportarlo in ospedale, mentre i suoi commilitoni, asserragliati in caserma e nella centrale telefonica, non ne ebbero, o ritennero di non averne la possibilità. O forse neppure seppero quello che gli era accaduto.




Destini di emigrati: Yves Montand

La fama può avere mille volti e mille possono essere i motivi che spingono una persona a tentare di uscire dall’anonimato. Yves Montand (1921-1991) fu senz’altro un artista a cui la fama arrise in più di un’occasione. Il suo talento, il fervore che riversava nelle esibizioni a teatro furono la cifra di un’epoca. Artista eclettico, seppe spendersi al meglio tanto nel mondo del cinema quanto in quello della musica. Fu proprio in quest’ultimo che mosse i suoi primi passi.

Chi lo ricorda di fronte alle migliaia di persone dell’Olympia o dell’Étoile di Parigi, stenterà a credere che tutto possa aver avuto inizio sulle assi sconnesse di un vecchio granaio di Marsiglia. Eppure, nel 1938, appena diciassettenne, Yves Montand fece il suo debutto proprio di fronte a una cinquantina di operai sfiaccati da una lunga giornata di lavoro che, mentre lui si sforzava di conquistarli con brani di Charles Trenet e Maurice Chevalier, masticavano sfacciatamente arachidi e semi di girasole. Fu il primo grande successo.

Del resto lo stesso Montand proveniva dall’ambiente proletario e ne rivendicava orgogliosamente l’appartenenza. Con una particolarità: era uno sradicato. Ivo Livi, così si chiamava veramente, era italiano, figlio di emigrati italiani. Nacque a Monsummano, al tempo provincia di Lucca, oggi Pistoia. Il padre, convinto antifascista, a seguito di una spedizione punitiva che, in una sola notte lo fece cadere sotto il peso dei manganelli e assistere alla distruzione del laboratorio di scope di cui era proprietario, dato alle fiamme per ritorsione, fu costretto a partire per la Francia. Poco dopo anche Ivo, che di quella notte conserverà a lungo i bagliori del fuoco e le grida, lo raggiunse col resto della famiglia. Ma dell’attaccamento all’Italia resterà traccia nel film del regista Giuseppe De Santis Uomini e lupi e in un disco del 1963 interamente composto da brani della musica popolare italiana, tra i quali Bella ciao.

Marsiglia avrebbe dovuto essere la tappa di un lungo viaggio verso l’America. Divenne l’ultimo approdo. Qui i Livi vissero in quartieri squallidi, abitati da povera gente. Ivo, che assunse il suo nome d’arte proprio in omaggio all’origine toscana – quando la madre lo chiamava per cena, gli gridava: “Ivo, monta!”, cioè “sali in casa” – dovette adattarsi a svolgere qualsiasi tipo di mestiere: operaio di un pastificio, saldatore, persino parrucchiere.

Poi l’esibizione nel granaio e da lì l’inizio di una faticosa e brillante carriera. Dall’Alcazar di Marsiglia, il più importante teatro cittadino, ai teatri di Parigi e del mondo. Ci furono nella vita del Montand cantante incontri che indirizzarono il suo percorso artistico. Quello nel luglio 1944 con Édith Piaf, che lo volle ad aprire un suo concerto al Moulin Rouge, inizio di una collaborazione che sarebbe durata tre anni. Per lui la regina della canzone francese avrebbe scritto tre brani: La grande Cité, Mais qu’est-ce que j’ai e Il fait des…

Nel 1946 l’interpretazione di Les feuilles mortes, capolavoro del suo repertorio, tratto da una poesia di Jacques Prévert che sarebbe stata messa in musica per il film Les portes de la nuit (“Mentre Parigi dorme”). E, nello stesso anno, l’inizio del sodalizio col cantautore Francis Lemarque che per Montand scriverà testi indimenticabili come À Paris e Quand un soldat. Quest’ultimo in particolare, uscito nel 1952, in piena guerra d’Indocina, e diventato fin da subito inno all’antimilitarismo, sarà censurato per anni dalle radio francesi e farà di Montand il bersaglio prediletto dei più accaniti nazionalisti.

A rinvigorire le polemiche ci si metterà lo stesso Montand che nel 1956, a seguito della repressione in Ungheria, non rinuncerà a partire per una tournée nei paesi sovietici, più per comprendere le ragioni di un simile gesto che per mero tornaconto personale. Ritornerà deluso e amareggiato, non più disposto a battersi per un comunismo cieco e autoritario.

Infine il ritiro dalle scene nel 1968, salvo un breve ritorno negli anni Ottanta, che segnerà la fine della sua carriera di cantante. Continuerà a fare film, ma non tornerà più ad esibirsi in pubblico, se non per cause benefiche.

I gusti cambiano e pure Montand ne era consapevole quando in un’intervista del 1972 a Danièle Heymann diceva: “Un tempo esistevano compositori che si limitavano a comporre canzoni, senza interpretarle. Oggi, grazie ai congegni elettronici e ai mezzi audiovisivi, chiunque è in grado di cantare, anche chi non ha una voce particolarmente bella o chi si muove in maniera inelegante. […] Mi rendo conto, però, che doveva essere frustrante per un autore vedersi costretto ad affidare sempre le proprie canzoni ad un interprete: forse la nuova situazione è più onesta. Ma i pochi interpreti sopravvissuti non hanno più materiale su cui lavorare. Questo è il motivo fondamentale per cui ho smesso di registrare dischi e di fare spettacoli”.

Massimo Vitulano si è laureato in Lettere presso l’Università di Firenze nel 2015 con una tesi su Roberto Vecchioni. Collaboratore per “Il Tirreno” dal 2009 al 2016, è stato docente presso l’Università dell’età libera di Firenze e attualmente è insegnante di italiano presso l’Istituto tecnico “Marchi” di Pescia.




La “belva della provincia”

Il 18 dicembre 1948, ad oltre tre anni e mezzo dalla fine del secondo conflitto mondiale in Europa, la Sezione speciale della Corte d’assise di Lucca poneva la parola fine al travagliato processo contro Bruno Messori, Camillo Cerboneschi ed Erminio Barsotti, vertici e aguzzini dell’Ufficio politico investigativo della Guardia nazionale repubblicana di Lucca. Accusati di collaborazionismo, spionaggio politico-militare, arresti arbitrari, aver preso parte a rastrellamenti e inflitto a numerosi prigionieri «sevizie particolarmente efferate» – nonché, nel caso della «belva della provincia» Cerboneshi e di Messori, aver cagionato con la propria azione la morte di diversi partigiani e favoreggiatori – gli uomini dell’Upi di Lucca avevano operato in tutta la provincia (e non solo) tra il settembre 1943 e il giugno 1944, per poi seguire nel Nord Italia il trasferimento delle strutture repubblicane in ripiegamento dalla Toscana.

Solo in minima parte conosciuta, anche per l’oggettiva scarsità e in alcuni casi difficoltà di accesso alle fonti, la storia violenta di questo purtroppo efficace strumento repressivo nelle mani della Repubblica sociale italiana merita invece, in un panorama storiografico sempre più attento alla dimensione specifica e ai “molti territori” cui si sarebbe articolata la violenza fascista durante gli anni della guerra civile, un seppur breve approfondimento.

