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Il Partito comunista italiano a Livorno dal dopoguerra allo scioglimento

Un legame inscindibile. Non può essere definita altrimenti la connessione storica tra Livorno e il Partito comunista italiano, tutt’oggi percepibile nonostante l’epilogo dettato tra il novembre 1989 e il febbraio 1991 dalla svolta della Bolognina. Uno spazio politico, amministrativo e sociale che la mostra organizzata dall’Istituto storico della Resistenza e dell’Età contemporanea di Livorno (Il Pci a Livorno. Dal dopoguerra allo scioglimento) ha saputo intelligentemente ricostruire, regalando uno spaccato trasversale di quello che il Pci ha rappresentato per la vita repubblicana della città labronica.

Al lavoro di Catia Sonetti, Erika Schiano e Michela Molitierno sono certamente attribuibili vari meriti, in particolare quello di aver riassunto la correlazione tra la storia del partito e la storia del lavoro nella scelta di installare i pannelli all’interno di appositi container portuali. Estrapolata da un’ipotetica cornice museale, la mostra – itinerante e composta da 350 foto – è stata così capace di accentuare ulteriormente uno spazio di rappresentazione orizzontale, lontano dal verticismo istituzionale e concentrato sulla dimensione di piazza e sulla partecipazione della base militante.

241334402_447766106962840_1613773604018022445_nA ciò si sommano altri due aspetti su cui mi vorrei brevemente soffermare. In primo luogo, la valorizzazione della fotografia come documento storico. Gli scatti inseriti nella mostra, per larga parte inediti e provenienti dal fondo Pci dell’Archivio Istoreco e dagli archivi privati di Antonio Brugnoli e Roberto Leonardi, risultano imprescindibili nel consegnare un’impressione più chiara della popolarità, della militanza e dell’evoluzione politica del partito. E ciò tanto per il loro impatto visivo, quanto per il messaggio da essi veicolato. Come sottolineato nell’introduzione al Catalogo da Catia Sonetti, «guardare queste immagini ci [trasmette]» la «percezione precisa del cambiamento sociale, […] antropologico, che ha vissuto il nostro Paese: dai volti di donne e uomini degli inizi del secondo dopoguerra, magri, severi, con i bambini che si fanno carico […] di manifestare con i loro abiti dismessi […], alle immagini degli ultimi decenni di questa storia, con i volti più sorridenti, […] più patinati, […] più televisivi»[1].

Allo stesso tempo, è possibile osservare i frammenti dei cortei o delle adunate come «eventi fotografici»[2] in grado di mostrare il frutto delle scelte compositive dell’autore e la crescente importanza rivestita sul piano proselitistico dalla componente mediatica. Ciò è particolarmente evidente in una delle sei sezioni che compongono la mostra, quella denominata Vita di Partito[3]: ai meravigliosi manifesti ideati da Oriano Niccolai si sommano una serie di scatti capaci di enfatizzare volutamente aspetti specifici dell’universo comunista, dalla “democraticità” delle sezioni[4] alla presenza femminile nelle attività organizzative, passando per le calche durante i comizi e i flussi di militanti (con una particolare attenzione riservata ai più giovani) diretti verso le Feste de l’Unità.

Il secondo punto concerne invece l’importanza dell’infografica elettorale posta all’inizio della mostra. La ricchezza dei dati esposti (dalle amministrative alle politiche) apre invero ad una duplice possibilità: da un lato, quella di valutare l’impatto dei processi nazionali sul piano locale; dall’altro, il peso giocato sulle percentuali dall’intreccio politico cittadino. A ben vedere, il risultato – tra i picchi dell’immediato secondo dopoguerra e la stabilizzazione sopra al 50% degli anni 1976-1987 – mostra una solidità evidente e un’area di riferimento assai vasta, protesa ad andare ben oltre lo «zoccolo duro della base» e a mettere in evidenza l’egemonia giocata dal partito sul versante sociale, politico e culturale della città. Se questa lente bifocale si riflette sulle foto nelle diverse istanze rivendicative (dalla trasformazione delle tematiche occupazionali alle grandi questioni internazionali) e nell’impatto sempre più tangibile della società dei consumi, dal punto di vista statistico può quindi aiutarci a valutare l’incidenza sul contesto labronico del clima del 1948, della crisi del 1956 o delle conseguenze del 1968-1969, fino alla grande stagione di crescita collocabile attorno alla metà degli anni Settanta. A rifletterlo sono altresì i manifesti elettorali e i volantini propagandistici che si alternano alle istantanee, contribuendo a proiettare sui visitatori anche la portata iconografica delle istanze rivendicative ed elettorali.

Attraverso questa molteplicità di aspetti, pertanto, la mostra Il Pci a Livorno ci fornisce un prezioso strumento di analisi e di riflessione. Esperimento unico sul piano regionale, quello avanzato dalle curatrici è stato un tentativo di andare oltre il centenario del Partito comunista d’Italia, così da collocarne le vicende in una cornice di problematizzazione storiografica distante da eventuali letture politicizzate. Un percorso a cui si è aggiunta anche la pubblicazione del volume Pci in Toscana dalla liberazione allo scioglimento. Racconto per immagini (ETS, Pisa 2021), tracciando il pregevole impegno dell’Istoreco Livorno nel ripercorrere con piglio esegetico la narrazione politica predominante sul piano regionale e la sua declinazione su versanti anche poco esplorati come quello sportivo[5].

In sintesi, l’obiettivo posto alla base del progetto può dirsi perciò pienamente raggiunto. Ovvero, quello di dare voce alle immagini per creare un autentico spazio di riflessione, favorendo un supporto reciproco tra storia e memoria (arricchita dagli appuntamenti organizzati nel corso della mostra)[6] oramai sempre più imprescindibile per ipotizzare risposte concrete e formulare al presente le giuste domande.

[1] C. Sonetti (a cura di), Il Partito comunista a italiano a Livorno dal dopoguerra allo scioglimento. Catalogo della mostra, Istoreco Livorno, Livorno 2021, p. 8.

[2] Cfr. A. Mignemi, Lo sguardo e l’immagine. La fotografia come documento storico, Bollati Boringhieri, Torino 2003.

[3] Le altre cinque sono: Lavoro, Battaglie civili, Pace e questione internazionale, Feste de l’Unità e Sport.

[4] Si veda ad esempio la foto a pagina 82 in: C. Sonetti (a cura di), Il Partito comunista a italiano a Livorno, cit.

[5] Tra le altre iniziative riconducibili al centenario, si ricordano la pubblicazione del volume La vicenda non comune di un militante comunista. Bruno Bernini e le sue carte, scritto da Catia Sonetti e da Michela Molitierno, e il convegno Storia generale e percorsi biografici tra stalinismo e antistalinismo, che si terrà online il prossimo 10 dicembre (2021) e conterà sugli interventi di Antonella Salomoni, Alexander Höbel, Patrick Karlsen, Anna Tonelli e Claudio Rabaglino.

[6] Il 23 settembre, in Piazza Saragat, si è tenuto l’appuntamento Feste de l’Unità: il racconto dei protagonisti e osservatori, durante il quale Catia Sonetti e Michela Berti hanno dialogato con Maurizio Paolini e Claudio Seriacopi. Ha fatto poi seguito l’incontro del 30 settembre, Il Porto e il lavoro a Livorno tra passato e futuro, quando al Palazzo del Portuale è stata allestita una tavola rotonda che ha coinvolto Luciano Guerrieri, Enzo Raugei, Gianfranco Simoncini, Catia Sonetti e Fabrizio Zannotti.




Macchi e Gasparri: comunisti internazionalisti livornesi

Quinta parte della rassegna di profili biografici di militanti comunisti internazionalisti di Livorno e provincia, i quali contribuirono alla fondazione del Partito Comunista d’Italia, sezione della IIIª Internazionale, avvenuta a Livorno nel gennaio 1921.

GASPARRI  Menotti (Mela, Scipione, Astarotte)

(Livorno 18.12.1907- Madrid 21.11.1936)

 Nato a Livorno nel 1907 da Flaminio e Francesca Franceschi, orfano di padre, frequenta sino alle seconda elementare; di professione è vetraio. Iscritto giovanissimo alla Federazione giovanile del Partito Socialista, nel 1923 diviene militante attivo del Pcd’I. Nell’aprile del 1924 viene segnalato insieme ad altri giovani comunisti, come diffusore di manifesti e volantini per il 1 maggio, evita di essere malmenato dai fascisti poiché uno dei suoi compagni, Carlo Di Prato, li convince che essi erano andati a prendere lezioni di mandolino dal maestro Pìattoli. Nel 1926 viene fermato per strada perché cantava canzoni sovversive insieme ad altri compagni; per tali ragioni viene eseguita una perquisizione presso la sua abitazione dove vengono scoperte diverse copie del giornale comunista “L’Unità” che gli vengono sequestrate. In quel periodo e sino a tutto il 1927 risulta essere in corrispondenza con Astarotte Cantini, comunista livornese già anarchico, emigrato dapprima in Francia e in seguito in Unione Sovietica, il quale gli invia copia del giornale “Fronte Antifascista”, stampato a Parigi dagli esuli italiani; tale corrispondenza riprenderà nel 1929 e ancora negli anni seguenti. Nel novembre 1927 viene tratto in arresto a Livorno per ordine della Questura di Pisa per propaganda comunista; aveva infatti diffuso nella“ Cristalleria Torretta” fabbrica dov’è impiegato come vetraio, il giornale della gioventù comunista “Avanguardia”, ed in particolare aveva consegnato una copia del suddetto giornale al suo compagno di lavoro, Ugo Moretti il quale, a sua volta, aveva diffuso tale giornale a Putignano, paese in provincia di Pisa, del quale lo stesso Moretti è originario. Per questa attività di diffusione clandestina, viene deferito al Tribunale Speciale per la Difesa dello Stato e condannato ad un anno di reclusione che sconta interamente a Roma. Successivamente entra in corrispondenza epistolare con il livornese Osvaldo Bonsignori, soldato del 77° reggimento fanteria di stanza a Bergamo, anch’egli comunista, il quale lo aggiorna sul morale della truppe e sulle condizioni di vita dei soldati, ma la corrispondenza viene intercettata dalla polizia nel luglio 1930. In quegli anni diventa capo della cellula comunista della vetreria Rinaldi, dove lavora e al cui interno è tra coloro che organizzano la diffusione di giornali ed altri stampati comunisti per tutta la città di Livorno e per tali motivi viene denunciato insieme al comunista Carlo Di Prato, per associazione e propaganda sovversiva. Nel giugno del 1931 viene fermato insieme ad altri compagni nei pressi dell’isola della Gorgona (Livorno) e denunziato per tentativo di emigrazione clandestina e condannato nel luglio successivo a 10 mesi di reclusione, ridotti a 6 in appello. Uscito dal carcere nel dicembre 1931, pur venendo costantemente sorvegliato dalle autorità fasciste, riesce a rendersi irreperibile e nel marzo 1932, emigra clandestinamente in Francia con un passaporto falso spagnolo, stabilendosi dapprima a Marsiglia e successivamente in Belgio. In Francia assume, tra gli altri, gli pseudonimi di Alfredo Scipioni, Astarotte Puntoni, Mariur Frasuan e Alfredo Fiori; più tardi assumerà il nome di battaglia di Scipione. A Marsiglia lavora come scaricatore di porto presso la “Società Generale dei Trasporti Marittimi” ed è fiduciario del Pci, per il quale svolge attività politica pressoi marittimi con la diffusione di giornali ed altri stampati. Grazie a questa attività riesce, tramite i naviganti ad inviare stampa clandestina ed altro materiale di propaganda comunista in Italia; inoltre svolge il compito di emissario per il Pci in varie località, tra cui Bastia, Arles, Tolosa, Marsiglia e Parigi. Nel 1934 si trasferisce ad Arles, nel Sud della Francia, dove lavora nella miniera di Rochebelle e partecipa all’organizzazione della cellula comunista. Espulso dalla Francia si reca in Belgio per qualche mese, per poi tornare in Francia a Parigi, dove assume i consueti pseudonimi. Ai primi del 1936 è segnalato in Unione Sovietica, dove viene ricoverato, su sua esplicita richiesta,  in un sanatorio nel Caucaso per poter curare problemi di salute che lo affliggevano da tempo, causati da un’operazione subita in Francia per ulcera allo stomaco. Rientrato in Francia dopo pochi mesi, allo scoppio della guerra civile spagnola, accorre in Spagna nell’ottobre del 1936, inquadrandosi nel battaglione “Garibaldi”, successivamente divenuto XII Brigata Internazionale. Muore in combattimento il 21 novembre 1936 nella difesa di Madrid, nel settore della Città Universitaria, località Casa del Campo.

FONTI: Archivio Centrale dello Stato (Roma), Ministero dell’Interno, Direzione Generale di Pubblica Sicurezza, Divisione Affari Generali e Riservati, Casellario Politico Centrale, ad nomen; Comune di Livorno, Archivio di Stato Civile; F. Bucci, S. Carolini, C. Gragori, G. Piermaria, Il Rosso, Il Lupo e Lillo. Gli antifascisti livornesi nella Guerra civile spagnola, La ginestra, Follonica, 2009; G. Pajetta, I Livornesi oltre i Pirenei, i volontari livornesi nella guerra antifascista di Spagna 1936-1939,www.aicvas.org/livornesi/pirenei, 2012; Antifascisti  nel Casellario Politico Centrale, 18 voll., Roma 1988-1995, ad nomen; I. Cansella, F. Cecchetti (a cura di), I volontari antifascisti toscani nella guerra civile spagnola, le biografie, Isgrec, Arcidosso, 2011; I. Tognarini (a cura di), Livorno nel XX secolo. Gli anni cruciali di una città tra fascismo, resistenza e ricostruzione, Edizioni Polistampa, Firenze, 2006; M. Tredici, Gli altri e Ilio Barontini. Comunisti Livornesi in Unione Sovietica, ETS, Pisa, 2017, ad nomen; Livornesi alla guerra di Spagna 1936-1939, pubblicazione a cura dell’Archivio di Stato di Livorno e del Centro Filippo Buonarroti Toscana, Livorno, 2020, ad nomen.

