Il vescovo Giovanni Piccioni: la Chiesa livornese tra fascismo e guerra

Giovanni Piccioni esercitò il suo ministero episcopale a Livorno dal 1921 al 1959. Quasi un quarantennio che lo vide al centro della scena in una diocesi tradizionalmente ritenuta tra le più difficili in Italia per i radicati fenomeni di irreligiosità e la presenza di una forte massoneria: un terreno difficile per lo sviluppo delle organizzazioni cattoliche [Bedeschi, 1983]. Alcuni studi hanno evidenziato le inequivocabili manifestazioni di deferenza al regime che caratterizzarono l’attività pubblica del presule durante il ventennio [Litrico, 2002; Mazzoni, 2009]: è indubbio che il vescovo salutasse con favore – specie in un contesto come quello livornese – l’inedita protezione che lo Stato fascista garantì alla religione cattolica, tanto più dopo i Patti lateranensi e la sanzione solenne del ruolo pubblico e ufficiale del cattolicesimo nella società italiana [Ceci, 2013].

Tuttavia a leggere nel suo complesso il messaggio pubblico di Piccioni si svelano i lineamenti di una strategia giocata su due tavoli, coniugando il caloroso appoggio al governo di Mussolini, i buoni rapporti mantenuti col federale di Livorno Umberto Ajello e, soprattutto, con la potente famiglia Ciano, con la frequente esteriorizzazione di una identità separata, discordante con le ambizioni totalitarie del fascismo, e coltivata anche nei confronti riservati col proprio clero e col laicato.

Monsignor Giovanni Piccioni e don Angeli (Archivio Centro Studi R. Angeli)

Monsignor Giovanni Piccioni e don Angeli (Archivio Centro Studi R. Angeli)

Indizi in questo senso punteggiano il suo ministero negli anni del fascismo, caratterizzato dalla particolare fermezza con cui si prodigò a difesa del clero e dell’associazionismo [Zargani, 1997], ed hanno la manifestazione più evidente nell’indizione dei sinodi diocesani del 1927 e 1938 (i primi in assoluto per la diocesi sorta nel 1806), nel secondo dei quali non si nascondevano gli obiettivi – come si legge nella lettera pastorale d’apertura – di una «restaurazione cristiana» del popolo. Va notato poi come immediata fu la reazione di Piccioni alla promulgazione delle leggi razziali: non sul piano pubblico, ma nella convocazione nel dicembre 1938 di un «incontro riservatissimo» a cui furono invitati i massimi dirigenti dell’Azione cattolica e alcuni sacerdoti (tra cui don Roberto Angeli) allo scopo di approntare una rete diocesana che favorisse «la collaborazione con i parroci e con le altre organizzazioni caritative per dare agli ebrei aiuti materiali e morali» [Erminia Cremoni, 1955].

Negli anni di guerra, fino alla destituzione di Mussolini, il presule alternò alle manifestazioni di lealismo patriottico, la vigorosa celebrazione della «missione indefettibile» del pontefice. Da un lato non si mancò di impetrare i «divini favori sull’Italia e sulle Forze Armate» nell’occasione della consacrazione dei soldati al Sacro Cuore di Gesù per la festa della Candelora del 1941 [«Bollettino Diocesano Livornese», n.1, 1941, p. 5], né furono meno solenni i momenti di invocazione alla “pace vittoriosa” come avvenne soprattutto nella imponente funzione del 16 maggio 1943 al santuario di Montenero in cui il vescovo, davanti a quarantamila livornesi, implorò la protezione della «Madre di Misericordia» sulla «nostra cara Patria», affinché potesse «presto intrecciarsi sulle bandiere al lauro dell’eroismo e della vittoria, l’ulivo della pace» [«Bollettino Diocesano Livornese», maggio, giugno, luglio 1943, p. 14]. Dall’altro, dal maggio 1942 al maggio 1943, la diocesi fu impegnata in un denso programma di celebrazioni per ricordare il giubileo episcopale di Pio XII, culminato con la festa di Cristo Re del 1942, nella quale Piccioni rievocò con forza gli obiettivi pacelliani di «ricostruzione della famiglia cristiana».

Dopo il 25 luglio, in linea con l’episcopato toscano, Piccioni mostrò di sposare la linea di pacificazione tracciata dal cardinale di Firenze Elia Dalla Costa pubblicando sul “Bollettino Diocesano” la notificazione del 31 luglio in cui l’arcivescovo di Firenze invitava i fedeli a rispettare le «legittime autorità» e richiamando «clero e popolo a uniformare la loro condotta ai principi che vi sono esposti» [«Bollettino Diocesano Livornese», maggio-giugno-luglio 1943, pp. 30-32]. Ed è significativo che il presule intese ribadire questa linea ancora nel marzo 1944, quando era ormai nota l’ampiezza dell’impegno di tanti cattolici nella Resistenza, dando spazio sull’organo ufficiale della diocesi, alla notificazione sul clero e i partiti pubblicata dal cardinale di Milano Ildefonso Schuster nell’ottobre 1943 con la quale si esprimeva la necessità che la Chiesa si mantenesse «fuori ed al di sopra di tutte le diverse competizioni d’indole politica» e si intimava esplicitamente all’obbedienza «secondo le leggi, alle legittime Autorità stabilite» [«Bollettino Diocesano Livornese», gennaio-marzo 1944, pp. 11-12].

Eppure è in questo contesto – che nel discorso pubblico non pare far emergere una significativa eccezione rispetto al coevo quadro regionale [Bocchini Camaiani, 2009] – che si sviluppò il Movimento cristiano sociale, senza dubbio uno dei gruppi cattolici di resistenza al fascismo più strutturati della Toscana, entrato nel Cln di Livorno già il 9 settembre 1943. Un contesto che appare di ancor più difficile lettura se solo si tenga conto che il gruppo strutturatosi intorno alla Fuci livornese ricevette a pochi giorni dall’armistizio una lettera degli assistenti don Angeli e don Amedeo Tintori che proponeva un invito aperto alla ribellione e affrontava esplicitamente il problema dell’obbedienza all’autorità costituita. Appellandosi al principio del diritto romano per il quale l’unico comando ammesso era quello proveniente dalla legge, si negava con forza ogni legittimità a comandi imposti con «la forza o la violenza o l’astuzia o l’arma di un uomo o di molti uomini» e si riaffermava che l’«unico governo legittimo», al quale era necessario «obbedire in coscienza», era «quello eletto secondo lo Statuto, il quale non è abrogabile se non per volontà concorde – liberamente e chiaramente manifestata – di tutto il popolo italiano» [Angeli, 1975, pp. 184-186].

Non può essere imputato a casualità anche il fatto che tra il clero legato a Piccioni non fu solo la figura di don Angeli ad emergere con un preciso profilo di antifascismo militante negli anni convulsi della guerra. Si è fatto ad esempio notare come tra i sacerdoti che più si impegnarono nella Resistenza nella diocesi di Massa Marittima-Populonia – retta con incarico ad personam dal vescovo di Livorno tra il 1924 e il 1933 – forti erano state le influenze esercitate dal presule livornese, assai diverso nel contegno verso il regime dal più allineato mons. Faustino Baldini che gli successe: è il caso di don Ivo Micheletti, che presiedette il Cln di Piombino, e di don Ivon Martelli, che fu a capo di quello di San Vincenzo, entrambi compagni di studio di don Angeli negli anni ’30 presso il Seminario Gavi di Livorno [Tognarini, 1995, p. 83]. Nel gennaio 1943 Piccioni non si fece scrupolo neanche nell’accogliere nella sua diocesi il lucchese don Antonio Vellutini, il quale era noto per il suo sbandierato antifascismo (tanto da essere inviato per qualche anno in una sorta di “confino” presso Montalto Uffugo in Calabria), e che, non a caso, presiedendo il Cln di Vada, fu assoluto protagonista delle azioni di difesa della popolazione contro l’occupante tedesco nel paese della costa livornese.

Piccioni 002È oltre il messaggio pubblico che, evidentemente, vanno ricercate le ragioni del fiorire in seno alla Chiesa di Piccioni di certi temi e personalità. La disponibilità completa delle carte dell’Archivio diocesano di Livorno potrebbe forse sbrogliare definitivamente certi nodi, tuttavia alcuni punti fermi emergono già con chiarezza. Intanto è il profilo biografico precedente la carriera episcopale di Piccioni a fornire più di una traccia: nella Pistoia di inizio Novecento il presule ebbe trascorsi di prete democratico-cristiano, avendo in  Toniolo e, soprattutto, in Murri i suoi ispiratori; fu tra gli organizzatori della prima Settimana Sociale del 1907 e sedette sui banchi del consiglio comunale di Pistoia dal 1903-1909 come leader dell’opposizione alla giunta socialista; nel primo dopoguerra, nominato vicario della diocesi pistoiese, entrò in rotta di collisione con le prime manifestazioni squadriste del fascismo [Angeli, 1977]. Inseriti in questo percorso non stupiscono né l’influenza che il vescovo esercitò nella formazione del fratello più piccolo Attilio, poi leader di punta della Dc degasperiana [Fanello Marcucci, 2011, pp. 15-21] né il fatto che tramite l’altro fratello Ulisse, questore a Torino, egli si procurasse letture vietate dal regime che poi metteva a disposizione dei suoi seminaristi. Fu così, ad esempio, che al Seminario Gavi si poté leggere nella sua prima stesura in francese del 1936 l’Humanisme Intégral di Jacques Maritain [Noce, 2004, pp. 84-85].

Si sostanzia dunque su questi presupposti il percorso di formazione intellettuale che condusse alcuni giovani sacerdoti della diocesi livornese a manifestare con precocità una matura coscienza politica e democratica. La scelta di Piccioni di nominare don Angeli e don Tintori assistenti ecclesiastici della Fuci nel 1939 appare in questa luce frutto di un progetto ponderato: i due sacerdoti erano inseriti in un circuito di relazioni che annoverava personalità come Guido Calogero, Giorgio La Pira, Igino Giordani e il gruppo che ruotava attorno alla rivista pisana “Il crivello” diretta da don Telio Taddei  e frequentavano già da un triennio le Università pontificie romane: in particolare don Angeli alla Gregoriana era venuto in contatto con un ambiente in cui «si respirava un’aria chiaramente antifascista» [Angeli, 1975a]. È, ad esempio, significativo che il sacerdote facesse derivare l’acquisita consapevolezza di una antitesi tra il cristianesimo e il totalitarismo nazista dalla frequentazione nel 1937 delle lezioni di etica fondamentale del professor Louis Chagnon: come annota don Angeli «non venivano citati, per iscritto, esempi concreti di stati totalitari (salvo gli stati comunisti), ma si indicavano come fautori della “statolatria”, Schelling, Hegel ed altri autori tedeschi. Gli studenti dovevano trarre da sé le conclusioni». Erano argomentazioni alle quali il sacerdote attinse a piene mani per dar forma a quella che lui stesso definì la «resistenza ideologica organizzata» dei cattolici livornesi: in particolare, a partire dal 1941, quegli argomenti vennero utilizzati nell’organizzazione delle lezioni pubbliche tenute presso il Cenacolo di studi sociali di S. Giulia nelle quali vennero pubblicamente criticate le tesi naziste e il concetto fascista dello stato [Merli, 1978]: si trattava di momenti di formazione a cui parteciparono studenti universitari, operai, allievi dell’Accademia Navale che ebbero l’esplicito appoggio del vescovo Piccioni che ne dava notizia sul “Bollettino Diocesano”.

Articolo pubblicato nel giugno del 2018.




La guerra agli inermi. Storia e giustizia (I)

Nell’iniziare questa lectio magistralis, mi sia permesso innanzitutto di ringraziare, per l’opportunità concessami, l’Istituto Storico Toscano della Resistenza e dell’Età Contemporanea e la Regione Toscana, due istituzioni che, in vario modo ma sulle rotte dello stesso itinerario, stanno accompagnando il mio percorso lavorativo in una professione, quella della storia, che è anche quotidiano, costante e permanente impegno civile.

Sono onorata di essere qui e di tenere questa lezione in occasione del premio Tognarini. Ivano Tognarini è stato tra coloro che, ormai diversi anni fa, mi hanno introdotto nel mondo della ricerca portata avanti dagli Istituti della Resistenza: con lui sostenni infatti il colloquio che mi ammise alla Scuola Superiore di Storia Contemporanea dell’Istituto Nazionale per il Movimento di Liberazione in Italia, permettendomi così di compiere – insieme a numerosi colleghi con i quali la collaborazione prosegue tuttora, come il direttore dell’ISRT, Matteo Mazzoni – un interessantissimo e importantissimo percorso di studio e di lavoro. A quella Scuola e a quell’esperienza avviata in questa città dinanzi al prof. Tognarini, devo la mia professionalità odierna.

Ciò su cui intendo discorrere oggi è una storia divisa in due parti, connesse tra loro a filo doppio e intrecciato, in maniera irrimediabile quanto inestricabile.

La prima parte riguarda la vicenda, che descriverò per linee generali, dei più di 24.000 morti – 24.112 – censiti dall’Atlante delle stragi naziste e fasciste in Italia, un immenso progetto di ricerca voluto dall’Istituto Nazionale Parri e dall’Anpi, finanziato dal Fondo italo-tedesco per il futuro e divenuto un database disponibile online[1].

Quei più di 24.000 morti – una cifra immensa per l’Europa occidentale, che prima dell’Atlante individuavamo in un ordine inferiore di almeno 10.000 unità – raccontano oggi, con tanti e maggiori dettagli, ciò che perlopiù conoscevamo per grandi linee oppure, in casi rari – o, meglio in spazi geografici più attenti, solo apparentemente perché più coinvolti – seri approfondimenti su punti specifici[2].