All’indomani delle convulse vicende armistiziali e dell’occupazione tedesca della Penisola, mentre il fascismo lucchese rialzava con fatica la testa, tornava infatti sulla scena l’Ufficio politico investigativo dell’86ª legione della Milizia volontaria per la sicurezza nazionale, riorganizzato dal capo manipolo Camillo Cerboneschi. L’ufficiale, perugino di nascita (classe 1908) ma milanese d’adozione, reduce dal fronte montenegrino, era infatti sorpreso l’8 settembre 1943 in Lucchesia durante una breve licenza di convalescenza; impossibilitato a rientrare al proprio reparto, nelle settimane immediatamente successive si poneva a disposizione del locale comando germanico, riuscendo ben presto ad aggregare attorno a sé un piccolo nucleo di collaboratori e informatori avvicinati tra le fila della Milizia stessa, molti dei quali ex-squadristi o a loro volta reduci dal fronte balcanico, tragica “scuola di formazione” per alcuni tra i più violenti protagonisti della guerra civile.

Capace di accattivarsi la fiducia dell’alleato-occupante grazie alla «notevole attività nella collaborazione» e la fattiva opera delatoria, la squadra politica di Cerboneschi poteva quindi condurre nell’autunno del 1943 le prime operazioni sul campo: se da un lato le indagini si concentravano nel rilevare la presenza di prigionieri di guerra alleati evasi dai campi di concentramento, nonché soldati sbandati del Regio Esercito rifugiatisi sulle colline lucchesi – segnalando nel caso l’aiuto prestato dalla popolazione civile – dall’altro i militi riuscivano a fornire le prime informazioni sul nascente movimento resistenziale, denunciando parimenti la collusione e l’azione di sabotaggio di molti carabinieri.

Targa commemorativa apposta all'ingresso della ex-caserma di S.Agostino (Lucca), sede dell'UpiSolo con la crescente organizzazione e strutturazione sul territorio lucchese della Gnr – il cui comando, relativamente alla componente della Milizia, veniva affidato al seniore Bruno Messori – l’Upi poteva però dirsi pienamente operativo, imponendosi rapidamente quale punto di riferimento per il capo della provincia Mario Piazzesi, fautore di una dura politica di contrasto nei confronti dell’antifascismo organizzato. Nel tentativo di estorcere informazioni e confessioni altrimenti difficili da ottenere, a partire dal gennaio del 1944 i locali dell’Ufficio politico investigativo lucchese annessi alla sede del comando della Gnr presso l’ex-convento di Sant’Agostino divenivano quindi sede di efferate sevizie, inflitte con odiosa professionalità durante estenuanti interrogatori. Nei mesi successivi, dalla camera di tortura appositamente allestita, transiteranno infatti diversi favoreggiatori del movimento resistenziale e alcuni esponenti di vertice del Cln lucchese, nonché semplici cittadini accusati di dar rifugio a militari alleati o di essersi espressi sfavorevolmente nei confronti di militi repubblicani, in un crescendo di violenza – riscontrabile non solo a livello locale – coincidente con l’intensificarsi dell’attività partigiana e la conseguente erosione della capacità di controllo del territorio da parte della Repubblica fascista.

Grazie a questi brutali metodi e alle indagini condotte attraverso una fitta rete di informatori locali, l’azione dell’Upi riusciva a raggiungere importanti successi operativi: numerosi saranno infatti gli arresti direttamente imputabili all’azione dei militi dell’Ufficio, tra cui la cattura di Vittorio Monti e di Domenico Randazzo, accusati di far parte del movimento resistenziale e fucilati a Massarosa il 19 aprile 1944, nonché il ferimento a morte del partigiano Roberto Bartolozzi, caduto il successivo 29 giugno.

Con lo sfollamento delle strutture politico-militari fasciste dalla regione a seguito dell’avanzata alleata, l’Upi lucchese raggiungeva l’Emilia Romagna, sciogliendosi pochi giorni più tardi; il Comando generale della Gnr, nel tentativo di non veder dispersa la preziosa “esperienza” accumulata dagli agenti durante i mesi precedenti, ne disponeva quindi il trasferimento in altre squadre politiche attive nelle province settentrionali.

Già nei mesi successivi la liberazione di Lucca, le denunce presentate dalle numerose vittime dell’Upi innescavano il lungo procedimento giudiziario intentato contro gli uomini di Cerboneschi: appesantito da una complessa fase istruttoria e dalla contemporanea apertura, nei confronti dello stesso Cerboneschi, di ulteriori filoni di indagine a Pistoia e Como (sua ultima sede di attività), il processo poteva inaugurarsi solo il 14 dicembre 1948, colpo di coda di una stagione giudiziaria ormai al tramonto. Nei locali oggi occupati dell’Istituto storico della Resistenza e dell’Età Contemporanea in provincia di Lucca, Erminio Barsotti – milite accusato delle più atroci torture – sarà l’unico a sedersi al banco degli imputati: a seguito di alcuni decessi e per l’intervenuta amnistia, le posizioni di molti imputati minori erano infatti stralciate, mentre Cerboneschi (evaso nell’aprile del 1946 dalle carceri di Como) e Messori (espatriato in Spagna) risultavano latitanti. Lo stesso Barsotti, condannato a otto anni di reclusione, vedeva interamente condonata la pena inflitta ed era immediatamente scarcerato.

Lorenzo Pera è laureato in scienze storiche presso l’Università di Pisa, ha recentemente pubblicato, presso la casa editrice dell’Istituto Storico della Resistenza di Pistoia, Squadrismo in grigioverde. I battaglioni squadristi nell’occupazione balcanica (1941-1943), I.S.R.Pt, 2018.




Il vescovo Giovanni Piccioni: la Chiesa livornese tra fascismo e guerra

Giovanni Piccioni esercitò il suo ministero episcopale a Livorno dal 1921 al 1959. Quasi un quarantennio che lo vide al centro della scena in una diocesi tradizionalmente ritenuta tra le più difficili in Italia per i radicati fenomeni di irreligiosità e la presenza di una forte massoneria: un terreno difficile per lo sviluppo delle organizzazioni cattoliche [Bedeschi, 1983]. Alcuni studi hanno evidenziato le inequivocabili manifestazioni di deferenza al regime che caratterizzarono l’attività pubblica del presule durante il ventennio [Litrico, 2002; Mazzoni, 2009]: è indubbio che il vescovo salutasse con favore – specie in un contesto come quello livornese – l’inedita protezione che lo Stato fascista garantì alla religione cattolica, tanto più dopo i Patti lateranensi e la sanzione solenne del ruolo pubblico e ufficiale del cattolicesimo nella società italiana [Ceci, 2013].

Tuttavia a leggere nel suo complesso il messaggio pubblico di Piccioni si svelano i lineamenti di una strategia giocata su due tavoli, coniugando il caloroso appoggio al governo di Mussolini, i buoni rapporti mantenuti col federale di Livorno Umberto Ajello e, soprattutto, con la potente famiglia Ciano, con la frequente esteriorizzazione di una identità separata, discordante con le ambizioni totalitarie del fascismo, e coltivata anche nei confronti riservati col proprio clero e col laicato.

Monsignor Giovanni Piccioni e don Angeli (Archivio Centro Studi R. Angeli)

Monsignor Giovanni Piccioni e don Angeli (Archivio Centro Studi R. Angeli)

Indizi in questo senso punteggiano il suo ministero negli anni del fascismo, caratterizzato dalla particolare fermezza con cui si prodigò a difesa del clero e dell’associazionismo [Zargani, 1997], ed hanno la manifestazione più evidente nell’indizione dei sinodi diocesani del 1927 e 1938 (i primi in assoluto per la diocesi sorta nel 1806), nel secondo dei quali non si nascondevano gli obiettivi – come si legge nella lettera pastorale d’apertura – di una «restaurazione cristiana» del popolo. Va notato poi come immediata fu la reazione di Piccioni alla promulgazione delle leggi razziali: non sul piano pubblico, ma nella convocazione nel dicembre 1938 di un «incontro riservatissimo» a cui furono invitati i massimi dirigenti dell’Azione cattolica e alcuni sacerdoti (tra cui don Roberto Angeli) allo scopo di approntare una rete diocesana che favorisse «la collaborazione con i parroci e con le altre organizzazioni caritative per dare agli ebrei aiuti materiali e morali» [Erminia Cremoni, 1955].