MACCHI_MACCHIAVELLO_1892_004MACCHI Macchiavello Giuseppe Amaddio

(Collesalvetti (Livorno) 20.8.1892 – Collesalvetti (Livorno) 3.6.1960)

Nato a Colognole, frazione del Comune di Collesalvetti (Livorno) il 20 agosto 1892 da Adolfo (contadino piccolo possidente) e Merope Stagi o Stazzi (casalinga), possiede la licenza elementare e di professione è fabbro. Nel 1908 a soli diciassette anni aderisce alla federazione giovanile socialista e negli anni seguenti al Partito socialista. Nel corso delle Prima Guerra Mondiale, in quanto militante socialista ed internazionalista, svolge attiva propaganda antimilitarista, tanto che viene diffidato dall’Arma dei Carabinieri di Collesalvetti. Nel dicembre 1918 a guerra conclusa viene condannato a sei mesi di reclusione per diserzione, pena che sconta interamente in varie carceri d’Italia. Tornato a Collesalvetti, diviene segretario della sezione socialista di Colognole e nel 1920 viene eletto consigliere comunale sempre per il Psi al Comune di Collesalvetti. Nel 1921 diventa militante comunista ed è tra i fondatori a Colognole, insieme al fratello Mario, della sezione Spartacus del Partito Comunista d’Italia, della quale diviene immediatamente segretario. In questa sezione Macchi svolge opera di penetrazione politica tra i lavoratori agricoli del Comune di Collesalvetti, per cui in quegli anni la sezione da lui diretta arriva a contare oltre quaranta iscritti. Sempre nel 1921 viene nominato assessore nell’amministrazione comunale di Collesalvetti, il cui sindaco è il comunista Alessandro Panicucci e dietro sua proposta viene approvata all’unanimità dalla Giunta comunale la rimozione dei busti di Vittorio Emanuele III e di Umberto I. Nel corso del 1922 sciolta la Giunta comunale di Collesalvetti ad opera del governo fascista, si trasferisce con la famiglia a Roma, dove trova lavoro presso l’officina meccanica Piperno. Nel maggio 1928 a Roma viene arrestato e deferito al Tribunale Speciale per la Difesa dello Stato in quanto membro dell’organizzazione comunista clandestina romana, diretta da Giuseppe Amoretti e per tale attività viene condannato a quattro anni di reclusione. Infatti Macchi è responsabile della diffusione della stampa di partito non soltanto nel Lazio ma anche in Toscana, e per tali motivi, grazie alla sua particolare abilità, riservatezza e dedizione al lavoro clandestino svolto, è tenuto in grande considerazione dal Centro del partito, che ripone in lui massima fiducia. Nel corso del 1928 e del 1929 la moglie Gina Gambaccini, madre delle sue tre figlie piccole, inoltra più volte domanda di grazia per il marito, a cause delle precarie condizioni di vita in cui erano ridotta la famiglia dovute al suo arresto, inoltra anche la domanda per ottenere un sussidio sociale. Tuttavia la moglie ottiene dal governo soltanto una sussidio mensile di ottanta lire per soli quattro mesi e la domanda di grazie viene inoltre respinta poiché in sede giudiziale viene dimostrato che la famiglia Macchi ottiene costantemente dei sussidi dal Partito comunista in clandestinità. Macchi una volta liberato nel maggio 1932 per aver scontato l’intera pena detentiva, viene sottoposto per alcuni mesi a libertà vigilata, dalla quale viene poi esentato per intervenuta amnistia, ma viene tuttavia costantemente vigilato dalla polizia politica. Nell’aprile 1933, rimasto vedovo e con tre figlie a carico, si trasferisce a Livorno, dove svolge il mestiere di fabbro ferraio in proprio e per il suo passato politico viene inserito nell’elenco delle persone da arrestare in determinate circostanze perché ritenuto capace di compiere atti sovversivi. Nel 1938 si risposa con Giuseppina Gragnani dalla quale avrà il figlio Marxino (Marzino), nato nel 1940. Nel maggio 1938 viene sottoposto ad ammonizione poiché la sera del 24 maggio al Teatro Lazzeri di Livorno, unico tra gli astanti, non si era alzato quando l’orchestra aveva suonato gli inni nazionali, la Marcia Reale e Giovinezza. Nel giugno 1943 viene arrestato nuovamente in quanto, dopo una perquisizione domiciliare vengono rinvenuti ritagli di giornale, manoscritti vari e corrispondenza a sfondo sovversivo, corrispondenza che egli teneva in particolare con Athos Aringhieri, un contadino di Castell’Anselmo, frazione di Collesalvetti, in passato appartenente alle organizzazioni sindacali rosse. Trasferito per sfollamento nel carcere di Perugia, viene proposto all’ammonizione dalla quale viene tuttavia sospeso nell’agosto del 1943 a causa della caduta del Fascismo. Dopo l’armistizio del settembre del 1943 diventa comandante partigiano. Nel 1944, al momento della Liberazione è nominato dal CLN sindaco del Comune di Collesalvetti per il PCI carica che mantiene sino al 1951. In occasione della Rivoluzione Ungherese dell’ottobre/novembre 1956 è tra coloro che deplorano e condannano l’intervento sovietico a Budapest, venendo per questo motivo emarginato dalla dirigenza togliattiano del PCI. Muore a Collesalvetti il 3 giugno 1960.

FONTI: Archivio Centrale dello Stato (Roma), Ministero dell’Interno, Direzione Generale di Pubblica Sicurezza, Divisione Affari Generali e Riservati, Casellario Politico Centrale, ad nomen. Antifascisti nel Casellario Politico Centrale, 18 voll., Roma 1988-1995, ad nomen; F. Bertini, Con il cuore alla Democrazia, Debatte editore, Livorno, 2007; I. Tognarini (a cura di), Livorno nel XX secolo. Gli anni cruciali di una città tra fascismo, resistenza e ricostruzione, Edizioni Polistampa, Firenze 2006.




Il governatore, il prefetto e il delegato.

Il tema delle sanzioni contro il fascismo è stato ampiamente studiato nel corso dei decenni scorsi, mettendo in risalto soprattutto gli elementi di continuità organica e istituzionale dello Stato italiano, oltre al sostanziale fallimento dei vari provvedimenti di legge adottati, privilegiando uno sguardo dall’alto e di ricostruzione politica degli eventi[1]. Nell’arco degli ultimi anni l’attenzione degli storici si è spostata sull’analisi dei soggetti attivi e passivi di questo passaggio fondamentale per la storia italiana, oltre che sul loro bagaglio culturale e sulle modalità performative del fenomeno, con l’obbiettivo di uscire dalle secche storiografiche della cosiddetta “epurazione” quale il vulnus originale del sistema democratico italiano[2]. Se ci accostiamo ad un caso esemplificativo come quello della provincia di Livorno è piuttosto immediato cogliere le ragioni di questo cambio di rotta nei lavori sul tema, a dimostrazione che la transizione non fu affatto solo, e fin da subito, una «burletta»[3]. Alla luce di tutto ciò prenderò in esame le tre figure che gestirono, con tempi e modi diversi, la defascistizzazione livornese: il tenente colonnello statunitense John F. Laboon, governatore alleato della provincia di Livorno tra l’estate del 1944 e la primavera 1945; il prefetto di carriera Francesco Biagio Miraglia, inviato a Livorno direttamente da Roma nell’agosto del 1944; e il delegato provinciale dell’Alto commissariato per le sanzioni contro il fascismo, l’avvocato ebreo e comunista Ugo Bassano.

Il tenente colonnello Laboon era un ingegnere civile militarizzato all’indomani dell’invasione dell’Italia, col preciso compito di doversi occupare della riorganizzazione logistica e amministrativa delle provincie appena liberate. Le sue presunte capacità nel settore derivavano dal fatto che aveva occupato diversi incarichi di responsabilità manageriale sia all’interno del sistema ferroviario della Pennsylvania sia come dirigente regionale della Work project administration, l’agenzia più importante per l’assistenza ai disoccupati e la rimessa in ordine dell’economia americana nell’ambito del New Deal. Prima di giungere a Livorno era stato brevemente governatore della città di Foggia e della provincia di Pescara, ripristinando in breve tempo le funzionalità del porto della città adriatica. Cattolico particolarmente devoto – dei 6 figli ben 4 abbracciarono la vita religiosa[4] – cercò di ostacolare in tutti i modi i partiti di sinistra orbitanti nel Comitato provinciale di Liberazione Nazionale (Cpln) di Livorno, accusandoli di essere la causa di ogni genere di disordine sociale presente sul territorio di sua competenza[5]. Questo dato è fondamentale da tenere in considerazione poiché il suo arrivo a capo del territorio toscano corrispose ad una netta inversione di tendenza da parte della Commissione Alleata di Controllo (Acc) in materia di defascistizzazione. Secondo gli Alleati, visti i pessimi risultati dei loro tentativi di bonifica dell’amministrazione pubblica nell’Italia meridionale, questo tema doveva essere gestito dal governo cobelligerante italiano, quello di Roma per intendersi, con un supporto esterno da parte degli enti di governo degli Alleati[6]. In prima battuta, quindi, la questione relativa all’allontanamento degli ex fascisti dai posti di lavoro doveva passare dalle mani dei prefetti, figure istituzionali gradualmente reinsediate al vertice delle province dal governo italiano nelle settimane successive alla liberazione dei capoluoghi. Inoltre Laboon si trovò a doversi confrontare con la defascistizzazione livornese all’indomani della pubblicazione del Decreto Legislativo Luogotenenziale (Dll) 27 luglio 1944, n. 159, quello che è stato giustamente definito la «Magna Charta delle sanzioni contro il fascismo»[7]. Per cui, rispettando le indicazioni che ricevettero in agosto i governatori militari alleati delle province italiane liberate, egli fece completo affidamento sul prefetto Miraglia, ammonendolo di iniziare con «urgenza»[8] l’epurazione amministrativa, al fine di tenere a bada l’ordine pubblico[9].

Il prefetto Francesco Biagio Miraglia

Il prefetto Francesco Biagio Miraglia

Miraglia giunse a Livorno nemmeno un mese dopo la liberazione della città, il 12 agosto 1944, toccando con mano il profondo stato di distruzione materiale e morale dell’intero territorio labronico. In un appunto per un collega di poche settimane più tardi espresse tutta la sua rassegnazione per la realtà nella quale era stato catapultato, lui che aveva trascorso quasi tutta la carriera tra gli uffici del Ministero dell’Interno. Miraglia era nato nel 1894 a Castrovillari (Cs), aveva partecipato alla Prima guerra mondiale e si era laureato nel 1919 in giurisprudenza. L’anno dopo era risultato vincitore del concorso per vicecommissari di polizia, salvo transitare quasi subito alla carriera prefettizia. Svolse i primi incarichi da consigliere di prefettura nelle sedi di Voghera, Cosenza e Reggio Calabria. Nel 1927 fu chiamato a lavorare presso il Ministero, dove nel 1941 divenne direttore generale del personale e, nel 1943, ispettore generale. Quest’ultima promozione coincise con la sua nomina a prefetto di 2ª classe, senza avere il tempo per poter esercitare l’incarico a causa della fine del regime fascista e dell’armistizio. Dopo la fuga del re e del governo da Roma, fu tra quei funzionari che rimasero in servizio al Viminale fin quando non venne chiesto loro di prestare giuramento alla Repubblica sociale italiana (Rsi) e prepararsi al trasferimento verso nord. Al suo rifiuto di collaborare con le autorità repubblicane corrispose il collocamento a riposo d’ufficio. In contatto con il fronte resistenziale romano durante tutto l’inverno 1944, la mattina del 4 giugno ricevette l’ordine di tornare subito in servizio e occuparsi della riorganizzazione del Ministero dell’Interno per preparare il ritorno in sede del governo italiano, fino ad allora a Salerno[10]. Miraglia si era dimostrato piuttosto freddo verso il regime fascista, nonostante l’adesione formale e il tesseramento al Partito nazionale fascista (Pnf), perciò l’Acc e lo stesso Ivanoe Bonomi, presidente del Consiglio e ministro degli Interni ad interim, lo selezionarono per andare a dirigere la provincia toscana, una delle più importanti per i piani strategici degli Alleati. Va detto che questa “restaurazione” nei ruoli dirigenziali della periferia non escludeva il fatto che il personale prefettizio fosse messo politicamente sotto esame per escludere la presenza di evidenti compromissioni con l’ex regime di governo. Le regole erano le stesse che valevano per l’epurazione delle altre categorie di funzionari statali, per cui era sufficiente che i prefetti non godessero di benemerenze fasciste, come l’essere stati squadristi o aver partecipato alla Marcia su Roma, e non avessero aderito alla Rsi. Non veniva presa in considerazione l’effettiva partecipazione del dirigente alla vita pubblica del fascismo – che era innegabile dato che costoro avevano ricoperto i maggiori ruoli di responsabilità nel meccanismo dello Stato fascista, come esemplificato dalla biografia di Miraglia – per una ragione sia pratica che politica. Per il governo italiano cobelligerante i prefetti rappresentavano l’ossatura dello Stato unitario, perciò, soprattutto nelle condizioni in cui versava l’Italia liberata dell’estate 1944, la loro presenza era considerata come l’unica in grado di garantire la sopravvivenza della nazione[11]. Il 5 settembre, in seguito all’invito del governatore Laboon di occuparsi dell’epurazione, il prefetto firmò una circolare diretta a tutti gli enti locali per informarli sul contenuto del Dll 27 luglio 1944 n. 159, e, in particolare, su che cosa fosse stato previsto per l’allontanamento di alcune categorie di ex fascisti dalle pubbliche amministrazioni, come gli squadristi o i collaborazionisti. Ciò che emerge dai carteggi tra Miraglia e i singoli enti per approvare, o rigettare, le sospensioni – che furono oltre 80 solo nel primo mese di entrata in vigore del Dll, raddoppiando alla fine dell’inverno successivo – risulta che il prefetto considerasse la questione epurativa come estremamente chiara. Secondo lui, ma ritengo che si possa giustamente estendere questa considerazione a molti funzionari pubblici che esercitarono ruoli di responsabilità in quel determinato frangente storico, dal momento che esistevano delle norme nazionali che regolavano un tema così delicato come quello delle sanzioni agli ex possessori di titoli onorifici del regime, l’unica scelta possibile per coloro che erano chiamati a gestire il complesso processo di defascistizzazione era applicare le regole così come erano scritte[12].

Ovviamente, il lavoro di Miraglia era solo preliminare, visto che non si trattava di entrare nel merito dei singoli casi, giudicarli e comminare una pena. Per questo passaggio, sempre sulla scorta del Dll 27 luglio 1944, n. 159 era stato creato l’Alto commissariato per le sanzioni contro il fascismo con le sue ramificazioni provinciali, le delegazioni provinciali. A capo di quella livornese venne posto l’avvocato ebreo e comunista Ugo Bassano, già consigliere giuridico del Cpln ed elemento di collegamento con il governo militare alleato (Amg) diretto da Laboon. Il suo profilo biografico è piuttosto illuminante della sua personalità: proveniente da una famiglia dell’antica borghesia ebraica livornese, si era laureato in giurisprudenza nel 1931, iniziando da subito ad a fare l’avvocato. Nel 1938, in seguito all’emanazione delle leggi razziali, fu privato della possibilità di esercitare in proprio, venendo assunto da un altro avvocato ebreo livornese, Giuseppe Lumbroso, che si era convertito al cattolicesimo nel 1936 ed aveva ottenuto la “discriminazione” per poter continuare con la professione. Questo lavoro semiclandestino si adattava male ad una mente brillante come la sua, perciò accettò una borsa di studio per trasferirsi a Washington ed approfondire così gli studi in legge. Lo scoppio della Seconda guerra mondiale gli precluse la strada dell’espatrio, costringendolo a rimanere a Livorno fino alla primavera del 1943. In questo periodo, grazie ad un incontro casuale con Lanciotto Gherardi – futuro commissario politico livornese –, si avvicinò al Partito comunista italiano (Pci), rimanendo comunque appartato anche dopo l’8 settembre per la sua appartenenza religiosa. Non prese parte attiva alla lotta clandestina e si trovò a vagare senza meta per la Toscana durante i mesi dell’occupazione nazifascista[13]. In base a quello che ho precedentemente detto del rapporto tra Laboon e il Cpln è naturale chiedersi come mai una figura come quella di Bassano venne scelta per gestire fattivamente la defascistizzazione livornese. A mio avviso per due ragione: la prima di ordine politico, e riguarda i mesi della prima crisi del governo Bonomi, con l’uscita dal governo di socialisti e azionisti e la tenuta dei comunisti[14]; l’altra, di tipo pratico, riguarda il fatto che Bassano si dimostrò particolarmente affidabile e degno di fiducia agli occhi di Laboon e Miraglia nei sui compiti precedenti di collegamento tra l’Amg, la prefettura e il Cpln[15]. La nomina ufficiale di Bassano a delegato provinciale dell’Alto commissariato per le sanzioni contro il fascismo avvenne il 19 dicembre, e fu accompagnata da una lettera da parte dell’Alto commissariato aggiunto per l’epurazione, il comunista Mauro Scoccimarro, che gli intimò di «iniziare immediatamente […] un’oculata istruttoria ai fini del giudizio di epurazione»[16] per tutte le pubbliche amministrazioni della provincia. Il suo compito, così come definì lui stesso alcune settimane più tardi in un’intervista per il neonato quotidiano livornese «Il Tirreno», era quello di «un Pubblico Ministero che prende le sue decisioni, ma non fa parte del Tribunale»[17]. I giudizi finali, infatti, sarebbero spettati ad un’apposita commissione presieduta da un magistrato togato, coadiuvato da un membro scelto dalla delegazione e uno di nomina prefettizia. Oltre ad occuparsi delle sole sanzioni amministrative, Bassano, in virtù delle revisioni alla legislazione sulle sanzioni contro il fascismo, seppe gestire anche le sanzioni di tipo fiscale, le cosiddette indagini sugli “illeciti arricchimenti”, e quelle di tipo penale, vale a dire le indagini sui “crimini fascisti”, rendendo la delegazione provinciale la vera e unica macchina della defascistizzazione della periferia livornese[18].