È la storia, che sembra una scoperta dell’ultimo ventennio, delle stragi contro gli italiani perpetrate dai reparti tedeschi e da quelli fascisti repubblicani nel periodo compreso tra l’estate del 1943 e la primavera del 1945. È quello che la storiografia ha perlopiù, a lungo e a ragione, chiamato «guerra ai civili»[3] e che oggi più frequentemente si tende a indicare – in un censimento di vittime diversificate – come guerra agli inermi.

Non solo civili, dunque, ma chiunque, compresi i partigiani disarmati, fu ucciso quando avrebbe dovuto essere tutelato dal nemico al quale si era arreso o dal quale era stato sconfitto e catturato. Inermi furono così, al fianco di quelli che noi consideriamo “ovviamente inermi”, come i bambini di Sant’Anna di Stazzema, i contadini di Marzabotto e Civitella, i detenuti politici delle Fosse Ardeatine, i prigionieri di guerra catturati a Cefalonia, i partigiani della Benedicta e di Figlìne di Prato.

Ciò non toglie, tuttavia, che i civili continuino a rappresentare il più alto numero di vittime delle stragi: nell’estate di sangue del 1944, ad esempio, erano civili il 66% delle vittime di Toscana ed Emilia Romagna, le regioni in generale più colpite dal fenomeno complessivo. Il «tributo di morte» dei civili, ha scritto Chiara Dogliotti, è infatti «più di cinque volte superiore a quello del resto del paese»[4].

La categoria di «guerra ai civili» resta valida in moltissimi casi, per moltissimi eccidi, come quelli di tipo “eliminazionista”, tesi cioè all’eliminazione di intere comunità e interi gruppi di prigionieri[5]. Eliminazioniste sono ben 9 delle stragi toscane, tra cui Stia-Vallucciole, Sant’Anna di Stazzema, San Terenzo Monti-Fivizzano e Vinca[6]

In generale, la categoria di «guerra ai civili» è valida per tutta l’Italia centrale dell’estate 1944, periodo in cui si assiste anzi, come scrive Francesco Fusi, a una «marcata escalation della “guerra ai civili”» dimostrata dalle cifre, che raccontano come, in quell’estate, la Toscana ebbe l’89% delle sue vittime complessive[7].

In generale, su 660 episodi avvenuti in Toscana tra il settembre del 1943 e i primi giorni dell’aprile del 1945, e 4.071 vittime, 3.762 furono “civili”, con tutto ciò che questo termine poteva rappresentare: uomini, donne, adulti, anziani, bambini. Più di 243 bambini e 161 ragazzi entro i 17 anni, precisamente.

La categoria di «guerra ai civili», pensata, come si diceva, da Michele Battini e Paolo Pezzino nel 1997, era anche declinazione della categoria di guerra civile e stava a indicare – cito da ciò che scrive Pezzino – «l’atteggiamento dell’esercito tedesco di programmatica violenza contro gli inermi, accusati di essere complici dei partigiani»[8].

Tuttavia, parliamo oggi di «guerra agli inermi» perché consideriamo più nel dettaglio le caratteristiche dei loro carnefici – i responsabili, i cosiddetti perpetratori, nel “più neutro” linguaggio scientifico –, che non furono tutti animati da un puro spirito di sterminio, ma che anzi perlopiù si mossero, cioè fecero quello che fecero, nell’ambito della guerra totale. E consideriamo più nel dettaglio le caratteristiche delle stesse vittime, che oltre a essere civili furono spesso qualcosa in più che oggi si conosce meglio, e che si racconta come parte integrante della ricostruzione scientifica complessiva.

La definizione di «guerra ai civili» conteneva già, quindi, il tema della violenza “contro gli inermi”, pur omologando – come si accorgevano già alla fine del secolo scorso i principali studiosi del tema – situazioni e contesti eccessivamente differenti[9]. La successiva categoria di «guerra agli inermi» è perciò un approfondimento della prima, ed è conseguente alla dilatazione, all’ampliamento della specificità delle vittime, non più assunte esclusivamente nel loro ruolo di “morti”.

Le loro morti sono, infatti, in qualche modo, contestualizzate, descritte, interpretate – cosa che assolutamente non vuol dire giustificate – in base alla “causa” per cui sono avvenute. Ciò significa, in pratica, che le 24.121 vittime individuate (una stima comunque destinata a non essere definitiva) non furono uccise in quanto o solo in quanto civili, ma anche in quanto partigiani o militari disarmati, antifascisti o sostenitori dei partigiani, ebrei, disertori e renitenti alla leva di Salò etc.

Di conseguenza, nelle 5.750 schede dell’Atlante – tanti sono gli episodi di strage censiti[10] – si è ritenuto, scrivono Pezzino e Fulvetti, di attribuire «la qualifica di “civili” solo a coloro che erano stati selezionati a caso, differenziandoli da quelli uccisi per una loro chiara attività di opposizione […], o per aver vestito una qualche divisa […] o un abito religioso, o perché colpiti in quanto ebrei, o ancora per il rifiuto di far parte dell’esercito della Rsi […]»[11].

Sebbene in questo quadro i civili restino in ogni caso la maggior parte dei morti – 12.922 su più di 24.000 –, tale “approfondimento” ha restituito alle vittime la qualifica di cittadini, cosa che fanno anche, se non soprattutto, i nomi e cognomi che ci si è ostinati a ritrovare e riportare. Cittadini, non semplicemente travolti dagli eventi della storia, per quanto questo non risolva minimamente la totale “gratuità” e criminalità della loro morte.

Quella di «guerra agli inermi» è definizione che rimanda direttamente all’oggetto, al destinatario dell’esplicitazione di quella violenza: l’inerme, il senza armi, cosa che ha permesso di includere nel computo anche gli stessi partigiani quando, catturati e disarmati, venivano uccisi – spesso, anzi, barbaramente trucidati – senza che fosse loro garantita la tutela che sarebbe spettata a un nemico riconosciuto come legittimo. Nell’Atlante, tra gli inermi, sono così rientrati i partigiani non caduti in combattimento ma, dopo la cattura, fucilati, mitragliati, impiccati, annegati, arsi vivi, torturati a morte. Sono, dopo i cosiddetti “civili”, la seconda categoria di vittime in ordine di grandezza: 7.241.

Contestualizzare e catalogare le stragi non è un mero esercizio statistico, anzi: è qualcosa che ci permette di andare oltre il dato numerico e di fare della storia, di questa storia, un argomento di decifrazione degli eventi. Ci complica le cose, quindi le rende utili. Ad esempio, ci permette di evitare il discorso, non scientifico né tanto meno rispettoso nei confronti delle vittime, relativo all’«irrazionalità del male»[12] come causa di tutto, alla follia di pochi che causarono danni e dolori irreparabili.

È un discorso, questo, si diceva, irrispettoso e giustificazionista, oltre che scorretto, perché nasconde un dato basilare per la comprensione, e cioè il fatto che tutto quello che accadde, accadde sulla base di un piano preciso, attentamente studiato e preparato[13]. Fu qualcosa di voluto dagli uomini, insomma, non un volere del fato.

La guerra contro gli inermi fu infatti una delle tre guerre, così ben individuate e descritte da Carlo Gentile, che i tedeschi svilupparono in Italia tra 1943 e 1945: la prima fu quella contro gli eserciti alleati, la seconda quella contro i partigiani, la terza quella contro le popolazioni[14]. Quest’ultima fu una guerra che si svolse lungo direttrici nazionali (sud-nord) e non risparmiò alcuna piccola e grande terra d’Italia: 24.112 vittime in 5.750 episodi distribuiti dal sud al nord più profondi.

Fu una guerra che cominciò settimane prima dell’armistizio – la bollente estate del 1943 nella Sicilia dello sbarco alleato, dello sbando militare italiano e della furia degli allora ancora alleati tedeschi – e si concluse dopo la grande insurrezione nazionale, la liberazione del Nord intorno al 25 aprile 1945, con le ultime feroci stragi della ritirata, con centinaia di morti – 1.590 furono i morti “di strage” dopo il 25 aprile – inconsapevoli di quella raggiunta libertà, travolti dalla violenza dell’esercito tedesco, e dei suoi alleati fascisti, in una rotta senza speranza.

Fu una guerra in cui si intrecciarono, accavallarono o convissero decine di “ragioni” per le stragi, “modi” per perpetrarle e tipi di vittime. È quindi una storia che racconta l’estrema varietà delle pratiche di occupazione e controllo dei territori, l’estrema labilità nella sicurezza degli abitanti – si veniva uccisi anche perché non si comprendeva un ordine, o per aver difeso la propria figlia da una violenza sessuale – l’estrema molteplicità delle pratiche repressive.

Non furono solo rappresaglie quelle che condannarono gli inermi a una morte brutale e destinata a non avere giustizia, e non sempre fu immediato il rapporto tra l’attività partigiana e la brutalità nazista e fascista, come si è a lungo pensato, in termini di un’accusatoria esclusiva.

Tale brutalità, anzi, si legò molto spesso – lo dicono i numeri – all’andamento della guerra, all’essere il fronte più o meno vicino: come ha scritto Gentile «la topografia delle stragi […] mostra che il grosso dei crimini più gravi andò a concentrarsi nella zona di combattimento o immediatamente alle sue spalle. […] Qui i crimini non erano necessariamente legati all’attività di gruppi partigiani, che al fronte era relativamente rada»[15].

È indubbio e scientificamente provato che vi sia stato spesso un collegamento tra l’attività resistenziale e quella repressiva nazista e fascista; tuttavia, a lungo, a volte ancora oggi, si è voluto vedere in tale collegamento una “responsabilità”, una “colpa” dell’azione partigiana nello scatenamento della strage, in un discorso che delegittima integralmente la giustezza e la moralità della Resistenza, e che serve – sviluppato com’era soprattutto negli anni in cui per le stragi non c’era giustizia né discorso pubblico ma occultamento – a tacere le colpe della ragione di Stato.

È forse superfluo, ma è comunque bene ribadirlo: le stragi furono una – la più atroce – delle forme di esplicitazione, della messa in pratica, della politica di occupazione nazista e fascista sul territorio, occupazione contro la quale la Resistenza italiana lottò a pieno titolo, al fianco degli eserciti alleati e delle ricostituite formazioni regolari delle forze armate regie. I responsabili delle stragi agirono solitamente sulla scorta del principio della “responsabilità collettiva”, identificando volutamente e strumentalmente partigiani e popolazione. La presenza della Resistenza fu anzi spesso una buona scusa per i tedeschi e i fascisti che, come a Sant’Anna di Stazzema, «non tentarono [neanche] – ha scritto Maurizio Fiorillo – di distinguere tra partigiani, collaboratori e non combattenti, procedendo all’uccisione dei civili […] trovati sul posto»[16]. Del resto, gli inermi erano un nemico molto più semplice da affrontare rispetto ai partigiani armati.

Ci furono, però, le rappresaglie, eccome: furono anzi la seconda “tipologia” di eccidio più praticata dai responsabili delle stragi, seconda solo a quella dei rastrellamenti – la Toscana fu molto colpita da questi ultimi, soprattutto nella loro versione antipartigiana[17]. I rastrellamenti colpirono civili, collaboratori dei partigiani e partigiani stessi, e comportarono bandi di sfollamento, razzie, deportazioni, distruzione di raccolti e uccisione di bestiame. In sintesi, un rastrellamento era la cancellazione, dalle fondamenta, di ogni possibilità di sopravvivenza per le singole comunità del paese; era la distruzione del luogo, spesso definitiva, biologica e materiale, a partire, ovviamente, dagli esseri umani. Era, ovviamente, un durissimo colpo all’esistenza partigiana, che in quel contesto viveva e operava, e che quel contesto sperava e tentava di proteggere.

Ci furono poi – ma ci si sta limitando ad alcune delle categorie – le “stragi di desertificazione e ripulitura”, la terra bruciata, che colpì decine di abitanti di paesini e frazioni del territorio nazionale – comprese, anzi particolarmente coinvolte, le terre toscane – che, anche “solo” per “mere” ragioni di sopravvivenza, non volevano abbandonare la loro casa, la loro poca roba, quel po’ di raccolto, il maiale o la mucca, in zone che i tedeschi ritenevano di importanza militare, e così da sgomberare.

Le persone travolte da questa ulteriore modalità della violenza non furono “solo” uccise, magari facendole saltare in aria con le loro case, ma vennero anche, spesso, fatte prigioniere, torturate, stuprate e poi assassinate. La Toscana fu uno dei luoghi principali dell’Italia centrale in cui, tra la primavera e l’estate del 1944, i tedeschi – e i loro alleati fascisti – scatenarono una gigantesca offensiva contro i partigiani, finendo con il far sovrapporre – come scrive Fulvetti – «zona di guerra e spazio partigiano»[18]. In quel contesto tutto era nemico da abbattere: il partigiano in armi, il soldato alleato, il bambino del girotondo di Sant’Anna di Stazzema.

A tutto questo va aggiunto – è anch’esso un dato sostanziato da numeri provenienti da fonti verificabili – un’infinita quantità di cosiddette “violenze connesse”, quelle che, come si accennava, accompagnavano, immancabili e impietose, la violenza letale: incendi, saccheggi, deportazioni, violenze sessuali, torture.

Ancora, la storia che l’Atlante racconta è, per quanto possibile, la storia dei carnefici, compresi i fascisti, responsabili di «un autonomo stragismo di italiani contro italiani, più politico, più urbano, non legato al sistema degli ordini o alla ritirata quanto al revanchismo contro i “traditori”», scrivono Pezzino e Fulvetti[19].