Negli anni di guerra, fino alla destituzione di Mussolini, il presule alternò alle manifestazioni di lealismo patriottico, la vigorosa celebrazione della «missione indefettibile» del pontefice. Da un lato non si mancò di impetrare i «divini favori sull’Italia e sulle Forze Armate» nell’occasione della consacrazione dei soldati al Sacro Cuore di Gesù per la festa della Candelora del 1941 [«Bollettino Diocesano Livornese», n.1, 1941, p. 5], né furono meno solenni i momenti di invocazione alla “pace vittoriosa” come avvenne soprattutto nella imponente funzione del 16 maggio 1943 al santuario di Montenero in cui il vescovo, davanti a quarantamila livornesi, implorò la protezione della «Madre di Misericordia» sulla «nostra cara Patria», affinché potesse «presto intrecciarsi sulle bandiere al lauro dell’eroismo e della vittoria, l’ulivo della pace» [«Bollettino Diocesano Livornese», maggio, giugno, luglio 1943, p. 14]. Dall’altro, dal maggio 1942 al maggio 1943, la diocesi fu impegnata in un denso programma di celebrazioni per ricordare il giubileo episcopale di Pio XII, culminato con la festa di Cristo Re del 1942, nella quale Piccioni rievocò con forza gli obiettivi pacelliani di «ricostruzione della famiglia cristiana».

Dopo il 25 luglio, in linea con l’episcopato toscano, Piccioni mostrò di sposare la linea di pacificazione tracciata dal cardinale di Firenze Elia Dalla Costa pubblicando sul “Bollettino Diocesano” la notificazione del 31 luglio in cui l’arcivescovo di Firenze invitava i fedeli a rispettare le «legittime autorità» e richiamando «clero e popolo a uniformare la loro condotta ai principi che vi sono esposti» [«Bollettino Diocesano Livornese», maggio-giugno-luglio 1943, pp. 30-32]. Ed è significativo che il presule intese ribadire questa linea ancora nel marzo 1944, quando era ormai nota l’ampiezza dell’impegno di tanti cattolici nella Resistenza, dando spazio sull’organo ufficiale della diocesi, alla notificazione sul clero e i partiti pubblicata dal cardinale di Milano Ildefonso Schuster nell’ottobre 1943 con la quale si esprimeva la necessità che la Chiesa si mantenesse «fuori ed al di sopra di tutte le diverse competizioni d’indole politica» e si intimava esplicitamente all’obbedienza «secondo le leggi, alle legittime Autorità stabilite» [«Bollettino Diocesano Livornese», gennaio-marzo 1944, pp. 11-12].

Eppure è in questo contesto – che nel discorso pubblico non pare far emergere una significativa eccezione rispetto al coevo quadro regionale [Bocchini Camaiani, 2009] – che si sviluppò il Movimento cristiano sociale, senza dubbio uno dei gruppi cattolici di resistenza al fascismo più strutturati della Toscana, entrato nel Cln di Livorno già il 9 settembre 1943. Un contesto che appare di ancor più difficile lettura se solo si tenga conto che il gruppo strutturatosi intorno alla Fuci livornese ricevette a pochi giorni dall’armistizio una lettera degli assistenti don Angeli e don Amedeo Tintori che proponeva un invito aperto alla ribellione e affrontava esplicitamente il problema dell’obbedienza all’autorità costituita. Appellandosi al principio del diritto romano per il quale l’unico comando ammesso era quello proveniente dalla legge, si negava con forza ogni legittimità a comandi imposti con «la forza o la violenza o l’astuzia o l’arma di un uomo o di molti uomini» e si riaffermava che l’«unico governo legittimo», al quale era necessario «obbedire in coscienza», era «quello eletto secondo lo Statuto, il quale non è abrogabile se non per volontà concorde – liberamente e chiaramente manifestata – di tutto il popolo italiano» [Angeli, 1975, pp. 184-186].

Non può essere imputato a casualità anche il fatto che tra il clero legato a Piccioni non fu solo la figura di don Angeli ad emergere con un preciso profilo di antifascismo militante negli anni convulsi della guerra. Si è fatto ad esempio notare come tra i sacerdoti che più si impegnarono nella Resistenza nella diocesi di Massa Marittima-Populonia – retta con incarico ad personam dal vescovo di Livorno tra il 1924 e il 1933 – forti erano state le influenze esercitate dal presule livornese, assai diverso nel contegno verso il regime dal più allineato mons. Faustino Baldini che gli successe: è il caso di don Ivo Micheletti, che presiedette il Cln di Piombino, e di don Ivon Martelli, che fu a capo di quello di San Vincenzo, entrambi compagni di studio di don Angeli negli anni ’30 presso il Seminario Gavi di Livorno [Tognarini, 1995, p. 83]. Nel gennaio 1943 Piccioni non si fece scrupolo neanche nell’accogliere nella sua diocesi il lucchese don Antonio Vellutini, il quale era noto per il suo sbandierato antifascismo (tanto da essere inviato per qualche anno in una sorta di “confino” presso Montalto Uffugo in Calabria), e che, non a caso, presiedendo il Cln di Vada, fu assoluto protagonista delle azioni di difesa della popolazione contro l’occupante tedesco nel paese della costa livornese.

Piccioni 002È oltre il messaggio pubblico che, evidentemente, vanno ricercate le ragioni del fiorire in seno alla Chiesa di Piccioni di certi temi e personalità. La disponibilità completa delle carte dell’Archivio diocesano di Livorno potrebbe forse sbrogliare definitivamente certi nodi, tuttavia alcuni punti fermi emergono già con chiarezza. Intanto è il profilo biografico precedente la carriera episcopale di Piccioni a fornire più di una traccia: nella Pistoia di inizio Novecento il presule ebbe trascorsi di prete democratico-cristiano, avendo in  Toniolo e, soprattutto, in Murri i suoi ispiratori; fu tra gli organizzatori della prima Settimana Sociale del 1907 e sedette sui banchi del consiglio comunale di Pistoia dal 1903-1909 come leader dell’opposizione alla giunta socialista; nel primo dopoguerra, nominato vicario della diocesi pistoiese, entrò in rotta di collisione con le prime manifestazioni squadriste del fascismo [Angeli, 1977]. Inseriti in questo percorso non stupiscono né l’influenza che il vescovo esercitò nella formazione del fratello più piccolo Attilio, poi leader di punta della Dc degasperiana [Fanello Marcucci, 2011, pp. 15-21] né il fatto che tramite l’altro fratello Ulisse, questore a Torino, egli si procurasse letture vietate dal regime che poi metteva a disposizione dei suoi seminaristi. Fu così, ad esempio, che al Seminario Gavi si poté leggere nella sua prima stesura in francese del 1936 l’Humanisme Intégral di Jacques Maritain [Noce, 2004, pp. 84-85].