Ugo Bassano

Ugo Bassano

Questa breve analisi su tre delle figure principali della defascistizzazione livornese, vale a dire il primo governatore alleato della provincia, il prefetto e il delegato dell’Alto commissariato per le sanzioni contro il fascismo permette, a mio parere, di cogliere alcuni dati fondamentali. In primo luogo, l’importanza delle biografie di coloro che gestirono fattivamente il passaggio dal fascismo alla democrazia all’indomani della Liberazione in periferia, oltre ai loro legami personali e ai differenti rapporti di forza, e appartenenza, politica. Secondariamente, la complessità di un fenomeno in continuo divenire e che si dovette confrontare con la relativa “fascistizzazione” dei territori, le ferite dello squadrismo (1919-1922) e della guerra civile (1943-1945). Tutto ciò dimostra quanto sia importante non limitarsi a giudicare la transizione solo sulla base degli effetti di precise scelte politiche, come l’amnistia del 22 giugno 1946, bensì cercare di andare oltre alle perplessità verso il «colpo di spugna sui crimini fascisti»[19] e cogliere quelle continue tensioni tra continuità e innovazione, teoria e prassi, centro e periferia, che segnarono l’avvio dell’esperienza repubblicana in Italia[20].

 *Giovanni Brunetti (Cecina, 1997) è laureato magistrale in Storia e Civiltà presso l’Università di Pisa (maggio 2021), dove ha conseguito anche la laurea triennale in Storia (giugno 2019). Attualmente sta frequentando il biennio 2019-2021 della Scuola di Archivistica, Paleografia e Diplomatica dell’Archivio di Stato di Firenze. Dottorando del XXXVII⁰ ciclo di studi (2021-2024) in Scienze archeologiche, storico-artistiche e storiche presso l’Universita degli Studi di Verona.

[1] Cfr. C. Pavone, La continuità dello Stato, in Alle origini della Repubblica. Scritti su fascismo, antifascismo e continuità dello Stato, Bollati Boringhieri, Torino, 1995, pp. 70-159 (ed. or. 1974); M. Flores, L’epurazione, in G. Quazza (a cura di), L’Italia dalla Liberazione alla Repubblica, Feltrinelli, Milano, 1976, pp. 413-467; L. Mercuri, L’epurazione in Italia (1943-1948), L’arciere, Cuneo, 1988; R. P. Domenico, Processo ai fascisti (1943-1948). Storia di un’epurazione che non c’è stata, Rizzoli, Milano, 1996 (ed. or. 1991); H. Woller, I conti con il fascismo. L’epurazione in Italia 1943-1948, il Mulino, Bologna, 1997 (ed. or. 1996); R. Canosa, Storia dell’epurazione in Italia. Le sanzioni contro il fascismo 1943-1948, Baldini&Castoldi, Milano, 1999.

[2] Cfr. G. Focardi e C. Nubola (a cura di), Nei tribunali. Pratiche e protagonisti della giustizia di transizione nell’Italiana repubblicana, il Mulino, Bologna, 2015; C. Nubola, P. Pezzino, T. Rovatti, Giustizia straordinaria tra fascismo e democrazia. I processi presso le Corti d’assise e nei tribunali militari, il Mulino, Bologna, 2019; A. Martini, Dopo Mussolini. I processi ai fascisti e ai collaborazionisti (1944-1953), Viella, Roma, 2019.

[3] A. Galante-Garrone, Il fallimento dell’epurazione: perché?, in R. P. Domenico, Processo ai fascisti, cit., pp. 11-15.

[4] Uno di questi era l’omonimo John F. Laboon, ufficiale sommergibilista durante la Seconda guerra mondiale e cappellano militare nella Guerra del Vietnam. Cfr. R. Gribble, Navy Priest: The Life of Captain Jake Laboon, The Catholic University of America Press, Whashington D.C., 2015.

[5] Sono piuttosto illuminanti in questo senso le relazioni di Laboon presenti in R. Absalom (a cura di), Gli Alleati e la ricostruzione in Toscana (1944-1945), voll. I-II, Olschki, Firenze, 2001, in part. pp. 227-228.

[6] Cfr. N. Gallerano, L’influenza dell’amministrazione militare alleata sulla riorganizzazione dello Stato italiano (1943-1945), in M. Legnani (a cura di), Regioni e Stato dalla Resistenza alla Costituzione, il Mulino, Bologna, 1975, pp. 103-104; D. W. Ellwood, L’alleato nemico. La politica di occupazione degli anglo-americani in Italia 1943-1945, Feltrinelli, Milano, 1977, pp. 240-245; H. Woller, I conti con il fascismo, cit., pp. 217-218.

[7] H. Woller, I conti con il fascismo, cit., p. 193.

[8] ASLi, Prefettura, b. 168 «Epurazione Enti locali (1944-1946)», fasc. 1 «Massime», Lettera di Laboon per il prefetto Miraglia (1° settembre 1944).

[9] Nella primavera 1945, terminata l’esperienza di governatore in Italia, Laboon venne rimpatriato negli Usa dopo un breve incarico in Austria. Tornato alla vita civile si dedicò della gestione del sistema idraulico della contea di Allegheny, in Pennsylvania, pur continuando a mantenere un canale di comunicazione con Livorno grazie alle ripetute donazioni in favore degli enti religiosi assistenziali della provincia. Cfr. John Laboon… Honoray Citizen, «The Pittsburgh Press», May 22, 1955; John F. Laboon, «Pittsburgh Post-Gazette», December 10, 1985.

[10] Cfr. G. Tosatti (a cura di), L’ombra del potere. Biografie di capi di gabinetto e degli uffici legislativi, Icar, giugno 2016, pp. 160-161; G. Miraglia, Riorganizzare lo Stato alla liberazione di Roma (4 giugno 1944). Un documento dell’archivio del prefetto Francesco Miraglia, «Sintesi dialettica per l’identità democratica. Rivista online a carattere scientifico», n. 4, 06/2007 http://www.sintesidialettica.it/index.php (consultato il 26 settembre 2021).

[11] Nel caso della provincia di Firenze, ad esempio, il Comitato toscano di Liberazione Nazionale (Ctln) aveva deliberatamente evitato di nominare un proprio prefetto dopo la liberazione. Questo non certo perché si attendesse una designazione da Roma, bensì perché appariva controproducente ripristinare la figura al vertice di quel governo periferico che si pensava sarebbe stato riformato alla fine della guerra. Era evidente infatti che, se fosse stato scelto anche un prefetto di estrazione politica, e avesse svolto tutte le funzioni tipiche del suo ruolo, si sarebbe data l’opportunità al governo di provvedere, anche in un secondo momento, al ripristino del modello tradizionale di controllo centro-periferia. Cfr. A. Cifelli, L’istituto prefettizio dalla caduta del fascismo all’Assemblea costituente. I Prefetti della Liberazione, Ssai, Roma, 2008, pp. 106-111; M. De Nicolò, L’epurazione “interna”: l’istituto prefettizio, in M. De Nicolò e E. Fimiani (a cura di), Dal fascismo alla Repubblica: quanta continuità? Numeri, questioni, biografie, Viella, Roma, 2019, pp. 21-45.

[12] Come ha ampiamente dimostrato Mariuccia Salvati, il caso di Miraglia non era certamente unico, né un gesto di semplice opportunismo, quanto piuttosto l’esempio dell’appartenenza ad una specifica cultura amministrativa fortemente legalitaria e garantista che, solo inizialmente, era stata anche contrastata dalla rivoluzione fascista. Cfr. M. Salvati, Il regime e gli impiegati. La nazionalizzazione piccolo-borghese nel ventennio fascista, Laterza, Bari-Roma, 1992, pp. 10-12. Vedi anche G. Melis, La macchina imperfetta. Immagine e realtà dello Stato fascista, il Mulino, Bologna, 2018.

[13] Cfr,. L. Savelli, Il percorso dei Bassano, in M. Luzzati (a cura di), Ebrei di Livorno tra due censimenti (1841-1938). Memoria familiare e identità, Belforte, Livorno, 1990, pp. 77-85.

[14] La spaccatura nel primo esecutivo nazionale del Cln si originò attorno al tema dell’epurazione nella pubblica amministrazione. Da un lato c’erano i socialisti e gli azionisti, che spingevano per una manovra radicale che garantisse l’estirpazione di ogni residuo di fascismo dagli uffici pubblici, dall’altra la moderazione dei liberali e democristiani che, invece, ritenevano già fin troppo energica l’azione del governo italiano con la promulgazione del decreto di luglio. Tra i due contendenti stava il Pci con Togliatti che vedeva in questa crisi la prima concreta possibilità del crollo del fronte ciellenistico. La fine del governo Bonomi non avrebbe significato, per i comunisti, solo la perdita di qualche poltrona, ma di quella legittimità per poter rimanere alla guida del paese e non essere più tacciati come dei fuorilegge. Cfr. R. P. Domenico, Processo ai fascisti, cit., p. 147; H. Woller, I conti con il fascismo, cit. pp. 260-282.

[15] Bassano era laureato e parlava piuttosto bene l’inglese e il francese, così come Furio Diaz, il giovane sindaco comunista del capoluogo dal 1944 al1954. Questi aspetti legati alle personalità dei singoli potrebbero apparire come del tutto secondari rispetto agli importanti ruoli che rivestirono, ma sappiamo da testimonianze coeve come furono fondamentali ai fini di scardinare ogni pregiudizio politico su di loro. Cfr. L. Piazzano, Leghorn decimo porto. Cronaca di un dopoguerra 1944-1947, Debatte, Livorno, 1979, p. 22; G. C. Falco, Le giunte Diaz e la ricostruzione a Livorno, in «Nuovi studi livornesi», vol. XX (2013), pp. 67-130, in part. pp. 68-69.

[16] ASLi, Prefettura, b. 168 «Epurazione Enti locali (1944-1946)», fasc. 1 «Massime», sottofasc. 1 «Delegato provinciale», Lettera di nomina di Bassano (19 dicembre 1944).

[17] R. Miglietta, L’epurazione a Livorno (nostra intervista con l’Avvocato Bassano), «Il Tirreno», 27 febbraio 1945.

[18] Per una trattazione puntuale ed approfondita mi permetto di rimandare al mio lavoro Dio non paga il sabato. La defascistizzazione della provincia di Livorno (1943-1947), tesi di laurea magistrale in Storia e Civiltà, Università di Pisa, rel. Prof. Gianluca Fulvetti, aa. 2019-2020.

[19] M. Franzinelli, L’amnistia Togliatti. 1946. Colpo di spugna sui crimini fascisti, Mondadori, Milano, 2006.

[20] Sebbene con una chiave interpretativa diversa e rivolta all’analisi dei processi per i crimini di guerra cfr. L. Baldissara, Sulla categoria di “transizione”, «Italia contemporanea», n. 254, 2009, pp. 61-74.




La mostra “Il Partito comunista italiano a Livorno dal dopoguerra allo scioglimento”

Una mostra sul Pci a Livorno. Perché siamo nel centenario? Anche. Perché è stato il partito egemone nella città e nella provincia di Livorno fino ed oltre il suo scioglimento? Certamente. Perché è stato uno dei protagonisti della vicenda politica, sociale e culturale del secolo scorso, e non solo nel panorama italiano? Di sicuro.

Ma anche per altre ragioni, intrinseche al ruolo e agli scopi di un Istituto come l’Istoreco.  Al primo posto metterei la conservazione e la cura del patrimonio documentale di un partito politico. Custodia e cura che non potevano però prescindere dalla sensibilità di alcuni dei suoi protagonisti. Mi riferisco in particolare all’ex segretario di federazione dei DS, Marco Ruggeri, che ci affidò l’archivio della Federazione molti anni or sono. Perché le carte che raccontano una storia non vanno solo prodotte, vanno anche conservate e, quando è possibile, anche affidate ad istituti od enti terzi, penso ad istituti come il nostro o agli stessi archivi di Stato provinciali, che le possono valorizzare e che sono capaci di renderle disponibili a tutti per la ricerca e la consultazione. Lo stadio successivo della loro conservazione è svilupparne le potenzialità, digitalizzarle e renderle fruibili al pubblico più vasto tramite la rete. Sono operazioni che richiedono competenze specifiche, passione, e risorse economiche, ma non ultimo anche armadi idonei alla conservazione.

L’Istoreco di Livorno ha fatto una parte di questo cammino grazie all’aiuto di molti, soprattutto della Regione Toscana e della Fondazione Gramsci di Roma, appoggiato in questa operazione dalla sensibilità della Sovrintendenza archivistica della Toscana.

Il centenario ci ha indotto a proporre una Mostra che rappresenta in sintesi una specie di percorso di lettura dentro gli anni che vanno dal 1944 al 1991, cioè dalla Liberazione della città labronica allo scioglimento di quella compagine politica. Il nostro archivio conserva anche carte successive a quel periodo, relative alle successive evoluzioni di quella compagine politica. Ma abbiamo deciso di dedicarci alla componente più omogena del nostro deposito. Quello che viene dopo è un’altra storia.

E così abbiamo deciso di organizzare questa proposta proprio nell’anno dell’anniversario. Poiché il 1921, l’anno della fondazione del Pcd’I, partito fondato fra l’altro, e non è del tutto casuale, proprio nella città di Livorno, questa operazione c’è apparsa ancora più appropriata.

Abbiamo optato per questo mezzo comunicativo che ha dei limiti enormi. Il primo immediatamente evidente a chiunque, è l’impossibilità di proporre un approfondimento, un percorso critico ben sviluppato e appoggiato alla enorme bibliografia esistente, ma che ha pure il vantaggio assolutamente non trascurabile di diventare una narrazione facile da comprendere, emozionante, ma anche ricca di dettagli. Del resto l’Istoreco, in questo anno reso difficile dal Covid ha organizzato significativi momenti seminariali di approfondimento[1], prodotto e pubblicato un volume su una figura di assoluto rilievo, come quella di Bruno Bernini[2], presentato volumi su questa storia.[3] Non solo. Sta organizzando da adesso alla fine dell’anno, altri appuntamenti, diciamo più tradizionali, per riflettere insieme agli addetti ai lavori, su quella vicenda. Appuntamenti nei quali dare la preminenza all’indagine storiografica e alle ultime acquisizioni della ricerca.