Questi carnefici, per quella che avrebbe dovuto essere la loro storia, sono i protagonisti della seconda parte di questa lezione.

[1] www.straginazifasciste.it. Il sito è accompagnato da un volume di taglio interpretativo, al quale si farà spesso riferimento, curato da Paolo Pezzino e Gianluca Fulvetti: Zone di guerra, geografie di sangue. Le stragi naziste e fasciste in Italia (1943-1945), Bologna, Il Mulino, 2016.
[2] Penso, ovviamente, proprio alla Toscana e anche ad alcuni studi dello stesso Ivano Tognarini o da lui curati, come La guerra di liberazione in provincia di Arezzo. 1943-1944. Immagini e documenti, Arezzo, Amministrazione provinciale, 1987; Guerra di sterminio e Resistenza. La Provincia di Arezzo, 1943-44, a cura di I. Tognarini, Napoli, Edizioni Scientifiche Italiane, 1990; I. Tognarini, Kesselring e le stragi nazifasciste. 1944: estate di sangue in Toscana, Roma, Carocci, 2002; L’Appennino del ’44. Eccidi e protagonisti sulla Linea Gotica, a cura di I. Tognarini, Montepulciano,  Le balze, 2005.
[3] A partire dal volume di Michele Battini e Paolo Pezzino, Guerra ai civili. Occupazione tedesca e politica del massacro. Toscana 1944, Venezia, Marsilio, 1997.
[4] C. Dogliotti, Cronografia. Territori e fasi della politica del massacro, in Zone di guerra, geografie di sangue, cit., p. 107.
[5] Cfr. ciò che scrive Gianluca Fulvetti, in G. Fulvetti-P. Pezzino, L’Atlante delle stragi naziste e fasciste in Italia, Ivi, p. 82.
[6] Cfr. http://www.straginazifasciste.it/?page_id=349.
[7] Francesco Fusi, L’Italia centrale, estate 1944, in Zone di guerra, geografie di sangue, cit., p. 267.
[8] P. Pezzino in G. Fulvetti-P. Pezzino, L’Atlante delle stragi naziste e fasciste in Italia, Ivi, p. 25.
[9] Ivi, p. 26.
[10] È la stima alla data del 18 maggio 2018, ma l’Atlante è in continuo aggiornamento.
[11] G. Fulvetti-P. Pezzino, L’Atlante delle stragi naziste e fasciste in Italia, Ivi, p. 45.
[12] Il richiamo è ancora a P. Pezzino, Ivi, p. 30.
[13] Ibidem.
[14] Carlo Gentile, I crimini di guerra tedeschi in Italia, Torino, Einaudi, 2015.
[15] Carlo Gentile, I tedeschi e la guerra ai civili in Italia, in Zone di guerra, geografie di sangue, cit., p. 133.
[16] Maurizio Fiorillo in Chiara Donati-Maurizio Fiorillo, Le stragi sulla linea Gotica, Ivi, p. 311.
[17] G. Fulvetti in G. Fulvetti-P. Pezzino, L’Atlante delle stragi naziste e fasciste in Italia, Ivi, pp. 77-79.
[18] Ivi, p. 69.
[19] Ivi, p. 43.

Articolo pubblicato nel giugno del 2018.




I bombardamenti su Siena (1944)

La storiografia si è a lungo rivolta allo studio delle incursioni aeree sul territorio italiano da un punto di vista prettamente bellico, dedicando quindi grande attenzione alle operazioni militari e tralasciando spesso le conseguenze prodotte sul territorio e sulla popolazione civile. Tuttavia, come ha osservato Nicola Labanca, quella dei bombardamenti aerei non è storia militare ma è storia à part entière della guerra totale: è la storia non solo delle forze armate che la realizzano ma dei governi che ne decidono gli obiettivi come delle società civili che ne sopportano gli effetti.[i] Questo, peraltro, è ancor più vero per un territorio come quello senese, il quale visse in maniera assolutamente singolare l’esperienza della guerra aerea.[ii]

Come in molte altre città d’Italia, anche a Siena l’allestimento delle misure di difesa antiaerea in vista di futuri conflitti ebbe inizio a partire dagli anni Trenta. Nel 1936 si svolsero le prime prove di oscuramento in tutta la provincia senese,[iii] cui seguirono nel maggio del 1940 due giorni di esercitazioni per eventuali attacchi chimici.[iv] La mancanza assoluta di fondi rese tuttavia impossibile affrontare le spese necessarie alla costruzione di rifugi antiaerei, all’istallazione di un impianto di sirene di allarme e persino all’acquisto dell’equipaggiamento per le squadre di primo intervento. Di questi problemi si lamentò più volte l’Ispettore Provinciale di Protezione Anti Aerea, tenente colonnello Giuseppe Crocini, il quale denunciò inoltre la scarsa coscienza antiaerea dimostrata dagli enti e dalle istituzioni cittadine.[v]

A causa di tali carenze, Siena giunse al momento dell’ingresso in guerra dell’Italia, il 10 giugno 1940, totalmente sprovvista di qualsiasi struttura difensiva.

Inizialmente, le autorità affrontarono il problema realizzando alcuni ripari antischegge nei vicoli del centro storico,[vi] mentre i primi grandi ricoveri pubblici, capaci di ospitare alcune migliaia di individui e di resistere perlomeno all’impatto con ordigni da 100 kg,[vii] vennero completati soltanto nel corso del 1943.

Il primo bombardamento subito da Siena il 23 gennaio 1944, in cui persero la vita venticinque persone,[viii] arrivò in maniera del tutto inaspettata, dopo oltre tre anni di guerra durante i quali la città non era mai stata oggetto di attacchi e, proprio per questo, aveva rappresentato un riparo sicuro per chi fuggiva dal conflitto: basti pensare che le strutture ospedaliere senesi arrivarono a contare oltre 6.000 posti letto[ix] e che in tutta la provincia affluirono più di 18.000 sfollati[x], provenienti da ogni parte d’Italia; numeri enormi per il tempo, considerato anche il difficile contesto nel quale queste persone vennero accolte.

La città del Palio subì alla fine un numero piuttosto limitato di bombardamenti – i più rilevanti furono quelli del 23 e 29 gennaio, 8 e 16 febbraio, 11 e 14 aprile – i quali tuttavia causarono più di quaranta morti, assieme alla distruzione della stazione ferroviaria, della Basilica e del Convento dell’Osservanza e di numerose abitazioni private. A queste operazioni più note, si aggiunse inoltre una lunga serie di spezzonamenti e mitragliamenti, di molti dei quali è andata perduta nel tempo la memoria, ma che produssero comunque danni ed alcune vittime. Tra questi vale la pena ricordare lo spezzonamento avvenuto in Piazza San Francesco il 10 giugno 1944, il quale provocò la distruzione di tutte le vetrate della Basilica e l’uccisione di un soldato tedesco, oppure quello che si verificò in Piazza del Duomo e Via dei Pellegrini nella notte tra l’1 ed il 2 luglio 1944, del quale sono ancora visibili i segni sul Battistero e sulle  mura del Museo dell’Opera. Ma l’elenco comprende pure Via Roma e Fieravecchia, spezzonate il 16 maggio 1944, la Barriera di San Lorenzo, Porta Pispini, Via Pantaneto, Via Diacceto, Via San Pietro e molte altre.[xi]

Sebbene la posizione piuttosto defilata e l’assenza di obiettivi di particolare rilevanza militare – con l’unica eccezione della stazione ferroviaria – abbiano posto Siena al riparo da distruzioni particolarmente estese, la città subì comunque gli effetti della guerra aerea su tutto il proprio territorio, non soltanto nelle aree periferiche e di campagna, ma anche all’interno del centro storico, circostanza quest’ultima conosciuta prevalentemente dagli storici locali ed ignorata dai più.

Note:
[i]Labanca Nicola (a cura di). I bombardamenti aerei sull’Italia. Politica, stato e società (1939-1945). Il Mulino; Bologna, 2012, p. 8.
[ii]Questo breve contributo è tratto dalla tesi di laurea dell’autore: La guerra aerea su Siena. Misure difensive, bombardamenti, iniziative diplomatiche. Tesi di Laurea in Scienze Storiche e del Patrimonio Culturale, Università degli Studi di Siena, anno accademico 2016-2017. Per ulteriori informazioni sui bombardamenti aerei nella provincia senese durante il Secondo conflitto mondiale, si vedano Biscarini Claudio. Bombe su Siena. La città e la provincia nel 1944. Del Bucchia; Massarosa, 2008; e Luchini Luca. Siena 1940-1944. Il dramma della guerra e la liberazione. Il Leccio; Monteriggioni, 2008, pp. 93-112.
[iii]Archivio di Stato di Siena [d’ora in poi ASSI], Prefettura di Siena 1800-1978 (2004), b. 10M, f. 10. 8 settembre 1934 relazione dell’Ispettore Provinciale P.A.A. a Prefetto ed Ufficio dello Stato Maggiore di Firenze.
[iv]Il Telegrafo, 29 Maggio 1940. La perfetta riuscita degli esperimenti di protezione antiaerea.
[v]ASSI, Prefettura di Siena 1800-1978 (2004), b. 8M, f. 3. 28 settembre 1937, relazione dell’Ispettore Provinciale di P.A.A. al Comando del Distretto Militare di Siena.
[vi]ASSI, Prefettura di Siena 1800-1978 (2004), b. 6M, f. 15. 13 febbraio 1941, lettera dell’Ispettore Provinciale P.A.A. al Ministero dell’Interno, prot. 2445 P.A.
[vii]ASSI, Prefettura di Siena 1800-1978 (2004), b. 1M, f. 3. 16 novembre 1942, lettera del Podestà al Presidente del C.P.P.A.A., prot. 13290.
[viii]Questi i nomi delle vittime: Baccheschi Ada; Ridolfi Galeazzo; Carreri Vanda; Carreri Emma; Campolmi Natale; Franci Quirino; Borri Aldo; Saccardi Ubaldo; Centini Fortunato; Colicchi Giulio; Bartoli Elia; Mariti Ezio; Bartalini Giuliana; Pacini Maria; Anatrini Zaira; Anatrini Gino; Anatrini Mario; Del Lungo Primetta; Selvolini Tea; Maccari Santi; Veneri Ida; Maccari Maria; Marzucchi Azelio; Campolmi Duilia; Santi Dina. Cfr. ASSI, Prefettura. Ufficio Gabinetto (1935-1957) – III Versamento (2004), b. 77, f. 41. Elenco delle vittime dell’incursione aerea del 23 gennaio 1944.
[ix]Paoletti Paolo. La vicenda diplomatica del riconoscimento di Siena “città aperta”: tra il falso storico della “città ospedaliera” e la verità oggettiva del centro ospedaliero, in Biscarini Claudio, Meoni Vittorio, Paoletti Paolo. 1943-1944. Vicende belliche e resistenza in terra di Siena. Nuova Immagine; Siena, 1994, p. 44.
[x]La Nazione, 14 Marzo 1944. Relazione del Capo della Provincia sull’attività svolta dal Partito.
[xi]AS-SI, Prefettura di Siena 1800-1978 (2004), b. 17M, f. 4. Diari della P.A.A.; AS-SI, Prefettura di Siena 1800-1978 (2004), b. 17M, f. 5. 1940-1944, Quaderno degli allarmi.

Articolo pubblicato nel maggio del 2018.




Quel 29 giugno del 1944

Il passato imprevedibile

Gli antropologi non sono degli storici, ma hanno una importante componente di formazione legata alle teorie della storicità. L’evoluzionismo, il diffusionismo, il marxismo e lo strutturalismo, che hanno segnato l’antropologia del Novecento, sono teorie che si basano tutte su una idea della storia. Nella mia formazione antropologica mi sono abituato a immaginare il processo storico sulla base di leggi che regolano i comportamenti collettivi (lotta delle classi, evoluzione delle civiltà, diffusione da un centro, modelli simbolici e secondarietà della storia). Con la ‘crisi delle grandi narrazioni’ anche queste idee normative e  generali della storia  si sono fortemente indebolite. A me personalmente, legato come sono – da antropologo – allo storicismo italiano che è attivo anche nel pensiero di Gramsci, si sono aperte possibilità complesse di attenzione e comprensione dei fatti e soprattutto delle rappresentazioni storiche, pur non rinunciando a ricondurle sempre ai processi collettivi di cui ci occupiamo. Nel mio lavoro di collaborazione con l’Archivio Nazionale Diaristico di Pieve Santo Stefano, nel quale sono membro della giuria e quindi ‘lettore’, mi è capitato tante volte di avere tra le mani diari, autobiografie, epistolari i cui contenuti narrativi non corrispondevano alle immagini generali che avevo della storia e dei suoi soggetti. In senso generale ‘scandalosi’ per le mie ‘precognizioni’. Mi abituavo così a non dedurre il passato da un modello generale, ma ad aprirlo vistosamente alla varietà delle forme della vita. Poteva essere un maestro fascista in Dalmazia, che non corrispondeva alla mie idea dei maestri fascisti, o un emigrato italiano in Australia, o un prigioniero italiano in India, ma l’idea di parlare di un ‘passato imprevedibile’ mi è venuta leggendo l’epistolario di un giovane aristocratico  siciliano – Fazio Salvo dei Baroni di Nasari  – che a metà dell’800 faceva il Gran Tour al rovescio, dal Sud al Nord, e raccontava come era Firenze per lui in quell’anno, come erano i vestiti alla moda, le serate mondane, poi raccontava Torino, poi la Germania, chiedendo soldi ai familiari, in modalità simili ai ‘bonifici bancari’ (che io ho appena scoperto) ben note a viaggiatori e commercianti di quel secolo[1]. Ma non è un problema di rivalutazione della storia ‘individuante ’ o ‘evenimenziale’, ma piuttosto di apertura a diversi possibili  modi di immaginazione storiografica e antropologica  di tratti del passato.  Intanto nel 1994 mi ero  imbattuto in un mondo per me davvero inimmaginabile: quello del vissuto dei sopravvissuti alle stragi naziste in Toscana. Una esperienza che mi ha cambiato, come succede quando si fanno ricerche importanti.