Si sostanzia dunque su questi presupposti il percorso di formazione intellettuale che condusse alcuni giovani sacerdoti della diocesi livornese a manifestare con precocità una matura coscienza politica e democratica. La scelta di Piccioni di nominare don Angeli e don Tintori assistenti ecclesiastici della Fuci nel 1939 appare in questa luce frutto di un progetto ponderato: i due sacerdoti erano inseriti in un circuito di relazioni che annoverava personalità come Guido Calogero, Giorgio La Pira, Igino Giordani e il gruppo che ruotava attorno alla rivista pisana “Il crivello” diretta da don Telio Taddei  e frequentavano già da un triennio le Università pontificie romane: in particolare don Angeli alla Gregoriana era venuto in contatto con un ambiente in cui «si respirava un’aria chiaramente antifascista» [Angeli, 1975a]. È, ad esempio, significativo che il sacerdote facesse derivare l’acquisita consapevolezza di una antitesi tra il cristianesimo e il totalitarismo nazista dalla frequentazione nel 1937 delle lezioni di etica fondamentale del professor Louis Chagnon: come annota don Angeli «non venivano citati, per iscritto, esempi concreti di stati totalitari (salvo gli stati comunisti), ma si indicavano come fautori della “statolatria”, Schelling, Hegel ed altri autori tedeschi. Gli studenti dovevano trarre da sé le conclusioni». Erano argomentazioni alle quali il sacerdote attinse a piene mani per dar forma a quella che lui stesso definì la «resistenza ideologica organizzata» dei cattolici livornesi: in particolare, a partire dal 1941, quegli argomenti vennero utilizzati nell’organizzazione delle lezioni pubbliche tenute presso il Cenacolo di studi sociali di S. Giulia nelle quali vennero pubblicamente criticate le tesi naziste e il concetto fascista dello stato [Merli, 1978]: si trattava di momenti di formazione a cui parteciparono studenti universitari, operai, allievi dell’Accademia Navale che ebbero l’esplicito appoggio del vescovo Piccioni che ne dava notizia sul “Bollettino Diocesano”.

 




La guerra agli inermi. Storia e giustizia (II)

La seconda parte della storia, strettamente connessa alla prima, riguarda una delle più gravi ingiustizie fatte patire ai cittadini di questo paese nella storia dell’Italia unitaria.

È la storia dell’estesa, prolungata e non rimediata negazione di giustizia[1] nei riguardi delle vittime delle stragi naziste e fasciste di cui si è detto finora. Una negazione estesa, in termini strettamente geografici, poiché quel fenomeno, quell’orrore, non risparmiò nessuna parte d’Italia, nessun genere, nessuna classe anagrafica, nessuna religione, nessuna posizione sociale, nessuna posizione politica antifascista. Nessuno, insomma. Ricordiamolo: almeno 5.750 episodi e 24.112 vittime.

Una negazione prolungata, e ormai irrimediabile, perché iniziata immediatamente dopo la guerra – e addirittura prima, perché spesso nei paesi colpiti, subito dopo la partenza dei tedeschi, arrivavano gli Alleati, che cominciavano subito a fare indagini e chi era sopravvissuto cominciava subito a illudersi che la giustizia sarebbe arrivata. Una negazione andata avanti a questo punto per sempre, perché pochissimi furono i processi e ancora meno i responsabili mandati in carcere – Kappler, Reder, Priebke, Seifert e pochissimi altri – sia nel lungo e infruttuoso dopoguerra, sia nella fase molto più proficua, ma inevitabilmente limitata, dei processi che hanno seguito il rinvenimento, nel 1994, delle carte occultate, su cui si tornerà. Questi processi si sono celebrati soprattutto negli anni 2000 presso le procure militari di La Spezia, Verona e Roma sotto la guida di Marco De Paolis.

Dunque, una negazione non rimediata, se riguardiamo i conti: una ventina di processi – dal dopoguerra a oggi – e alcune decine di condanne – perlopiù non eseguite – per 5.750 episodi (e mancano tutti quelli avvenuti all’estero, fatta eccezione per Cefalonia) e più di 24mila vittime.

In realtà, la storia ci racconta che le carte dell’orrore di cui parliamo, e della mancata giustizia che lo ha riguardato, sarebbero state disponibili fin dall’immediato dopoguerra, e questo per ciò che riguardava sia le indagini degli Alleati, alle quali si accennava, sia quelle dei carabinieri, condotte spesso a ridosso degli eventi. Invece, tutto questo materiale fu volutamente occultato, e quindi non lavorato, in un arco di tempo che va almeno dal 1960 al 1994.

La scusa ufficiale fu quella – nel 1960 – del «lungo tempo trascorso dal fatto» – 15 anni dalla fine della guerra! – senza considerare, tra l’altro, che tale suddetto lungo tempo era attribuibile perlopiù all’inerzia di chi non aveva lavorato in quei 15 anni.

Le ragioni effettive, invece, almeno secondo gran parte della storiografia – ma anche di molti membri della Commissione Parlamentare d’inchiesta che ha indagato sull’occultamento negli anni 2003-2006 – sono invece le seguenti, riassunte molto schematicamente: si occultò – con un provvedimento illegittimo quale quello dell’«archiviazione provvisoria» – perché lavorare le carte sui criminali tedeschi avrebbe significato, da un lato, attirare l’attenzione sui criminali italiani, mai consegnati agli stati esteri che li avevano richiesti (Grecia, Etiopia, Jugoslavia etc.); dall’altro, tali indagini avrebbero potuto “imbarazzare” la Germania occidentale, fido alleato dell’Italia nel mondo diviso in due della guerra fredda. Ragioni di politica interna, dunque – quelle carte avrebbero anche riportato alla ribalta i criminali fascisti, frequentemente destinatari di provvedimenti di amnistia nell’immediato dopoguerra – e ragioni di politica internazionale si diedero il cambio e si supportarono le une con le altre nel produrre una delle più grandi ingiustizie praticate dall’Italia-Stato nei confronti dell’Italia-Nazione.

Quando le carte sono state recuperate dagli archivi (quelli della Procura Generale Militare a Roma) era il 1994 e la guerra fredda era appena finita, l’idea di Europa unita sembrava davvero poter sconfiggere le ansie dei vari passati del continente, e non vi poteva quindi essere un momento migliore per tirare fuori le carte che, si sperava, non avrebbero più potuto nuocere a nessuno. Quelle carte andavano però lavorate, perché quello che raccontavano – crimini di guerra atroci, crimini contro l’umanità – non è passibile di prescrizione secondo la legge italiana. Le aggravanti, infatti, come è facilmente intuibile, c’erano tutte.

In realtà le procure militari si presero un bel po’ di tempo – altro tempo sprecato – per cominciare a fare qualcosa, e solo qualcuna fece qualcosa davvero. A quell’impegno di pochi dobbiamo tuttavia dei risultati importanti, cioè le sentenze e le condanne – cosa che significa innanzitutto discorso pubblico della Nazione dinanzi allo Stato e risposta di quest’ultimo – per alcune delle stragi più atroci che si verificarono in Italia o contro italiani nel 1943-1945: Sant’Anna di Stazzema, Civitella in Val di Chiana, Monte Sole, Padule di Fucecchio, Cefalonia sono solo alcuni dei nomi/luoghi-eventi di questa parte della storia.

Se guardiamo oggi questi risultati, sembra straordinario che sia stato compiuto da pochi anni, certo in modo più che tardivo e parziale, ciò che avrebbe dovuto essere normale nel dopoguerra, cioè la giustizia, la condanna pubblica e documentata del crimine di guerra/crimine contro l’umanità.

In questo caso è stata una fortuna che le due regioni – la Toscana e l’Emilia Romagna – dove si era verificato il più alto numero di stragi con il più alto numero di vittime, negli anni 2000 fossero di competenza della volenterosa e produttiva procura militare di La Spezia, in quegli anni una sorta di “cattedrale” in un deserto di disinteresse, pressappochismo, noncuranza e chissà quali altre cause di inoperosità da parte delle altre procure militari, a partire da quella che nel 1994 aveva rinvenuto le carte durante l’indagine sul boia delle Ardeatine Erich Priebke. E da parte dello Stato, in generale: le indagini e i processi che La Spezia (e poi Verona e Roma, negli anni successivi, con l’arrivo di De Paolis) portò avanti furono una sorta di impresa titanica, con milioni di carte da studiare e produrre, testimoni da rintracciare dopo decenni, luoghi irrimediabilmente trasformati e, soprattutto, una mentalità istituzionale spesso indifferente, quando non apertamente ostile, che si chiedeva apertamente perché lo Stato avrebbe dovuto spendere soldi e tempo alla ricerca di innocui ottantenni bavaresi, alsaziani e così via. Dimenticando, innanzitutto, i doveri di legge, cioè l’imprescrittibilità.