Ma la decisione di ricorrere ad una Mostra, cioè ad un mezzo che fosse ricco di immagini, di fotografie di militanti che potessero ancora oggi riconoscersi, di documenti di archivio come volantini e manifesti, legati alla storia del Pci ma anche alla storia di questa città, c’è apparso il mezzo più immediato, quello più suggestivo, ma anche in qualche modo anche quello più democratico, che provasse ad avvicinare tutti, gli esperti ed i giovani estranei a quella vicenda, i vecchi militanti e gli indifferenti, perché quella vicenda prendesse l’aspetto della vita vissuta, prendesse la forma dei volti e dei corpi che occupavano le piazze, che lanciavano slogan, che discutevano nelle sezioni.

Appena ci siamo messi in cammino per la sua realizzazione, realizzazione per la quale abbiamo trovato talvolta anche aiuti insperati, siamo stati avvicinati da due fotografi-militanti o militanti-fotografi (Roberto Leonardi e Antonio Brugnoli) che hanno arricchito la nostra proposta mettendoci a disposizione la loro raccolta iconografica.

Una Mostra, come è ovvio e, come ha scritto anche con senso poetico, l’assessore alla Cultura di Livorno, Simone Lenzi, è anche un’operazione che si caratterizza per leggerezza[4]. Ma sempre seguendo il suo ragionamento, accanto alla leggerezza del linguaggio, si accosta la pesantezza del contenitore, dei containers. Simbolo per eccellenza del lavoro in una città che è stata sempre ancorata al porto e a tutte le attività che si svolgono sulle sue banchine. Non casualmente l’appoggio più significativo l’abbiamo trovato proprio fra i soggetti che vivono e lavorano sul porto. Ma la Mostra non si sarebbe realizzata senza la compartecipazione generosa del Comune di Livorno. Quindi il nostro è il risultato di uno sforzo collettivo, di privato e pubblico, di istituzionale e personale. Tutti insieme, noi che ci abbiamo lavorato, chi ci ha dato un contributo in lavoro e mezzi, chi in denaro, a tutti quei volontari che si sono messi a disposizione per abbassare i costi dell’allestimento, va il nostro più sentito ringraziamento. L’operazione però cosa ci insegna? Che li singoli, i soggetti economici e istituzionali, sono stati disponibili, ad affiancare un’operazione di questo tipo perché hanno compreso che era una operazione culturale, con nessun retro pensiero nostalgico, né tantomeno una laudatio temporis acti, ma una iniziativa che voleva innescare una discussione sul nostro passato e sul nostro presente. Un presente così deficitario dal punto di vista politico, nel quale ognuno di noi, ogni cittadino democratico, avrebbe piacere di ritrovare un filo rosso che capace di proporre un progetto di futuro, un orizzonte di convivenza civile meno violento e più solidale, da tutti i punti di vista. E che dentro questo progetto ci sia uno sguardo e un impegno per ridare piena dignità al mondo del lavoro, quel lavoro così pesantemente attaccato dalla precarietà e dalla insicurezza, spesso incapace anche di riportare a fine turno, la vita, a casa.

E proprio perché questo ragionamento che sottostà in gran parte alla nostra proposta, abbiamo aperto la mostra proprio sul tema del Lavoro scrivendo:

“Non c’è agitazione industriale che non sia accompagnata dalla solidarietà delle organizzazioni di Partito e dall’intervento delle amministrazioni locali, governate da Pci, per una soluzione della vertenza, per il superamento della crisi. Come a dire: la piazza e la mediazione politica. Non sempre, come è ovvio, l’intervento e le agitazioni operaie e sindacali sono sufficienti a superare tutti gli scogli. Spesso le decisioni vengono prese altrove, in luoghi di potere lontani dall’influenza che quella compagine può esercitare.” L’altrove di adesso spesso è in un altro continente o in una Holding senza testa, apparentemente, perlomeno. Nelle nostre immagini sfilano migliaia di partecipanti in difesa dei diritti di chi lavora, dal Cantiere, alla Spica, dal Porto alla Motofides, dal lavoro nelle campagne alla denuncia del doppio lavoro delle donne.

Nella Mostra subito dopo il tema del Lavoro abbiamo messo la sezione sulle Battaglie civili, quelle battaglie che spesso non sono rappresentabili con facilità con una foto o  uno slogan, ma sono quelle nelle quali si sono realizzate le alleanze migliori. Per la riforma agraria, per una sanità pubblica, per il diritto di famiglia o la nazionalizzazione dell’energia elettrica. Quelle battaglie che hanno reso più civile il nostro Paese, anche quelle dove il Pci non si è trovato in prima linea, pensiamo alla Statuto dei lavoratori che fu approvato con l’astensione dei suoi rappresentanti. Ma pensiamo anche a come in Toscana, a partire da Arezzo, Lucca, Volterra, si è combattuta quella grande battaglia civile per la chiusura dei manicomi o per il trionfo della legge sul divorzio e sull’aborto.

La sezione Vita di Partito, possiamo dire è quella più interna alle vicende di quel grande corpo sociale organizzato che fu il Pci.  Abbiamo scritto:

“Dalle grandi assisi con il ritratto di Stalin e di Togliatti che campeggiano su tutto, alle fotografie degli anni Settanta con le ragazze con i pantaloni a zampa d’elefante, con i volti degli uomini e delle donne meno austeri e più pieni (la fame dell’immediato secondo dopoguerra è solo un ricordo lontano).Le scuole di partito organizzate con poche cerimonie ma con molta partecipazione per una base di militanti e di quadri con un basso livello scolastico ma che dimostra un forte desiderio di conoscenza fino alle immagini più leggere che testimoniano un’idea di partecipazione diversa, l’emergere della dimensione del privato, di un impegno meno totalizzante rispetto a quello degli anni Cinquanta.”

Il mondo cambiava e cambiava anche il Pci dentro quell’Italia che aveva cominciato ad andare di corsa.

La sezione sulle Feste de l’Unità, è a nostro parere, quella più allegra e partecipata. Immagini di uomini e di donne che con orgoglio e caparbietà, rinunciando anche alle ferie, lavorano per costruire gli stands, per riempirli di persone, per proporre una immagine di sé e del partito, che incarnano l’idea di essere una grande forza di massa, partecipata e organizzata. Una vetrina per il mondo che sta intorno, per gli amici e i nemici. É anche la sezione dove emergono con forza, anche se non la sola, alcuni dei bellissimi manifesti disegnati dal grafico della Federazione livornese, Oriano Niccolai.[5] Un grande anche nel panorama nazionale.

La Mostra continua con altre due sezioni: quella sulla Pace e la questione internazionale e quella sullo Sport che chiude il nostro allestimento. Proviamo a soffermarci sulla prima che in questo momento, con le terribili notizie che provengono dall’Afghanistan, è di una attualità sconcertante. Poco dopo la fine del secondo conflitto mondiale, si aprirono altri scenari di guerra: la Corea, la guerra civile in Grecia, l’Indocina, i movimenti di liberazione negli ex paesi coloniali etc etc. Non solo. Gli uomini e le donne usciti salvi dalla guerra temevano più di tutto le armi atomiche. Il ricordo di Hiroshima e Nagasaki era evidentemente ancora vivo nei loro cuori e nelle loro teste per non destare preoccupazione. Ed era un sentimento che si rafforzava nelle file comuniste con un forte sentimento antiamericano. Quando ci fu l’attacco all’Afghanistan da parte dell’allora Unione Sovietica, non ci furono manifestazioni a favore della pace. Era un mondo bipolare e questa storia ce lo racconta anche nella sua dimensione periferica, quella di una provincia italiana del centro Italia. Ci racconta anche una capacità di mobilitarsi accanto ai popoli in lotta per la libertà, dalla Spagna di Franco all’Algeria del dominio francese, dalla Cuba prima di Castro alla lotta dei Viet-cong. Sicuramente spesso erano articolazioni di una posizione troppo filosovietica ma erano anche, e lo si vide a partire dai carri armati a Praga, l’espressione di un percorso autonomo di solidarietà e di convivenza che perlomeno albergava tra le masse, e non solo fra quelle comuniste. Era un sentimento che si esprimeva anche con gesti concreti di solidarietà, con l’impegno dato in prima persona. Un atteggiamento che raccontava la capacità di aprire le porte dell’accoglienza e rifiutava la logica della costruzione dei muri. Un atteggiamento che non considerava l’altro un “diverso”, uno straniero, ma che lo percepiva soltanto come una persona in difficoltà. Di questi tempi con le sirene di quelli che vorrebbero gettare a mare i richiedenti asilo, questa attitudine all’inclusione, ci manca.

La Mostra poi si chiude con una sezione importante ma anche allegra. La sezione dello Sport. Per rendere omaggio alla città più medagliata d’Italia, Livorno, per rendere omaggio alla rete di attività sportive promosse dall’organizzazione giovanile di quel partito, dalla rete dell’Uisp ai Circoli Arci, ai comitati delle gare remiere. Quella rete che promosse dall’interno di una sezione comunista, quella della Venezia, la Coppa di gara remiera intitolata ad Ilio Barontini, ardente antifascista, fuoruscito in Russia e in Francia, combattente di Spagna e molto altro ancora. Perché lo sport non è un modo qualsiasi di riempire il tempo libero e non ha valore per lo sforzo individuale. Lo sport è condivisione di valori, solidarietà praticata sul campo, impegno e disciplina, vita di comunità. È uno strumento ideale per avvicinare i giovani e coinvolgerli in un impegno a tutto campo; è uno strumento per allontanarli dalla strada in una città fortemente colpita dalla guerra e dai bombardamenti prima, e poi per tenerli lontani dalle suggestioni della droga. Non era e non è poco.

[1] Alcuni percorsi di protagoniste nel Pci: Edda Fagni, con Carla Roncaglia, Presidente Istoreco e Alessandra Mancini autrice del volume, Edda Fagni, L’innovazione pedagogica, Edizioni del Boccale, Livorno, 2010.

[2] Michela Molitierno, Catia Sonetti, La vicenda non comune di un militante comunista, Ets, Pisa, 2020.

[3] Il 14 aprile 2021 abbiamo presentato il volume scritto da Mario Lenzi, O miei compagni. Una testimonianza, Comune di Livorno, Livorno, 2013; il 23 marzo 2021, il volume di Mario Tredici, Gli altri e Ilio Barontini, Ets, Pisa, 2017 eil 17 maggio quello su Bruno Bernini

[4] Simone Lenzi, Prefazione del Catalogo su: Il Partito comunista italiano a Livorno dal dopoguerra allo scioglimento, in corso di pubblicazione.

 [5] Rosso creativo. Oriano Niccolai. 50 anni di manifesti, a cura di Margherita Paoletti e Valentina Sorbi, Debatte, Livorno, 2013.




«Luridi finocchi in guanti gialli»

Il 27 novembre 1928 sarebbe dovuto essere un giorno come tanti per il comm. Guido Farello, un prefetto di vecchia data del Regno. Quando quella mattina si accomodò alla sua scrivania del bel palazzo in cui viveva ormai da un paio di anni, la sua attenzione fu colta da una lettera che emergeva fra le altre. Essa era indirizzata specificatamente a lui, a «S. E. il Prefetto di Livorno», e inizialmente pensò ad un invito per qualche evento di beneficienza. La cosa strana era però che la busta non presentasse segni particolari di riconoscimento, o rimandasse a qualche ente o istituto a lui noto. In prima battuta pensò di lasciarla perdere e dedicarsi esclusivamente al lavoro, poi la curiosità montò e decise di non indugiare oltre[1].

Iniziò a leggere e rimase di pietra. Quella lettera non lo invitava a partecipare a qualche occasione mondana, bensì lo metteva al corrente del comportamento «immondo» di un gruppo di distinti uomini dell’alta borghesia cittadina. Secondo gli scriventi – che si firmarono come degli «anonimi livornesi ben informati» – della lettera questi «luridi finocchi in guanti gialli», benché tutti sapessero cosa stessero facendo, non erano mai stati perseguitati dalle forze dell’ordine.

Farello era stato colto in fallo e temeva che la notizia giungesse rapidamente alle orecchie del pater patriae livornese, il potente ministro Costanzo Ciano. Sapeva che la sua carriera sarebbe potuta terminare da un momento all’altro, e in malo modo, se «ganascia» avesse voluto rivolgergli contro quella brutta storia. Per questo motivo inoltrò la missiva al suo omologo poliziotto, il questore Giovan Battista Masci, affinché si occupasse del caso attraverso indagini «riservate».

Archivio di Stato di Livorno (ASLi), Questura, A1 «Informazioni Personali», b. 59, fasc. 34 «Antonio F. ed altri», Denuncia anonima (26 novembre 1928)

La denuncia anonima del 26 novembre 1928 (Archivio di Stato di Livorno)

Scartabellando tra gli archivi della Questura venne fuori quasi spontaneamente la soluzione più ragionevole per la faccenda, cioè quella adottata dal suo predecessore, il prefetto Angelo Barbieri, nella gestione di un caso simile. Qualche anno prima l’ambiguo rapporto tra un alunno e un insegnante dell’Istituto nautico cittadino venne rimandato ad altri organi di governo – statali e non – aspettando una loro risoluzione. Il docente, infatti, non solo era un tenente di vascello di marina in congedo, ma anche un eroe di guerra pluridecorato al valore militare ed uno squadrista. In quel caso «l’ignoranza del vizio» da parte delle autorità governative aveva trionfato. Avrebbe funzionato anche in questo caso?

Prima di entrare nel merito delle due indagini che voglio presentare è necessario capire quale fosse l’atteggiamento comune verso gli individui identificati omosessuali, «pederasti», «invertiti» o «urningi» o «uranisti»[2].

Lo sviluppo positivista della scienza aveva proposto tante, e diverse, interpretazioni per l’omosessualità. La medicina europea si era mossa fin dalla prima metà dell’Ottocento per individuare le cause, e quindi i rimedi, della «degenerazione» sessuale che sembrava avvolgere in maniera sempre più asfissiante la società occidentale. Il termine venne introdotto proprio per indicare il sentimento di generale decadenza dal sociologo ungherese Max Nordau[3] nel 1892, il quale lo ricondusse alle passioni sfrenate che portavano gli uomini del suo tempo a godere della vita in ogni modo, anche cercando esperienze sessuali insolite. Alla base di quella che ben presto venne diagnosticata come una vera e propria patologia c’era, secondo Nordau, l’incapacità dei suoi contemporanei ad adeguarsi alle innovazioni tecniche, così tante e ottenute in poco tempo.

L’omosessualità venne ben presto classificata come uno degli effetti della malattia descritta dal sociologo magiaro, in quanto forma di piacere egoista che negava la riproduzione della specie umana, quindi la vita. Da peccato di sodomia chiamato in causa dai prelati per spaventare i credenti alla messa, venne ben presto classificato come una forma evidente di psicopatia, perché pareva scontato che l’uomo attratto da un individuo dello stesso sesso fosse affetto da una chiara patologia. Quando però ci si accorse come la medicina non fosse in grado di evidenziare una qualche forma tangibile della malattia, bensì solo una «passione colpevole, ributtante, schifosa finché volete, ma passione»[4], allora gli omosessuali vennero tacciati come i nemici della parte sana delle società e perseguitati, in forme diverse, per ogni nazione.