Stragi

Nel 1993/94 fui coinvolto da Leonardo Paggi in un progetto di ricerca sulla memoria delle stragi naziste in Toscana, che si svolgeva tra Civitella della Chiana e Bucine. Il caso era caratterizzato – oltre che dalla quantità dei morti civili – dalla ostilità dei sopravvissuti verso i comportamenti delle locali formazioni partigiane. Il fenomeno della  ‘memoria antipartigiana’ è noto e documentato lungo tutto il passaggio del fronte tra Toscana ed Emilia.[2] Lo affrontai con un gruppo di ricerca di giovani ricercatori e studenti che venivano dalla Università di Roma (dove allora insegnavo antropologia culturale) e di Siena (doveva avevo insegnato fino al 1991);  insieme ad altri  colleghi storici e antropologi, tra i quali mi  pare importante ricordare  Francesca Cappelletto che scrisse delle stragi naziste anche su riviste internazionali. La ricordo con particolare emozione perché è morta assai giovane. C’era Giovanni Contini, storico orale della Soprintendenza regionale archivistica e la antropologa visiva Silvia Paggi che realizzò un film. Ci fu anche un convegno internazionale In memory: per una memoria europea dei crimini nazisti. La ricerca produsse molto materiale di intervista poi versato alla Regione Toscana. Anni dopo fu la Regione Toscana a riprendere un progetto più ampio di ricerca delle stragi sulla Toscana a tutto campo. La guidò ancora Leonardo Paggi, e io partecipai con un gruppo di ricerca dell’Università di Firenze, alcuni laureati romani, e la direzione di Fabio Dei. Con alle spalle l’esperienza di Civitella fu più facile, ma non meno doloroso incontrare mondi di una Toscana marginale, montana e contadina, così segnati dal lutto.  Puntammo la ricerca sulla ‘rappresentazione degli eventi e del lutto e sui riti di memoria’[3].

La ricerca di Civitella fu una vera iniziazione. Mi ero formato agli studi sulla Resistenza con una ricerca sulla memoria orale dei testimoni della Spartaco Lavagnini, e della Garibaldi Boscaglia, tra Siena e Pisa. Avevo della Resistenza una immagine un po’ epica, e un po’ radicale. Nei primi anni ’80 collaborai con l’Istituto di Milano (INSMLI), allora diretto da Guido Quazza su temi della didattica della storia, e i miei riferimento cominciarono ad essere meno epici e più legati alla vita quotidiana, Quazza e poi Claudio Pavone – da dentro la loro esperienza – ci avevano insegnato a far calare l’epos e il tasso di ideologia dalla memoria della Resistenza, e a far crescere la comprensione di molteplici storie di giovani, spesso confuse, complesse da discernere, formatesi sul campo talora a partire dai renitenti alla leva. Anche alla Resistenza Quazza aveva osato estendere il tema del ‘personale’ , della spontaneità, che tanto aveva caratterizzato la fine degli anni ’70 e l’esplosione  del femminismo. E Pavone ci aveva inquietato e fatto riflettere sulla nozione di ‘guerra civile’ che chiedeva una nuova complessità dello sguardo storico. Ciononostante fu duro per me affrontare l’incontro con i rappresentanti delle famiglie di Civitella colpite dalla strage, disposte a collaborare solo a patto che noi non li confondessimo con il mondo della resistenza e non difendessimo quella resistenza locale che vedevano come causa prima della strage. Gli antropologi tendono sempre – metodologicamente – ad essere dalla parte dei loro testimoni, e questo ci facilitò l’impresa.  E questo risultò per me poi un arricchimento e una apertura imprevista alla comprensione.

Non sapevo se era la fine del mondo

I risultati condivisi della nostra ricerca non furono accettati facilmente, e fu soprattutto il libro di Giovanni Contini La memoria divisa (Milano Rizzoli 1997) a essere bersaglio di interpreti troppo fedeli alle ideologie e alle letture  più classiche della memoria antipartigiana.

Io ebbi una grande difficoltà ad elaborare questa esperienza. E debbo dire che dovetti accettare la presenza di una forte componente emotiva, un senso di smarrimento e di recupero della ragione, che è giusto raccontare in sede storica e antropologica. Come è giusto fare la storia e l’antropologia dei sentimenti, è anche giusto riconoscere il ruolo dei sentimenti nella ricerca.

La comunità di Civitella si aprì alle nostre interviste, i miei studenti furono adottati e coinvolti nelle memorie luttuose  e nella incessante presenza di un cordoglio mai compiuto del tutto.

Al centro della ricerca si posero decisamente i racconti. I racconti delle vedove, che in parte erano stati già proposti sulla rivista Società nel 1946, con stile orale, colpivano molto . Raccontavano delle giornate di sole, legate all’arrivo dell’estate, ai lavori della campagna, traversate dal dolore, dalla paura, dalle mitragliatrici, dal sangue, da eventi indicibili, fissati nella memoria come sul nitrato d’argento di una pellicola fotografica.

Il racconto su Società della vedova Marsili, mi rimase nella memoria:

 “…Non si vedeva che cadaveri di uomini, ma non potevo conoscerli perché i miei occhi erano velati dal dolore e dalla paura. Non sapevo se era la fine del mondo…” (Giuseppa Marsili vedova Tiezzi, in Società ,7-8, 1946)

La fine del mondo era anche il titolo della raccolta di scritti postumi dell’antropologo Ernesto De martino, dedicate a quelle che lui chiamò ‘apocalissi culturali’. Così mi colpirono i racconti dei corpi portati ai cimiteri, dei bambini testimoni di morti tragiche di persone carissime, il tutto legato a un cielo azzurro, a una giornata di sole, a una presenza delle messi e dei lavori agricoli.  La pioggia compare nella strage di Monte Sole, quando era cominciato l’autunno e il fronte si era spostato più a Nord.

Così anche i racconti dei bambini che trasportando in delle carriole i corpi dei loro cari improvvisamente prendevano velocità e si rincorrevano, e ridevano, e così finivano per far rientrare il  gioco dentro la morte.

I fatti, i ‘nudi fatti’ sono ora – asciutti ma capaci di suscitare ancora interpretazioni – nella scheda su Civitella della Chiana dell’Atlante delle Stragi naziste e fasciste in Italia. Meno di una pagina.  Che senso ha allora questa mia riflessione?

Il vecchio marinaio

Ho spesso raccontato ai miei studenti, ma anche in conferenze esterne all’Università, e di recente anche con un Power Point, questa esperienza di ricerca. E – nel tempo – la ho sentita sempre più attuale. Le morti dei civili si sono moltiplicate nelle guerre che hanno caratterizzato il mondo dopo la caduta del muro. Quel che appariva un episodio ai margini della Resistenza italiana, è diventato paradigmatico delle guerre nel mondo. Mi colpisce che ancora qualcuno parlando pubblicamente dica che bisogna tenere memoria  perché non succeda più. Succede ancora e più di prima. Ma, soprattutto andando a presentare a  Crespino sul Lamione  il libro sulla strage scritto da Valeria Trupiano nel quadro della nostra ricerca,  in quel piccolo centro di montagna[4], dove i riti della memoria si sono radicati in un ambito fortemente religioso, mi parve evidente che gli eredi del dolore e della morte di quella terra di confine dell’Appennino, erano più vicini al dolore del mondo per le stragi dei civili di quanto fossi io, vissuto dentro la guerra ma a distanza di sicurezza. E pensai che ricordiamo per sperare, per non perdere il filo con il passato, per dare senso ai morti e al futuro, per capire meglio il dolore degli altri, non perché non succeda più.

La lettura  che feci di Civitella in una chiave ‘demartiniana’[5] in termini cioè di lutto, di cordoglio, di memoria  e di lamento funebre,  oltre la storia dei fatti, mi apriva ai temi della pietà, del perdono, che hanno traversato la filosofia postbellica ( Paul Ricoeur, su Francia e Germania; Nelson Mandela sulla riconciliazione in Africa Australe etc…) e alla comprensione dei traumi legati alle guerre vicine (in specie quella che ha fatto esplodere la Yugoslavia) , alla possibilità di comprensione e di conciliazione . Mi pareva così di animare la memoria partigiana togliendola da fondamenta un po’ invecchiate e aprendola a nuove implicazioni. Ci sono due temi che ancora mi piace ricordare, ma che chiedono un racconto ulteriore.

Leonardo

Leonardo Paggi è uno storico del quale ho avuto ammirazione già dagli anni ’70 quando tentò una analisi gramsciana della società toscana e del rapporto tra passato e presente in questa regionesulla rivista Critica Marxista , ho poi collaborato al progetto Civitella, e ancora in seguito a delle iniziativa ad esempio dedicate al film di Giorgio Diritti,  L’uomo che verrà  (2009),  sulla strage di Monte Sole, ma mi è piaciuto anche il libro Il popolo dei morti, nelle sue scritture ci sono sempre tentativi di  trovare un senso generale ai processi, di aprire varchi diversi da quelli consueti alla storia – ormai nota nei fatti e nei documenti – dell’Italia nella seconda guerra mondiale, quella in cui lui ed io siamo nati.

Ma a Civitella venni a sapere che lì era stato ucciso dai tedeschi anche suo padre, medico a Firenze, resistente di famiglia ebraica, che era andato a visitare la famiglia e aveva creduto di essere al sicuro dove la famiglia era sfollata. La famiglia ne fu fortemente segnata. Paggi Gastone 37 anni  è nella lista dei morti  della strage. Le liste dei morti sono tra le cose più emotivamente significative di queste memorie.

Una testimonianza locale  dirà:

“Il Dott. Paggi di Firenze, … viene sorpreso nella sua camera matrimoniale. La Signora ed i bambini furono visti uscire ancor seminudi, con le vesti insanguinate mentre la casa bruciava. I resti del Dott. Paggi, ridotti in cenere, furono pietosamente raccolti in una bacinella”.

Leonardo, che dirigeva il nostro gruppo di ricerca aveva fatto quella esperienza in prima persona. Forse fu questo a farmi sentire, piuttosto che un ricercatore-interprete- divulgatore,  un sopravvissuto. Ho all’incirca la stessa età di Paggi, e quando Civitella della Chiana fu messa a ferro e fuoco io avevo appena compiuto i due anni ed era il giorno del mio onomastico. Ma stavo in Sardegna, dove certo era una bella giornata di sole come a Civitella, ma dove la furia della guerra era lontana.  Ed è in questa veste che mi sono idealmente connesso alle pagine di Primo Levi de I sommersi e i salvati, in cui richiama l’obbligo di testimoniare con un brano della a Ballata del vecchio marinaio di Coleridge :

Since then, at an incertain hour

That agony returns:

And till my ghastly tale is told

This heart within me burns.

Da allora, a ora incerta/ quell’ansia ritorna/ e finchè il mio terribile racconto non è concluso/ il cuore dentro il mio petto  brucia.

Si scrive per contagio dell’orrore ed obbligo a raccontarlo.

Innocenti

Forse sono innocenti i morti dei campi di sterminio, come i morti di Civitella, forse lo sono i civili morti di tutte le guerre. Ed il cordoglio per la morte che li accomuna nella tragedia della guerra mondiale  non è poca cosa. Ormai sembra proprio una sciocchezza separare i mondi delle memoria dolorosa, tanto più che essa è diventata sempre più attuale, sempre più capace di farci capire le guerre del mondo. Dal 1994 qualcosa è cambiato. La storia del lutto di Civitella e quella delle formazioni partigiane sono state rilette nel tempo e sono ormai oggettivamente sullo stesso fronte di memoria. Oggi è possibile più che allora, quando scrissi un testo Il ritorno dall’apocalisse[6], immaginare una memoria resistenziale che possa essere rappresentata come la Madonna degli Innocenti, con un grande manto in cui tutti le vedove e gli orfani e i dolori della guerra possano essere accolti sotto il suo mantello, come nella immagine quattrocentesca dell’Istituto degli innocenti di Firenze.

L’estate toscana del 1944, che ho scoperto nella memoria dei sopravvissuti  venendo dalla Sardegna, la ho ritrovata come un segnale forte di memorie bellica in tante storie di vita dei nonni dei miei allievi fiorentini. Cercando di iniziare i giovani antropologi alle interviste e a raccogliere storie di vita facevo intervistare i nonni, e ce ne erano pochi che non erano stati contadini e non avevano avuto i tedeschi in casa.

La memoria della guerra, abbiamo visto, non serve a che la storia non si ripeta, ma a renderci sensibili al mondo in guerra, a fare vivere con noi il ricordo dei morti, a vivere avendo vicina la loro testimonianza, perché , come scrisse Berti Arnoaldi in un passo fulminante, forse il nostro compito fondativo e comune come studiosi e come cittadini di un paese che ha una Costituzione antifascista, è quello di trasformare i cadaveri  in antenati, che è il senso profondo del cordoglio.