Insomma, allo sdegno dell’opinione pubblica che nel 1994 aveva scoperto le stragi e il loro occultamento, corrispose spesso – di nuovo – la sottovalutazione del problema da parte dello Stato, uno Stato che, invece, avrebbe dovuto, avendo molto da farsi perdonare, fornire almeno i mezzi per provvedere all’eccezionale emergenza giudiziaria affrontata in quegli anni a La Spezia.

A tale mentalità istituzionale – spesso non sconfitta neanche oggi – ha fatto però da contraltare una mentalità collettiva diversa, alimentatasi di decenni di silenzio imposto e oblio forzato, prolungata negazione di giustizia e indifferenza da parte delle istituzioni dinanzi a un dolore che sembrava privato ed era invece un lutto collettivo. Una mentalità di comunità e di condivisione, che, in quegli anni e in quelli successivi, era sempre più in emersione, attenta, pronta a farsi sentire e, finalmente, ad essere ascoltata.

Erano le comunità dei borghi inermi straziati della lapide di Calamandrei, le comunità infrante, le comunità delle generazioni successive nutritesi di memoria divisa, che finalmente trovavano – poche di loro, in realtà, si è detto, in aula – e trovano lo spazio e l’ascolto del discorso pubblico, man mano divenendo incisive, cominciando a formare opinione pubblica.

È per questo che oggi possiamo, su questi temi, fare conversazioni pubbliche che interessano un ambito più ampio di quello degli addetti ai lavori, mettere su progetti di ricerca davvero europei come quello dell’Atlante, o pubblicare una collana di volumi – voluta dalla Regione Toscana e dall’Istituto Nazionale Parri – che raccontano i processi per le stragi naziste come fatti di immediata attualità[2], in quanto essi sono fatti di immediata attualità.

Tutto questo impegno è, però, va detto, un pegno pagato. Difatti, chi studia questi temi da storico o da politologo, chi li lavora come magistrato, carabiniere addetto alle indagini o consulente tecnico, chi li pone al centro dell’agenda politica istituzionale, chi, in generale, dedica buona parte della propria attività professionale (e, spesso, del proprio tempo libero) a questi argomenti, lo fa anche in virtù di un sentimento di doverosa restituzione – da parte dello Stato che in qualche modo, o in qualche forma, si rappresenta – nei confronti delle vittime. Queste ultime non sono, a parere di chi parla, solo coloro che allora persero la vita – gli inermi straziati in quelle migliaia di luoghi d’Italia; sono vittime anche coloro che sopravvissero alla morte di madri, padri, figli, sorelle e fratelli, ritrovandosi condannati a vivere per sempre “in morte” dei loro cari, spesso costretti ad abbandonare le proprie case distrutte, i paesi incendiati, i campi devastati. È ciò che ha scritto Caterina Di Pasquale a proposito di Sant’Anna di Stazzema: «la strage frantumò il paese, il suo modo di vivere, la sua cultura. Colpì la quotidianità, distrusse i punti di riferimento, bloccò il fluire della vita uccidendo intere generazioni e discendenze. Interruppe tutti i legami, quelli di parentela, quelli di vicinato, di amicizia e di amore, gli uomini non avevano più mogli, né figli, né sorelle, né genitori»[3].

Quest’obbligo a vivere in morte di chi non c’era più è stato il frutto di una giustizia negata in forma estesa, prolungata e sostanzialmente, purtroppo, non rimediata. È anche a queste vittime, condannate al silenzio e senza il sostegno, neanche, di una giustizia di transizione, che lo Stato deve una restituzione alla quale le istituzioni che sono oggi in questa sala – la Regione Toscana, l’Istituto della Resistenza – stanno volenterosamente e volontariamente provvedendo, con i fatti, almeno da vent’anni, primi tra tutti in Italia. A loro, dunque, un grazie personale e spero collettivo, e un invito a continuare.

[1] Per una panoramica complessiva sul tema si rimanda al recente volume di Paolo Pezzino e Marco De Paolis, La difficile giustizia. I processi per crimini di guerra tedeschi in Italia 1943-2013, Roma, Viella, 2016.
[2] Si tratta della collana I processi per crimini di guerra tedeschi in Italia, curata da M. De Paolis e P. Pezzino e con il mio coordinamento editoriale, per le edizioni Viella.
[3] Caterina di Pasquale, Il ricordo dopo l’oblio, Roma, Donzelli, 2010, p. 55.




La guerra agli inermi. Storia e giustizia (I)

Nell’iniziare questa lectio magistralis, mi sia permesso innanzitutto di ringraziare, per l’opportunità concessami, l’Istituto Storico Toscano della Resistenza e dell’Età Contemporanea e la Regione Toscana, due istituzioni che, in vario modo ma sulle rotte dello stesso itinerario, stanno accompagnando il mio percorso lavorativo in una professione, quella della storia, che è anche quotidiano, costante e permanente impegno civile.

Sono onorata di essere qui e di tenere questa lezione in occasione del premio Tognarini. Ivano Tognarini è stato tra coloro che, ormai diversi anni fa, mi hanno introdotto nel mondo della ricerca portata avanti dagli Istituti della Resistenza: con lui sostenni infatti il colloquio che mi ammise alla Scuola Superiore di Storia Contemporanea dell’Istituto Nazionale per il Movimento di Liberazione in Italia, permettendomi così di compiere – insieme a numerosi colleghi con i quali la collaborazione prosegue tuttora, come il direttore dell’ISRT, Matteo Mazzoni – un interessantissimo e importantissimo percorso di studio e di lavoro. A quella Scuola e a quell’esperienza avviata in questa città dinanzi al prof. Tognarini, devo la mia professionalità odierna.

Ciò su cui intendo discorrere oggi è una storia divisa in due parti, connesse tra loro a filo doppio e intrecciato, in maniera irrimediabile quanto inestricabile.

La prima parte riguarda la vicenda, che descriverò per linee generali, dei più di 24.000 morti – 24.112 – censiti dall’Atlante delle stragi naziste e fasciste in Italia, un immenso progetto di ricerca voluto dall’Istituto Nazionale Parri e dall’Anpi, finanziato dal Fondo italo-tedesco per il futuro e divenuto un database disponibile online[1].

Quei più di 24.000 morti – una cifra immensa per l’Europa occidentale, che prima dell’Atlante individuavamo in un ordine inferiore di almeno 10.000 unità – raccontano oggi, con tanti e maggiori dettagli, ciò che perlopiù conoscevamo per grandi linee oppure, in casi rari – o, meglio in spazi geografici più attenti, solo apparentemente perché più coinvolti – seri approfondimenti su punti specifici[2].

È la storia, che sembra una scoperta dell’ultimo ventennio, delle stragi contro gli italiani perpetrate dai reparti tedeschi e da quelli fascisti repubblicani nel periodo compreso tra l’estate del 1943 e la primavera del 1945. È quello che la storiografia ha perlopiù, a lungo e a ragione, chiamato «guerra ai civili»[3] e che oggi più frequentemente si tende a indicare – in un censimento di vittime diversificate – come guerra agli inermi.