Da una parte si posero quei paesi, come la Germania, che ritennero necessario inserire il reato di omosessualità nel proprio codice penale, dall’altra quelli che, come l’Italia, considerarono più efficace usare strumenti che non dessero pubblicità al problema. La codificazione di tale reato, infatti, avrebbe significato ammettere l’esistenza di una “questione omosessuale”, e il necessario intervento da parte dello Stato per risolverla. Inoltre, sarebbe stato più semplice creare – come accadde a Berlino nel 1897 – dei comitati per l’abolizione dell’articolo di legge, accrescendo la pubblicità del problema. La strategia dell’occultamento risultò la scelta migliore anche nella revisione del Codice penale italiano nel 1889 e nel 1930, nonostante le pressioni per l’incriminazione degli omosessuali.

Il fascismo fu abile nell’inserirsi dopo poco tempo nei canali della cosiddetta «rispettabilità borghese», proponendosi come l’unico ente in grado di rinvigorire la nazione uscente dalla «Pace mutilata», a cui seguì una vera e propria santificazione della famiglia tradizione. Tutto ciò venne presto destinato per fornire in tempi rapidi «otto milioni di baionette» per le future guerre di conquista del regime, e con ciò si spiegano le ragioni del vasto investimento del fascismo verso la politica demografica.

Un uomo non sposato, oppure senza prole, una donna mascolina o impegnata nel lavoro, vennero presto etichettati agli occhi dell’opinione pubblica come esseri diversi, viziosi e antipatriottici. Costoro, in particolare gli uomini, rifiutandosi di svolgere il compito di pater familias e quindi di procreatori di futuri soldati italiani, dimostravano pubblicamente di essere impotenti e incapaci.

Più o meno velatamente tutte queste caratteristiche contrarie alla norma dovevano rimandare all’idealtipo omosessuale e al suo essere un malato. Diventava necessario “curarlo” solo quando l’individuo patologico si dimostrava conciliante con le autorità e le sue richieste, mentre diventava un problema di ordine sociale e politico quando rifiutava le terapie mediche e dimostrava pubblicamente la propria diversità.

In estrema sintesi possiamo dire che: coloro che si mettevano in mostra andavano fermati perché esempi viventi del caos e della sovversione dei generi, nonché possibili bacilli infettivi per la società; gli altri, invece, nonostante si prestassero a pratiche disdicevoli per la morale comune, ricoprivano comunque un ruolo maschile e sarebbe stato possibile per loro accoppiarsi anche con le donne. Il modello virile fascista respingeva l’omosessualità assumendo un atteggiamento che era in sostanza quello del secolo precedente. Il conformismo alle regole morali di stampo liberale ben si prestava alle necessità del regime, il quale comprese come fosse particolarmente importante gestire il problema dell’omossessuale in maniera discreta e con gli strumenti di controllo originariamente destinati a combattere i suoi veri nemici, quelli politici.

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Costanzo Ciano

Il caso di omosessualità che fece “scuola” per i poliziotti livornesi fu quello dell’ex comandante Luigi P. Il 29 ottobre 1924 era ricominciato da poche settimane l’anno scolastico al R. Istituto Nautico «Alfredo Cappellini» di Livorno e, come al solito, il suono dell’ultima campanella segnalava la fine della giornata di lavoro per studenti e professori. Mentre tutti stavano uscendo dalla scuola, l’attenzione generale venne catturata da una serie di schiamazzi provenienti da un vicoletto vicino: un ragazzo si stava azzuffando con un insegnante dandogli dell’omosessuale. Il diverbio tra i due creò un certo imbarazzo negli spettatori, anche perché il soggetto offeso non era solo un docente, ma anche un fervente fascista, un eroe di guerra e un ufficiale superiore della Milizia volontaria per la sicurezza nazionale (Mvsn). Esteriormente la questione venne tacciata come l’escandescenza di un alunno poco ligio ai propri doveri scolastici, ma l’accusa apparve troppo circostanziata e lesiva per l’onore dell’insegnante per non essere approfondita dalle autorità competenti. Perciò, la settimana seguente, il prefetto di Livorno, Barbieri, inoltrò al questore Masci la richiesta del preside dell’Istituto di investigare sull’accaduto e sul passato del professore[5].

Le indagini su Luigi P. fecero emergere come l’ex ufficiale di carriera della Regia marina, lodato e temuto per il suo prestigio politico, fosse stato congedato a causa di accuse scottanti e molto simili a quelle che gli aveva rivolto lo studente. Egli, secondo quanto erano riusciti a scoprire gli investigatori, si era ritrovato fuori dalla forza armata dall’oggi al domani a causa di alcuni episodi equivoci con dei marinai. Naturalmente su tutto ciò i vertici militari avevano fatto cadere una pesante coltre di riserbo, che sarebbe dovuta rimanere tale per sempre, in cambio del suo passaggio ad un altro incarico[6].

Proprio in ragione delle sue qualifiche fasciste, nonché dell’appartenenza alla Mvsn, Barbieri ritenne necessario avvertire l’organo direttivo del Partito nazionale fascista (Pnf) cittadino. Il prof. P., infatti, era iscritto al partito dal gennaio 1920 e aveva militato nella squadra d’azione «Mario Asso»[7] fino alla Marcia su Roma, transitando poi nei quadri della Milizia dal momento della sua costituzione. Per tale ragione il questore Masci, nella sua nota per il prefetto del 18 novembre successivo, riassunse gli esiti dell’indagine consigliando al superiore di lasciar perdere il caso ed evitare di doverlo gestire personalmente, in quanto «dell’incidente» se ne stavano occupando «il Direttorio del Fascio e il comando Mvsn». Il prefetto sembrò condividere l’idea del questore, lasciando quindi che venisse archiviata l’inchiesta sul docente.

Ma a distanza di appena tre anni la polizia livornese tornò a doversi occupare del prof. P. Il 14 ottobre 1927 il Ministero della Marina chiese notizie su P. in quanto risultava aver rifiutato l’ordine di trasferimento ad una nuova sede d’insegnamento. Gli Istituti nautici, infatti, fin dal 1917 erano di competenza di quel ministero, compreso il corpo dei docenti. Da quanto emerse nella nuova inchiesta affidata, non a caso, alla squadra politica della Questura di Livorno, il “fattaccio” del 1924 non era stato senza ripercussioni per la vita del professore, essendosi ritrovato radiato dal Pnf con l’accusa di «grave immoralità». Venne fuori però una cosa ancora peggiore agli occhi degli inquirenti, cioè che P. frequentava privatamente alcuni adolescenti per prepararli all’esame di ammissione per l’Accademia navale senza alcuna autorizzazione, abusando del suo grado e delle sue qualifiche fasciste. Di quest’ultima cosa il prefetto Farello – succeduto a Barbieri nel marzo 1925 – pensò non fosse necessario avvertire il Ministero dato che, secondo le stesse indagini, il professore poteva contare su influenti agganci al vertice delle forze armate[8]. Stando alle testimonianze di alcuni informatori sembrava che l’idea del professore fosse quella di abbandonare la scuola pubblica, e creare un convitto a carattere militare per formare i concorrenti per l’accesso agli istituti di formazioni militare.

La notizia dovette creare non poco subbuglio in seno ai vertici cittadini del Pnf, tanto che gli inquirenti assicurarono al federale – era appena asceso alla carica l’avv. Carlo Alberto Cempini Meazzuolli – come senza l’autorizzazione del provveditore agli studi di Firenze tutte le conoscenze per quanto influenti del professore, al centro, erano pressoché inutili.

Come previsto, nel marzo del 1928, giunse al Provveditorato per gli studi per la Toscana la richiesta formale del prof. P. di aprire il suo istituto di formazione. Ciò creò un certo imbarazzo allo stesso provveditore quando venne informato della delicatezza politica del caso, anche perché la domanda appariva del tutto legale e in linea con la legislazione in materia per gli istituti paritari. Il provveditore decise quindi di recarsi personalmente a Livorno il 12 aprile successivo e ricevere direttamente dalla voce del questore le motivazioni da addurre per rigettare la richiesta, notificandole a P. nei giorni seguenti:

Per le speciali condizioni in cui è venuto a trovarsi in Livorno cioè di non appartenere più alla [Mvsn] ed al [Pnf] e di essere stato trasferito, per servizio in seguito ad inchiesta, dal R. Istituto Nautico di Livorno a quello di Piano di Sorrento, non gode in Livorno del prestigio necessario per garantire un funzionamento veramente educativo dell’istituto che intende aprire e dirigere[9].

 Ricollegandoci al caso proposto in apertura di questo intervento – quello che fece sobbalzare Farello nel novembre del 1928 – bisogna segnalare che le accuse anonime si concentrarono immediatamente sulla figura del principale esponente del gruppo, cioè il conte Antonio F. Costui proveniva da una famiglia di recente creazione nobiliare – il nonno, un omonimo mercante di origini umbre, era stato ammesso a far parte della nobiltà toscana nel 1832 –, famiglia molto ricca e proprietaria di una fabbrica di saponi. Assieme a lui erano riportati i nomi di due fratelli, gli avvocati Emo e Tommaso P., anch’essi membri dell’alta borghesia livornese e, rispettivamente, presidente della commissione per le imposte dirette della provincia e vice console del Regno di Spagna. Il quarto personaggio incriminato era un grossista di pelli, Alessandro R.-P., più anziano rispetto agli altri ma proveniente comunque dallo stesso ambiente sociale. Infine venne chiamato in causa anche un giovane perito chimico, Giorgio M., di origini infinitamente più modeste ed impiegato nello stabilimento di proprietà del conte.

La squadra politica della Questura aprì un fascicolo il 7 dicembre successivo e, dopo aver delineato le biografie di tutti i protagonisti citati nella lettera anonima, mise a conoscenza del questore le voci che circolavano già sullo “scandalo”. Dalle informazioni raccolte risultava che tutti fossero effettivamente considerati degli omosessuali all’infuori di Emo P., probabilmente chiamato in causa solo a causa del fratello. Sia quest’ultimo, l’avocato Tommaso P., che il conte F. risultavano frequentatori dell’Hotel Palace, il grandioso albergo cittadino, dove si incontravano regolarmente con esponenti della società più in vista di Livorno. La solerzia degli inquirenti si spinse oltre e ripescò una storia simile ma ormai dimenticata dai più, quella della «Tavola Rotonda di Ardenza». Questo termine, tanto in voga all’inizio del secolo a causa dello scandalo Harden-Eulenburg[10], serviva per designare incontri di omosessuali di una certa caratura sociale e, difatti, coloro che frequentavano questo villino di Ardenza erano tutti personaggi eminenti della società locale dei primi anni del Novecento.

Senza una spiegazione apparante l’indagine sul conte venne messa a tacere per diversi mesi dagli inquirenti, fino al marzo 1929 quando, sempre l’ufficio politico della polizia, inoltrò al questore una nota prodotta da un proprio informatore. Lo scrivente si affrettava subito a smentire l’esistenza di una qualsiasi forma di «associazione» tra gli omossessuali livornesi, non potendo però fare a meno di confermare il comportamento sessuale del conte e dei suoi «amici». Dopo questa ulteriore conferma l’indagine venne chiusa e apparentemente dimenticata da tutti. Gli unici a ricordarsene furono i poliziotti livornesi, che iniziarono a seguire gli spostamenti dei denunciati aprendo dei fascicoli d’indagini per ognuno di loro[11].

Inquirenti e indagati che ho sinteticamente presentato finora, e che si mossero a cavallo tra il 1924 e il 1929, vivevano in una città che risultava tradizionalmente singolare e ricca di paradossi. L’ascesa del fascismo a Livorno non aveva certo mutato questi aspetti ma, piuttosto, era stato il movimento a declinarsi secondo lo stile di vita cittadino.

Riducendo all’osso la complessità, e le ricadute, di questo fenomeno, possiamo dire che i sommovimenti sociali causati dalla guerra e dal dopoguerra spinsero, da una parte, i ceti popolari a schierarsi in maniera compatta per i socialisti, i repubblicani, anarchici e poi comunisti, per un cambiamento effettivo delle condizioni di vita, mentre dall’altra, la borghesia livornese verso quei movimenti che promettevano il mantenimento dell’ordine esistente. Tutti sapevano che la partita si sarebbe giocata all’interno dell’area industriale della città e del porto e dei quartieri a nord dove erano concentrate le presenze popolari.

Una garanzia di successo i fascisti la ottennero con la discesa in campo di un personaggio come Costanzo Ciano, ex eroe di guerra. La sua candidatura alle elezioni politiche del 1921 nelle lista del Blocco nazionale fu sostenuta da numerosi esponenti del mondo militare, i quali non ebbero timori ad esporsi anche durante i suoi comizi. Ciano seppe sdebitarsi con loro una volta eletto alla Camera, sfruttando abilmente questo legame con il ceto dirigente e conservatore del suo collegio. La cosiddetta «Marcia su Livorno» dell’agosto 1922, pur diretta sul campo dal comandante degli squadristi toscani Dino Perrone-Compagni, simboleggiò il trionfo della restaurazione di quella classe di notabili che aveva saputo vedere nel fascismo, e nei suoi rappresentanti locali, un mezzo utile al raggiungimento dei loro obbiettivi.

L'Accademia Navale di Livorno

L’Accademia Navale di Livorno

Ripercorrere in maniera estremamente sommaria gli anni che vanno dalla fine della guerra al 28 ottobre 1922 è fondamentale al fine di contestualizzare e capire i contorti rapporti familiari, o clientelari, che le famiglie notabili di Livorno avevano con il nuovo partito di governo. È importante che sia chiaro, anche per il tema che sto raccontando, come il fascismo livornese, rispetto al modello maggioritario che si diffuse in Toscana così come in Emilia Romagna, non fu un fenomeno agrario o legato ad un’eversione di sinistra, ma piuttosto una chiara rappresentazione di quel sistema di potere che, dopo le elezioni amministrative del 1920, si trovò in profonda difficoltà nell’essere ancora rappresentato dai movimenti politici prebellici. La presenza del porto, di un’industria navale come quella dei cantieri Orlando e di tutto il loro indotto, e di una pluralità di altri stabilimenti industriali, concentrava nella sola città di Livorno un bacino operaio provato dalla crisi del dopoguerra, disponibile a tutto pur di vedersi riconosciuti una serie di diritti in gran parte rosicchiati dal periodo bellico.

Perciò la violenza dei fascisti divenne l’unico elemento, secondo i maggiorenti livornesi, in grado frenare un’ascesa inarrestabile del socialismo massimalista e dentro un panorama nazionale che si caratterizzava per molti elementi simili.

Dalla loro parte avevano anche un asso nella manica da poter giocare, cioè l’Accademia Navale, il prestigioso istituto presente in città dal 1881. Esso rappresentava il più evidente e concreto simbolo dell’ordine e non è un caso, per quello che ci siamo detti finora, che buona parte dei fascisti livornesi della prima ora fossero militari, in particolare ufficiali della Regia marina. È superfluo citare ancora la personalità di Ciano come colui in cui si legano al meglio gli aspetti militari e clientelari del fascismo livornese, spinto a scendere in politica anche dalle adulazioni di Max Bondi, amministratore delegato delle acciaierie di Piombino, nonché finanziatore del fascismo primigenio della provincia[12].