Pietro Clemente è attualmente Presidente dell’Istituto storico senese della Resistenza e dell’età contemporanea

[1] P.Clemente, Il passato imprevedibile, in  Primapersona, 2, 1999
[2]  Ora Civitella è ben rappresentata nell’ Atlante delle stragi naziste e fasciste in Italia 2016 ; http://www.straginazifasciste.it/wp- content/uploads/schede/CIVITELLA%20IN%20VAL%20DI%20CHIANA%2029.06.1944.pdf
[3] P.Clemente, F.Dei, Poetiche e politiche del ricordo. memoria pubblica delle stragi nazifasciste in Toscana, Roma, Regione toscana, Carocci, 2005,
[4] V.Trupiano, A sentirle sembran storielle. Luglio 1944. La memoria della strage di civili nell’area di Crespino del Lamone, Pisa, Pacini,
[5] E.De Martino, Morte e pianto rituale. Dal lamento funebre al pianto di Maria, Torino, Bollati Boringhieri, 1958
[6] Apparve poi nei primi anni 2000 sul sito della Regione Toscana nella pagina dedicata alle stragi, e nle volume che concluse la seconda ricerca, generalizzata a tutta la Toscana e condotta in collaborazione con Fabio Dei : P.Clemente, F.Dei, Poetiche e politiche del ricordo. memoria pubblica delle stragi nazifasciste in Toscana, Roma, Regione toscana, Carocci, 2005.

Articolo pubblicato nel maggio del 2018.




Aspettando Hitler: la seduzione della bellezza e l’allontanamento da Firenze dell’ebreo Castelfranco.

Di tutti i luoghi che Hitler avrebbe desiderato con forza visitare anche semplicemente da turista, Firenze era la meta più agognata. Ci riuscì, accolto con inquietante bellezza e sfarzo imperiale, il 9 maggio 1938, ottanta anni fa esatti. Hitler, dalla stazione di Firenze, attraversò con l’auto scoperta il centro cittadino addobbato con sequenze ininterrotte di svastiche e bandiere gigliate, per poi dirigersi come prima tappa a Palazzo Pitti e alle sue collezioni artistiche. Quando l’auto varcò il cortile interno della reggia, probabilmente il Führer mai avrebbe immaginato che l’artefice della risistemazione di tanta magnificenza fosse stato proprio un ebreo.

La Toscana e Firenze erano la terza e ultima tappa programmata nella visita ufficiale in Italia, dopo Roma e Napoli, dopo un tour che, dal 3 al 9 maggio, avrebbe fatto fermare l’Italia per una settimana, convogliando energie e masse per salutare al meglio l’alleato nazista. In molte città fu decretata festa nazionale, gli esercizi commerciali furono chiusi, gli alberghi furono attrezzati per accogliere giornalisti e operatori cinematografici. Per Roma e provincia furono confezionate ben 13.000 bandiere tricolori con croce reale e fascio littorio, mentre i monumenti più emblematici della Capitale furono illuminati dalla luce di migliaia di fiaccole e fari, con suggestive e imponenti scenografie che riecheggiavano gli antichi fasti imperiali. Anche Napoli non fu da meno. La suggestiva visione del Golfo di Napoli, con lo sfondo del Vesuvio e della collina del monte Echia, si aprì a Hitler con la gigantesca scritta “Heil Hitler”, mentre di lì a poco avrebbe assistito alla sfilata di 200 unità navali a bordo del transatlantico Rex, con tanto di radiocronaca in italiano e in tedesco sullo sfondo.

Ogni città, in base alla sua vocazione storica e agli intenti del Duce, doveva impressionare il Führer per alcune sue peculiarità intrinseche. A Firenze era stato riservato il compito di sedurre l’alleato con la sua bellezza e armonia rinascimentale, con tanto di Ranuccio Bianchi Bandinelli, tra i maggiori archeologi di tutti i tempi, nel compito -per lui odiatissimo- di Virgilio dell’arte per i due dittatori.

Vorace collezionista e pittore mancato, Hitler amava Michelangelo, Leonardo, Raffaello, il rinascimento fiorentino e i ponti artistici che si erano creati all’epoca con il rinascimento d’Oltralpe. Legami artistici e spirituali che rinascevano nuovamente con l’alleanza dell’Asse: non a caso in una sala degli Uffizi erano stati collocati dipinti fatti arrivare direttamente dalla Germania a dialogo con la collezione di artisti tedeschi già presenti nei musei cittadini.

In questo gioco di seduzione, sotto il controllo di Alessandro Pavolini da Roma e dell’apposito ufficio festeggiamenti istituito in Comune, si erano adoperati schiere di architetti, fotografi, giovani artisti che diedero vita ad apparati effimeri degni di una corte cinquecentesca. Ma soprattutto e suo malgrado si era adoperato Giorgio Castelfranco, lo storico dell’arte ebreo direttore di un luogo altamente significativo per la visita fiorentina, un luogo dove bellezza e regalità si sposavano perfettamente: la Reggia di Palazzo Pitti.

Giorgio Castelfranco, figura di primo piano nel panorama della cultura italiana del Novecento, sia come funzionario della Soprintendenza che come critico militante e mecenate di artisti quali De Chirico e Savinio, nel 1936 era stato promosso a direttore della Galleria di Palazzo Pitti. La meritata carica sarebbe durata pochissimo: dopo aver alacremente lavorato per il riordino e la risistemazione della galleria e degli appartamenti dove il Führer, nel pomeriggio del 9 maggio, avrebbe riposato per un breve tempo le stanche membra, Castelfranco nell’aprile del 1938 fu allontanato dalla città e dal suo museo. Nella studiatissima macchina scenografica del grand tour hitleriano l’ebreo Castelfranco doveva momentaneamente scomparire.

Furono le inquietanti prove generali di disposizioni messe in atto con le successive leggi razziali. Così Castelfranco, all’inizio del 1944, in una relazione all’allora Ministro dell’Educazione Nazionale ricordava quei momenti:

È curioso che riuscii ad avere mezzi abbondanti nella primavera del 1938 sui fondi per le trionfali accoglienze fatte in Italia a Adolfo Hitler; avendo già da tempo studiato le questioni relative, potei, rapidamente, in poche settimane, realizzare un riordino parziale, che diede nei suoi limiti ottimi risultati. Mi occupai io anche del restauro del passaggio tra Pitti e Uffizi e del riordino delle collezioni di ritratti ivi esposte. Durante la visita di Hitler fui mandato con ridicoli e finti pretesti a Modena a reggere la R. Galleria Estense; avevo comunque accelerato i lavori intrapresi, che lasciai oramai terminati. Dall’estate del 1938 in poi la mia attività fu, per ovvie ragioni, ridotta; curai però ancora qualche piccolo lavoro ai locali di Pitti. Da allora cessarono anche le mie pubblicazioni e in genere, debbo dirlo, la mia attività di studi ebbe una brusca interruzione.

Nel settembre 1938 lo storico dell’arte siglò uno degli ultimi documenti, se non l’ultimo, come direttore di Palazzo Pitti, ovvero la relazione di tutti i lavori condotti tra il gennaio e il maggio 1938 nella Galleria Palatina. Il grande cantiere d’accoglienza aveva previsto il tappezzamento in seta delle sale di Marte, Apollo e Venere, la pavimentazione o il restauro di essa in tutte le sale, l’apertura di finestre sul giardino, l’abbellimento con pastelli -cari al Führer- dell’ambiente tra Palazzo Pitti e Corridoio vasariano. Niente era stato lasciato al caso: “sistemate adeguatamente  anche le latrine nell’ammezzato del Rondò di destra del palazzo” chiosava Castelfranco nella sua relazione conservata negli archivi della Soprintendenza fiorentina.

Il 20 gennaio 1939, dieci giorni prima del suo definitivo licenziamento per l’applicazione del R.D. del 15 novembre 1938, sarebbe giunto a Castelfranco, dal Ministero dell’Educazione Nazionale, il diploma a Ufficiale dell’Ordine della Corona d’Italia, prestigiosa e beffarda onorificenza.

Alessia Cecconi (Prato, 1981), storica dell’arte, è direttrice della Fondazione CDSE (Centro di Documentazione Storico Etnografica, Vaiano, Prato); collabora inoltre da molti anni con la Fondazione Memofonte di Firenze. Le sue ricerche e pubblicazioni sono dedicate alla letteratura artistica di età moderna, alla storia della tutela del patrimonio, al rapporto tra arte e memoria. Ha coordinato per la Regione Toscana il progetto ”Resistere per l’arte: guerra e patrimonio artistico in Toscana”, tema al quale ha dedicato le sue ultime pubblicazioni e mostre. Da sempre interessata all’educazione al patrimonio, è co-autrice del manuale di storia dell’arte per la scuola media inferiore Arte e Immagine (Gruppo RCS-Fabbri editore, 2014). 

Articolo pubblicato nel maggio del 2018.




Nello Niccoli: combattente per la libertà e protagonista della Liberazione di Firenze

Uomo «d’azione e di opere», «valoroso combattente per la libertà», eppur figura di «grande modestia» e «di poche parole», Nello Niccoli (1890-1977) seppe coniugare come pochi impegno politico, passione civile e alti meriti professionali: di lui – avrebbe detto Aldo Passigli in occasione della sua morte – «non sappiamo infatti se lumeggiare più il coraggio antifascista, il coerente politico, l’esemplare pubblico amministratore o l’eminente professionista» (Cordoglio per la morte di Nello Niccoli, «La Voce Repubblicana», 13/05/1977).

Nato a Milano l’8 dicembre 1890 da Vittorio e Luigia Pecchio, Nello Niccoli portò avanti la tradizione familiare di studi agronomici, laureandosi a pieni voti il 27 luglio 1914 presso l’Università di Pisa, dove il padre Vittorio, formatosi nel solco della “scuola agronomica toscana” di Meleto e tra i più eminenti economisti rurali del tempo, era allora docente di Estimo ed Economia agraria. Intrapresi l’attività e l’insegnamento accademici prima a Pisa e poi a Padova presso la Scuola di applicazione per gli ingegneri e l’Istituto “G. Belzoni”, Nello il 24 maggio 1915 fu chiamato sotto le armi  venendo assegnato come sottotenente al 3° Reggimento Genio di Firenze e indi mandato a combattere sul fronte della 3° Armata. Congedatosi nel settembre 1919 col grado di capitano e la croce al merito di guerra, dal 1920 esercitò  come libero professionista l’attività di dottore agronomo, venendo poi nominato nel dicembre di quell’anno direttore di una grossa azienda agricola in Angola di proprietà della Società coloniale per l’Africa occidentale, carica che mantenne fino all’ottobre 1922. Negli anni del regime continuò la propria attività di libero professionista, svolgendo importanti incarichi nel settore dell’estimo, del genio rurale e del catasto, e partecipando agli studi relativi al Nuovo Catasto Terreni del 1939.

Di sentimenti spiccatamente antifascisti, a partire dal 1920 Nello fu tra i fondatori a Firenze del Circolo di Cultura nato attorno alle figure di Gaetano Salvemini e dei fratelli Carlo e Nello Rosselli e volto a divenire, con la partecipazione di Piero Calamandrei, Ernesto Rossi, Carlo Celasco, Piero Jahier e molti altri, luogo di dibattito e di discussione culturale aperto senza precisi confini politici alle nuove tendenze italiane ed europee. Nello, all’attività del Circolo partecipa attivamente assieme al cugino Alfredo Niccoli  ̶  presso il cui studio avvocatizio posto all’ultimo piano del Palazzo Errera in via degli Alfani si erano svolte le prime riunioni del gruppo  ̶  figurando altresì nell’ambito delle varie iniziative organizzate come relatore di una conferenza sull’Angola portoghese. Conclusasi improvvisamente quell’esperienza nel gennaio 1925 a seguito della chiusura del Circolo per ordine prefettizio e scatenatasi la repressione fascista contro i principali ispiratori del gruppo, Nello contribuisce a organizzare nel luglio successivo la fuga in Francia di Gaetano Salvemini e poi quella in Svizzera di Paolo Rossi, fratello di Ernesto, passando successivamente a far parte del gruppo clandestino di Giustizia e Libertà diretto a Firenze dall’amico Nello Traquandi, col quale Niccoli aveva già collaborato alle pubblicazioni del Non Mollare!.

Nel giugno del 1940, allo scoppio della guerra, Niccoli è richiamato alle armi e mandato col grado di maggiore del Genio in Libia, servizio del quale per sua più tarda ammissione non si dichiarerà «affatto fiero», nonostante ottenga la promozione a tenente colonnello e la medaglia di bronzo al valor militare nella battaglia di Bir el Gobi. Qui, «in due avanzate e in due ritirate nel deserto» – racconterà egli stesso – «bevendo l’acqua melmosa ed infetta dei pozzi» contrae numerose infezioni intestinali che ne segnano a lungo la salute. Rimpatriato nel settembre 1942 a Napoli, Nello, ridotto a pesare solo 39 kg per via delle malattie patite, trascorre sei mesi di convalescenza, al termine dei quali è posto in congedo assoluto.

targa

Targa affissa a Firenze in via dei Bardi 14 sulla casa in cui visse gli ultimi anni della sua vita Nello Niccoli (foto Zatini)

Rientrato a Firenze, dopo il 25 luglio e l’8 settembre 1943 il suo profondo antifascismo lo porta a ricercare contatti con il movimento resistenziale. Nel dicembre di quell’anno, infatti, per tramite di Orsola de Cristofaro, figlia del professor Renato Biasutti e staffetta partigiana, viene messo in comunicazione con Carlo Campolmi membro del Partito d’Azione fiorentino. Poco dopo, Enzo Enriques Agnoletti, vincendo le perplessità di Nello, gli offre per conto del partito l’incarico di comandante militare e allo scopo di facilitarne il lavoro gli affianca Carlo Ludovico Ragghianti, che sin lì aveva tenuto in mano le fila dell’organizzazione armata. Il comando militare del partito affidato a Niccoli si completa così con le figure di Ragghianti (commissario politico), Athos Albertoni (Aiutante Maggiore), Carlo Campolmi (organizzatore delle squadre di città) Enrico Bocci (organizzatore di Radio Cora) e Maria Luigia Guaita (ufficiale di collegamento con le bande esterne). Tra i compiti che Niccoli, nome di battaglia “Sandri”, assume vi è anche quello di costituire un comando militare unico tra i diversi partiti antifascisti sotto l’egida del Comitato Toscano di Liberazione Nazionale (CTLN), obiettivo al quale si era già speso a partire dal febbraio del 1944 Ragghianti.