Non solo civili, dunque, ma chiunque, compresi i partigiani disarmati, fu ucciso quando avrebbe dovuto essere tutelato dal nemico al quale si era arreso o dal quale era stato sconfitto e catturato. Inermi furono così, al fianco di quelli che noi consideriamo “ovviamente inermi”, come i bambini di Sant’Anna di Stazzema, i contadini di Marzabotto e Civitella, i detenuti politici delle Fosse Ardeatine, i prigionieri di guerra catturati a Cefalonia, i partigiani della Benedicta e di Figlìne di Prato.

Ciò non toglie, tuttavia, che i civili continuino a rappresentare il più alto numero di vittime delle stragi: nell’estate di sangue del 1944, ad esempio, erano civili il 66% delle vittime di Toscana ed Emilia Romagna, le regioni in generale più colpite dal fenomeno complessivo. Il «tributo di morte» dei civili, ha scritto Chiara Dogliotti, è infatti «più di cinque volte superiore a quello del resto del paese»[4].

La categoria di «guerra ai civili» resta valida in moltissimi casi, per moltissimi eccidi, come quelli di tipo “eliminazionista”, tesi cioè all’eliminazione di intere comunità e interi gruppi di prigionieri[5]. Eliminazioniste sono ben 9 delle stragi toscane, tra cui Stia-Vallucciole, Sant’Anna di Stazzema, San Terenzo Monti-Fivizzano e Vinca[6]

In generale, la categoria di «guerra ai civili» è valida per tutta l’Italia centrale dell’estate 1944, periodo in cui si assiste anzi, come scrive Francesco Fusi, a una «marcata escalation della “guerra ai civili”» dimostrata dalle cifre, che raccontano come, in quell’estate, la Toscana ebbe l’89% delle sue vittime complessive[7].

In generale, su 660 episodi avvenuti in Toscana tra il settembre del 1943 e i primi giorni dell’aprile del 1945, e 4.071 vittime, 3.762 furono “civili”, con tutto ciò che questo termine poteva rappresentare: uomini, donne, adulti, anziani, bambini. Più di 243 bambini e 161 ragazzi entro i 17 anni, precisamente.

La categoria di «guerra ai civili», pensata, come si diceva, da Michele Battini e Paolo Pezzino nel 1997, era anche declinazione della categoria di guerra civile e stava a indicare – cito da ciò che scrive Pezzino – «l’atteggiamento dell’esercito tedesco di programmatica violenza contro gli inermi, accusati di essere complici dei partigiani»[8].

Tuttavia, parliamo oggi di «guerra agli inermi» perché consideriamo più nel dettaglio le caratteristiche dei loro carnefici – i responsabili, i cosiddetti perpetratori, nel “più neutro” linguaggio scientifico –, che non furono tutti animati da un puro spirito di sterminio, ma che anzi perlopiù si mossero, cioè fecero quello che fecero, nell’ambito della guerra totale. E consideriamo più nel dettaglio le caratteristiche delle stesse vittime, che oltre a essere civili furono spesso qualcosa in più che oggi si conosce meglio, e che si racconta come parte integrante della ricostruzione scientifica complessiva.

La definizione di «guerra ai civili» conteneva già, quindi, il tema della violenza “contro gli inermi”, pur omologando – come si accorgevano già alla fine del secolo scorso i principali studiosi del tema – situazioni e contesti eccessivamente differenti[9]. La successiva categoria di «guerra agli inermi» è perciò un approfondimento della prima, ed è conseguente alla dilatazione, all’ampliamento della specificità delle vittime, non più assunte esclusivamente nel loro ruolo di “morti”.

Le loro morti sono, infatti, in qualche modo, contestualizzate, descritte, interpretate – cosa che assolutamente non vuol dire giustificate – in base alla “causa” per cui sono avvenute. Ciò significa, in pratica, che le 24.121 vittime individuate (una stima comunque destinata a non essere definitiva) non furono uccise in quanto o solo in quanto civili, ma anche in quanto partigiani o militari disarmati, antifascisti o sostenitori dei partigiani, ebrei, disertori e renitenti alla leva di Salò etc.

Di conseguenza, nelle 5.750 schede dell’Atlante – tanti sono gli episodi di strage censiti[10] – si è ritenuto, scrivono Pezzino e Fulvetti, di attribuire «la qualifica di “civili” solo a coloro che erano stati selezionati a caso, differenziandoli da quelli uccisi per una loro chiara attività di opposizione […], o per aver vestito una qualche divisa […] o un abito religioso, o perché colpiti in quanto ebrei, o ancora per il rifiuto di far parte dell’esercito della Rsi […]»[11].

Sebbene in questo quadro i civili restino in ogni caso la maggior parte dei morti – 12.922 su più di 24.000 –, tale “approfondimento” ha restituito alle vittime la qualifica di cittadini, cosa che fanno anche, se non soprattutto, i nomi e cognomi che ci si è ostinati a ritrovare e riportare. Cittadini, non semplicemente travolti dagli eventi della storia, per quanto questo non risolva minimamente la totale “gratuità” e criminalità della loro morte.

Quella di «guerra agli inermi» è definizione che rimanda direttamente all’oggetto, al destinatario dell’esplicitazione di quella violenza: l’inerme, il senza armi, cosa che ha permesso di includere nel computo anche gli stessi partigiani quando, catturati e disarmati, venivano uccisi – spesso, anzi, barbaramente trucidati – senza che fosse loro garantita la tutela che sarebbe spettata a un nemico riconosciuto come legittimo. Nell’Atlante, tra gli inermi, sono così rientrati i partigiani non caduti in combattimento ma, dopo la cattura, fucilati, mitragliati, impiccati, annegati, arsi vivi, torturati a morte. Sono, dopo i cosiddetti “civili”, la seconda categoria di vittime in ordine di grandezza: 7.241.

Contestualizzare e catalogare le stragi non è un mero esercizio statistico, anzi: è qualcosa che ci permette di andare oltre il dato numerico e di fare della storia, di questa storia, un argomento di decifrazione degli eventi. Ci complica le cose, quindi le rende utili. Ad esempio, ci permette di evitare il discorso, non scientifico né tanto meno rispettoso nei confronti delle vittime, relativo all’«irrazionalità del male»[12] come causa di tutto, alla follia di pochi che causarono danni e dolori irreparabili.

È un discorso, questo, si diceva, irrispettoso e giustificazionista, oltre che scorretto, perché nasconde un dato basilare per la comprensione, e cioè il fatto che tutto quello che accadde, accadde sulla base di un piano preciso, attentamente studiato e preparato[13]. Fu qualcosa di voluto dagli uomini, insomma, non un volere del fato.

La guerra contro gli inermi fu infatti una delle tre guerre, così ben individuate e descritte da Carlo Gentile, che i tedeschi svilupparono in Italia tra 1943 e 1945: la prima fu quella contro gli eserciti alleati, la seconda quella contro i partigiani, la terza quella contro le popolazioni[14]. Quest’ultima fu una guerra che si svolse lungo direttrici nazionali (sud-nord) e non risparmiò alcuna piccola e grande terra d’Italia: 24.112 vittime in 5.750 episodi distribuiti dal sud al nord più profondi.

Fu una guerra che cominciò settimane prima dell’armistizio – la bollente estate del 1943 nella Sicilia dello sbarco alleato, dello sbando militare italiano e della furia degli allora ancora alleati tedeschi – e si concluse dopo la grande insurrezione nazionale, la liberazione del Nord intorno al 25 aprile 1945, con le ultime feroci stragi della ritirata, con centinaia di morti – 1.590 furono i morti “di strage” dopo il 25 aprile – inconsapevoli di quella raggiunta libertà, travolti dalla violenza dell’esercito tedesco, e dei suoi alleati fascisti, in una rotta senza speranza.