Questo rapido approfondimento sulla fisionomia del fascismo livornese delle origini potrebbe apparire poco attinente rispetto alle indagini al centro di questa ricerca. In realtà esso risulta fondamentale per comprendere al meglio le carte della polizia, facendo attenzione sui vari profili degli indagati. Le famiglie da cui provenivano gli omosessuali vicini al conte F., infatti, condividevano una condizione sociale agiata e in linea con quella dei promotori del fascismo livornese. Nel caso dell’ex comandante P., invece, la qualifica di squadrista e ufficiale della Mvsn non necessita di ulteriori spiegazioni rispetto ai suoi sentimenti politici. Anche per tali ragioni, in entrambi i casi, fu garantito un certo riserbo da parte degli inquirenti durante la fase delle indagini, dimostrando come questo genere di faccende andassero trattate esclusivamente in forma privata con i diretti interessati. Al contrario, qualora le autorità di governo ritenessero necessario creare un “caso”, allora era importante dare pubblicità all’evento ed assicurare a particolari strumenti sussidiari della legge – quello medico, del confino coatto o manicomiale – gli autori degli atti definiti come «contro natura».

Non è un caso che le indagini presentate in questo intervento vadano proprio in una di queste due direzioni – o entrambe se consideriamo che forse l’ex comandante Luigi P. potrebbe essere finito al centro di una macchinazione politica per screditarlo, in quanto esponente dell’area intransigente del fascismo labronico –, esemplificando meglio di ogni formula astratta la capacità che ebbe il fascismo di controllare la società italiana, anche sfruttando elementi culturali preesistenti.

*Giovanni Brunetti (Cecina, 1997) è laureato magistrale in Storia e Civiltà presso l’Università di Pisa (maggio 2021), dove ha conseguito anche la laurea triennale in Storia (giugno 2019). Attualmente sta frequentando il biennio 2019-2021 della Scuola di Archivistica, Paleografia e Diplomatica dell’Archivio di Stato di Firenze.

[1] Archivio di Stato di Livorno (ASLi), Questura, A1 «Informazioni Personali», b. 59, fasc. 34 «Antonio F. ed altri», Denuncia anonima (26 novembre 1928).

[2] Questi ultimi due termini erano molto in voga nella scienza medica positiva e avevano origine dal termine tedesco «urning» per indicare il “terzo sesso” a cui appartenevano le persone omosessuali. Questo neologismo prendeva ispirazione dalla Afrodite Uraniana citata da Platone nel Simposio, e venne coniato nel 1864 dal poeta e letterato Karl Heinrich Ulrichs.

[3] Max Simon Nordau (1849 – 1923) fu tra le altre cose un fervente sostenitore della causa sionista, a fianco del connazionale Theodor Herzl.

[4] P. Mantegazza, Gli amori degli uomini. Saggio di una etnologia dell’amore, 1886, pp. 148-150.

[5] ASLi, Questura, A1 «Informazioni Personali», b. 37, fasc. 8 «Luigi P.», Relazione per il prefetto (17 novembre 1924).

[6] Classe 1890, Luigi P. entrò alla R. Accademia Navale di Livorno a 16 anni, uscendone con i gradi da guardiamarina in tempo utile per partecipare alla guerra Italo-turca del 1911. Promosso al grado superiore partecipò alla Prima guerra mondiale prima a bordo di varie navi di presidio nell’Adriatico, poi come ufficiale d’artiglieria navale destinato a terra. Fu comandante di una delle batterie poste a difesa della laguna di Venezia dopo la battaglia di Caporetto. Venne congedato nel 1921 per mezzo della Legge n. 474 del 26 maggio 1911, per la quale gli ufficiali che non potevano ricoprire il grado superiore per una mancata idoneità dovevano essere posti a riposo. Nonostante la giovane età e il curriculum di tutto rispetto venne escluso dalla promozione appena una settimana prima di essere congedato, a dimostrazione di come il suo destino fosse già segnato. Dal suo Stato di servizio, oltre che dalle indagini dei poliziotti livornesi, risulta infatti come era stato richiamato un paio di volte, e sottoposto a sanzioni disciplinari, per il suo comportamento nella sfera privata. Ministero della Difesa, Dir. Gen. Per. Mil., Doc. Matricolare, «Marina», Stato di servizio, Luigi P. (1906-1956).

[7] La squadra d’azione era intitolata al sottotenente dei bersaglieri di Livorno Mario Asso (1899-1920), morto a Fiume durante l’offensiva del regio esercito italiano per prendere il controllo della città.

[8] Vennero fatti i nomi dei generali Francesco De Pinedo e Italo Balbo per l’Aeronautica, e dell’ammiraglio Franco Nunes per la Marina e di altri alti ufficiali della Mvsn e dell’Esercito.

[9] ASLi, Questura, A1 «Informazioni Personali», b. 54, fasc. 53 «Luigi P.», Decreto di rigetto della richiesta della domanda per l’apertura di un convitto navale (12 aprile 1928). Perso l’incarico di insegnante P. non demorse e pochi anni dopo cercò maggior fortuna nella compravendita di materiale nautico per ufficiali della Regia marina e i marinai di stanza a Livorno. La polizia venne nuovamente messa sulle sue tracce da una denuncia proveniente dall’ammiraglio in capo della zona marittima dell’Alto Tirreno, il quale era stato informato dell’uso improprio che P. faceva del grado militare. Egli, infatti, risultava solito qualificarsi come «comandante», screditando perciò il buon nome della forza armata. ASLi, Questura, A1 «Informazioni Personali», b. 76, fasc. 27 «Luigi P.».

[10] Lo scandalo Harden-Eulenburg fu il più vasto affare relativo all’omosessualità e riguardò l’entourage del kaiser Guglielmo II e parte dello Stato Maggiore dell’esercito tedesco. Da qui proviene il termine «tavola rotonda» – chiaro riferimento al consiglio dei ministri imperiale – che veniva usato per designare un gruppo di omosessuali.

[11] L’avvocato Tommaso P. e il conte F. furono coloro che la polizia controllò più spesso, e difatti sono rimaste maggiori tracce dei loro spostamenti nello stesso fondo dell’Archivio di Stato. L’avvocato P. si trasferì in Spagna nel 1932, sicuramente sfruttando le agevolazioni della carica consolare che aveva a Livorno, mentre il conte viaggiò molto per l’Italia. Le ultime carte su quest’ultimo risalgono al 1939 e sono relative ad una richiesta, sua e della sorella, per il riconoscimento del titolo di «Nobili di Gubbio» da aggiungere al blasone di famiglia. Nella breve biografia che il questore dell’epoca fece per il prefetto ricordò la sua omosessualità, la mancata iscrizione al Pnf e i suoi legami familiari.

[12] Massimo “Max” Bondi (1881 – ignoto) fu uno dei principali esponenti della siderurgia italiana nei primi due decenni del Novecento. Venne eletto in Parlamento nel 1919, facendo coincidere l’avvio della carriera politica con un momento di grave difficoltà per le sue aziende. La crisi delle fonderie di Piombino del biennio 1920-1921, nonché la bancarotta fraudolenta del 1925, lo costrinsero ad una fuga tumultuosa dall’Italia. Cfr. F. Bonelli e M. Barsali, ad vocem, Dizionario Biografico degli Italiani, Treccani, vol. 11, 1969.




Gualtiero Vittori: un militante della base comunista

Gualtiero Vittori nasce a Livorno da una famiglia di piccoli commercianti nel 1926.[1] Il fascismo è da poco tempo al potere ma l’educazione che riceve dal padre, antifascista, e dagli stessi nonni, lo conducono sin da ragazzino a immedesimarsi con gli oppositori al regime. Del resto l’ambiente di bottega, un bar vicino ad alcune zone operaie della città, come quella del Cantiere e quella del porto, fanno sì che i suoi contatti siano sempre contrassegnati dalla cifra indiscussa dei “sovversivi”, anarchici, socialisti, comunisti e ancora qualche repubblicano. Una indiscussa congerie politica che connotava la città labronica già da diversi decenni e dove i comunisti, gli ultimi arrivati, si faranno strada a poco a poco soprattutto grazie ad alcune figure carismatiche che li rappresentano, come Ilio Barontini, Vasco Iacoponi, ma anche Emilio Valesini, Otello Frangioni, Garibaldo Benifei e decine di altri che nella sua memoria, conservata all’Istoreco, Gualtiero ricorda con affetto e sollecitudine.

La stesura della memoria di Vittori si colloca nel periodo successivo alla Bolognina quando il Partito comunista si è trasformato in altro da sé e per questo vecchio militante che si autodefinisce “un soldato” di quell’ideale, probabilmente molte cose cominciano a scricchiolare. Ma non possiamo addentrarci in ipotesi poiché il testo non ne fa cenno, è la malizia del lettore che intravede questa lettura come possibile.

Russardo Capocchi

Russardo Capocchi

La memoria fu portata all’Istoreco dal nipote, Vittorio Vittori, già molti anni or sono e purtroppo non c’è stata fino a questo momento possibilità di valorizzarla. In occasione del centenario del Pci, mi è parso opportuno tirarla fuori dal cassetto e non potendo ancora stamparla in qualche modo, perlomeno proporne qualche considerazione sul sito Toscananovecento.it. Il testo è diviso in tre parti, la prima comincia subito dopo la liberazione di Livorno quando Vittori viene assunto nella base degli americani come facchino, autista e per altri lavoretti, e si conclude verso la fine degli anni Cinquanta, periodo durissimo per la sua famiglia presa di mira dalla polizia di Scelba che gli stava sempre addosso in modo vessatorio. La famiglia che era già stata segnata dalla morte del padre durante la guerra, poi sarà colpita anche dalla invalidità del fratello che per fortuna verrà in seguito assunto in Comune come invalido e quella assunzione permise una schiarita nella loro condizione generale.

La seconda parte va a ritroso e come scrive Gualtiero, “è un diario alla rovescia”.[2] Sicuramente è la parte più interessante perché è quella dove si dispiegano meglio le ragioni del suo “essere comunista”. Comincia con il coinvolgimento nella pedagogia del padre che, quando, bambino, lo porta al cimitero a visitare i defunti della famiglia, non dimentica mai di portarlo davanti alla tomba di Russardo Capocchi, grande figura del socialismo e del sindacalismo livornese[3]. Abitudine questa così tanto acquisita che ancora in tarda età, Gualtiero si ritrova a compiere lo stesso rito.

Ma influiscono molto nella sua preparazione e nelle sue inclinazioni anche alcuni suoi compagni di giochi e quelli un po’ più adulti del fratello, come Alfio Pensabene, lavoratore del porto, arrestato dai repubblichini e morto poi a Mauthausen.[4]

Aver assistito più di una volta per la ricorrenza del 1 maggio alle aggressioni gratuite, allorquando qualche avventore si presentava al bar con una cravatta che aveva qualcosa di rosso e il fascistello di turno andava a tagliargliela, sicuro di rimanere impunito, Gualtiero era rimasto disgustato per quelle esibizioni di tracotanza. Umiliazioni fini a sé stesse, ma umiliazioni ingiustificate e prevaricatrici che rimasero impresse in un adolescente abituato a veder suo padre ritingere i muri del suo locale ogni qualvolta vi comparivano scritte tipo: W il fascio, W il Duce.

Emergono anche altri nomi di importanti oppositori scomparsi nella smemoratezza della storia come Dino Rebuzzi, frequentatore del suo bar, antifascista di tempra, combattente nelle Brigate Garibaldi in Spagna, ferito e successivamente condannato al confino a Ventotene. Il padre avvertito da un questurino si recò con la moglie, il figlio ed un amico, alla stazione dove avrebbe transitato e riuscì a porgergli: “dopo aver chiesto il permesso ai carabinieri di scorta, una bottiglia di ponci e assieme al Manzani altri piccoli aiuti vedi pure oggetti di vestiario.”[5] Ed insieme a lui decine di altri, sconosciuti ai più e raramente passati anche attraverso il filtro della storia ufficiale.

Il teatro Avvalorati a Livorno (Archivio Istoreco)

Il teatro Avvalorati a Livorno (Archivio Istoreco)

Il nostro autore è un militante di base si potrebbe dire, di quelli che sicuramente non hanno neppure mai aspirato a salire nella gerarchia interna, sicuramente un militante appassionato e fedele. Uno tra le tante migliaia e migliaia di iscritti a quel partito, partito che riuscì a stringere a sé, e non solo con la speranza, che sicuramente c’era, di un mondo migliore e più giusto, ma anche con l’esempio dei propri dirigenti. Alla componente popolare della sua base i responsabili della federazione, quelli a capo di settori importanti della vita amministrativa, economica e politica, si presentavano in quegli anni, a quegli uomini e a quelle donne del popolo, come: “compagni di strada”, portatori di una moralità anche rigida ma irreprensibile e di una coerenza di comportamento indiscutibile. La memoria dà conto di diverse testimonianze in questo senso. La più cocente e la più intensa è sicuramente quella legata a Dosolino Bendinelli, comunista e perseguitato politico. Si reca al bar da Gualtiero che rievoca: “chiede di Dino Frangioni, le dico che non si è ancora visto, mi consegna del denaro pregandomi di darlo a Dino per pagare la tessera dell’ANPPIA[6] dovendole riferire che era pari, prese la sua consumazione, mi salutò e non lo rividi più perché all’indomani si sparò una rivolverata (sic!). Gualtiero scrive ancora: “Può anche sembrare banale questo appunto, ma… pensateci un momentino su come erano fatte certe persone”[7].

E non è il solo episodio che vada in questa direzione. Quello che aveva sempre colpito la sensibilità di Gualtiero era sicuramente non tanto la profondità politica delle analisi, o la ricchezza culturale dei dirigenti, l’aveva impressionato soprattutto la loro onestà, la loro coerenza di uomini prima ancora che di dirigenti. Il milieu sociale nel quale era cresciuto si prestava ad una emancipazione politica contrassegnata da queste cifre. Nato in una famiglia composta da un nonno di fede repubblicana e da un padre socialista che aderì al Pci sin dalla scissione del 1921, si trovò collocato naturalmente dentro una tradizione laica e sovversiva, considerate anche le peculiarità politiche della storia della città[8]. Oltre alla passione politica il padre trasmise ai due figli, Gualtiero e Pietro, la passione per la lirica, anche questa passione assai radicata nella città di Mascagni. Uno dei bar da loro gestiti si chiamava, non a caso, Il lirico. Pietro, il fratello più grande e più riflessivo fu indirizzato allo studio della musica e del violino mentre Gualtiero più insofferente alla disciplina fu indirizzato alla scherma. Due passioni queste: la lirica e la scherma tipicamente labroniche.

I diversi esercizi commerciali (Bar del Teatro, Bar Vittori, Bar Moderno) che la famiglia gestì nel tempo, furono tutti collocati nelle zone del centro. Luogo deputato delle manifestazioni di protesta dove spesso, soprattutto nel dopoguerra, Gualtiero venne coinvolto. Il bar era ed è un luogo di ritrovo, dove si faceva colazione la mattina prima di andare a lavoro, dove si passava dopo la fine del turno e dove ci si recava per giocare a carte e discutere con gli amici. Assidui frequentatori erano i portuali, gli avventizi del porto, i dirigenti della Compagnia Portuale ma anche gli uomini più esposti durante il ventennio dell’antifascismo locale, come Barontini[9] o Vasco Jacoponi[10] e altri come Sergio Manetti[11], futuro segretario della locale Camera del Lavoro, Garibaldo Benifei[12] antifascista di lungo corso, Danilo Conti segretario della Fiom e tantissimi altri ancora che sono ancora oggi vivi nella memoria democratica della città.