Il primo contatto Niccoli lo stabilisce in tal senso col colonnello Vito Finazzo, rappresentante della Democrazia Cristiana, poi sostituito dal capitano dell’aeronautica Nereo Tommasi. Seguiranno poi analoghi accordi di collaborazione con socialisti e liberali. Più difficili invece le trattative con i comunisti, rappresentati prima dal comandante partigiano Gino Menconi “Musoduro” e poi da Luigi Gaiani. È con quest’ultimo che l’intesa al fine riesce, quando ai primi di maggio del 1944 si procede alla creazione del Comando Militare Interpartitico, battezzato su suggerimento di Eugenio Artom “Comando Marte” e così composto: Nello Niccoli (Partito d’Azione) comandante; Luigi Gaiani (Partito Comunista) commissario politico; Dino Del Poggetto (Partito Socialista) vice commissario politico; Nereo Tommasi (Democrazia Crstiana) vice comandante; Achille Mazzi (Partito Liberale) Capo di Stato Maggiore.

20180418_150531

Comando Militare Toscano – Relazione sull’attività clandestina e operativa svolta dai Patrioti Toscani nel periodo 8 settembre 1943 – 7 settembre 1944 (ISRT, Archivio Nello Niccoli)

Il Comando interpartitico, che al pari di quello azionista tiene le sue riunioni presso l’abitazione del Niccoli in Piazza dei Mozzi, comincia a lavorare ai primi di giugno, subendo però un durissimo colpo il 7 del mese a seguito della cattura avvenuta da parte dei nazifascisti dei componenti di Radio Cora, la radiotrasmittente clandestina del Partito d’Azione. Tra gli arrestati destinati a subire tristemente la tortura e la fucilazione, vi sono anche Italo Piccagli ed Enrico Bocci, attesi per il giorno seguente da Niccoli a una riunione del comando militare del Partito d’Azione. La loro assenza mette in allarme Nello che, compresa la situazione, giusto prima che i fascisti irrompano nella sua abitazione in Piazza dei Mozzi riesce a trasferire tutti i documenti compromettenti in casa della sorella Miriam in via dei Bardi, dove egli stesso trova rifugio.

Da quel momento, Niccoli è costretto a cambiare continuamente domicilio, dormendo a turno nei vari appartamenti di fortuna che il partito gli ha messo a disposizione e beneficiando una volta alla settimana dell’ospitalità dell’amico Leone Guicciardini al pianterreno dell’omonimo palazzo. Lo stesso Comando Marte perde il suo luogo fisso di ritrovo ed è costretto a riunirsi, a seconda, in casa del colonnello Mazzi, nella fabbrica di ceramiche dell’industriale liberale Renato Fantoni, in chiese, giardini pubblici, per strada, fino a impiantarsi alla fine di luglio presso la sede della Società Larderello, posta all’ultimo piano del cinema Odeon, in Piazza Strozzi. È da qui che il Comando Marte conta di dirigere l’insurrezione cittadina secondo i piani operativi da esso appositamente studiati già da fine giugno e relazionati da Niccoli al CTLN in una riunione tenutasi il 22 luglio nell’ufficio di Natale Dall’Oppio, in via Condotta. Tuttavia, l’intenzione allora preventivata di stabilire un collegamento col comando Alleato allo scopo di coordinare la battaglia per Firenze, nonché l’obiettivo di avviare al momento dell’insurrezione un’azione concomitante delle squadre partigiane attestate sulle due rive dell’Arno, come noto vengono scombinati dall’evacuazione forzata dei lungarni disposta dai tedeschi in vista del brillamento delle cariche di esplosivo posizionate sui ponti.

Vistosi sconvolgere i piani, Niccoli e gli uomini del Comando Marte decidono di attendere, limitandosi a intensificare l’organizzazione dei vari reparti partigiani entro le quattro zone operative in cui era stata divisa la città, mentre nel frattempo il CTLN, prima che i tedeschi chiudano definitivamente l’accesso ai lungarni, riesce a inviare una propria delegazione in Oltrarno guidata dal democristiano Francesco Berti. Dalla sede dell’Odeon, il 3 agosto gli uomini del Comando Marte – avrebbe poi raccontato Niccoli – assistono «come fanciullini impotenti a difendere la propria madre minacciata e colpita» al brillamento delle cariche posizionate dai tedeschi e alla distruzione dei lungarni e di tutti gli attraversamenti fluviali, ad eccezione di Ponte Vecchio.

Il 5 agosto, il tenente Enrico Fischer comandante della 3° compagnia “Rosselli”, accortosi della possibilità di stabilire un contatto tra le due sponde dell’Arno attraverso il Corridoio Vasariano, riesce a stendere lungo questo un collegamento telefonico tra un avamposto partigiano attestato in Palazzo Vecchio e un apparecchio telefonico posizionato in Oltrarno e affidato a Edoardo Detti e a Marcello Ciompi. Allo scopo di prendere contatto con le avanguardie alleate già attestate nei sobborghi meridionali della città il CTLN decide di inviare oltre il fiume Nello Niccoli perché concordasse con gli Alleati il piano per l’insurrezione. Aggirando i presidi tedeschi, assieme a Fischer e a Ragghianti, Niccoli riuscì ad attraversare Ponte Vecchio percorrendo il Corridoio Vasariano fino a una botola aperta su via dei Bardi dalla quale si calò con una corda fissata a circa dieci metri di altezza. Indi riuscì a raggiungere Piazza Pitti, ricongiungendosi ad alcuni membri della delegazione guidata dal Berti. Preso contatto con gli Alleati, Niccoli viene scortato presso un comando tattico posto in via del Gelsomino, dove è ricevuto da un graduato dello Stato Maggiore alleato. Il colloquio, protrattosi per ben tre ore, si rivela però inconcludente, con l’ufficiale che sconsiglia un’azione insurrezionale da parte dei patrioti e Niccoli che si congeda con l’unica rassicurazione di impegnarsi a tenere aggiornato telefonicamente il comando Alleato sui movimenti del nemico. All’alba del giorno seguente, Niccoli si appresta a rifare il percorso a ritroso, stavolta incontrando difficoltà anche maggiori nel riguadagnare il passaggio sul Corridoio Vasariano: «il risalire a forza di gambe e di braccia su una fune senza nodi, col rischio di farmi impiombare dai fucilieri che sparacchiavano in continuazione dalle finestre dei palazzi del lungarno di fronte» – avrebbe rievocato anni dopo il Nostro – «per me, uomo di 54 anni ed in condizioni di forma un po’ precarie, ha rappresentato una impresa di notevole difficoltà» (N. Niccoli, Per la battaglia di Firenze, in La Resistenza in Toscana, Atti e studi dell’Istituto Storico della Resistenza in Toscana, n. 8, La Nuova Italia, Firenze 1970, p. 9) Ciononostante, alle nove del mattino, Niccoli riesce a raggiungere incolume via Condotta, facendo rapporto col CTLN.

A seguito della proclamazione dell’insurrezione cittadina l’11 agosto 1944 da parte del CTLN, Niccoli partecipa a tutte le fasi centrali della battaglia per la liberazione della città, potendo contare stavolta anche sul più collaborativo atteggiamento degli Alleati e del comandante divisionale inglese, il quale lo convoca a rapporto tutte le mattine presso il comando installato all’Hotel Savoia di Piazza della Repubblica, prendendo nota della situazione delle forze partigiane e affidando a queste incarichi di perlustrazione. Come riconobbe più tardi lo stesso Niccoli, «si era formato tra noi un clima molto differente da quello da me riscontrato nella mia visita di là d’Arno. Segno evidente che il Comando Alleato aveva riconosciuto ed apprezzato il contributo dato dai partigiani alla guerra di liberazione» (N. Niccoli, Per la battaglia di Firenze, p. 11)

0001

Appunti di Nello Niccoli inerenti le disposizioni di scioglimento delle bande partigiane cittadine, s.d. (ISRT, Archivio Nello Niccoli)

L’impegno di Niccoli si protrasse anche a liberazione della città avvenuta, quando rivestì importanti incarichi amministrativi: nell’ottobre del 1944 fu nominato membro della Giunta della liberazione  insediata a Firenze dagli Alleati, contribuendo contemporaneamente al delicato processo di epurazione dello Stato post-fascista all’interno della Delegazione provinciale di Firenze dell’Alto Commissariato per le Sanzioni contro il Fascismo.

Tuttavia, i disagi e le fatiche patite nel periodo resistenziale e in questi mesi di intensa attività, produssero il riacutizzarsi delle infermità contratte in Africa settentrionale e costrinsero Niccoli a presentare nell’ottobre del 1945 le proprie dimissioni dal Comando Militare Toscano, venendo quindi ricoverato nell’ospedale militare di Villa Natalia.

Rimessosi in salute, nel secondo dopoguerra Niccoli tornò di nuovo ad esercitare la propria professione, non venendo meno però al proprio impegno civico. Dal 1946 e sino alla morte fu consigliere della Cassa di Risparmio di Firenze e vicepresidente dell’Istituto Federale di Credito Agrario per la Toscana, nonché consigliere dell’Istituto Tecnico Agrario Statale di Firenze, socio dell’Accademia Economico-Agraria dei Georgofili, consigliere dell’Ordine degli agronomi fiorentini e loro rappresentante nel Consiglio Nazionale dal 1952 al 1969. Dopo lo scioglimento del Partito d’Azione nel 1946 aderì al Movimento della Democrazia Repubblicana, confluendo poi entro il Partito Repubblicano Italiano. Si dedicò altresì all’organizzazione dell’associazionismo partigiano rivestendo un ruolo esecutivo nella Federazione Italiana delle Associazioni Partigiane (FIAP). Contribuì inoltre nel 1953 alla fondazione dell’Istituto Storico della Resistenza in Toscana, di cui fu Presidente dal 1957 al 1975.

Niccoli morì a Firenze il 29 aprile 1977. La notizia della sua morte, per sua espressa volontà annunciata solo a esequie avvenute, «senza fiori e senza onori», per chi lo aveva conosciuto fu l’ennesima prova «della sua grande modestia e del suo desiderio di lasciare questa vita terrena “in punta di pedi”» (C. Arcangeli, È scomparso Nello Niccoli, «Il dottore in scienze agrarie e forestali», n.8, settembre 1977).

Articolo pubblicato nell’aprile del 2018.




Quando sulla Firenze Mare si battevano i record di velocità

Nuvolari ha un corpo eccezionale…Nuvolari ha le mani come artigli, Nuvolari ha un talismano contro i mali… i suoi muscoli son muscoli eccezionali… gli uccelli nell’aria perdono l’ali quando passa Nuvolari.” Queste sono le parole con cui Lucio Dalla in una sua celebre canzone descrive il Mantovano Volante, Tazio Nuvolari, uno dei miti italiani degli anni Trenta del secolo scorso, colui che per molti ha rappresentato concretamente il mito della velocità teorizzato da Marinetti e dagli altri futuristi.

In realtà, già  ben prima che Dalla venisse al mondo, delle “virtù eccezionali” di Tazio parlavano con dovizia di particolari i giornalisti a lui contemporanei. Mentre era in piena attività agonistica fiorivano intorno al suo personaggio aneddoti leggendari, ma con un fondo di verità. All’indomani ad esempio di una vittoriosa Mille Miglia, durante la quale per raggiungere senza farsi notare il suo rivale Varzi aveva spento nella notte i fari della sua autovettura, si cominciò a dire che riuscisse a guidare ad occhi chiusi. Si sosteneva che fosse capace di guidare senza volante, senza ruote e addirittura con le ossa rotte. Le cronache sportive raccontano che riuscì a concludere una gara nonostante si fosse procurato durante questa la rottura di un dito e che un’altra volta, reduce da un incidente, si fosse fatto legare al sedile della sua autovettura per mantenere la posizione ideale di guida. In un’altra occasione, sostituì il volante rotto della sua auto con una chiave inglese, concludendo comunque la competizione. Al di là dell’aspetto “epico” di questi racconti, quello che è certo è che Nuvolari sapesse far fiorire questi racconti con la leggerezza e il coraggio con cui affrontava le difficoltà. Dato per morto in seguito ad un incidente, affermò che con gente come lui era necessario aspettare tre giorni prima di piangere troppo. Un uomo con queste caratteristiche sportive e umane era inevitabilmente destinato a diventare un mito per i suoi tifosi che infatti lo chiamavano “Il Campionissimo”, “El conductor de emocion” e anche per i sostenitori della principale casa avversaria, la Mercedes,  che lo definivano con malcelata rabbia “Der Teufel”, il Diavolo. Ferdinand Porsche, uno che di auto se ne intendeva e che era libero, se non dagli interessi economici, dalla febbre del tifo, lo definì “Il miglior pilota di ieri, di oggi e di domani”.

background_image_20150526182145-39-2015426173822_1-2560x1250Il Mantovano Volante corse in 25 anni di carriera 353 gare, vincendone 107 e realizzando 99 giri veloci. Stabilì 5 primati internazionali di velocità e conquistò 7 titoli di campione d’italia. Non male per uno che quando era”autiere”, cioè autista di autoambulanze della Croce Rossa e delle vetture degli ufficiali durante il servizio di leva, era finito fuori strada rimediando dai superiori una solenne lavata di capo e un invito a lasciar perdere la guida.