Fu una guerra in cui si intrecciarono, accavallarono o convissero decine di “ragioni” per le stragi, “modi” per perpetrarle e tipi di vittime. È quindi una storia che racconta l’estrema varietà delle pratiche di occupazione e controllo dei territori, l’estrema labilità nella sicurezza degli abitanti – si veniva uccisi anche perché non si comprendeva un ordine, o per aver difeso la propria figlia da una violenza sessuale – l’estrema molteplicità delle pratiche repressive.

Non furono solo rappresaglie quelle che condannarono gli inermi a una morte brutale e destinata a non avere giustizia, e non sempre fu immediato il rapporto tra l’attività partigiana e la brutalità nazista e fascista, come si è a lungo pensato, in termini di un’accusatoria esclusiva.

Tale brutalità, anzi, si legò molto spesso – lo dicono i numeri – all’andamento della guerra, all’essere il fronte più o meno vicino: come ha scritto Gentile «la topografia delle stragi […] mostra che il grosso dei crimini più gravi andò a concentrarsi nella zona di combattimento o immediatamente alle sue spalle. […] Qui i crimini non erano necessariamente legati all’attività di gruppi partigiani, che al fronte era relativamente rada»[15].

È indubbio e scientificamente provato che vi sia stato spesso un collegamento tra l’attività resistenziale e quella repressiva nazista e fascista; tuttavia, a lungo, a volte ancora oggi, si è voluto vedere in tale collegamento una “responsabilità”, una “colpa” dell’azione partigiana nello scatenamento della strage, in un discorso che delegittima integralmente la giustezza e la moralità della Resistenza, e che serve – sviluppato com’era soprattutto negli anni in cui per le stragi non c’era giustizia né discorso pubblico ma occultamento – a tacere le colpe della ragione di Stato.

È forse superfluo, ma è comunque bene ribadirlo: le stragi furono una – la più atroce – delle forme di esplicitazione, della messa in pratica, della politica di occupazione nazista e fascista sul territorio, occupazione contro la quale la Resistenza italiana lottò a pieno titolo, al fianco degli eserciti alleati e delle ricostituite formazioni regolari delle forze armate regie. I responsabili delle stragi agirono solitamente sulla scorta del principio della “responsabilità collettiva”, identificando volutamente e strumentalmente partigiani e popolazione. La presenza della Resistenza fu anzi spesso una buona scusa per i tedeschi e i fascisti che, come a Sant’Anna di Stazzema, «non tentarono [neanche] – ha scritto Maurizio Fiorillo – di distinguere tra partigiani, collaboratori e non combattenti, procedendo all’uccisione dei civili […] trovati sul posto»[16]. Del resto, gli inermi erano un nemico molto più semplice da affrontare rispetto ai partigiani armati.

Ci furono, però, le rappresaglie, eccome: furono anzi la seconda “tipologia” di eccidio più praticata dai responsabili delle stragi, seconda solo a quella dei rastrellamenti – la Toscana fu molto colpita da questi ultimi, soprattutto nella loro versione antipartigiana[17]. I rastrellamenti colpirono civili, collaboratori dei partigiani e partigiani stessi, e comportarono bandi di sfollamento, razzie, deportazioni, distruzione di raccolti e uccisione di bestiame. In sintesi, un rastrellamento era la cancellazione, dalle fondamenta, di ogni possibilità di sopravvivenza per le singole comunità del paese; era la distruzione del luogo, spesso definitiva, biologica e materiale, a partire, ovviamente, dagli esseri umani. Era, ovviamente, un durissimo colpo all’esistenza partigiana, che in quel contesto viveva e operava, e che quel contesto sperava e tentava di proteggere.

Ci furono poi – ma ci si sta limitando ad alcune delle categorie – le “stragi di desertificazione e ripulitura”, la terra bruciata, che colpì decine di abitanti di paesini e frazioni del territorio nazionale – comprese, anzi particolarmente coinvolte, le terre toscane – che, anche “solo” per “mere” ragioni di sopravvivenza, non volevano abbandonare la loro casa, la loro poca roba, quel po’ di raccolto, il maiale o la mucca, in zone che i tedeschi ritenevano di importanza militare, e così da sgomberare.

Le persone travolte da questa ulteriore modalità della violenza non furono “solo” uccise, magari facendole saltare in aria con le loro case, ma vennero anche, spesso, fatte prigioniere, torturate, stuprate e poi assassinate. La Toscana fu uno dei luoghi principali dell’Italia centrale in cui, tra la primavera e l’estate del 1944, i tedeschi – e i loro alleati fascisti – scatenarono una gigantesca offensiva contro i partigiani, finendo con il far sovrapporre – come scrive Fulvetti – «zona di guerra e spazio partigiano»[18]. In quel contesto tutto era nemico da abbattere: il partigiano in armi, il soldato alleato, il bambino del girotondo di Sant’Anna di Stazzema.

A tutto questo va aggiunto – è anch’esso un dato sostanziato da numeri provenienti da fonti verificabili – un’infinita quantità di cosiddette “violenze connesse”, quelle che, come si accennava, accompagnavano, immancabili e impietose, la violenza letale: incendi, saccheggi, deportazioni, violenze sessuali, torture.

Ancora, la storia che l’Atlante racconta è, per quanto possibile, la storia dei carnefici, compresi i fascisti, responsabili di «un autonomo stragismo di italiani contro italiani, più politico, più urbano, non legato al sistema degli ordini o alla ritirata quanto al revanchismo contro i “traditori”», scrivono Pezzino e Fulvetti[19].

Questi carnefici, per quella che avrebbe dovuto essere la loro storia, sono i protagonisti della seconda parte di questa lezione.

[1] www.straginazifasciste.it. Il sito è accompagnato da un volume di taglio interpretativo, al quale si farà spesso riferimento, curato da Paolo Pezzino e Gianluca Fulvetti: Zone di guerra, geografie di sangue. Le stragi naziste e fasciste in Italia (1943-1945), Bologna, Il Mulino, 2016.
[2] Penso, ovviamente, proprio alla Toscana e anche ad alcuni studi dello stesso Ivano Tognarini o da lui curati, come La guerra di liberazione in provincia di Arezzo. 1943-1944. Immagini e documenti, Arezzo, Amministrazione provinciale, 1987; Guerra di sterminio e Resistenza. La Provincia di Arezzo, 1943-44, a cura di I. Tognarini, Napoli, Edizioni Scientifiche Italiane, 1990; I. Tognarini, Kesselring e le stragi nazifasciste. 1944: estate di sangue in Toscana, Roma, Carocci, 2002; L’Appennino del ’44. Eccidi e protagonisti sulla Linea Gotica, a cura di I. Tognarini, Montepulciano,  Le balze, 2005.
[3] A partire dal volume di Michele Battini e Paolo Pezzino, Guerra ai civili. Occupazione tedesca e politica del massacro. Toscana 1944, Venezia, Marsilio, 1997.
[4] C. Dogliotti, Cronografia. Territori e fasi della politica del massacro, in Zone di guerra, geografie di sangue, cit., p. 107.
[5] Cfr. ciò che scrive Gianluca Fulvetti, in G. Fulvetti-P. Pezzino, L’Atlante delle stragi naziste e fasciste in Italia, Ivi, p. 82.
[6] Cfr. http://www.straginazifasciste.it/?page_id=349.
[7] Francesco Fusi, L’Italia centrale, estate 1944, in Zone di guerra, geografie di sangue, cit., p. 267.
[8] P. Pezzino in G. Fulvetti-P. Pezzino, L’Atlante delle stragi naziste e fasciste in Italia, Ivi, p. 25.
[9] Ivi, p. 26.
[10] È la stima alla data del 18 maggio 2018, ma l’Atlante è in continuo aggiornamento.
[11] G. Fulvetti-P. Pezzino, L’Atlante delle stragi naziste e fasciste in Italia, Ivi, p. 45.
[12] Il richiamo è ancora a P. Pezzino, Ivi, p. 30.
[13] Ibidem.
[14] Carlo Gentile, I crimini di guerra tedeschi in Italia, Torino, Einaudi, 2015.
[15] Carlo Gentile, I tedeschi e la guerra ai civili in Italia, in Zone di guerra, geografie di sangue, cit., p. 133.
[16] Maurizio Fiorillo in Chiara Donati-Maurizio Fiorillo, Le stragi sulla linea Gotica, Ivi, p. 311.
[17] G. Fulvetti in G. Fulvetti-P. Pezzino, L’Atlante delle stragi naziste e fasciste in Italia, Ivi, pp. 77-79.
[18] Ivi, p. 69.
[19] Ivi, p. 43.