Il giovane Gualtiero li ascoltava ragionare, coglieva le mezze parole che si dicevano a bassa voce a causa delle lunghe orecchie della polizia di regime prima e poi della polizia politica dell’era di Scelba. Durante l’ultimo periodo della guerra, quando con la famiglia per colpa dei bombardamenti che colpirono la città[13], si rifugiarono tutti a Montenero, si mise ad ascoltare radio Londra e a portare di nascosto qualche arma ai rappresentanti del comando tappa del distaccamento Oberdan Chiesa.[14]

Azioni adatte alla sua giovane età (aveva tra i 16 e i 17 anni), sicuramente pericolose ma svolte con piglio guascone, sicuro e sfottente nei confronti delle autorità repubblichine. Con la fine della guerra però non ci fu un vero e proprio ingresso nella libertà democratica. Dopo la caduta del primo governo De Gasperi si entra a tutti gli effetti nel clima duro della guerra fredda. Sia Gualtiero che i suoi sono tenuti d’occhio. Troppi comunisti frequentano il loro bar ed allora a parte i continui cambiamenti di lavoro per tirare a campare, quando Gualtiero entra in pianta stabile nella gestione dell’esercizio commerciale, spesso si trova costretto a rispondere a vere e proprie vessazioni da parte delle forze dell’ordine, fino all’episodio più grave quando trascorrerà in prigione diversi giorni in carcere. Durante la lotta del Cantiere, nei primi anni Cinquanta, si vede sequestrare un radiogrammofono con l’accusa che si trattava di una radiotrasmittente e  alla punizione di 20 giorni di chiusura![15] Scrive amareggiato:

Eravamo rientrati in quella sorveglianza asfissiante che non ci dava modo di lavorare con sufficiente tranquillità, quando le guardie non entravano si mettevano di faccia a osservare. Arrivammo così alla famosa legge truffa…la sera dopo una comitiva di compagni dopo essere stati a festeggiare passò sotto i portici di Via Grande dall’altra parte della strada rispetto a dove era il Bar. Era circa la mezzanotte e cantavano tutti assieme “Malafemmina” – neanche un motivo politico – entrano in bottega le guardie e, ti pareva, mi intimano di farli smettere. Faccio presente che non sono nel mio negozio e tantomeno vicino e che non stava a me intervenire per farli tacere. Bene: invito a presentarsi al Commissariato di Forte San Pietro all’indomani mattina e là ci fu comunicato la chiusura immediata a tempo indeterminato…[16]

Il Caffè Bettinetti a Livorno (Archivio Istoreco)

Il Caffè Bettinetti a Livorno (Archivio Istoreco)

Nel 1955, alla televisione danno la famosa trasmissione: Lascia o raddoppia? che si poteva vedere anche nella sala Tv nel bar dei Vittori che furono tra i primi esercizi ad avere l’apparecchio. Avevano collocato un’insegna luminosa per segnalarlo e avevano svolto le pratiche obbligate al Comune e si ritenevano a posto. Ma “una mattina arriva un poliziotto che mi conosceva bene e malgrado questo quando all’una di notte chiudevo il bar per andare a casa mi chiedeva i documenti”[17]. Poiché il poliziotto aveva un’ordinanza del Commissariato che intimava di togliere immediatamente l’insegna, il nostro autore perde il controllo e spacca alcuni mobili dell’arredo del bar, per l’esasperazione alla quale era arrivato. Si giunge in questo clima al 1958 quando in città viene organizzata una manifestazione per la Pace in Libano. Gualtiero aveva un appuntamento ma non riesce ad arrivare sul luogo a causa della presenza della celere. Prova e rientrare al bar ma “niente sull’angolo arriva un’altra mandata di poliziotti, scendono dal camion e cominciano a spintonare tutti coloro che si trovavano là, io mi fermo ma arrivano anche a me, spintoni, io non ci stò (sic!) e reagisco e giù manganellate io non sto neanche a queste, mi rompono gli occhiali da sole sul viso con taglio al sopracciglio, smanaccio un po’; poi uno di essi disse: ‘portatelo via!’, mi presero per le braccia, mi liberai dicendo: ‘Ci vengo da me’, mi caricarono sul camion (c’erano altri) e da lì in questura”[18]. Da lì ai Domenicani, all’epoca il carcere di Livorno. Dopo alcuni cambi di cella lo mettono con altri due, dei quali uno giovanissimo che verrà presto rilasciato, ed un altro, Mario Corucci. Alcuni giorni dopo arriva un pacco da Piombino e poi da Eddo Paolini[19] della Federazione di Livorno e dai portuali arrivano anche dei soldi. In sostanza si era attivato un “Soccorso rosso” che era riuscito a realizzare 5.000 £, una cifra non indifferente per l’epoca.[20] Il nostro autore commenta:

“le cifre non contano è importante sapere che qualcuno ti ricorda”[21].

Ma la solidarietà si espresse anche con la maggiore frequentazione più assidua del bar da parte dei clienti abituali. Interessante ricordare che dalla biblioteca del carcere si fa portare due libri già letti, I Miserabili di Victor Hugo e Martin Eden di London, due classici della biblioteca del buon comunista a partire dagli anni Trenta e Quaranta e come evidenzia questa memoria ancora centrali alla fine degli anni Cinquanta.

Ogni volta che lui, come altri, si trovano al cospetto del potere poliziesco, si rivolgono alla deputata eletta nella circoscrizione di Livorno, sorella del primo sindaco della città: Laura Diaz[22]. É una figura fondamentale che sta accanto a lui e a tutti quelli che si trovano nelle stesse situazioni. Con lei si sentono a casa. Alla fine al processo tutti gli imputati vengono condannati a 8 mesi, oltre al mese già trascorso agli arresti ma poiché anche un poliziotto testimonia a loro favore, la pena fu sospesa per cinque anni e il nostro venne scarcerato. Soltanto il suo compagno di cella, Corucci e una donna Giuseppina Santini,[23] rimasero in galera perché recidivi.

Subito dopo la liberazione gli viene notificata dalla Questura la diffida della durata di due anni e poiché capitava che la sera alla chiusura ci fossero discussioni con qualche cliente che aveva alzato il gomito e che Gualtiero non era proprio il tipo da contenersi, per non peggiorare la sua situazione, decide con la moglie e la madre, di vendere il bar. Comprano un negozio di alimentari e si procura una giardinetta per le consegne ma poi scopre che la diffida gli rende impossibile guidare l’auto e così se ne deve disfare. Intanto siamo arrivati al 1960 e ci sono i famosi fatti dei parà[24]. Prima la città è invasa dai militari e poi dalla polizia. Il nostro viene fermato e portato di nuovo in Questura. Il testo prosegue con i ricordi delle prepotenze subite e del calore della solidarietà ricevuta.

Immagine Barontini da diap

Ilio Barontini

Al termine, a giudicare dalla narrazione, si può pensare ad un vero e proprio pezzo aggiunto, nella cosiddetta III Parte, Vittori racconta episodi scollegati ma ai quali evidentemente teneva molto: la morte di Ilio Barontini, il XX° Congresso del Pcus e alcuni ricordi privati di serate passate con Sergio Manetti, con Fantolini e Paolini a cantare e a suonare la chitarra. L’immagine più forte e più bella di questa parte è quella riservata al funerale di Barontini e di Frangioni e Leonardi morti nello stesso incidente stradale, quando Vittori scrive:

La notizia della morte di Barontini, Frangioni e Leonardi ci giunse nel Bar (all’epoca in Piazza Mazzini), dapprima non chiara, si parlava di feriti, poi la verità dilagò come un’esplosione, non si parlava d’altro e posso dire che la totalità dei livornesi ne fù (sic) coinvolta compreso gli avversari politici. In migliaia ci recammo ad incontrare le salme, pioveva, era sera, e questa moltitudine si ritrovò a Stagno per darle il primo saluto, poi i funerali a Porta S. Marco.[25]

Credo che l’espressione “la verità dilagò come un’esplosione” sia la dimostrazione più forte della adesione a quel lutto e a quella storia che il nostro ci abbia lasciato.

Livorno, 12 maggio 2021

[1] Purtroppo in mancanza di familiari viventi non possiamo indicare la data della scomparsa.

[2] Gualtiero Vittori, Memorie, testo dattiloscritto e non datato, p. 22, conservato presso l’archivio Istoreco.

[3] C. Sonetti, Una morte irriverente. La Società di Cremazione e l’anticlericalismo a Livorno, Il Mulino, Bologna, 2007, pp. 160-163, il cui funerale fu una vera e propria manifestazione di antifascismo insieme a quella di Mario Camici. Cfr. a questo proposito anche Massimo Sanacore, Il percorso interrotto. Il pluralismo etnico, religioso e politico nel sistema industriale livornese. La storia e le immagini (1865-1940), Annuario Sibel, Livorno, Sibel, 2003. La notizia comparve anche su «l’Unità» del 22 aprile 1933.

[4] G. Vittori, Memorie, cit., pag. 11. Può darsi che il nome fosse Angelo e non Alfio perché con quel cognome si trova inserito nel sito, ademol-org/progetto-ocr/deportati-mauthausen. Cfr, Vincenzo Pappalettera, Tu passerai per il camino, Mursia, Milano, 1965.

[5] Ibidem, p. 13.

[6] Associazione nazionale perseguitati politici.

[7] Ibidem, p. 9.

[8] Cfr. gli ormai classici: Nicola Badaloni, Democratici socialisti e livornesi nell’Ottocento, La Nuova Fortezza, Livorno, 1987, Movimento operaio e lotta politica a Livorno 1900-1926, Editori Riuniti, Roma, 1977 e di Franca Pieroni Bortolotti, Socialismo e questione femminile 1892-1922, Mazzotta, Milano, 1974 e Nota sul primo antifascismo livornese, Olschki, Firenze, 1971.

[9] Cfr. Era Barontini, Vittorio Marchi, Dario. Ilio Barontini, Editrice Nuova Fortezza, Livorno, 1988, Fabio Baldassari, Ilio Barontini. Fuoriuscito, internazionalista e partigiano, Robin, Roma, 2013, e Mario Tredici, Gli altri e Ilio Barontini. Comunisti in Unione Sovietica, Ets, Pisa, 2017.

[10] Natale Vasco Jacoponi (1901-1963), eletto deputato nella I-II-III legislatura. Console dei Portuali nel secondo dopoguerra; storia.camera.it/archivio storico e wikipedia.it.

[11] Cfr. scheda su: consiglio.regione.toscana.it/consiglieri, e «Il Tirreno» del 27 gennaio 1999.

[12] Cfr. Garibaldo Benifei, Per la libertà: trent’anni di memoria fra antifascismo, Resistenza, cooperazione (1920-1950), Debatte, Livorno, 1996, Margherita Paoletti, Garibaldo Benifei. 100 anni di un antifascista tra Resistenza e bella politica, Comune di Livorno, 2012, anppia.it/antifacsiti/benifei-garibaldo.

[13] Laura Fedi, Bombardamenti a Livorno, in Aa.Vv. 28.05.1943. “Era di maggio.” Notte e giorno le sirene annunciavano i bombardamenti, Comune di Livorno, Livorno, 2013. Scrive Vittori a pagina 16: erano da poco passate le undici e si alza il lugubre ululato delle sirene, gli operai del Cantiere lasciano il posto di lavoro e si precipitano fuori dello stabilimento, io inforco la bicicletta e corro come un dannato verso la bottega, sul ponte nuovo tra gli schianti della contraerea cominciano a piovere le prime bombe, mi fermo in un portone ed un pescatore napoletano puntando una mano verso il cielo mi grida: eccoli accà, seguo l’indicazione e vedo questi apparecchi che sembrano giocattoli tanto era la loro distanza, al tempo stesso un aereo italiano vola a bassissima quota e si dirige forse verso il vicino aeroporto di Pisa, una torpediniera in bacino spara con le mitragliere accennando un inutile (data la distanza) fuoco di sbarramento; le bombe cadono a grappoli… ricordo in Piazza Roma un cavallo sventrato: la fila delle persone che abbandonavano la città era enorme..

[14] Bruno Bernini, Livorno dall’antifascismo alla Resistenza: il 10. Distaccamento partigiano e la liberazione della città, Comune di Livorno, 2001.

[15] G. Vittori, Memorie, cit., p.2.

[16] Ivi p.4.

[17] Ivi. p. 5.

[18] Ivi.

[19] Eddo Paolini è stato un importante quadro del Partito comunista, autore anche di un volume, E fu subito festa, Tipografia Benvenuti & Cavaciocchi, Livorno,1984.

[20] Ibidem, p. 6.

[21] Ivi.

[22] Cfr. Tiziana Noce, La città degli uomini: donne e pratica della politica a Livorno fra guerra e ricostruzione, Rubbettino, Soveria Mannelli, 2004 e storia.camera.it/archivio storico e wikipedia.it.

[23] Purtroppo non possiamo scrivere nulla di questi due personaggi.

[24] Cesare Bermani, Il nemico interno. Guerra civile e lotta di classe in Italia (1943-1976), Odradek, Roma, 1999.

[25] G. Vittori, Memorie, cit., p.22.




Cantini e Ferrari: comunisti internazionalisti livornesi.

Quarta parte della rassegna di profili biografici di militanti comunisti internazionalisti di Livorno e provincia, i quali contribuirono alla fondazione del Partito Comunista d’Italia, sezione della IIIª Internazionale, avvenuta a Livorno nel gennaio 1921.

CANTINI  Astarotte (Bruno Baroni)

(Livorno 30.5.1903 – URSS settembre 1938?)