Nivola era molto amato anche dai “grandi” dell’epoca. Mussolini a sua volta lo ricevette a Villa Torlonia. Gabriele D’Annunzio lo invitò al Vittoriale, del quale era normalmente assai geloso e gli regalò una tartaruga d’oro recante la scritta “all’uomo più veloce l’animale più lento”. Il Mantovano Volante fece stampare questa dedica sulla sua carta da lettere personale e sulla fiancata del suo aereo.

Tazio Nuvolari, “Nivola” per gli amici, divenne grazie ai suoi successi uno dei principali testimoni della rinascita economica e sportiva italiana assieme personaggi come Bianchi, Agnelli e Ferrari. Quando gli effetti della depressione del 1929 cominciarono a farsi sentire anche in Italia il ruolo di Tazio fu fondamentale anche per sostenere alcuni marchi di autovetture che risentivano delle difficoltà del momento. Nel 1935 il periodo d’oro dell’Alfa Romeo stava finendo a causa soprattutto dei grandi investimenti di Mercedes e Auto Union, le case automobilistiche concorrenti. Per abbattere le corazzate tedesche nelle gare e quindi anche sul mercato era necessario escogitare qualcosa di nuovo. Mussolini spingeva perchè l’Italia emergesse anche in campo automobilistico. In una riunione di lavoro Enzo Ferrari, al tempo direttore del reparto corse dell’Alfa Romeo e il suo ingegnere capo Bazzi svilupparono un’idea, quella di dotare la normale auto da gara, la P3, di due motori, uno davanti ed uno dietro al pilota, gestiti da un unico albero e da un unico motore. Era nata la cosiddetta Bimotore, una “balena” pesante circa 13 quintali. Il suo guidatore non sarebbe stato uno dei due piloti del team, Rene Dreyfus e Louis Chiron, ma Tazio Nuvolari, l’unico che si riteneva fosse capace di domarla e che in quel momento era un pilota Maserati. Si racconta che fu Mussolini stesso a chiedere al Mantovano Volante di tornare all’Alfa Romeo. Nuvolari alla fine si decise, anche se al grande passo fu spinto, più che dal Duce, dalle insistenze di Ferrari. L’auto dimostrò presto però alcuni problemi strutturali legati al peso eccessivo e conseguentemente alla sua stabilità. I risultati non furono per niente incoraggianti e lo stesso Nuvolari ben presto capì che non era il caso di sviluppare oltre il progetto. Dato il clamore suscitato dalla nuova  macchina e le spese pubblicitarie sostenute non era però possibile abbandonare il progetto senza ottenere un qualche risultato positivo e fu così che saltò fuori l’idea di tentare di battere il record di velocità sul chilometro lanciato appartenente in quel momento ad Hans Stuck con 317 km orari.

È a questo punto che la storia sportiva di Nuvolari incontra le strade della Toscana. La bimotore, per tentare il record, venne infatti portata sulla Firenze-Mare, nel tratto Lucca-Altopascio, ritenuto molto adatto al tentativo, il 15 giugno 1935. La prova si doveva svolgere il giorno precedente, ma era stata posticipata a causa del forte vento. La situazione atmosferica non era molto migliorata e infatti la Bimotore uscendo da sotto un ponte venne presa da un turbine di vento e per circa 200 metri il Mantovano Volante ebbe enormi difficoltà a mantenere l’auto in assetto. Alla fine però raggiunse il risultato tanto cercato: 11 secondi e 50/100 sul chilometro lanciato che corrispondono a 323,175 km. Orari. Il recordo di Stuck era caduto nettamente. Nuvolari affermerà successivamente di non aver mai affrontato un pericolo così tremendo come il turbine di vento sopra citato, “nemmeno il giorno in cui presi fuoco a Pau”. Il record del mondo fu anche il canto del cigno della Bimotore, evidentemente incapace di sostenere il ritmo di una gara completa.

Nuvolari morì nel 1953. Il suo corpo fu sepolto con i pantaloni azzurri e la maglia gialla che rappresentavano la sua divisa da gara e con il suo volante preferito. Il feretro venne appoggiato sul telaio di un auto e accompagnato al cimitero da circa 20.000 persone. Sulla sua tomba i familiari hanno posto una scritta che ben rappresenta l’amore del Mantovano Volante per la velocità “Correrai ancora più veloce nelle vie del cielo”.

 

Sitografia:

https://www.motoremotion.it/2015/06/17/nuvolari-a-320-allora/

http://www.repubblica.it/motori/sezioni/classic-cars/2015/02/13/news/ad_oltre_320_km_h_sull_autostrada_firenze-mare-106334094/

https://it.wikipedia.org/wiki/Alfa_Romeo_16C_Bimotore

http://www.tazionuvolari.it/it/cronostoria/43-i-record-di-velocita.html

https://www.blackbird-autojournal.com/features/a-tale-of-two-motors/

http://www.tazionuvolari.it/it/tazio/cronostoria.html

http://www.storiedisport.it/?p=8413

https://biografieonline.it/biografia-tazio-nuvolari

 

Gli immortali – Artisti per sempre (serie TV Sky Arte) di Giorgio Porrà

 

Foto da:

https://www.blackbird-autojournal.com/features/a-tale-of-two-motors/

Articolo pubblicato nell’aprile del 2018.




Carlo Ludovico Ragghianti: dal Comitato Toscano di Liberazione Nazionale alla Repubblica

Critico, storico e teorico dell’arte, Carlo Ludovico Ragghianti (1910-1987), forse come pochi altri intellettuali della propria generazione seppe unire un’attività culturale, vasta e profonda, a una passione politica altrettanto intensa.

Nato a Lucca da Francesco, geometra di orientamento socialista, e Maria Cesari, Carlo Ludovico Ragghianti poco più che quattordicenne dovette subire, al pari del padre, i soprusi e le prevaricazioni del fascismo locale, venendo coinvolto nel 1924 e nel 1927 in due episodi di bastonatura che ne provocarono l’allontanamento dalla città. L’irrompere della violenza fascista segnò l’avvio del suo impegno politico nel solco di un antifascismo che, sia negli anni di formazione liceale a Firenze (dove conobbe Eugenio Montale) che in quelli universitari presso la Scuola Normale Superiore di Pisa (dove, sotto la direzione di Giovanni Gentile, avviò i propri studi critici nel solco della tradizione storicistica crociana), non conobbe mai ripensamenti né fu mai condizionato dal dominio culturale e ideologico del fascismo asceso al potere. Dal regime, per via della sua crescente opposizione, vide sbarrarsi l’accesso alla carriera accademica, subendo poi da parte delle autorità di pubblica sicurezza una crescente e continua sorveglianza man mano che andava stringendo, nei suoi frequenti viaggi di studio compiuti in Italia e all’estero, contatti con personalità eminenti della cultura antifascista italiana. Impegnato dalla metà degli anni Trenta in un’intensa attività cospirativa, Ragghianti si preoccupa di mettere in contatto le diverse anime dell’antifascismo liberale, democratico e socialista, in particolare favorendo l’incontro tra il gruppo liberal-socialista di Aldo Capitini e Guido Calogero e il movimento di Giustizia e Libertà (al quale egli stesso si richiama) attorno a un programma concreto e alieno da forzature ideologiche e dogmatismi che egli individua nel nascente Partito d’Azione, alla cui fondazione contribuisce nel dicembre 1941 redigendone assieme ad altri il primo documento programmatico (i Sette punti). Arrestato per la sua attività di opposizione una prima volta a Modena nel marzo del 1942 e tradotto alle Murate di Firenze (dove in soli dieci giorni scrive il Profilo della critica d’arte in Italia), Ragghianti è di nuovo incarcerato nel 1943 a Bologna, per essere definitivamente liberato all’indomani del 25 luglio.

Stabilitosi a Firenze, Ragghianti si rende protagonista dell’azione resistenziale in seno al Partito d’Azione fiorentino e poi entro il Comitato di Liberazione Nazionale (CTLN), di cui diverrà Presidente. Dopo l’8 settembre 1943, assieme a Tristano Codignola, Enzo Enriques Agnoletti e Carlo Furno, Ragghianti cura per il Partito d’Azione la stampa del giornale clandestino La Libertà, entrando inoltre a far parte con Athos Albertoni, Carlo De Cugis e Carlo Campolmi della commissione militare del partito, la quale organizza in città circa 150-200 unità e, con l’obiettivo di costituire gruppi di partito (le future Brigate Rosselli), si occupa di allacciare i primi contatti con le bande che operano sui rilievi del fiorentino e del pistoiese. Sin dai primi di febbraio del 1944, Ragghianti organizza alcuni incontri tra i rappresentanti dei vari partiti antifascisti fiorentini allo scopo di ricostituire il comando militare unico del CTLN, falcidiato a seguito degli arresti compiuti nel novembre precedente dai tedeschi, dovendo però scontare le obiezioni dei rappresentanti comunisti, i quali non acconsentiranno a entrarvi non prima di giugno, quando si uniformeranno cioè alle direttive unitarie stabilite a livello nazionale con la costituzione del Corpo Volontari della Libertà. Sempre Ragghianti, dopo la tragica cattura il 7 giugno a opera dei tedeschi dei componenti il gruppo Co.Ra (il servizio informazioni radio clandestino del partito) si fa carico con altri della riattivazione del servizio di radiocomunicazione che, ripristinato, permetterà di ristabilire contatti logistici con gli Alleati in vista della liberazione. Ancora ai primi di giugno del 1944, Ragghianti redige assieme ad Agnoletti il manifesto, poi reso pubblico alla cittadinanza il 15 del mese, col quale il CTLN annuncia ai fiorentini la mobilitazione generale contro l’occupante nazifascista e rivendica per sé l’assunzione dei poteri di governo provvisorio nel periodo dell’emergenza. Entrato finalmente in funzione, con l’ingresso dei comunisti, il Comando Militare Interpartitico del CTLN (Comando “Marte”), Ragghianti consegna il piano d’attacco per l’insurrezione, alla cui realizzazione aveva collaborato, al nuovo comandante in carica, Nello Niccoli, mantenendo comunque sotto la sua diretta dipendenza, in qualità di commissario di guerra, i servizi radio e di controspionaggio. A consegne avvenute, il 17 giugno, Ragghianti può fare formalmente ingresso nel CTLN in rappresentanza del Partito d’Azione. Ai primi di agosto, dopo che i tedeschi hanno fatto saltare i ponti sull’Arno, Ragghianti assieme a Nello Niccoli ed Enrico Fisher riesce fortunosamente ad attraversare Ponte Vecchio servendosi del corridoio vasariano e a prendere contatto con le avanguardie alleate attestate da alcuni giorni in Oltrarno. Accreditatosi presso di esse in rappresentanza del CTLN, Ragghianti ne assumerà ufficialmente la presidenza la mattina dell’11 agosto, giorno dell’insurrezione, quando il comitato si insedia stabilmente presso Palazzo Medici Riccardi per coordinare sino ai primi di settembre il prosieguo della battaglia per la liberazione di Firenze e indi per dirigere da posizione di forza il lento e accidentato cammino di ricostruzione democratica.

30 agosto 1944 c-compressed

C.L. Ragghianti, “Guerra per la Liberazione Lavoro per la Ricostruzione”, in “La Nazione del Popolo”, 30 agosto 1944

In un suo intervento dal titolo Guerra per la Liberazione, Lavoro per la ricostruzione ospitato sul numero del 30 agosto de La Nazione del Popolo (organo del CTLN) Ragghianti dichiara infatti che il comitato toscano, «come organo rappresentativo del popolo dal quale ha ricevuto il suo mandato», avrebbe continuato a operare sino alla convocazione della Costituente in collaborazione con il governo militare alleato (Amg) e a vantaggio della «convergenza di tutte le forze» interessate alla «ricostruzione morale, politica, civile ed economica della nazione». In tal senso, Ragghianti si poneva in continuità con il disegno politico che sin dalla clandestinità aveva caratterizzato la riflessione e l’attività del CTLN e in particolare del gruppo dirigente azionista che ne esprimeva il vertice politico. Quest’ultimo, infatti, più degli altri partiti antifascisti, aveva sempre attribuito al CTLN la funzione di organo politico rappresentativo della volontà popolare, premendo affinché le autorità alleate ne riconoscessero a liberazione avvenuta tutte le disposizioni prese a favore della riorganizzazione democratica della vita civile (e dunque, in primo luogo, le nomine da esso rese effettive in tutti i principali settori amministrativi locali) e individuassero nel CTLN, piuttosto che nel Prefetto, l’organo abilitato a tenere in periferia i rapporti con l’autorità centrale. A queste prerogative di autogoverno, il gruppo azionista dirigente in seno al CTLN aveva legato altresì l’aspirazione a che il CTLN, dopo la liberazione e fino alla convocazione della Costituente, esercitasse anche funzioni di controllo sul governo dell’Italia libera in tema di assetto politico da dare al paese e a che, in generale, l’esperienza unitaria dei comitati di liberazione potesse costituire l’occasione per un radicale rinnovamento delle strutture tradizionali dello Stato in senso autonomistico e regionalistico.