Riflessioni sulla crisi della mezzadria nel Carmignanese

Un paio di anni fa, lavorando ad una ricerca sul tramonto della mezzadria nella zona di Prato con particolare riguardo alla situazione della Val di Bisenzio, ebbi modo di constatare che ben poco era stato scritto sull’argomento per quanto concerneva il Carmignanese, un territorio dove l’agricoltura ha sempre rivestito (e tuttora riveste) un’importanza rilevante e dove esistevano alcune grandi fattorie, prima fra tutte quella di Capezzana, che contava circa 120 poderi (per farsi un’idea delle sue dimensioni, davvero eccezionali, basti pensare che la Fattoria del Mulinaccio, la più grande della Vallata, che si estendeva su di un’area equivalente all’incirca alla metà del territorio dell’attuale Comune di Vaiano, comprendeva in tutto 36 poderi).

Alcune notizie sull’agricoltura a Carmignano si trovavano in opere che, per quanto interessanti e di gradevole lettura (pensiamo ai volumi di Giuseppe Mauro Bindi e di Arrigo Cecchi), rivestivano più il carattere della memorialistica che quello della ricerca storica.

Altri lavori (per esempio Carmignano. Quotidinanità e istituzioni tra Ottocento e Novecento, di Fabio Panerai) avevano un taglio sociologico, oppure fornivano solo degli spunti – sia pure stimolanti ­– sull’argomento in questione (ci riferiamo al libro di Nadia Barducci e di Paolo Gennai sulla Resistenza nel Carmignanese).

L’unica ricerca specificamente dedicata all’agricoltura nella zona (quella di Silvia Palumbo, intitolata Un’indagine sull’agricoltura nel comune di Carmignano) risaliva al 1988 ed abbracciava un periodo successivo a quello di cui ci occupiamo.

Ciò che mancava era una ricostruzione d’insieme, centrata sui fattori che determinarono la fine della mezzadria, l’abbandono delle campagne e le successive trasformazioni economiche e sociali: nacque così l’idea – subito accolta, con squisita sensibilità culturale, dal Comune di Carmignano – di lavorare ad una pubblicazione su questi temi. Il libro, arricchito da un saggio introduttivo di Fabio Bertini ed intitolato “Levassi di cappello e venir via”. Agricoltura e crisi della mezzadria nel Carmignanese, è uscito nell’aprile di quest’anno per i tipi della casa editrice Polistampa di Firenze.

Le fonti su cui lavorare erano, per fortuna, numerose: fonti archivistiche, fonti a stampa, fonti orali e risorse in Rete.

I principali documenti su cui si basa il saggio sono stati reperiti presso l’Archivio del Comune di Carmignano, presso quello della Camera del lavoro di Prato e fra le carte prodotte dalla Confederterra toscana, custodite a Firenze nella sede della CGIL regionale.

Di centrale importanza sono state le fonti a stampa, in primo luogo il periodico Toscana nuova, che pubblicava di frequente delle corrispondenze da Carmignano a firma di Gennaro Meli, scomparso di recente, segretario della Lega coloni e mezzadri e consigliere comunale del PCI nei primi anni Cinquanta.

Come spesso accade in questo genere di lavori, le fonti orali hanno avuto un ruolo di primo piano: con gratitudine voglio quindi ricordare tutte le persone che, in tempi diversi, hanno saputo fornirmi delle informazioni di grande interesse.

Utili sono state infine le risorse in Rete: pensiamo soprattutto all’Archivio della cultura contadina, consultabile online dal sito del Comune, che raccoglie una serie di interviste condotte da Giovanni Contini Bonacossi negli anni Novanta.

Il titolo del volume (“Levassi di cappello e venir via”), tratto da un componimento poetico in ottava rima del contadino carmignanese Luigi Socci, ci pare che riassuma con grande efficacia la natura del rapporto che intercorreva fra padroni e mezzadri, costretti ad obbedire senza possibilità di replica: come spesso accade il poeta popolare riesce a cogliere con precisione il fulcro dell’argomento di cui si occupa, il nocciolo della questione, ed a renderlo con quell’immediatezza che non a tutti è dato di possedere.

“Levassi di cappello e venir via”, dunque. Cerchiamo allora di ricostruire, in estrema sintesi, le condizioni dei contadini carmignanesi negli anni Cinquanta-Sessanta, gli anni che videro la fine del sistema mezzadrile.

Senza alcun dubbio la loro vita era una vita molto difficile: i mezzadri vivevano in case fatiscenti, senza servizi e – spesso – senza acqua corrente (anche qui c’era chi era costretto a percorrere 1-2 chilometri a piedi per approvvigionarsi di acqua alla sorgente più vicina); dovevano fare con le loro braccia il lavoro che avrebbero dovuto fare le macchine; le opere di miglioramento fondiario non venivano realizzate dai proprietari; il ritardo nella chiusura dei saldi era quasi la regola ed altrettanto poteva dirsi della pratica degli addebiti illegali.

Il dato che, tuttavia, balza agli occhi con maggior evidenza è quello della tenuità del reddito mezzadrile: basti pensare che, come è stato rilevato in precedenti studi, un operaio guadagnava in media all’incirca il triplo di un contadino e che nel Pratese il reddito medio mensile di un mezzadro era superiore solo a quello di un ragazzo addetto all’avvolgitrice di filati, “a far cannelli”, come si dice.

Nessuna meraviglia, dunque, che i contadini volessero abbandonare le campagne. Il discorso valeva soprattutto per i giovani, che fuggivano dai poderi rifiutando una vita senza prospettive, identica a quella dei genitori, per cercare in città un lavoro meno massacrante e più redditizio, maggiori possibilità di socializzazione e di divertimento.

La mezzadria era insomma condannata: ma i padroni volevano davvero salvarla?

In realtà, si può sostenere che essi – assumendo un atteggiamento di rigida chiusura nei confronti delle richieste avanzate dal movimento contadino – contribuissero scientemente all’affossamento dell’istituto mezzadrile, dato che il loro vero obiettivo non era la sua difesa, ma piuttosto la trasformazione in senso capitalistico delle aziende agricole, il passaggio alla conduzione a salariati.

E questo fu proprio ciò che accadde anche a Carmignano: non per nulla in un suo libro di memorie l’agrario Ugo Contini Bonacossi, proprietario della Fattoria di Capezzana, ha scritto che la fine della mezzadria consentì ai proprietari una gestione delle aziende più agile e, con l’abbandono delle colture promiscue, necessarie al sostentamento della famiglia colonica, rese possibile un’utilizzazione più razionale del suolo.

Questa fu la linea che finì col prevalere, anche se c’era la possibilità di politiche alternative – imperniate su una riforma agraria strutturale, che desse ai contadini la terra ed i mezzi per lavorarla – la cui realizzazione fu resa impossibile dalle resistenze degli agrari e delle forze politiche di maggioranza, che costituivano il loro referente al governo ed in Parlamento.