Cantini (1)Nato a Livorno nel 1903, da Milziade e Natalina Parenti, di professione è operaio-manovale. Il fratello Alessandro, classe 1907, è militante comunista. Già nell’immediato primo dopoguerra inizia la sua attività politica come militante rivoluzionario nelle fila del movimento anarchico e nel 1921, in qualità di anarchico convinto e di azione, come recitano i rapporti di polizia entra negli Arditi del Popolo partecipando a scontri di piazza contro i fascisti livornesi tra il 1921 e il 1922. Viene arrestato una prima volta, insieme ad altri tre anarchici livornesi (Virgilio Fabbrucci, Bruno Guerri e Ilio Scali, i cosiddetti bombardieri di via degli Avvalorati) nel giugno del 1922 per fabbricazione e detenzione di materiale esplosivo, da usare contro le squadre fasciste livornesi comandate dal tenente Marcello Vaccari e per questo condannato a due anni e sei mesi di reclusione. Dopo aver scontato 13 mesi esce per amnistia nel 1923 e viene sottoposto a stretta vigilanza di polizia sino al settembre del 1924; successivamente svolge il servizio militare nella Regia Marina. Nel luglio 1926 è sottoscrittore del giornale anarchico Fede! e sempre in quel periodo emigra in Francia probabilmente sotto il falso nome di Bruno Baroni. Nel settembre 1926 fa parte di una delegazione operaia che visita l’Unione Sovietica, dove soggiorna per tre mesi, per poi rientrare in Francia. L’anno successivo si trasferisce a Esch-sur-Alzette, in Lussemburgo, dove continua la sua attività politica, redigendo e diffondendo giornali e altri stampati anarchici. Scrive più volte ai militanti anarchici Bruno Guerri e Athos Ricci per avere notizie delle situazione economica e politica di Livorno, da pubblicare eventualmente nella stampa anarchica. Nel 1928 viene espulso dal Lussemburgo insieme ad altri anarchici pericolosissimi (Adone Franchi, Luigi Sofrà e Giuseppe Morini) e si trasferisce in Belgio ma pochi mesi dopo ritorna in Francia, a Pavillons-sous-Bois e a Livry Gargan. Qui nel 1929 viene avvicinato da Natale Vasco Jacoponi, anch’egli livornese, militante del P.C.d’I. e passa dalla militanza  anarchica a quella comunista. In questa fase della sua vita politica, il Cantini diffonde a Marsiglia materiale del Komintern e tra le altre attività nel 1929 invia a Livorno, tramite posta clandestina, una copia del giornale Fronte Antifascista a Menotti Gasparri, suo amico sin dall’infanzia, nonché militante comunista livornese (che cadrà  in Spagna nel 1936), insieme a quattro talloncini in cui si invitano i lavoratori livornesi a lottare per l’aumento salariale del 20%  (nel 1929 il salario medio operaio  era diminuito drasticamente a causa della politica economica del regime fascista).  Costantemente vigilato dall’OVRA che lo classifica ancora come dirigente antifascista e come anarchico-attentatore, il Cantini nel 1931 o 1933 si trasferisce in Unione Sovietica, probabilmente utilizzando ancora lo pseudonimo di Bruno Baroni, grazie al quale riesce a trarre in inganno l’OVRA e a far perdere le sue tracce per qualche anno. Nel giugno 1933 infatti invia alla madre una falsa lettera proveniente da Le Havre, nella Francia settentrionale, nella quale le annuncia che dovrà lasciare  la Francia “per ragioni di lavoro”, nel tentativo riuscito di depistare l’OVRA che solo nel l’aprile 1935 sarà certa della sua presenza in Unione Sovietica. In Urss viene inviato dal Partito Comunista, ormai stalinizzato nel suo corpo dirigente, a studiare a Mosca alla MLS, la Scuola leninista. Terminati gli studi presso la scuola di partito, viene ulteriormente inviato come istruttore del Club Internazionale dei Marinai a Tuaspe, nel Kraj (territorio) di Krasnodar, nella Russia meridionale e successivamente a Voroscilovgrad, attuale Lugansk (Luhans’k), nell’Ucraina orientale, dove probabilmente lavora in una fabbrica di dirigibili, almeno fino al 1935 e dove nel 1937 ha dalla moglie Zina (detta Lina), cittadina sovietica, un figlio di nome Gino. Nell’aprile 1936, in una lettera alla madre, menziona un altro comunista italiano transfuga in Urss, Decio Tamberi, il quale deluso dal regime staliniano, gli confessa che vorrebbe rimpatriare in Italia perché non riesce ad adattarsi alla vita sovietica.  Negli ultimi anni della sua vita il Cantini rimane a Voroscilovgrad  (Ucraina), da dove esprime, nel giugno 1937, il proprio dispiacere per la morte in combattimento, sul fronte di Madrid, dell’amico Menotti Gasparri, comunista livornese già esule in Unione Sovietica e da dove scrive alla madre: “…quanto a me, mia moglie e Gino, siamo in ottima salute e speriamo che Gino cresca bene, così un bel giorno lo potrai vedere ed abbracciare. Mia moglie si trova in ferie per ancora due mesi dopo il parto con paga completa, e più 95 rubli per la nascita di Gino. La nostra vita è buona in tutto e per tutto, non si pensa al domani… ”. Già inviso alla dirigenza e ai quadri staliniani del Pci a partire dal 1935 a causa di alcune critiche che il Cantini aveva espresso in passato nei confronti della politica di Togliatti e di Stalin, per essere ideologicamente anarchico, non abbastanza disciplinato (secondo quanto conservato nella documentazione sovietica) e per aver frequentato elementi ritenuti vicino al trotskismo, tra il maggio e il giugno 1938 viene arrestato nella città di Voroscilovgrad con la falsa accusa di spionaggio e il 25 settembre dello stesso è condannato ad una pena imprecisata da una trojka del NKVD. Non vi è certezza sulla sua sorte, tuttavia possiamo affermare che il Cantini è stato probabilmente fucilato nell’immediato e sepolto in una fossa comune, insieme a centinaia di trotskisti. Riabilitato nel luglio 1956, nella cosiddetta fase di destalinizzazione, avviata dal segretario generale del PCUS Nikita Chruscev, il suo nome tuttavia resta dimenticato dal P.C. livornese, a causa della sua morte da antistalinista.

FONTI ARCHIVISTICHE E DOCUMENTARIE

Archivio Centrale dello Stato, Ministero dell’Interno, Casellario politico centrale, ad nomen; Comune di Livorno, Archivio di Stato Civile; Biblioteca Franco Serantini, collezioni digitali, dizionario biografico degli anarchici italiani, ad nomen; Memorial, Italiani in Urss, schede biografiche, ad nomen; Associazione Nazionale Perseguitati Politici Italiani Antifascisti (Anppia), Antifascisti nel casellario politico centrale, Quaderni i-xix, Anppia, Roma 1988-1995, ad nomen.

FERRARI  Fernando

(Livorno 19.7.1900- Livorno 28.5.1943)

Nato a Livorno nel 1900 da Girolamo ed Elisabetta Di Rosa, di professione è facchino portuale, successivamente venditore ambulante, in ultimo operaio al cantiere Odero-Terni-Orlando. Segnalato inizialmente come anarchico, agli inizi degli Anni Venti si evidenzia per la sua attività antifascista. Nel dicembre 1922 viene condannato dalla Corte d’Appello di Lucca a 3 anni 10 mesi e 20 giorni di reclusione per aver sparato ad un fascista ferendolo,  nel corso degli avvenimenti sanguinosi che in quegli anni videro contrapporre le squadracce e i “sovversivi” nella città di Livorno. Amnistiato nell’ottobre del 1923, emigra per un certo periodo in Francia, per poi rientrare in Italia. Si avvicina quindi al Pcd’I divenendo probabilmente militante in quegli anni. Nel marzo 1930 viene fermato e subisce una perquisizione domiciliare nel corso della quale viene rinvenuto un pugnale, che gli viene sequestrato e per ciò viene condannato, il 1 giugno di quell’anno, ad una ammenda di L. 100 per omessa denuncia.  Nel dicembre 1930 è invece arrestato insieme ad altri dirigenti del Partito Comunista livornese in una vasta operazione di polizia mirante a smantellare l’organizzazione territoriale clandestina del Pcd’I: il Ferrari è ritenuto essere capo della cellula del rione Borgo San Iacopo, dove risiede, nonché comandante della squadra d’azione (servizio di sicurezza) del settore di Piazza Mazzini. Dalle carte d’archivio si apprende che tra il 1929 e il 1930 si era effettivamente ricostituita a Livorno l’organizzazione comunista clandestina, che risultava divisa in due settori: Barriera Garibaldi (Livorno Nord) e Piazza Mazzini (Livorno Sud). Ogni settore a sua volta era diviso in diverse cellule che variavano di numero in base ai quartieri e ai luoghi di lavoro e ogni dirigente aveva dei compiti prestabiliti. Il settore Sud, quello di Piazza Mazzini, diretto da Arturo Silvano Scotto aveva tra fiduciari: Oreste Baldi, per la stampa e la diffusione nei quartieri e nei luoghi di lavoro; Rosolino Pelagatti per il Soccorso Rosso e Fernando Ferrari per il servizio sicurezza, chiamata squadra d’azione. Al momento dell’arresto gli viene sequestrata anche una somma pari a lire 230 a lui versata dagli altri capi cellula, frutto di una raccolta fondi, per l’acquisto di armi. In effetti Ferrari si sarebbe dovuto occupare dell’acquisto in quei giorni di una sessantina di rivoltelle ed altre armi, cosa che sfumò a causa dell’arresto. Deferito al Tribunale Speciale per la Difesa dello Stato il 24 dicembre 1930, viene condannato nel maggio successivo a quattro anni di reclusione, tre anni di vigilanza ed esclusione perpetua dai pubblici uffici per il reato di ricostituzione del Partito Comunista e per propaganda sovversiva, condanna che sconta nelle carceri di Roma e Civitavecchia. Scarcerato nel novembre 1932, in quanto beneficia dell’amnistia del “Decennale”, rientra a Livorno, dove viene costantemente vigilato. Fermato nel marzo 1933, insieme a moltissimi altri comunisti, in occasione dei funerali di Mario Camici e per l’esplosione notturna di due ordigni presso il Dopolavoro San Marco e la caserma della MVSN, viene rilasciato dopo pochi giorni. In un elenco del 1934 dove sono segnalati i nomi dei militanti del Partito comunista espulsi per attività controrivoluzionaria (elenco rinvenuto dalla Polizia politica fascista), risulta essere stato espulso dal Partito comunista non per aver inoltrato domanda di grazia, cosa che fece nel settembre 1931, ma per un non meglio precisato tradimento, forse perché probabilmente vicino alle posizione bordighiste o trotskiste. Dopo aver esercitato il mestiere di venditore ambulante, nel maggio 1937 viene assunto in qualità di operaio al cantiere navale Odero Terni Orlando, ma nell’ottobre dello stesso anno viene nuovamente arrestato per aver rifiutato di dare indicazioni sulla propria identità personale alle forze dell’ordine e condannato al pagamento di un’ammenda di L. 50. Nel gennaio 1938 viene scarcerato e riprende l’attività lavorativa presso il suddetto cantiere Orlando. Costantemente vigilato, in quanto ancora comunista, Ferrari muore a Livorno nel corso del bombardamento aereo alleato del 28 maggio 1943 che distrusse buona parte della città.

FONTI: Archivio Centrale dello Stato (Roma), Ministero dell’Interno, Direzione Generale di Pubblica Sicurezza, Divisione Affari Generali e Riservati, Casellario Politico Centrale, ad nomen; Comune di Livorno, Archivio di Stato Civile.




Livorno 1921. Ipotesi su una bandiera

Il Telegrafo / La Gazzetta Livornese 1º maggio 1923:

Due bandiere rosse sequestrate dai fascisti.

Dai fascisti dalla Sezione delle Case Popolari sono stati sequestrati nelle case di due ferrovieri due vessilli rossi: uno di seta con frangia nera, appartenente alla Sezione comunista di Livorno e l’altra al gruppo socialista «Spartaco».

Le bandiere sono state consegnate ai dirigenti del Fascio.

  Da questo vecchio articolo potrebbe iniziare una nuova ricerca per ricostruire la vera storia della bandiera della Sezione di Livorno del Partito Comunista d’Italia, attualmente esposta a Livorno presso il Museo della Città, dopo il difficile recupero e restauro compiuto nel 2015, durante cui è andato perduto ciò che restava sui bordi delle frange originarie (nere o dorate).

La sua storia – orale – è abbastanza nota: cucita da compagne livornesi, si sarebbe salvata dalle incursioni fasciste e durante il periodo della clandestinità, dopo essere stata nascosta da Ilio Barontini e da Armando Gigli sino alla Liberazione. Dopo di che sarebbe stata conservata presso le sedi della Federazione del PCI per approdare al Circolo democratico S.Marco-Pontino “Lanciotto Gherardi” con sede in via Garibaldi.

Sempre secondo la memoria tramandata, questa sarebbe stata la prima bandiera della sezione livornese del Partito Comunista d’Italia, risalente alla fondazione nel gennaio 1921 e avrebbe persino sventolato sul Teatro S. Marco.

Telegrafo 1MAGGIO23

Telegrafo 1MAGGIO23

L’articolo del maggio 1923 sembra però contraddire tale datazione. Innanzitutto, va precisato che all’epoca i vessilli delle organizzazioni politiche e sindacali del movimento operaio erano uniche e quindi è da escludersi l’esistenza di due bandiere per la stessa sezione locale del PCdI, come di qualsiasi altro sodalizio sovversivo.

Infatti, il momento dell’inaugurazione era politicamente e simbolicamente importante, tanto che avveniva in forma solenne in occasione di manifestazioni, come il Primo Maggio, o con feste collettive dedicate proprio a tale presentazione, comprendenti significativi discorsi degli esponenti del partito o della lega.

Soltanto l’usura o la perdita accidentale di tale bandiera poteva motivare la fabbricazione e la comparsa in pubblico di una nuova.

L’articolo in questione non lascia quindi molti dubbi sul fatto che il sequestro si riferisce con ogni probabilità alla prima bandiera della sezione comunista livornese.

La successiva consegna della stessa, come trofeo di guerra, alla sede del Fascio in piazza Cavour era poi una “consuetudine” fascista, così come ricordato da Garibaldo Benifei nelle sue memorie che vi aveva veduto: «una sala in cui stavano in bella mostra, come trofei di caccia, le bandiere conquistate ai “rossi” durante le spedizioni, gli agguati, gli scontri».

Almeno parte di tale raccolta venne trasferita a Roma, assieme ad altri cimeli, nel 1932 per la Mostra della Rivoluzione Fascista, ma soltanto alcune bandiere provenienti da Livorno sono state recuperate e si trovano conservate presso l’Archivio Centrale dello Stato; per cui, si può affermare che quella comunista è andata perduta, magari nelle contingenze belliche.

Il dettaglio della frangia nera è inoltre comune a numerose bandiere comuniste – ed anche socialiste – dell’epoca.

La bandiera che è arrivata sino a noi potrebbe dunque, pur essendo del tutto autentica, essere quella che sostituì, in un momento successivo, quella sequestrata dai fascisti.

A rafforzare tale sospetto, ci sono due elementi. La scritta nera nella parte inferiore del campo rosso, con la dicitura Sezione di Livorno, appare in caratteri diversi e meno elaborati, rispetto all’iscrizione superiore – Partito Comunista d’Italia – ricamata in un bellissimo stile Liberty.

Anche in fase di restauro, è stato osservato che la scritta inferiore risulta realizzata in un momento successivo, come per adattare e connotare una bandiera pre-esistente, circostanza questa alquanto improbabile se si fosse trattato della prima bandiera del neonato partito.

In secondo luogo, può essere interessante una considerazione iconografica, in base al confronto con tutte le bandiere comuniste note del periodo; talvolta senza simboli (come quella di Pitelli). Il simbolo centrale della stella con inscritta la falce e martello (peraltro posizionati in senso contrario rispetto all’orientamento tradizionale) risulta del tutto inconsueto, per non dire eccezionale, nel 1921. Come si può constatare pure nelle tessere del Partito, la stella, di derivazione sovietica, entrò infatti nella simbologia comunista soltanto anni dopo – anche perché in Italia era legata ad altri movimenti e contesti culturali – e quindi rafforza la convinzione dell’esistenza di un’altra storia, ancora sommersa e tutta da scrivere.

Un’altra bandiera comunista scomparsa nel vortice della guerra civile è quella della Federazione giovanile di Livorno, con sede in via Solferino devastata nel 1922 dai fascisti, ricordata dal militante Ilio Paperi (“I giovani livornesi affrontano i fascisti sulle piazze”): «anche noi giovani comunisti s’aveva una bandiera bellissima più grande di quella della federazione adulta, e che purtroppo non è stata mai ritrovata».