Ragghianti, dopo la liberazione, si fece appunto interprete di simili istanze, promuovendo in tal senso alcune importanti iniziative. Nell’ottobre del 1944, ad esempio, egli redasse assieme al democristiano Piccioni il testo di un memoriale che una delegazione del CTLN (Ragghianti compreso) avrebbe in seguito portato a Roma per discutere col governo Bonomi e con il Comitato Centrale di Liberazione Nazionale e nel quale erano formulate le seguenti richieste: 1) istituzione di una Consulta Nazionale con funzione di indirizzo politico sul governo formata da una rappresentanza di ciascun partito componente i CLN; 2) trasferimento dei poteri dei Prefetti ai CLN provinciali o in subordine partecipazione di questi ultimi alla nomina dei primi; 3) affidamento ai CLN di funzioni proprie di organi regionali nell’ottica di decentramento. Per quanto ciascuna di queste istanze finì per scontrarsi con le tendenze conservatrici di governo e Alleati, per dissolversi poi col ripristino del tradizionale assetto centralistico dello Stato italiano, il caso toscano e fiorentino, non di meno, nonostante gli iniziali attriti di competenza tra Prefetto e CTLN, sanzionò per la prima volta il riconoscimento politico da parte dell’Amg del ruolo di rappresentanza popolare svolto nel quadro dell’emergenza dalle forze antifasciste del CTLN.

Oltre a questo traguardo, sicuramente ricco di implicazioni positive, l’interesse di Ragghianti (al pari di altri) puntava però a obiettivi più ambiziosi e dal valore di più netta rottura rispetto alla precedente articolazione storico-istituzionale nazionale, focalizzandosi in particolare sul terzo punto indicato nel memoriale presentato alle autorità romane. In effetti, Ragghianti accarezzava l’ipotesi che nel nuovo quadro istituzionale dell’Italia uscita dalla guerra il CTLN potesse essere costituzionalizzato alla stregua di un autogoverno politico e amministrativo della regione, individuando preliminarmente nella difficile missione di ricostruzione materiale, sociale e politica postbellica del paese il campo nel quale il comitato (o i vari CLN regionali) avrebbe potuto sperimentare questa sua nuova funzione. L’esempio positivo e concreto del caso fiorentino, in particolare, dove il CTLN aveva lavorato in autonomia ad approntare i piani operativi necessari al ripristino dei servizi e alla ricostruzione del tessuto locale (come era avvenuto ad esempio nel caso del salvataggio e della efficiente riattivazione degli impianti cittadini di erogazione del gas metano della Italgas, successo conseguito grazie a un piano esecutivo promosso da Ragghianti stesso entro il CTLN e oggetto, dopo resistenze iniziali, dell’approvazione e del plauso del governo militare alleato) costituiva per Ragghianti la prova che i CLN erano in grado di esercitare la direzione dell’attività di ricostruzione postbellica, su scala provinciale o meglio regionale, in collaborazione con (se non in totale autonomia da) gli organismi centrali.

In tal senso, per stimolare e coordinare questo compito, Ragghianti già dal novembre del 1944 si era fatto promotore della convocazione di un convegno regionale dei CLN toscani (poi autorizzato a tenersi solo nel maggio 1945 e indi seguito da altri due nel luglio e nel settembre) mentre sin dal 12 di agosto del 1944 aveva delineato su La Libertà il progetto dell’istituzione di un Ente Regionale per la Ricostruzione traendo spunto dal modello dell’Ente per la ricostruzione delle tre Venezie. Quest’ultimo, creato su iniziativa di Silvo Trentin all’indomani della guerra 1915-1918 per provvedere alla ricostruzione delle terre liberate, aveva funzionato nel senso di un ente di autogoverno regionale dotato di funzioni esecutive autonome dal governo centrale. A tale scopo, Ragghianti, sin dal suo primo viaggio compiuto a Roma nel settembre 1944 per prendere contatti col governo, era riuscito a ottenere l’interessamento e l’appoggio del Ministro dei Lavori Pubblici Meuccio Ruini. Tuttavia, la prolungata opposizione delle autorità militari alleate procrastinò di molto l’attuazione del progetto, rendendo possibile infine non la costituzione di un Ente esecutivo autonomo, ma di un semplice Comitato per la ricostruzione, per di più provinciale. In ogni caso, costituito con decreto prefettizio del 24 aprile 1945 n. 293 e articolato in una giunta esecutiva (presieduta da Ragghianti) e in dodici commissioni per settore di intervento (Ragghianti fece parte come membro della commissione Cultura e arte), a questo Comitato provinciale fu affidato dal CTLN il compito di formulare un piano generale per la ricostruzione della provincia di Firenze.

Sotto la presidenza di Ragghianti, il comitato per la ricostruzione lavorò senza sosta dai primi di maggio alla fine di luglio 1945, quando le conclusioni vennero presentate agli organi centrali superiori. Al contempo Ragghianti, nominato nel giugno 1945 Sottosegretario alla Pubblica Istruzione del governo Ferruccio Parri con delega alle Belle Arti e allo Spettacolo, sfruttando la contemporaneità delle cariche cercò di creare una sinergia tra i ministeri romani e gli sforzi di ricostruzione urbanistica fiorentini affidati al comitato. Forte era, in ogni caso, la volontà di Ragghianti (al pari di altri) di dar prova politica di come il CTLN, tramite il lavoro del comitato provinciale, intendesse accreditarsi come organo dirigente autonomo dell’attività di ricostruzione. Questo, come si è detto, era un aspetto particolarmente caro a Ragghianti, il quale, d’altro canto, già all’interno della “commissione macerie” istituita dagli Alleati tra l’agosto e il dicembre del 1944 aveva cercato di far sì che il team di esperti chiamato con lui a farvi parte (Giovanni Michelucci, Edoardo Detti, Giovanni Poggi, Ugo Procacci e Carlo Maggiora) predisponesse i primi interventi di risanamento edilizio al di fuori o in autonomia dalle ingerenze degli entri governativi. Anche per questo, dopo la nascita del Comitato provinciale, Ragghianti non rinunciò al progetto originario di istituire un Ente regionale con funzioni esecutive autonome, la cui costituzione, tuttavia, sfumò definitivamente in seguito alla caduta del governo Parri.

Oltre dai conflitti di competenza con le autorità alleate e prefettizie sulle funzioni di ricostruzione post-bellica, l’attività di Ragghianti alla guida del CTLN fu investita altresì da una accesa polemica interna alla sezione fiorentina del Partito d’Azione dalla quale provennero chiari segnali di delegittimazione politica e di sanzione nei riguardi del suo operato. Già nell’ottobre del 1944, Ragghianti aveva presentato una prima volta le proprie dimissioni in seguito al voto di biasimo sollevato dall’esecutivo della sezione azionista per aver acconsentito a ricevere a Firenze in visita ufficiale il Luogotenente Umberto II di Savoia. Nel corso di una successiva riunione straordinaria del comitato del partito era stata avanzata su iniziativa di Tristano Codignola l’accusa di irregolarità sulla nomina del critico d’arte alla presidenza del CTLN, carica che – argomentava Codignola – era stata affidata in realtà fin dal luglio 1944 a Enriques Agnoletti e che Ragghianti si era però arrogato quando si era fatto accreditare come tale presso gli Alleati, costringendo indi Agnoletti a compiere un passo indietro onde evitare una crisi politica in seno al CTLN. A Ragghianti, che aveva replicato al Codignola d’esser stato regolarmente indicato alla Presidenza dal partito sin dal giugno 1944 (cfr. Materiale dalle Fonti,), in quella circostanza fu comunque rinnovata la fiducia.

13 giugno 45 a-compressed

La “Nazione del Popolo” del 13 giugno 1945 annuncia il passaggio di consegne alla Presidenza del CTLN tra C.L. Ragghianti e Luigi Boniforti e pubblica la lettera di congedo di Ragghianti.

Tuttavia, una nuova crisi emerse in dicembre nel momento in cui l’avallo dato da Ragghianti alla decisione prefettizia di rimuovere dalla Sezione Provinciale per l’Alimentazione i due commissari nominati in precedenza dal CTLN in rappresentanza dei Partiti comunista e socialista, non trovò sanzione da parte della dirigenza azionista. La scollatura tra Ragghianti e il Partito d’Azione fiorentino si rifletté successivamente in occasione delle elezioni per il rinnovo della direzione di partito che si tennero a partire dal febbraio 1945 e che sancirono l’esclusione di Ragghianti dal comitato esecutivo. Delegittimato, il 3 aprile Ragghianti decise perciò di presentare le dimissioni dalla Presidenza del CTLN, benché l’esecutivo del Partito d’Azione decidesse di congelarle in attesa del completamento della Liberazione del paese (cfr. Materiale dalle Fonti). Le dimissioni infatti vennero ufficialmente accettate dal CTLN solo il 2 giugno successivo. Il 9, Ragghianti passò così le consegne a Luigi Boniforti, congedandosi su La Nazione del Popolo con una lettera carica di riconoscenza per tutti coloro che avevano reso possibile entro il CTLN «lo spirito di unità, di fraterna comprensione, di superamento del necessario dibattito politico in proposte e risoluzioni che hanno avuto per oggetto costante l’interesse generale del popolo».

Gli attriti emersi con l’esecutivo della sezione azionista fiorentina, anziché legati esclusivamente a dissonanze caratteriali con alcune personalità dirigenti (Codignola anzitutto), erano in realtà gli effetti di un progressivo allontanamento politico che Ragghianti aveva compiuto proprio nel corso della lotta di liberazione dalle posizioni liberal-socialiste, maggioritarie nel gruppo azionista fiorentino, per avvicinarsi a quelle di democrazia repubblicana proprie di Max Bauer, Ugo La Malfa e Ferruccio Parri. Questo processo di differenziazione – che in Ragghianti implicava il rifiuto delle derive impresse al partito dalle tesi di Emilio Lussu e dall’interpretazione propria di Codignola del Partito d’Azione come di una forza socialista di nuovo tipo –  in occasione del congresso nazionale del Partito svoltosi a Roma nel febbraio 1946, portò il critico d’arte, assieme ai fiorentini Boniforti, Passigli, Niccoli e Giannattasio, a seguire gli scissionisti del gruppo di Parri e La Malfa entro il Movimento per la Democrazia repubblicana, nelle cui file Ragghianti si candiderà peraltro – ma senza successo –  alle elezioni per la Costituente del 2 giugno 1946.

La mancata costituzionalizzazione delle funzioni di autogoverno regionale sperimentate dal CLN, la caduta improvvisa del governo della Resistenza di Ferruccio Parri, la fine dell’esperienza unitaria del Partito d’Azione – realtà alle quali Ragghianti aveva legato la propria aspettativa di una radicale rigenerazione del paese nel senso di una “rivoluzione democratica” – produssero in lui un crescente disincanto, acuito dal carattere conservatore del nuovo costrutto politico, sociale, economico e culturale sancito dalla nascita dell’Italia repubblicana, incapace, a suo giudizio, di segnare una reale discontinuità col passato regime e di condurre a compiutezza la democrazia nata dalla Resistenza. Lasciata la propria militanza politica per dedicarsi all’insegnamento e a un’appassionata attività di studio e di organizzazione culturale, Ragghianti avrebbe in seguito fornito amare riflessioni sulla compiutezza democratica dell’Italia repubblicana e sulla mancanza di un partito della Sinistra democratica (o meglio di una Terza Forza intesa nel solco della tradizione di Carlo Rosselli come veramente liberale e socialista) in grado di contrastare il progressivo polarizzarsi della vita politica nei due blocchi conservatori e “autoritari” del Partito Comunista e della Democrazia Cristiana. Se in un suo libro di riflessioni politiche licenziato alla fine degli anni Settanta Ragghianti sentenziò con estrema amarezza il fallimento delle aspettative resistenziali, arrivando persino a qualificare i «trent’anni di regime repubblicano» come «più o meno eguali ai vent’anni fascisti», non mancò però di sottolineare comunque l’alto valore politico e morale che, nella speranza pur incompiuta di una radicale ristrutturazione democratica del paese, dopo tutto aveva significato l’esperienza autonomista del CTLN:

Firenze, nell’agosto 1944 – scriveva Ragghianti – dimostrò che il Cln, in quanto rappresentante legittimo e riconosciuto della popolazione, poteva imporre ordinamenti che non erano previsti dall’Amg, ordinamenti di autonomia e di poteri molto più ampi e capillari. E furono riconosciuti, sia pure con aspra lotta. (C.L. Ragghianti, Traversata di un trentennio. testimonianza di un innocente, Editoriale Nuova, Milano 1978, p. 16)

Bibliografia di riferimento:

P. Bagnoli, Carlo Ludovico Ragghianti. Il dovere della politica, I e II, in «Nuova Antologia» n. 2254, aprile-giugno 2010 e n. 2255, luglio-settembre 2010.

A. Becherucci, Carlo Ludovico Ragghianti dalla presidenza del CTLN al Movimento per la Democrazia repubblicana, in «Rassegna storica toscana» a. 54, n. 1, gennaio-giugno 2008.

C. Francovich, La Resistenza a Firenze, La Nuova Italia, Firenze 1975.

E. Panato, Il Contributo di Carlo L. Ragghianti nella Ricostruzione postbellica, Maria Pacini Fazzi Editore, Lucca 2013.

C.L. Ragghianti, Disegno della Lberazione Italiana, Vallecchi, Firenze 1975.

Id., Una lotta nel suo corso. Lettere e documenti politici e militari della resistenza e della Liberazione, Neri Pozza, Venezia 1954.

Id., Traversata di un trentennio. Testimonianza di un innocente, Editoriale Nuova, Milano 1978.

S. Rogari, Carlo Ludovico Ragghianti, in P.L. Ballini (a cura di), Fiorentini del Novecento, 3, Polistampa, Firenze 2004, pp. 149-159

E. Rotelli (a cura di), La ricostruzione in Toscana dal Cln ai partiti, vol. I, Il Comitato Toscano di Liberazione Nazionale, Il Mulino, Bologna 1980.

Articolo pubblicato nel marzo del 2018.